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Sognò che era una bella mattina di sole e che dovevano raggiungere il mare.

Si erano svegliati prestissimo. Nella casa fervevano i preparativi. Le due vecchie che abitavano di fronte stavano sedute davanti alla loro porta su piccoli sgabelli di paglia e osservavano in silenzio ogni cosa.

Partirono con due macchine e un’enorme motocicletta col side-car. Sulla moto erano saliti due uomini con la barba, sul side-car una donna che portava un cappello di paglia ornato di un nastro azzurro. Le macchine erano gremite sino all’inverosimile, i loro occupanti erano seduti l’uno sopra l’altro. Il guidatore della macchina su cui stava lei premeva al massimo il pedale dell’acceleratore e cantava e la macchina saltava sulle rotaie dei tram, correva all’impazzata, si squassava e tremava come sul punto di alzarsi da terra e volare.

Attraversarono senza fermarsi alcuni paesi. Lei si accorse che i componenti della comitiva, anche se cercavano di non farlo notare, lanciavano spesso occhiate al guidatore della motocicletta e alla donna sul side-car che, a causa del vento, teneva fermo con la mano il cappello di paglia, mentre il nastro svolazzava srotolato all’indietro come la coda di una cometa.

Chi erano quei due? C’era una strana atmosfera tra i componenti della comitiva e lei non riusciva a indovinarne la ragione.

Finalmente apparve il mare. Cercarono un tratto di spiaggia deserta e degli arbusti dietro i quali poter indossare i costumi. Salirono a uno a uno sopra una duna, gesticolando oltre quel piccolo riparo di foglie bruciate. Alcuni erano rapidi, altri, meticolosi e lentissimi, indugiavano ostentatamente, controllavano più volte ogni parte del corpo, facevano ripetuti movimenti con la mano per sistemarsi meglio dentro il costume. Quando arrivò il suo turno salì anche lei e mentre eseguiva la complicata operazione le parve che gli altri guardassero tutti dalla sua parte, senza neppure cercare di nasconderlo. Lei non aveva fatto mica così quando era toccato a loro! Alla fine sedettero tutti in cerchio per terra e la donna del side-car, che era rimasta vestita, si tolse il cappello di paglia, lo posò sulla sabbia vicino a una piccola conchiglia. Sollevò la faccia verso il sole e chiuse gli occhi.

Lei avrebbe voluto domandare chi erano quei due. Non riusciva a capire come mai tutti gli altri lo sapessero (o almeno così sembrava) mentre lei no. Fece uno sforzo sovrumano per aprire bocca, si accostò a uno che stava alla sua destra e cercò di domandarglielo. Ma quello, con la scusa del sole, aveva già chiuso gli occhi, come avevano fatto tutti gli altri.

Passò un periodo di tempo incalcolabile. Anche lei, a questo punto, aveva chiuso gli occhi.

«Guardate là!» gridò uno della comitiva.

Era difficile scorgere qualcosa perché gli occhi erano abbacinati dal sole. Qualche istante dopo, sfuocata e piena di macchie, apparve nel cielo una mongolfiera tutta colorata. A bordo c’era un vecchio con barba bianca e capelli lunghi, intento a trafficare con i sacchetti della zavorra. Indossava una canottiera a righe orizzontali rosa e bianche, che ne metteva in risalto l’abbronzatura.

La mongolfiera si alzò ancora di più sul mare. L’uomo tirò più forte alcune corde. Una corrente d’aria lo portò bruscamente dietro il costone di una montagna. Sparì.

«Era Carlo Marx!» gridarono tutti assieme.

Lei entrò nell’acqua, che era fresca e trasparente. Si vedevano piccoli branchi di pesciolini che andavano verso il largo, qualche conchiglia sul fondo, una grossa stella marina. Si chinò e la raccolse: era carnosa e rossa. Poi, siccome era da molto tempo che ne aveva necessità, con un dito spostò leggermente da una parte il costume in mezzo alle gambe e cominciò a orinare senza smettere di camminare con la stella in mano, costeggiando la riva con l’acqua fino ai fianchi...

Poi si svegliò.

Tastò il letto: era tutto bagnato. Si guardò attorno, ma per fortuna nella stanza non c’era più nessuno. Scese dal letto e sollevò le lenzuola per guardare il materasso: c’era un nuovo anello, più scuro e ancora bagnato, tra le numerose altre macchie concentriche che si erano allargate notte dopo notte come i cerchi interni di un tronco d’albero abbattuto.

Rifece accuratamente il letto, distese sul lenzuolo bagnato uno spesso asciugamano di spugna, perché non si impregnasse anche il lenzuolo di sopra, ma ugualmente bastava avvicinarsi al letto per sentire odore d’orina. Anche addosso se lo sentiva. Sapeva benissimo che per una cosa simile, volendo, avrebbero potuto mandarla via.

Andò in gabinetto e si lavò a lungo, poi sedette sul water. Allungando una mano poteva toccare il bicchiere di plastica contenente il dentifricio e gli spazzolini da denti. Prese il tubo del dentifricio e, a gambe divaricate mentre defecava, con la schiena appoggiata al coperchio di plastica del water, lo introdusse nella vagina e, stringendo il pugno all’improvviso, si schiacciò dentro tutto il contenuto.

Dopo avere riordinato il comodino e spruzzato un po’ di deodorante sotto le lenzuola, discese ai piani inferiori.

Rimase un paio d’ore assieme ad altri a preparare uno striscione. Era talmente grande che, srotolato, stava appena nella sala. Passò di lì il responsabile dei ciclostile, che doveva essere anche medico perché alcuni giorni prima era andato a trovarla mentre lei era a letto con l’influenza. Le aveva fatto aprire la bocca per guardarci dentro, aveva posato sul comodino una scatola di supposte e chissà perché le aveva chiesto: «Sei capace di mettertele?».

Lei era rimasta per alcuni istanti confusa, non si ricordava se era capace oppure no. Aveva scosso la testa. Lui aveva interpretato questo gesto come un diniego e allora aveva liberato la supposta dalla sua capsula di plastica, l’aveva fatta girare a pancia in giù e, aprendole le natiche con due dita, aveva introdotto la supposta. Era rimasto a osservare per un secondo, poi, visto che la supposta tendeva a uscire, l’aveva spinta giù di nuovo e a lei era parso che le avesse anche infilato la punta di un dito nello sfintere, comprimendole contemporaneamente le natiche.

Quella scena le era poi tornata in mente un’infinità di volte, senza che lei riuscisse a spiegarsi il perché di una sua così totale dimenticanza. Quando incontrava quell’uomo trovava sempre nuovi pretesti per girarsi dall’altra parte o chinare la testa, si fingeva intenta a cercare qualcosa per terra o a controllare la suola di una scarpa, con un ginocchio a terra e i capelli sul pavimento.

Scese fin giù nel cortile, dove alcuni stavano giocando a palla. Sentì dei rumori venire da dietro una catasta di mattoni. Spiò da una fessura e vide che uno stava mostrando la propria collezione di francobolli ad altri quattro, proponendo loro una serie di scambi. Ne arrivò un sesto e cominciò a gridare: «Me li hai rubati!».

Lei si allontanò attraverso l’orto. Proprio al centro c’era un bambino intento a spaccare una melanzana con un martello più grande di lui. Era tutto nudo, sporco e con un occhio tagliato. Il cane, legato alla catena lì vicino, cominciò ad abbaiare. Il bambino gli si avvicinò col martello, lo colpì sul cranio e gli morsicò il muso. Poi si accucciò a defecare.

Passando accanto alla piccola piscina prosciugata lei vide che alcuni stavano imparando a schettinare sul fondo.

Si sentì gridare dalla parte della sede. Lei affrettò il passo e quando fu vicina si accorse che due persone affacciate a una finestra del secondo piano stavano buttando giù qualcosa a manciate. Guardò a terra: erano caramelle, confetti, striscioline di carta arrotolata, tenute ferme da un minuscolo elastico. Quelli che stavano sotto la finestra se le contendevano buttandosi a terra nella mischia, rubandosele l’uno tra le gambe dell’altro e persino sotto le suole delle scarpe. I due alla finestra mostrarono dopo un po’ le palme delle mani vuote. Sotto ci fu uno sbandamento, qualcuno si allontanò con la caramella in bocca, srotolando e leggendo quanto c’era scritto sulla propria strisciolina di carta. I due fecero finta di andarsene. Da sotto si vedevano le loro schiene inquadrate nel vano della finestra. Ma un attimo dopo si girarono di nuovo all’improvviso, gettando giù a raffica un’altra manciata ciascuno, e quelli di sotto, che si erano nel frattempo sparpagliati, si lanciarono di nuovo a terra, ammucchiandosi gli uni sugli altri.

Lei non riusciva a capire come facessero i due alla finestra a gettare giù così violentemente quelle cose, dato che il braccio non lo muovevano quasi, limitandosi a imprimere un piccolo scatto alla mano e al polso.

Salì a prendere le sigarette, che aveva dimenticato sul comodino, ma quando arrivò su si accorse che nella stanza c’erano tre persone in piedi, relativamente vicine al suo letto.

Afferrò il pacchetto di sigarette e uscì in fretta. Intanto pensava: “Forse sono lì per caso, forse stanno semplicemente discutendo vicino al letto vuoto a fianco del mio, dove pare che tempo fa ci dormisse una che un mattino è stata trovata priva di conoscenza e portata via. Una cosa però è strana: per quanto abbia chiesto in giro, non sono riuscita a ottenere risposte chiare, non si riesce a capire se quella là dormiva nel letto vuoto vicino al mio o in un’altra stanza o in un altro piano o addirittura in un’altra sede. Ma può anche darsi che, quando sono entrata, quei tre si siano spostati di qualche metro per non farsi sorprendere vicino al mio letto, nell’atto di sollevare le coperte per annusare...”.

Quando fu di nuovo in cortile, si girò a guardare in su e li vide tutti e tre affacciati alla finestra della stanza dove lei dormiva e l’apertura era talmente piccola che non c’era posto neppure per infilarci i gomiti, così le tre teste che la guardavano parlando tra di loro riempivano quasi del tutto lo spazio della finestrella: per sporgersi tutti e tre contemporaneamente si erano dovuti disporre a triangolo, così:

Stelle in gola

In fondo al cortile un gruppo si era già incamminato per andare a mangiare. Quando fu un po’ lontano, si avviò anche lei.

Nella sala della refezione c’erano già una ventina di persone sedute ai due lati di uno dei tre lunghissimi tavoli sistemati a U in mezzo alla stanza. Lei trovò un posto libero di fronte a uno che aveva già finito di mangiare il primo: in quel momento stava fissando, nel piatto piano che aveva davanti, un dado di marmellata e un contorno di cicoria amara tagliata fine.

Lei iniziò a mangiare il primo. Quello seduto di fronte stava togliendo un minuscolo francobollo da una bustina attaccata al pacchetto di marmellata. Rimase a guardare il francobollo per un po’, tirando giù con l’unghia un dentino che si era piegato, poi lo mise con cura nel portafoglio. Inghiottì la prima forchettata di cicoria, ma un istante dopo si coprì la bocca con la mano, come se dovesse vomitare. «È inutile, non ce la faccio a mangiarla, non c’è niente da fare!» bisbigliò. Provò a mettere in bocca una seconda forchettata, ma fu peggio di prima. «Eppure non la posso avanzare, non è possibile!» La guardò disperato. Lei sentì che la mano di lui, sotto il tavolo, la stava sfiorando tra le gambe, mentre un dito si era introdotto pian piano sotto le sue mutande.

«Ti prego, aiutami...» la implorò sottovoce lui.

Con una complicata operazione, senza farsi notare dagli altri, lei riuscì a spostarsi di lato le mutande. Lui riprese a toccarla e a sfiorarla col dito, e quando trovò il taglio prese con due dita la cicoria, la nascose su un angolo della propria sedia, poi, con una sola mano sotto il tavolo, cominciò a riempire con essa la vagina, pigiando leggermente. Alla fine controllò con un dito che non sporgesse nulla, e spinse dentro un’ultima strisciolina che penzolava fuori.

Quella notte lei sognò che girava per le stanze della sede e non c’era nessuno. Passando davanti a una porta chiusa sentì bisbigliare. Aprì lentamente ed entrò nella stanza. Si accorse troppo tardi che dentro c’erano un uomo e una donna coricati su un divano. Erano entrambi nudi dalla cintola in giù, con le scarpe ai piedi. La donna aveva le calze arrotolate in fondo alle gambe. In quel breve istante lei notò che il pene di lui era scuro e ancora contratto, con una serie di solchi paralleli che arrivavano fino al glande. Gli ricordava la manopola che pendeva in fondo alla catenella dello sciacquone nel gabinetto.

Restò per un attimo imbambolata in mezzo alla stanza, tanto più che in quel momento si rese conto che i due erano gli stessi che viaggiavano sulla motocicletta col side-car durante quella gita al mare. «Scusate, avevo sentito delle voci, credevo ci fosse una riunione...»

Uscì dalla stanza, confusa. Da fuori si sentivano ancora le loro voci, adesso più nitide. La voce di lei diceva: «Mi hai domandato che cosa mi manca. Proprio la vita! Mi sento come se dentro di me fosse morto qualcosa, non provo né paura né dolore né solitudine, proprio come un cadavere. Sono completamente diversa da quella che ero a Zurigo e penso a me stessa com’ero allora come a un’altra persona».

La voce cominciò ad abbassarsi piano piano. Lei dovette appoggiare l’orecchio alla porta per sentire. Ci fu un silenzio molto lungo, poi la voce femminile disse ancora: «...e rimango del parere che ci si dovrebbe gettare a precipizio nella cascata del Reno per inabissarsi come un guscio di noce, piuttosto che lasciarla continuare a scrosciare...».

Dopo, il silenzio diventò totale. Lei si allontanò dalla porta e cominciò a girovagare per tutte le stanze, salendo anche ai piani superiori. Ma era tutto buio e deserto. Tornò giù, ripassò davanti alla porta di prima, ci appoggiò l’orecchio e siccome il silenzio era assoluto pensò che forse i due se n’erano andati mentre lei stava girando ai piani di sopra. Entrò di nuovo nella stanza, che adesso era molto buia. All’inizio le parve deserta, poi, guardando meglio, intravide la sagoma di lui. Era girato di schiena, affacciato alla finestra con i gomiti puntati sul davanzale e la testa tra le mani. Lei gli si avvicinò e finalmente si azzardò a chiedergli come si chiamava. Lui si voltò di scatto, fissandola sbalordito per alcuni istanti.

«Sono Leo Jogiches!» rispose infine.

Si affacciò anche lei alla finestra, guardando il canale che scorreva poco più sotto. Qualcosa galleggiava portato dalla corrente. Non si capiva cosa fosse, però d’un tratto si srotolò e si dispiegò completamente nell’acqua sudicia un lungo nastro azzurro.

«Che cos’è quella cosa?» chiese lei sottovoce.

«È Rosa Luxemburg nel Landwehrkanal» rispose l’uomo.

Adesso nel silenzio si sentiva solo il rumore dell’acqua. L’ascoltarono assieme per un tempo incalcolabile e alla fine lei, come sempre le accadeva sentendo quel rumore per molto tempo, dovette irresistibilmente accucciarsi per orinare...