Avevo quattordici anni e tenevo fuori dai calzoni il pene appena circonciso, tutto avvolto nella fasciatura come una mummia. A pensarci, mi sembra di ricordare che, dentro le bende, stesse sempre eretto, forse tumefatto per via dell’operazione. Comunque fosse, così addobbato sembrava incredibilmente grosso per la mia età e diverse donne preoccupate per lo sviluppo dei propri figli venivano apposta a guardarlo anche da cortili lontani. Mia madre fungeva da cicerone.
Giravo così per il parco e dentro la grotta, attraversando i prati e le siepi col pene fuori, e se mi coricavo sull’erba dovevo stare attento alle api e alle formiche che, attratte dall’odore del sangue e delle medicazioni, cominciavano a camminargli sopra in cerca di un varco tra le bende.
La mummia di Amenophis I (XVIII dinastia, 1559-1539 a.C.) era adornata di fiori che in seguito furono identificati dagli studiosi. Si trattava di fiori di una specie di Delphinium, della Acacia nilotica, della Sesbania aegyptiaca e del Carthamus tinctorius e cioè: fiori di cappuccio, boccioli di acacia, sesbanie (papiglionacee che crescono sulle siepi) e zafferano. Una vespa che per caso si trovava tra i fiori subì assieme a essi il processo di mummificazione.
Ogni due giorni, verso sera, cambiavo la fasciatura con una complicata operazione di mezz’ora, facendo cadere goccioline d’acqua tiepida dove la garza si era attaccata alla carne viva.
Estraggono dapprima una parte del cervello dalle narici con un uncino di ferro, iniettando un medicamento in quel che rimane del cervello stesso. Poi, con un coltello etiopico tagliente, praticano un’incisione nelle regioni glutee, tolgono le interiora e puliscono la cavità addominale sciacquandola con vino di palma misto a spezie macinate. Riempiono quindi il ventre con mirra tritata finemente, cassia e altri aromi, non con incenso, e ricuciono l’incisione. Lasciano il cadavere immerso in una soluzione salina per settanta giorni: tanto dura l’imbalsamazione. Trascorsi i settanta giorni, puliscono la salma e l’avvolgono con strisce di lino fine, cosparse di resina. Ciò fatto consegnano la salma ai congiunti. Questi fabbricano una bara di legno dalla forma umana, nella quale pongono il cadavere, lo chiudono e lo conservano in una camera funeraria, ove lo appoggiano diritto alla parete.
In questa storia ci sono anche un vecchio che dormiva nella stanza vicino alla mia, una madre che ammazzava i pesci, una ragazza che dormiva in un lettone con quattro fratelli, un numero imprecisato di uomini e animali e un grande parco. E poi strade e stradine, piccoli e grandi viali, gabbie, statuine di terracotta, radici a fior di terra e tante altre cose. C’era anche, se ricordo bene, una questione di eredità o comunque di possibile prestigio e credo fossero da riferirsi a questo gli impulsi contraddittori della madre della ragazza, il suo mandare la figlia da me, il suo richiamarla continuamente, il suo spiare, chiudere e aprire porte, spostare oggetti.
Ma adesso proverò a disegnare la piantina del parco.
Le cose di rilievo che si trovavano all’interno della casa erano: al pianterreno una cucina con un immenso portone di legno che veniva aperto o chiuso a seconda di chi si avvicinava, un piccolo gabinetto nel sottoscala, un largo corridoio a vetri con alcune sdraie e un’urna contenente tre uccelli imbalsamati, per l’esattezza un airone cinerino, un fagiano dorato e un tucano dall’enorme becco. Anche un piccolo lucernario di vetri colorati, a forma di mezzaluna, ha avuto la sua piccola parte in questa storia.
Salita la scala, al primo piano, c’erano un’altra cucina, un altro gabinetto, la camera da pranzo con un vecchio divano in un angolo, tre camere da letto tra cui quella del vecchio, con due grandi specchi. In fondo c’era la mia, con la finestra che dava sul viale del parco che portava alla grotta. Da quest’unica finestra si vedeva anche il muro di cinta semisommerso dai rampicanti (nei pezzi di muro scoperti si vedeva ancora – anche se un po’ sbiadito a causa degli anni – un cielo azzurro chiaro dipinto, sovrastato da un’interminabile cancellata, anche quella dipinta). Oltre il muro di cinta c’era una legnaia e, in fondo, prati e alberi altissimi sopra i tetti delle casematte, depositi militari durante la guerra.
Altro particolare importante: tutte le finestre, anche se all’interno avevano la solita forma rettangolare, viste da fuori apparivano così:
Sempre al primo piano, nel gabinetto, c’era una vasca da bagno occupata spesso da grossi pesci di risaia che un uomo con un sacco portava una volta al mese e che venivano tenuti vivi fino a che il vecchio, uno dopo l’altro, non li divorava.
Li uccideva mia madre, sbattendoli contro il pavimento. Usava una tecnica particolare: ne tirava fuori uno dall’acqua, dopo avere faticato non poco a catturarlo, lo afferrava con entrambe le mani e lo teneva bene in alto sopra la propria testa. Si sollevava per un istante sulla punta dei piedi, distendendo al massimo le braccia, e poi restava immobile, come per raccogliere le forze. Un attimo dopo scaraventava il pesce sul pavimento, si chinava ad afferrarlo di nuovo, lo sbatteva ancora per terra una volta, due volte, tre volte e sembrava non riuscire a fermarsi fino a che il corpo lucido della bestia non rimaneva inerte sulle piastrelle dopo gli ultimi, impercettibili colpi di coda. Il rumore dei tonfi sul pavimento era enorme, faceva tremare l’intera casa: lo sentivo anche se ero in un’altra stanza oppure lontano nel parco o dentro la grotta o seduto sul muro di cinta, e allora mi introducevo in casa di nascosto, entravo nel gabinetto, orinavo nella vasca piena di pesci e di sera, a cena, osservavo il vecchio e gli altri commensali che, con le apposite posate d’argento, mangiavano il pesce in silenzio, metodicamente. Il gatto si aggirava nei pressi della pattumiera, dove affiorava la testa mozza del pesce. Con un salto l’addentava, cominciava a divorarne l’interno, la spostava per la casa, entrava e usciva dalla stanza con il muso affondato in quella testa cruda, e a guardarlo pareva un incredibile animale col corpo di gatto e la testa di pesce.
Di sera e di notte giravo per i viali del parco e persino dentro la grotta (spesso, prima di entrarci, la paura mi costringeva a giurare su una cipolla che mai più avrei orinato nell’acqua dei pesci). Da molti punti del parco si alzavano altissimi gli urli dei grilli. Mi avvicinavo alla casa, sotto le grandi piante di castagne matte, vicino alla casetta dei fagiani e alle panchine, dove arrivava ancora un po’ di luce dalle finestre. Raccoglievo da terra alcune castagne matte, strappavo coi denti un pezzo di buccia, sputavo sulla panchina e insalivavo il pezzo sbucciato della castagna. La sfregavo sul marmo della panchina e tutt’intorno, ad anello, si formava una bava che io raccoglievo e pressavo, sagomando saponette dalle forme più strane. Le lasciavo seccare al sole. Quando diventavano dure, a sfregarle sulla pelle bagnata facevano un po’ di schiuma e io mi lavavo solo con quelle.
In quei giorni, verso la fine di agosto, successero i seguenti fatti:
Uno. Ero disteso sulla sdraia nel largo corridoio a pianterreno (che chiamavano “serra”) e guardavo verso il cortile. Il pene era come sempre fuori dai calzoni, in uno stato di semierezione. D’un tratto era entrata la ragazza della casa vicina (la porta a vetri di giorno era sempre aperta). Camminandomi a fianco senza dire una parola era venuta a mettersi dietro la mia testa, vicinissima, con i gomiti appoggiati sopra la sdraia. Era rimasta così per diversi minuti. Anch’io non dicevo niente, guardavo il lucernario a mezzaluna e il becco smisurato del tucano e intanto il pene mi si ingrossava sempre più e pulsava nella fasciatura. Sua madre aveva cominciato a chiamarla dalla casa, ma lei era rimasta immobile ancora per un po’. Poi, invece di uscire dalla serra, era entrata nel piccolo gabinetto che si trovava appena dietro la mia testa e, dai rumori che ne venivano, avevo capito che si stava masturbando.
Queste furono le conclusioni che ne trasse Trembley: «Ho spesso sezionato i margini dell’estremità anteriore del polipo, cioè quel cerchio da cui escono i tentacoli e, per sottile che fosse, ne è sorto un polipo che da principio era tutto tentacoli, ma il cui corpo, in seguito, è diventato grosso come quello degli altri quando ho avuto cura di dargli da mangiare. C’è di più: anche delle parti di cerchio analoghe a quelle di cui ho parlato, dei pezzi che non avevano che due o tre braccia sono diventati dei polipi completi. Si sono riformate delle braccia per supplire a quelle che mancavano. Quello che ho detto è già sufficiente a far capire che è possibile sezionare con successo un polipo in più di due parti. Ne ho contemporaneamente tagliati alcuni in tre o quattro e tutte queste parti sono diventate polipi completi.
«I polipi non sono abbastanza grossi per poter essere tagliati contemporaneamente in un gran numero di pezzi. Ho ovviato a questo inconveniente dividendo successivamente un polipo in più parti. Dopo averne tagliato uno in quattro, ho avuto cura di nutrire ognuna di queste parti, e quando esse hanno raggiunto una certa grandezza le ho tagliate in due o tre pezzi compatibilmente con la loro grossezza, poi ho fatto crescere anche questi e li ho divisi. In tal modo ho tagliato il polipo in questione in cinquanta parti. Tutte le cinquanta parti sono diventate polipi perfetti. Ne ho conservate molte per più di due anni ed esse si sono abbondantemente moltiplicate.»
Due. Una sera ero finito chissà come a guardare la televisione nella casa della ragazza. Erano andati tutti da qualche parte tranne lei e il più piccolo dei fratelli (uno dei quattro che dormivano con lei nel grande letto al piano di sopra). Io e lei eravamo quasi appaiati, distesi sulle sedie di fronte al televisore, mentre sul divano vicino il fratello dormiva o fingeva di dormire. Nessuno dei due parlava. Nel buio azzurrognolo del televisore mi accorsi d’un tratto che l’involucro bianco della mia fasciatura si stava spostando progressivamente verso l’alto. Piano piano, nell’arco di mezz’ora e con una serie di progressioni, l’avevo preso in mano, muovendolo distrattamente e spostandolo appena quando diventava fisso e irrigidito di fronte al video, inclinandolo leggermente in avanti o di fianco per poi farlo tornare da solo al centro come una molla. Oppure lo tenevo a lungo immobile con la mano e intanto fingevo di non vedere che lei si era infilata a sua volta tutta la mano sotto la sottana.
Prima che gli altri tornassero ero uscito dalla stanza benché la notte fosse nera e senza finestre. Sotto i castagni avevo lavorato a lungo per costruire una saponetta. L’avevo sagomata così:
Poi ero tornato da lei e gliel’avevo regalata perché la facesse seccare e si lavasse solo con quella.
Tre. Un giorno ero al gabinetto e, mentre defecavo, guardavo la bocca instancabile dei pesci ammassati nell’acqua giallastra. La casa doveva essere deserta, ma io avvertivo un’impercettibile presenza. Da alcuni giorni mi ero tolto la fasciatura e potevo vedere il pene in condizioni normali dopo tanto tempo, così cambiato, cresciuto, irriconoscibile. Anche se, inspiegabilmente, non riuscivo più a ricordare com’era fatto prima.
Avevo alzato gli occhi: il buco della serratura, che prima era chiaro, era diventato nero, come se qualcosa di silenzioso gli si fosse posato contro. Eppure sapevo bene che oltre la porta, quella di fronte a me, c’era un corridoio e poi un’altra porta, parallela a quella del gabinetto, che a quell’ora del giorno rimaneva sempre aperta e lasciava filtrare un riverbero di luce.
Ero rimasto per alcuni istanti immobile per lo stupore, tentato di pulirmi e di allontanarmi dal water oppure, per evitare quel gesto orribile, di alzarmi tirandomi su i calzoni senza pulirmi, oppure ancora di andarmi a pulire nell’angolo a fianco della porta, dove nessuno poteva vedermi tranne i pesci, dopo aver saltellato a piedi uniti fino lì. Il pene, che pendeva nell’aria, si sollevò un po’, ondeggiando, e allora allargai le gambe, con la schiena appoggiata al coperchio alzato del water, in modo che anche il bacino si potesse sollevare e lo scroto, nascosto finora sotto il filo della tazza, potesse uscire allo scoperto. Il tempo passava, il pene si irrigidiva e si muoveva impercettibilmente per conto proprio con una serie infinita di spostamenti, di leggere flessioni e di soprassalti. Avevo cominciato a guardare direttamente l’occhio premuto contro la serratura, inclinandomi sempre più all’indietro e allargando bene le gambe perché potesse vedere bene, intanto la campana della chiesa più vicina aveva già battuto due volte, prima un colpo solo poi una numerosa serie di rintocchi che non ero stato in grado di contare, quindi doveva essere passata già almeno mezz’ora e dalla finestra alle mie spalle capivo che stava scendendo la sera e alla fine, senza sfiorarlo neanche con un dito per tutto il tempo, il pene circonciso aveva cominciato a eiaculare muovendosi e saltando da solo, schizzando e poi facendo colare sperma a dense gocce lungo le pareti interne del water.
Avevo sentito venire da dietro la porta un piccolo gemito, come di un minuscolo animale ferito ascoltato da molto lontano. Poi il buco della serratura era diventato di nuovo chiaro.
Allora ero uscito e, scalando il muro di cinta, mi ero andato a sedere in cima, nel mio posto preferito, da dove si vedevano i boschi neri sui tetti delle casematte. Il gatto mi si era avvicinato e, siccome aveva il muso perfettamente posato sullo spigolo del muro, lo avevo colpito all’improvviso con un mattone, schiacciandogli la testa, e intanto pensavo: “Nella notte estiva mi inebrio, la linfa è come un vino che ti sale alla testa, io vaneggio e mi sento un bacio sulle labbra palpitare in silenzio come una bestiolina”.
Nei giorni successivi con una vecchia sega avevo tagliato una zampa anteriore del gatto, dall’articolazione in giù. Il resto lo avevo buttato nella fossa delle immondizie, che ormai straripava ed era ora di darle fuoco. Avevo sottoposto la zampa a un complicato trattamento, tenendo immerso nell’alcol per un giorno intero il punto esatto dove era stata tagliata, sfregandolo con terra mista a bava di castagne matte e poi lasciandolo essiccare al sole per una settimana. Alla fine l’osso e la carne viva non si vedevano quasi più. Il pelo invece era rimasto soffice e quando sfiorava la mia guancia mi faceva venire voglia di piangere. Andavo a scoprire punti ancora ignoti del parco, tra le canne di bambù nere e sottili vicino alla montagnola oppure sul ponticello di ferro sopra la vasca, che ormai era vuota da mezzo secolo e aveva le pareti arrugginite, scrostate e verdi di muffa. Guardavo giù: sul fondo c’erano acqua piovana ormai nera, rami secchi, foglie marce e rane. Mi arrampicavo sul muro di cinta, salendo a una rientranza dove potevo scalare una vecchia costruzione di marmo umida e fredda, con la terra e le piante sopra, che una volta era la ghiacciaia della villa. Sul muro di cinta ci restavo ore e ore con la zampa in mano e a volte aspettavo anche la luna. Sentivo gli altri che mi cercavano in ogni anfratto del parco, chiamandomi a squarciagola, ma tanto non potevano vedermi perché in quel punto spiovevano sul muro i rami dei castagni e io per giunta mi mettevo tra due dei blocchi di pietra triangolari che sovrastavano il muro, con le gambe raccolte, così:
e a volte mi addormentavo fino al mattino.
Non appena un’ape si posa sul labbro inferiore del fiore della salvia e spinge la proboscide all’interno del calice, tocca due appendici attaccate agli stami e le sposta leggermente verso l’alto. Allora i lunghi stami fertili del labbro superiore, che stanno in bilico, si abbassano sul dorso peloso dell’insetto e le antere, aprendosi, lo caricano di polline. Nell’arrivare sul fiore successivo, l’ape, prima di posarsi, sfiora quasi sempre con il dorso lo stimma, che sporge dal labbro superiore come la lingua bifida di un serpente. Un po’ di polline vi rimane attaccato e il cerchio si chiude un’altra volta.
Uno di quei giorni ero entrato nella casa di lei, ma lei non c’era. C’era il fratello più giovane che mi aveva rubato per gioco la zampa di gatto e l’aveva gettata sotto lo stesso divano su cui quella sera dormiva o fingeva di dormire. Ci eravamo buttati sotto il divano con la testa, allungando le braccia e pedalando con le gambe per arrivare a intercettarla. Mentre annaspavo cercando di raggiungere per primo la zampa, la mano mi era finita sotto i calzoni corti dell’altro, che rideva e raddoppiava gli sforzi. Gli avevo afferrato il piccolo scroto duro e rotondo, che sembrava un sasso. In quel preciso momento l’altro era riuscito ad afferrare la zampa e, uscendo con la testa tutta impolverata da sotto il divano, aveva gridato: «Eccola!».
Allora gli avevo detto che se la poteva tenere e che anzi doveva fare una cosa per me, e cioè andarla a infilare quella notte stessa nel lettone dove dormiva con la sorella e con gli altri, collocandola nel punto dove si metteva lei, ben nascosta sotto le coperte.
Quella notte ero rimasto sveglio fino all’alba e intanto il vecchio dormiva dietro la porta e una volta si era anche alzato a orinare rumorosamente nel pitale. Avevo spalancato la finestra senza accendere la luce nella stanza e il parco nella notte pullulava di occhi e di grida. Mi ero spogliato e, nudo, guardavo fuori verso la grotta e la legnaia che erano leggermente illuminate dalla luna e intanto nel parco si sentivano urlare i grilli e affioravano ovunque piccolissimi rumori come di passi tra l’erba e sulla ghiaia e anche nella grande gabbia degli uccelli. Versi infinitamente sottili si richiamavano l’un l’altro da molto lontano, forse da piccoli buchi scavati sotto terra. Io riuscivo a vedere a una decina di metri di distanza dalla base della casa, fino alle lunghe foglie dei gladioli ai margini della notte, prima del parco vero e proprio, e forse la luna illuminava anche il chiarore del mio corpo nudo alla finestra.
Ecco... mi allontano dalla finestra e mi distendo sul letto bianco. La parete vicina emana un leggero odore di muffa. Nel chiarore della luna guardo il mio corpo sconfinato, solo nelle galassie, mentre fuori la notte è piena di antenne, piccole proboscidi e lingue retrattili. C’è uno specchio sul mobile di fronte, e dentro di esso posso vedere la luna. Sul soffitto c’è una chiazza di calce, un intonaco rifatto che, incrociandosi con una larga macchia di muffa, forma due figure: una femminile con i capelli lunghi ma completamente sprovvista di occhi, e una maschile che la interseca con un enorme cranio nudo bombato e un unico occhiolino rotondo (che non si può stabilire con esattezza a chi dei due appartenga) dal quale guardano entrambi. Ai piedi del letto ci sono una brocca e un catino. Cammino a quattro zampe sul letto e vado a infilare la mano nella brocca, che è piena d’acqua. Ci immergo la punta delle dita e mi bagno tutto il corpo fin nei suoi angoli reconditi e l’acqua si asciuga in un attimo e io torno a bagnarmi e a inumidirmi molte volte, poi ritorno alla finestra e allora qualche verso si interrompe per un istante e poi riprende. Con una piccola forbice comincio a tagliare i peli attorno al pene e tra le natiche. Li taglio con cura, lascio che cadano sul davanzale. L’apparato boccale è formato da un lungo tubo arrotolato a spirale: il suo nome scientifico è spiritromba. Intanto il pene è diventato immenso e nudo e mentre lo percorro in tutta la sua lunghezza con la mano mi sporgo al massimo col bacino fuori dalla finestra per non far colare sperma lungo le pareti esterne della casa lasciando alla vista di tutti una lunga macchia come di una grondaia rotta da anni o di lava o di vomito. Dopo quindici giorni da queste uova usciranno dei bruchi color verde giallo macchiettato di nero. Quando inizio a eiaculare, posso seguire con gli occhi alla luce della luna gli schizzi che attraversano a parabola la notte verso le zone più buie e abitate del parco e forse qualche strumento viene bagnato o qualche antenna o qualche guscio tant’è vero che c’è un attimo di sbandamento e numerose stonature o piccoli passi o bocche spalancate o spiritrombe intasate di saliva da far uscire battendo l’apertura nel palmo della mano prima di riprendere a suonare, e invece più in basso mi sembra di notare che le lunghe foglie dei gladioli si siano mosse e allora forse non sono foglie di gladiolo ma orecchie di coniglio.
Prendo i peli caduti sul davanzale e li metto in un fazzoletto. Infilo scarpe e calzoni, entro senza fare rumore nella stanza del vecchio e prendo le chiavi appese al chiodo sulla cornice dello specchio, esco silenzioso e, senza accendere le luci, arrivo nel gabinetto. Nel buio si sente solo il boccheggiare dei pesci nell’acqua. Prendo con due dita un po’ di peli dal fazzoletto e li lascio cadere nell’acqua. Sento guizzare qualche pesce, forse svegliato di soprassalto o avvertito dalle impercettibili ondulazioni provocate dalla caduta dei peli sul filo dell’acqua. Quando ritorna il silenzio si sente di nuovo, leggermente più accelerato, il rumore delle bocche in movimento nel buio. Il bruco, nel crescere, compie numerose mute abbandonando ogni volta la vecchia pelle come una spoglia inutile. Scendo le scale tastando coi piedi i gradini nell’oscurità, apro lentamente la porta con la chiave e mi trovo nella serra dove incontro la difficoltà maggiore perché la grande porta a vetri vibra e fa rumore quando la si stacca dal telaio di ferro per aprirla. Provo pianissimo, sollevandola un po’ per la maniglia, e riesco così a contenere un po’ il rumore, ma mentre esco nel cortile buio e mi volto indietro un momento a guardare nella serra mi rendo conto di essere stato osservato per tutto il tempo dall’airone, dal fagiano e dal tucano.
Adesso cammino sulla ghiaia buia e fredda del cortile, posando a terra i piedi di piatto, con cautela. Lancio un’occhiata alle finestre di lei: sono buie e io non so in quale punto della notte si trovi in questo momento la zampa di gatto o in quale piega nelle immense estensioni del grande letto e dei cinque corpi. Forse sta correndo di mano in mano oppure si è addormentata in qualche cavità, intrusa, visitatrice inopportuna oppure molto gradita, ideatrice silenziosa di qualche strano e complicatissimo gioco nella stanza buia e senza tetto.
Arrivo alla porta della legnaia, dove c’è un enorme catenaccio arrugginito. Per aprirlo senza fare troppo baccano ci metto cinque minuti, ma ugualmente i cigolii svegliano le bestie che ci sono dentro: le sento saltare e sbattere contro le gabbie. Quando entro e accendo la debolissima luce appesa a quindici metri d’altezza, i conigli, le cavie e i piccolissimi topi bianchi sono tutti all’erta coi musi affacciati ai buchi delle reti e i denti in movimento. Apro il fazzoletto e distribuisco in egual misura nelle tre gabbie piccolissimi ciuffi di peli, assaliti da ogni parte dalle minuscole bocche. Raggiunta la lunghezza di circa 5 cm e cioè dopo 21 giorni, il bruco cerca un luogo riparato, come un muro, una pietra, un ramo d’albero, dove si appende a testa in giù e si accinge a trasformarsi in crisalide. Poi salgo pianissimo la scala a pioli, assicurandomi che sia bene appoggiata, sino alla legnaia in alto. Di lì, abbassando la testa, attraverso il piccolo corridoio che passa sopra la porta a volta dell’ingresso principale e arrivo nella piccionaia. Penso che, se i colombi si spaventano e battono le ali o buttano per terra qualcuna delle scalere dove vanno a dormire, in una delle case qualcuno sicuramente si sveglierà. Apro pianissimo la porticina. Nessuno si muove. Alcuni colombi non si sono neppure svegliati, molti di loro sono appena tornati da un lunghissimo viaggio e hanno il becco nero, sporco di petrolio. Vinti dalla sete, devono essersi fermati a bere da qualche cisterna chissà dove. In un angolo c’è ancora il grosso orologio per il controllo dei tempi e la luna è molto alta nel cielo, inquadrata in una delle bifore. Altri colombi mi guardano immobili, poi cominciano a zampettare per terra beccando tutto quello che trovano. Sono quelli che partiranno domattina per un nuovo viaggio. Do a loro gli ultimi peli rimasti e sogno che li porteranno lontano.
Poi scendo e vado ad arrampicarmi al solito posto sul muro di cinta. Al chiarore della luna noto subito che, sul blocco di pietra dove generalmente appoggio la testa, qualcuno ha inciso con un pezzo di mattone, chissà perché, chissà in che tempo:
Allora comincio a pensare: “Dove sarà la zampa di gatto, e cosa diventerà la zampa di gatto se i dinosauri avevano due cervelli, uno nella testa e uno nella coda, e il passero è diretto discendente del dinosauro? Allora zampa di gatto, pesci, uccelli, peli, pene, cancelli sul cielo, oppure acqua, chiave, specchio, occhi, proboscide, lucernario, foglie marce, rane... E la zampa di gatto è stata dinosauro e diventerà passero o è stata passero e diventerà dinosauro? O diventerà cicala o acqua o lava di vulcano o vagina o becco di gallina? O è stata mascella o testa di elefante e diventerà cicoria amara o saliva o bocca di pesce o uccello
o mano
o fuoco? E forse la madre della ragazza è stata idra e l’idra è diventata ragazza, sdraia, piccolo scroto, gabbia d’uccelli, televisore, mongolfiera, airone, muso di porco, fiore di salvia e di nuovo idra o pezzi di idra. E allora io chi sono, cosa diventerò? Sono stato o diventerò zampa di gatto, idra o pezzo di stella? E se io
allora cosa sarò, fiore di salvia o tentacolo o dinosauro sotto le stelle
?”.
Passati alcuni giorni da quella notte, avevo iniziato con discrezione una piccola inchiesta, soprattutto attraverso il fratello più giovane, per sapere che fine aveva fatto la zampa di gatto. Lei non usciva più nel cortile e neppure veniva più nella serra o al primo piano della mia casa quando non c’era nessuno.
Fin dai primi giorni mi ero però accorto di alcune cose.
I PESCI
Ero sotto il castagno, intento a fabbricare saponette, quando dalla mia casa si erano levati violenti rumori di pesci sbattuti contro il pavimento. All’inizio avevo creduto che si trattasse della solita uccisione giornaliera ma poi, man mano che i rumori continuavano, mi ero insospettito ed ero penetrato in casa. Senza farmi vedere da nessuno avevo raggiunto il gabinetto: nella vasca da bagno c’era soltanto la solita acqua giallastra, mentre i pesci erano tutti morti a pancia all’aria sul pavimento.
Ero uscito e avevo trovato mia madre in cucina, con un pesce morto ancora in mano. Le avevo chiesto cosa stava succedendo.
«Vengono degli ospiti!» era stata la sua risposta.
Effettivamente quella sera erano arrivati degli ospiti, gente mai vista prima, e tutti i pesci erano stati serviti in tavola. Dopo cena gli ospiti erano andati nella serra e io avevo notato che due di loro si erano seduti a poca distanza dal tucano e non si erano mai mossi di lì. Prima di ripartire, con la scusa di fare un giro nel parco, gli stessi due erano spariti. Erano stati assenti molto a lungo, tanto che gli altri mi avevano incaricato di andarli a rintracciare perché non potevano più rimandare la partenza. Avevo ispezionato il parco palmo a palmo (solo dentro la grotta non ero andato), ma di loro nessuna traccia. Un’ora dopo i due erano apparsi nella serra come se niente fosse, sostenendo di avere passeggiato nel parco per tutto il tempo.
Al momento della partenza li avevo cercati con gli occhi dentro una delle due macchine, ma era ormai buio fitto e per di più i finestrini erano scuri e impenetrabili. Così non ero riuscito a vederli e, un po’ alla volta, mi era sorto il sospetto che nessuno dei due si trovasse in realtà dentro quelle automobili pronte a partire.
I CONIGLI
Il giorno successivo, di mattina presto, il padre della ragazza era uscito in cortile e aveva iniziato a lavorare attorno al portone della legnaia. Non capivo cosa stava facendo. Alla fine ero andato a vedere: c’erano due piccoli anelli di spago inchiodati al portone.
Nel pomeriggio l’uomo aveva ucciso un coniglio, lo aveva appeso al portone infilando nei due anelli di spago le zampette divaricate, poi lo aveva scuoiato col coltello, tirando e sfilando il pelo come un guanto, facendo piccoli tagli accurati vicino alla testa, per non strapparla via assieme alla pelle.
In fondo non era una cosa strana, succedeva spesso. Ciò che però mi aveva stupito era stato il fatto che quello stesso giorno il padre della ragazza aveva ucciso altri sette conigli e che anche nei giorni successivi aveva continuato a lavorare senza sosta vicino al portone della legnaia.
Avevo provato a chiedere spiegazioni, ma non si riusciva a capire se i conigli erano malati, se avevano deciso di mangiarli tutti o se erano stati venduti.
I COLOMBI
Quello dei colombi era stato l’avvenimento più inspiegabile e anche la gente degli altri cortili ne aveva parlato: nessuno era più tornato dall’ultimo viaggio.
Il fratello più giovane della ragazza, come sempre, si era appostato con l’orologio dietro una finestrella della piccionaia, pronto a far entrare i primi colombi che si fossero posati sul davanzale per marcare l’orario d’arrivo sull’anellino che portavano alla zampetta. Quel giorno invece i colombi, per la prima volta, non erano tornati. E neppure i giorni successivi.
Per spiegare l’avvenimento, c’era chi diceva che a volte i colombi vengono colpiti dai cacciatori durante il viaggio, oppure si fermano a riposare davanti a qualche altra piccionaia incontrata durante la strada, e allora non si poteva mai escludere che qualcuno, da dentro, fosse riuscito a farli entrare con qualche trucco.
L’avevo rivista una decina di giorni dopo quella notte, per un attimo solo, mentre usciva di casa coi capelli bagnati e si pettinava davanti al piccolo specchio vicino alla porta. Poi piano piano aveva iniziato a uscire più spesso. Qualche volta si sedeva anche di fronte alla porta e rimaneva immobile a fissare davanti a sé.
Un giorno, mentre ero alla finestra della cucina, l’avevo vista uscire di casa. Era in ordine e ben pettinata e, alla sommità del capo, aveva un inconsueto fermaglio tra i capelli. Guardandolo bene, mi ero accorto che si trattava della zampa di gatto.
Il giorno dopo ero venuto a sapere dal fratello più giovane che ci aveva lavorato un pomeriggio intero. Con ago, filo e piccoli ganci era riuscita ad applicare alla zampa una lunga molletta che si poteva aprire e chiudere.
Avevo iniziato a vederla più spesso, col solito fermaglio collocato in modo sempre diverso sulla testa o sulla nuca. A volte, seduta davanti a casa, se lo sfilava e si sfiorava con quello la guancia, il collo, la bocca. In quanto a me, sembrava che mi evitasse o comunque non ci si trovava mai sulla stessa strada. La zampa, alcuni giorni dopo la sua ricomparsa, era sparita di nuovo: in realtà (ci avevo messo del tempo ad accorgermene) con le adeguate modifiche era diventata una grossa spilla che le teneva accostati due lembi della sottana o della camicetta. Poi, appesa a una piccola collana, le aveva cominciato a pendere dal collo.
Il padre di lei era intanto immerso in una serie di complessi lavori. Con seghe e cesoie tagliava per tutto il giorno le cime delle siepi, sfrondava gli alberi, segava i rami. Poi ammassava nei punti più impensabili del parco tutte le foglie secche e i pezzi di rami che erano rimasti a terra. Per alcuni giorni il parco era apparso punteggiato di piccolissimi cumuli e mucchietti disposti geometricamente ai bordi delle stradine, dietro le siepi e sotto le piante. L’uomo era andato persino a svuotare la vasca, sloggiando le rane. Alla fine, con un carretto, aveva rovesciato tutto quanto nella fossa delle immondizie e il parco era irriconoscibile.
Un giorno che stavo sul muro di cinta l’avevo vista mentre camminava per il viale. Anche lei mi aveva visto perché i rami più lunghi del castagno erano stati tagliati da suo padre ed ero ormai allo scoperto. L’avevo guardata bene, ma non vedevo da nessuna parte la zampa di gatto. Allora le avevo chiesto dov’era. Lei si era aperta leggermente la camicetta e io dall’alto potevo vedere la zampa che le pendeva tra i seni, appesa alla solita collana che nel frattempo era diventata un po’ più lunga.
Una notte, mentre erano tutti in preparativi (dovevano incendiare la fossa delle immondizie), non ricordo come, mi ero trovato a uscire dalla casa assieme a lei. Camminavamo silenziosi contro il muro della grande porta a volta e nessuno ci aveva visti o comunque nessuno aveva chiamato. Eravamo andati verso il fiume e per terra c’erano ancora pezzi di pinne e scarti di un gigantesco storione che avevano pescato quel pomeriggio e venduto a tranci su alcuni banchi improvvisati nella piazza. Ci eravamo fermati a guardare l’acqua per moltissimo tempo e siccome era una notte calda lei aveva raccolto da terra una pinna per farsi vento. Da lontano venivano voci e rumori, persino musica, ma non si capiva da dove, forse da qualche piccola spiaggia oltre l’ansa del fiume e le cave di ghiaia. Gli Aztechi non facevano guerra per conquistare nuove terre e nuova potenza, ma soltanto per catturare prigionieri da sacrificare in vetta ai loro teocalli, dopo averli fatti ingrassare entro gabbie in attesa del sacrificio. Strappavano il cuore alle vittime ancora vive e ne precipitavano i corpi insanguinati giù dai teocalli.
Tornando a casa camminavamo attaccati e non era assolutamente possibile parlare. Sulla ghiaia del cortile esterno c’erano pezzi d’ombra di luna triangolari come gli spigoli del tetto delle scuderie. Per aumentare le probabilità di non essere visti (ma forse quella notte nessuno faceva caso a noi) eravamo entrati da una delle due porte esterne delle scuderie. Attraverso una scaletta a pioli di ferro incassata in una lunga tromba quadrata eravamo arrivati fino alla piccionaia deserta e di lì, camminando carponi sul corridoio sopra la porta a volta, nella legnaia e poi ancora giù per un’altra scala a pioli di legno, fino alle gabbie ormai vuote dei conigli. Da uno squarcio aperto nel muro si poteva vedere che la grande fossa delle immondizie era in fiamme e che tutti gli altri erano fermi attorno a essa e che si levavano enormi scintille altissime nella notte e anche sulla faccia di lei ardeva il lontano riverbero del fuoco.
Mi ero coricato per terra, sui mucchi d’erba e di segatura, e contro il muro di fronte vedevo scorrere il fuoco. Intanto pensavo alla zampa di gatto, chissà dove si era inabissata?
Sollevando la sottana con tutte e due le mani e spalancandola contro l’ombra del fuoco, lei me l’aveva mostrata: pendeva da una collanina che le circondava la vita, vicinissima alla vagina le cui parti interne erano uscite in silenzio allo scoperto, nel bagliore che illuminava a giorno tutto il parco.