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Ho ricevuto in quattro giorni quattro cartoline non scritte, mandate sicuramente da lei e, come indicava il timbro, imbucate a Zurigo, Amsterdam, Francoforte. L’ultima rappresentava le mura esterne di un bianco e gigantesco giardino zoologico.

Il quinto giorno sono partito con un po’ di soldi e ho preso il treno per Zurigo.

In stazione c’erano decine di agenti in borghese a ogni binario e una chiazza di vomito nella sala d’aspetto. Una vecchia coricata su una delle panche era morta probabilmente da un paio di giorni e mandava odore. Un agente in borghese si era chinato sulla chiazza di vomito, l’aveva annusata e toccata con la mano, sfregando il pollice e l’indice e poi accostandoseli alle narici.

Il treno uscì dalla città scivolando piano su grandi ponti di marmo. Mezz’ora dopo cominciò a piovere. Mi addormentai subito e sognai che ero lei, ma non sapevo lei chi. Avevo oltrepassato un muro di cinta, era notte fonda. Camminavo, e intanto dicevo tra me: “Sto scappando, ma non capisco perché, e comunque non era necessario farlo proprio così, potevo avvisare, parlare con qualcuno, ma con qualcuno chi?”. La stradina battuta che stavo seguendo da diversi chilometri aveva un parapetto di pietra e in cielo c’erano miliardi di stelle.

Costeggiai una collina, poi una strada sassosa in salita. Gli zoccoli di legno mi avevano ferito i piedi. Me li tolsi e proseguii scalzo nella notte.

Dopo lunghe ore di cammino mi addormentai su una pietra. Mi svegliai all’alba: di fronte a me stava accovacciata una piccola figura maschile. Non doveva avere più di tredici anni. Mi accorsi che guardava tra le mie gambe ancora addormentate. Anche quando mi vide sveglia non si mosse. Solamente, dopo un po’, si frugò nelle tasche e mi regalò un ossicino sottile e contorto. Avrà fame, pensai. Così introdussi un dito nella vagina e cominciai a tirarne fuori la cicoria tritata fine. Gliela offrii. Lui la divorò avidamente. Poi se ne andò.

Ripresi il cammino (adesso che mi ero svuotata di quella cosa riuscivo a camminare meglio). La strada si inerpicava fino a una specie di santuario scavato nella roccia. Dall’alto gocciolava acqua, sotto il soffitto erano fissati orizzontalmente grandi pezzi di lamiera incavata. Le gocce ci cadevano sopra, se ne sentiva il rumore amplificato dall’eco della grotta. Dovevano avere formato un piccolo lago sospeso, appena sotto la volta di roccia del soffitto. Anche sopra un imponente altare di pietra, sul fondo, era disposta un’enorme e appuntita scheggia di lamiera.

Uscii di lì quasi subito perché tutta quell’umidità mi aveva provocato forti dolori al ventre. Mi diressi verso un casotto di frasche. Entrai, ma la porta non si chiudeva. Tornai fuori e solo allora mi accorsi che davanti al casotto sostavano due uomini a torso nudo.

«Non ti preoccupare, facciamo noi la guardia!» mi tranquillizzarono sorridendo.

Rientrai. Attraverso una fessura vedevo che i due tenevano incrociate sul petto le grandi braccia muscolose. Orinai e defecai e siccome mi pareva strano farlo in quella posizione provai a interrompere due o tre volte col palmo della mano lo zampillo dell’orina, poi tirai fuori un’ultima, interminabile strisciolina di cicoria che penzolava fuori dall’apertura della vagina: era talmente lunga che quando diedi lo strattone finale sentii un dolore lacerante vicino al cervello, come se dopo un’operazione chirurgica mi avessero tolto dal naso una lunghissima garza usata per tamponare l’emorragia.

Passata la frontiera, il treno si fermò a Lugano in un diluvio di pioggia, poi ripartì lentamente, vicinissimo alle finestre spalancate dei grandi alberghi mitteleuropei, con gli enormi grappoli di lampadari accesi, e sicuramente all’ultimo piano di uno di quei palazzi, dietro una finestra aperta nella pioggia, qualcuno stava suonando impazzito il pianoforte di fronte al lago.

Il treno cominciò ad accelerare. Un’ombra intravista per un attimo dietro la finestra di un albergo mi parve quella di un uomo nudo a quattro zampe su un letto, intento a spingere nella vagina di una donna a gambe spalancate di fronte a lui il grosso chiodo che sovrastava l’elmo militare che portava in testa.

ZURIGO

Ho girato tre giorni per Zurigo, cercandola in ogni strada e piazza, facendo il giro di bar, cinema e ristoranti, passando davanti a centinaia di banche crivellate dai martelli pneumatici e dalle ruspe per far scendere sempre più a fondo le casseforti, fino alla falda freatica, come uno scroto pieno d’oro che si allunga in mezzo alle gambe dell’Europa.

La terza notte ho dormito in un hotel del centro. Da una finestra del gabinetto ho guardato a lungo la città con le sue insegne luminose e le sue sirene. Poi ho esaminato il corridoio, gli ascensori, le porte. Con la chiave in mano, fingendo di cercare la mia stanza, ho spiato dai vecchi buchi delle serrature. Dietro la quinta porta ho visto un grosso cane nero seduto sul letto con le orecchie dritte e in posizione eretta, accanto a una borsa di cuoio sottile e lucida, legata con una piccola catena al suo stesso collo.

Tornato nella mia stanza, mi sono addormentato per terra, sul tappeto.

Sono partito il giorno dopo. Ma prima, ho girato ancora un po’ per la città, camminando anche sui tetti delle automobili in sosta per farmi notare più facilmente da lei. Mezz’ora prima di partire ho visto, tra le altre macchine, una lunga berlina nera coi vetri affumicati e le tendine semichiuse. Si era fermata per un attimo al semaforo, il tempo sufficiente perché riuscissi a distinguere, dietro l’autista in livrea, il cranio solitario e le orecchie nere appuntite di un grosso cane in posizione eretta sul sedile posteriore, con la borsa di cuoio legata al suo collare da una catenella di ferro.

Ripresi il treno, mentre la pioggia ricominciava a cadere e cielo e terra erano grigi e neri. Una cinquantina di chilometri prima della frontiera si era alzato contro l’orizzonte un incendio lontano.

Lo scompartimento un po’ alla volta si vuotò. Di fronte a me un uomo dormiva con un occhio aperto e uno chiuso, tenendo stretta con una mano la maniglia di una ventiquattrore.

Passò ancora del tempo, scese la notte. Lo scompartimento si spense. Ormai quasi tutti dormivano. L’acqua scivolava nera sul vetro dei finestrini, attraversata ogni tanto dal lampo di qualche luce, e il treno sembrava una fragile galleria che correva sul fondo di un oceano.

Uscii in silenzio nel corridoio. Negli scompartimenti si intravedevano segmenti di gambe, bocche aperte, sagome intrecciate e figure rannicchiate contro lo schienale, di fronte all’avanzare nel buio di qualche caviglia o ginocchio addormentato, mentre altri corpi si intersecavano a tal punto nel sonno da dar vita a figure monche, senza gambe o con un braccio solo, corpi maschili con gambe di donna o figure con tre gambe e un braccio o con una mano al posto della bocca, sagome decapitate o con due teste, una da vecchia e l’altra da neonato.

Il treno si fermò in una stazione deserta. Saltai giù improvvisamente e cominciai a girare per le strade di quella città sconosciuta, aspettando il mattino.

PARIGI

Fermai un’auto, chiesi un passaggio per Parigi.

Corremmo ore e ore senza dire una parola. Vicino a un cimitero di macchine l’uomo al volante si scosse. Indicò qualcosa alla donna che gli stava a fianco. Poi frenò di colpo, scesero entrambi, aprirono il bagagliaio dell’auto e tirarono fuori un grosso cane nero morto, reggendolo ciascuno per due gambe. Lo sistemarono dentro una macchina sfasciata e senza porte, con le zampe anteriori posate sul volante, nell’atto di guidare. Poi incendiarono l’erba secca che c’era intorno e l’imbottitura sfondata dei sedili, e si sollevò una grande fiamma che accese il pelo della bestia, lasciando al volante della macchina la sua sagoma nera ormai carbonizzata.

I due rimasero fermi a guardare per un po’, poi salirono di nuovo in macchina per riprendere il viaggio. Lei accese la radio e io nella musica, dopo tante ore che non dormivo, mi addormentai coricato sul sedile posteriore e nessuno dei due faceva caso a me che intanto accarezzavo il braccio della donna allungato all’indietro.

A Parigi condussi per giorni e giorni una ricerca sistematica. Divisi i quartieri, i punti di ritrovo, passai due giorni interi a percorrere in lungo e in largo la metropolitana, salii più volte sulla torre Eiffel scrutando i tetti lontani per chilometri e chilometri, vagai nei mercatini e lungo la Senna, visitai i musei e le università, andai a mangiare nelle mense.

Poi iniziai a lasciare piccoli segni agli angoli delle strade o appoggiati come per caso ai bordi dei davanzali bassi: sassolini dalle strane forme, ossicini, striscioline di carta arrotolata tenute ferme da minuscoli elastici, semi di frutta disposti in figurazioni geometriche. Li disponevo regolarmente, studiando la carta topografica della città, fino a formare una specie di percorso essenziale, una linea fortificata, una rete che percorrevo per giorni e giorni dai punti di diramazione fino agli ultimi tentacoli affondati in quartieri sterminati e senza finestre.

Di sera andavo a dormire in una lercia pensioncina. Durante la notte mi svegliavano continuamente dei passi sempre nuovi che venivano dalle stanze vicine, a intervalli di mezz’ora. Si capiva che erano persone diverse dall’andatura particolare di ciascuno. In qualche caso l’inquilino aveva una gamba sola o addirittura nessuna e saltellava sulle stampelle.

Una sera, uscendo dal gabinetto, vidi entrare nella stanza accanto un adolescente in compagnia di una vecchia puttana. Dieci minuti dopo, mentre ero coricato sul letto dalle lenzuola macchiate di sangue secco, sentii una voce venire dall’altra camera: «Schifo! La mia saliva disseccata, o mia racchiona rossa, continua a infettare le trincee del tuo seno rotondo».

Chiusi gli occhi. Molto tempo dopo mi svegliò di nuovo la stessa voce, che gridava: «Eppure è proprio per questa carnaccia che ho scritto le mie rime!».

La mattina dopo ripresi le ricerche, ma le strade erano piene di spari e macchie di fuoco si accendevano qua e là. Nel pomeriggio, senza alcun preavviso, le strade si svuotarono completamente. Sulla città era calato un silenzio assoluto, impressionante. Correndo capitai in una piazzetta: proprio in mezzo, alcune salme erano state composte sui tetti di tre automobili. Corsi a vedere chi erano, ma le tre macchine partirono a gran velocità coi morti legati sui portabagagli, mentre dalle finestre delle case cecchini nascosti li crivellavano di colpi.

Da una stradina vidi venire avanti di corsa, scarmigliato, lo stesso adolescente che la notte prima avevo sentito gridare nella stanza vicino alla mia.

Mi corse incontro: «Sono inseguito! Prendi questa!».

Infilò una grossa pistola nella mia tasca: «Oh, la mia chiglia scoppi! Ch’io vada in fondo al mare!».

Riprese la sua corsa tenendo le braccia spalancate. Intanto, dietro di lui, altri erano spuntati con la faccia bendata, inseguiti da un rumore di denti strofinati da tutte le parti contro il cielo.

AMSTERDAM

Correndo verso Amsterdam avevo negli occhi la visione di centinaia di uomini con le torce e i cani che scandagliavano a notte fonda i bordi della Senna.

Amsterdam la trovai piena d’acqua e bastava seguire i canali sui battelli perché le case avevano enormi occhi spalancati.

Non la cercai per più di un giorno in quella città. Alle sette di sera il cielo diventò rosa e c’erano molti, soprattutto negri, addormentati sul pelo dell’acqua nei canali.

Mi unii a loro e la mattina dopo ripartii, mentre gli altri si toglievano reciprocamente dai capelli alghe, muffe, conchiglie, lumachine e microrganismi che vi si erano impigliati durante la notte.

FRANCOFORTE

Ai lati della macchina correvano terra nera, campi di patate e altissimi alberi con le radici fuori, oppure tutti affondati nel suolo fino alle foglie. Un carro portava in giro un grosso tavolo perfettamente apparecchiato e non c’erano siepi.

Mi fecero scendere vicino a un fiume. Ero già in Germania.

Passai la notte in una locanda in mezzo alla campagna. Sotto le lenzuola c’era un rametto verde. Alle quattro del mattino sentii gridare. Mi svegliai di soprassalto: nel cortile stavano sgozzando un maiale con un grosso uncino piantato nella gola. Due uomini tiravano a tutta forza e il maiale aveva già un pezzo d’esofago fuori, ma riusciva ancora a lanciare grida altissime, mentre due bambini raccoglievano il suo sangue nei catini.

Alle cinque del mattino uscii dalla locanda, camminai alcune ore e nei campi sferragliavano già trattori immensi come carri armati. Trovai un nuovo passaggio: erano due uomini col fucile a tracolla che non dissero una parola per tutto il viaggio.

L’ultimo tratto lo feci in treno. C’era un vento gelato che fischiava contro i tetti appuntiti come lame e ammassava nel cielo grosse nuvole nere e sporche. Quando il treno entrò nei capannoni della stazione pensai: “Ecco, questa è veramente l’Europa!”. Una voce metallica sussurrava qualcosa negli altoparlanti. Il treno si fermò proprio davanti a quattro mensole. Appoggiati a esse, alcuni uomini silenziosi mangiavano würstel e bevevano birra.

Uscii dalla stazione, camminai per un paio d’ore nel vento gelato vicino al Main.

La mattina dopo era domenica e la città rimase quasi deserta fino a mezzogiorno. I primi gruppi di persone che uscivano dalle case venivano avvicinate da venditori di giornali, ognuno dei quali aveva come punto di riferimento una cassetta di latta sul marciapiede di qualche incrocio oppure sotto le pensiline dei tram. Dai pochi locali aperti venivano marcette militari suonate a tutto volume sotto terra.

Le porte erano nere, piccole, di plastica bombata, come tanti oblò. Anche i tetti erano neri e alti e si mangiavano le case.

Passai alcune ore girando per le strade, sedendomi ogni tanto su qualche panchina per alzarmi dopo pochi minuti quando mi accorgevo di dare nell’occhio.

Verso sera ai bordi delle strade principali si raccolsero gruppi di persone silenziose che mangiavano würstel appoggiate alle mensole, col panino e la spruzzata automatica di senape nel cabaret di cartone.

Il giorno dopo iniziai le ricerche. Nelle strade i pornoshop si susseguivano senza soluzione di continuità con la loro vegetazione di plastica bitorzoluta e le immagini di giganteschi seni sfondati, mangiati da polipi e cancri e annusati da un muso di maiale. Nei negozi più grandi, illuminati dai riflettori, pendevano würstel di tutte le dimensioni, grandi salami neri, sanguinacci. Un gigantesco porco arrostito girava sullo spiedo, impalato.

Imboccai una stradina buia, lunghissima, che ogni tanto incrociava grandi strade illuminate e poi si rituffava nell’oscurità. La seguivo, spostandomi in varie zone della città. Passai davanti ad alcuni locali. Una luce fioca filtrava appena dalle finestre, dietro le quali si indovinavano alcuni volti slabbrati, vicinissimi, quasi schiacciati contro i vetri. Un uomo ubriaco camminava rasente il muro. Il pene gli pendeva fuori dai pantaloni: era grigio, sporco sulla punta di una sostanza dal colore chiaro, che sembrava senape. Passai davanti a una porticina e diedi un’occhiata dentro, ma riuscii soltanto a vedere una scaletta che scendeva sotto terra. Dal fondo veniva una musica attutita e lontana, come un’eco del boato assordante che certo doveva essersi scatenato nel locale in basso. C’era un uomo vicino alla porta. In un primo momento non lo vidi: stava appoggiato contro il muro e, quando gli passai di fronte, mi fissò negli occhi per un attimo, disse qualcosa che però non capii. Feci per proseguire ma quello mi afferrò per le spalle, tentò di buttarmi dentro la porticina. Mi torceva il braccio e intanto rideva, come mosso da una profonda simpatia nei miei confronti. Cercai di divincolarmi, ma mi teneva con tale forza che, per liberarmi, avrei dovuto lasciare il braccio nelle sue mani. Pensai di prendere a calci le ossa delle sue gambe, anche se non sapevo quale reazione avrei scatenato. Cominciai a mulinare un piede verso di lui, ma non colpivo che aria perché l’uomo, senza mollare il mio braccio, mi scansava continuamente con piccoli saltelli all’indietro. Intanto le sue risa si moltiplicavano. Mi ricordai improvvisamente che avevo con me una pistola. Affondai la mano in una tasca, tirai fuori l’arma premendola contro l’uomo, che rimase immobile. Mi accorsi che la canna era andata a finire contro il suo basso ventre. Premeva su qualcosa di molle, di gommoso. Passato il primo istante di stupore, l’uomo scoppiò in un’enorme risata e mollò la presa.

Scappai. Cercando di allontanarmi da quella zona, capitai di fronte alla facciata di un grande edificio. C’erano macchie di colore sui muri e sui vetri delle finestre, come se molti barattoli di vernice vi fossero stati rovesciati sopra dall’alto. Doveva essere l’università. Entrai infilando un corridoio. Dal fondo si sentiva cantare. Seguii il corridoio fino alla fine. In una grande aula parata a festa, piena di bandiere e striscioni, un uomo stava gridando dall’alto di un palco in una lingua sconosciuta, interrotto ripetutamente dagli applausi. Alcuni ascoltatori, che occupavano le prime file, lanciavano slogan, che tutti gli altri raccoglievano con ordine. Uno in particolare pareva trascinare tutti gli altri: si alzava in piedi continuamente, anche da solo, e gridava con voce rauca appoggiandosi alla bocca uno strumento di ferro che teneva nel palmo della mano. Da quel poco che si riusciva a capire, sembrava munito di anelli, che si infilavano nelle dita come una vera e propria impugnatura. Un piccolo imbuto capace di amplificare la voce usciva dal pugno, verso l’alto.

Notai che sui banchi disposti ad anfiteatro c’erano, di fronte a ogni posto, cartoncini contenenti würstel e senape.

Finito il comizio, uscì all’improvviso da una porticina un mascherone di cartapesta da cui spuntavano gambette sottilissime. Cominciò a ballare tra le risa e gli applausi dei presenti. Poi due donne salirono sul palco e cominciarono a cantare accompagnandosi con la chitarra, mentre l’intera sala faceva il coro. Finite le canzoni, salirono sul palco due uomini, ciascuno dei quali pronunciò un discorso in una lingua diversa. Alla fine i due si baciarono, ma nella commozione, non avendo calcolato bene le distanze, le due bocche andarono a finire una sul lobo dell’orecchio e l’altra su una narice. A questo punto la sala si elettrizzò, tutti balzarono in piedi ad applaudire. Al termine dell’applauso, quelli che stavano seduti dietro il tavolo della presidenza si alzarono in piedi a barriera sul palco sopraelevato, coi pugni alzati, e solo allora notai una cosa stupefacente: parecchi di loro avevano sul pene un lungo astuccio corneo che usciva dalla bottoniera dei calzoni e svettava eretto fino all’altezza della faccia e in qualche caso anche oltre, diversamente colorato e ornato, con un numero di colori e di tacche sempre superiori man mano che si andava verso il centro del tavolo. I più giovani avevano astucci più piccoli, che parevano ricavati da canne di bambù. Tre o quattro di loro indossavano anche strani copricapi, feluche, ciuffi di piume colorate.

Ci fu un applauso di cinque minuti. Nel frattempo, tra una selva di pugni chiusi, quelli seduti al tavolo della presidenza uscirono dalla sala. Tutti gli altri erano talmente ammassati intorno a loro che da lontano si vedeva soltanto la punta colorata di qualche astuccio, mentre svettava sopra le teste ondeggiando verso l’uscita.

Gli altri avevano iniziato a baciarsi scambievolmente, mentre uscivano a loro volta dalla sala e si disperdevano in modo fulmineo. Pochi minuti dopo un gruppo di uomini aveva già smontato gli addobbi e spento tutte le luci.

Uscii dalla sala percorrendo al buio i corridoi e le scale, tastando il pavimento con la punta dei piedi. Dovevano avere staccato la luce in tutto lo stabile, perché gli interruttori non funzionavano. Trovai alcune porte, ma erano chiuse, e non riuscivo a rintracciare il custode da nessuna parte. Imboccai altri corridoi, tastando le pareti con le mani. Da qualche finestra entrava appena un po’ della luce dei rari lampioni che c’erano all’esterno, sulla strada. Scoprii una porta che prima non avevo notato. Entrai, mi accorsi di trovarmi in un gabinetto. Per terra c’era qualcosa di voluminoso. Mi chinai, accesi un fiammifero per vedere: era un morto. Mi tappai la bocca. Emanava un odore fetido, perché era disteso in una larga chiazza di sangue vomitato e sul pavimento dovevano esserci anche orina e feci. Toccai con la punta delle dita le minuscole scaglie che aveva vicino alla bocca: erano pezzettini di lamette da barba e vetri rotti.

La finestra del gabinetto era leggermente socchiusa. L’aprii di più e, alla luce del lampione, riconobbi nell’uomo morto disteso a terra uno dei due che poco prima si erano baciati sul palco.

Guardai fuori: ero al secondo piano. Uscii dalla finestra, feci alcuni passi appiattito sul cornicione, mi calai su un terrazzino che c’era al piano di sotto e di lì, aggrappandomi alla ringhiera, saltai in strada.

Ma era notte fonda e non mi vide nessuno.

Il terzo giorno mi ricordai di un particolare: sulla cartolina che avevo ricevuto da Francoforte c’era l’immagine dello zoo. Ci andai.

Dietro la facciata bianca c’era un funzionario in divisa che perquisiva i visitatori, fermandone uno a caso ogni tanto. Riuscii a entrare indisturbato. Passai di fronte all’elefante: sul cranio aveva schermature metalliche e rinforzi, riparazioni e connessioni di lamiera borchiata e altro materiale aggiunto. La pelle era talmente tirata che si potevano indovinare sotto di essa le suture del cranio, come se le sue parti fossero state rimontate pezzo dopo pezzo. Su grosse pietre disposte qua e là nei crocicchi erano impressi enormi chiocciole e fossili marini dalle forme perfette.

Imboccai il sentiero che andava verso lo stagno, passando vicino ai fenicotteri rosa, mi sedetti su una panchina nascosta dietro una siepe, sopra una fossa cintata in cui passeggiavano alcune giovani iene. Tirai fuori di tasca la pistola per osservarla. Alcuni istanti dopo, alzando lo sguardo, scorsi due occhi accesi nel fogliame. Nascosi in fretta la pistola, mentre dalla siepe usciva una ragazza cercando di non fare rumore.

«Fammela vedere!» disse con voce concitata, indicando con gli occhi il punto dove avevo nascosto l’arma.

Le porsi la pistola. Lei la fece sparire nella borsetta e, con la testa sprofondata là dentro, l’esaminò a lungo.

«Vorrei liberare il facocero!» mi rivelò alla fine.

Poi si coricò sulla panchina e si addormentò con la testa posata sul mio grembo. Io rimasi sveglio a guardarle le guance, la bocca, il mento, le palpebre e i capelli che dormivano.

Un paio di ore dopo un guardiano ci ingiunse di uscire. La seguii per le piccole strade della città vecchia, fin dentro uno stretto sottoscala. Per terra c’erano un materasso e una candela. Dopo alcuni istanti di esitazione, lei sollevò il cuscino senza federa che era buttato di traverso sul materasso e tirò fuori in gran segreto tre frammenti di conchiglia, un pezzettino di spago e un becco di gallina.

«Guarda...» sussurrò con aria di mistero.

E la sua bocca si avvicinò moltissimo alla mia.

Mi prese la mano e mi condusse fuori dal sottoscala. Capivo che stavamo camminando verso il fiume. Arrivati vicino a un ponte, lei scese, si allontanò di qualche metro, si appartò con un vecchio sporco di carbone che stava seduto sull’argine vicino a una chiatta. Parlavano fitto fitto, sottovoce. Dopo un po’ lei mi fece cenno di seguirla. Salimmo assieme al vecchio sulla chiatta a motore, che cominciò a risalire il Main. Io guardavo l’acqua e il fumo che usciva dal comignolo di latta, lei si era coricata sul fondo della chiatta e guardava il cielo.

Eravamo in una zona deserta. La chiatta continuò a risalire il fiume. Poi si fermò. Lei mi prese per mano e scendemmo a terra. Ci incamminammo su un terreno scuro e unto, che emanava un odore di bruciato, pieno di reticolati e di montagne di immondizia. Attraversammo un ponte sull’autostrada. Lì vicino doveva esserci un aeroporto perché ogni tanto si vedevano aerei che scendevano enormi. Davanti a una montagna di rifiuti più alta delle altre lei si arrestò, tappandosi il naso con le dita. Poi cominciò a salire, facendomi segno di seguirla. Ci arrampicavamo con i piedi affondati nei rifiuti, cercando di non appoggiarci con le mani quando la montagna smottava, su su fino alla cima dove stava ritto un enorme frigorifero mezzo sfondato. Lei aprì lo sportello: c’era dentro una ragazza che dormiva rannicchiata. La svegliò, le fece aprire la bocca e mi chiese di guardarci dentro. Un secondo dopo richiuse lo sportello del frigorifero e corremmo giù. Si era alzato un po’ di vento e dalla montagna si levavano in volo pezzi di carta unta e gusci d’uovo.

Il giorno dopo, alle 8 in punto, eravamo di fronte a una grande villa in una strada silenziosa della periferia. Lei passava e ripassava davanti al cancello.

«Deve essere questa!» decise alla fine.

Facendo il giro dell’edificio, entrammo dalla porticina di servizio. Dentro, le stanze erano deserte e silenziose. Su un tavolo c’erano ancora i resti di alcune colazioni. I letti erano già stati fatti e vicino alle porte c’era un numero incredibile di scarpe allineate. Lei attraversava con decisione le stanze. Si fermò di fronte a una porta. Si chinò per guardare nella serratura.

«Eccolo, è lui!» bisbigliò dandomi di gomito.

Guardai anch’io, ma non riuscivo a vedere nessuna faccia perché la persona che stavamo guardando era troppo vicina alla serratura. Si vedeva solo un enorme ventre nudo che sembrava in bilico sulla tazza di un water: in basso, seminascosti dal coperchio, i testicoli e un pezzo di pene senza testa in stato di semierezione. Non vedevo la faccia dell’uomo ma ero sicuro che in quello stesso momento lui si stava osservando i genitali mentre defecava.

«Non si vede la faccia...» sussurrai. «Come fai a essere sicura che è lui?»

«È lui lo stesso!» tagliò corto lei.

Allora appoggiai la canna della pistola alla serratura e sparai diversi colpi. Poi guardai di nuovo nella serratura esplosa: schegge di legno e di ferro erano sbocciate tutt’intorno e il ventre dell’uomo era a sua volta esploso, spalancato come un cratere, e le piastrelle bianche erano schizzate di feci fino al soffitto.

Ma la faccia non si vedeva ancora.

Corremmo fuori, attraversammo senza fermarci due isolati. Un autobus dipinto con figure di cartoni animati ci portò verso il centro. Prima di scendere lei si frugò sotto il vestito, tirò fuori il becco di gallina e me lo infilò di nascosto in una tasca. Poi, per la prima volta, mi sorrise e solo allora mi accorsi che aveva in bocca un grosso apparecchio metallico per raddrizzare i denti.

Scesi un paio di fermate prima della stazione. Camminavo di nuovo per le strade del centro e intanto da lontano si alzavano in volo cani e sirene e io potevo vedere tutti gli ingranaggi e le cinghie di trasmissione nei video delle bocche che sbadigliavano e mi veniva continuamente da pensare: “L’Europa è senza parapetti e non esiste Oriente”.

Poco dopo, in stazione, mentre aspettavo il treno per tornare, un’immensa disperazione mi invase. Andai a cercare i gabinetti per chiudermi dentro e spararmi un colpo alla testa. Ma quando li trovai e feci per entrare in uno di essi mi accorsi che le porte avevano una gettoniera e che per aprirle bisognava introdurre una moneta da mezzo marco. Corsi a cambiare una banconota di carta. L’uomo dietro lo sportello, quando si accorse che piangevo, mi guardò insospettito, tastò più volte la banconota, la osservò controluce, prima di decidersi a cambiarla. Ma, tra tutte le monete che mi diede, non c’era neppure un mezzo marco. Glielo chiesi espressamente. Lui rispose che non ne aveva. Andai in una delle sale d’aspetto e chiesi a un uomo di cambiarmi un marco con due mezzi marchi. Ma quello, vedendo che piangevo, si infuriò.

«Chiamo la polizia!» cominciò a gridare.

Scappai via. Un fischio lacerante mi attirò verso un treno in partenza. Saltai su mentre già si stava muovendo, anche se non sapevo dov’era diretto. Mi nascosi in uno scompartimento deserto e, quando il treno cominciò a uscire dai capannoni infilando uno dopo l’altro gli scambi, vidi che il cielo era diventato di nuovo unto e nero e ai lati correvano piccole stazioni e fabbriche modernissime oppure nere e piene di fuoco come fornaci, mentre nelle strade di campagna cavalli dalle zampe enormi trascinavano pezzi di tetti sopra i carri. Nel corridoio del mio vagone si fermò un volto conosciuto: era lo stesso adolescente che a Parigi avevo sentito gridare nella stanza vicino alla mia. Uscii dallo scompartimento. Lui era in piedi davanti al finestrino aperto, con gli occhi socchiusi per il vento. Aspettò che il controllore fosse passato, si guardò attorno due o tre volte per essere ben sicuro che nessuno ci osservasse o potesse sentirci, prima di bisbigliarmi all’orecchio: «Se desidero un’acqua d’Europa, è la pozzanghera nera e gelida, quando nell’ora del crepuscolo un bimbo malinconico abbandona in ginocchio un battello leggero come una farfalla a maggio».

Il treno adesso costeggiava un grosso paese agricolo deserto e senza strade, con le case gonfie affastellate sotto i nuvoloni e i tetti neri con le finestre dentro. Le rare figure che vi si affacciavano sembravano spuntare direttamente da qualche fessura del tetto, coi gomiti e le braccia sul davanzale per fare forza e spingere fuori tutto il resto del corpo incastrato. Più lontano, sulla linea dell’orizzonte, si indovinava appena la minuscola figura di un bambino che camminava verso una casa appuntita nel folto di un bosco, come nelle favole dei fratelli Grimm.