Aveva aperto gli occhi per un attimo, il tempo di vedere il volto dell’annunciatrice che stava augurando la buonanotte. Ma, prima che la sua immagine sorridente scomparisse dal video, gli era parso di notare qualcosa di nero sotto le sue narici, come se un po’ di sangue le fosse uscito improvvisamente dal naso. Poi la musica di fine programma l’aveva interrotta quando ancora non aveva finito di parlare.
Da quanto tempo era lì davanti? C’era stato un prestigiatore che aveva estratto un coniglio dal cilindro, ma si era visto benissimo che, attaccata alle orecchie, c’era solo la testa mozza dell’animale. Poi una donna si era infilata nella vagina il collo di una grossa bottiglia di bibita e, con un gesto deciso della mano, l’aveva stappata. Un uomo aveva mostrato i mille possibili usi domestici di un attrezzo elettrico che – cambiando alcuni accessori – si poteva trasformare in trapano, sega, lima, saldatore e mille altre cose ancora. Dopo avere illustrato le qualità dell’attrezzo l’uomo aveva dato anche due dimostrazioni pratiche della sua efficacia: aveva segato il braccio di una scimmietta e poi, dopo avere sostituito la sega con un tampone d’acciaio munito di taglienti lamine, ne aveva introdotto la parte terminale nella vagina della partner, aveva premuto un pulsante e, non appena il tampone aveva cominciato a girare vorticosamente, non era stato più possibile avere dubbi sull’efficacia dell’attrezzo.
Quando era avvenuto questo? Non ricordava se era successo durante lo spettacolo del prestigiatore o in un intermezzo pubblicitario o addirittura nella sua immaginazione durante il dormiveglia.
C’era sempre qualcosa che non capiva.
Il giorno prima era nella metropolitana e aspettava l’arrivo del treno. C’erano le gallerie e tutte le persone in attesa ci guardavano dentro. Provava un senso di disagio. La notte prima era rimasto sveglio ore e ore nel letto senza riuscire a darsi pace. Succedeva da un po’ di giorni che le persone in attesa rimanessero assorte in quel modo, o che trovassero un pretesto qualsiasi per osservare di sfuggita i propri vicini, come per cercare di indovinare dalla loro espressione... Che cosa?
Si era saputo di quell’avvenimento. Gente inseguita si era rifugiata nella metropolitana ed era salita su un treno in partenza. Ma anche gli inseguitori erano riusciti all’ultimo momento a saltare sulle vetture spalancando le porte a forza di braccia. Da quel momento fino a mezzanotte il conducente non aveva più aperto, lanciando il treno alla massima velocità. Lo strano convoglio sfrecciava blindato davanti alle stazioni senza mai fermarsi e non era possibile vedere cosa stesse avvenendo dentro. Ma la mattina dopo erano stati trovati alcuni arti umani perfettamente segati all’imbocco delle gallerie e, intervistato da un giornale cittadino, il conducente del treno aveva inspiegabilmente dichiarato: «Se laggiù ci sono delle bestie, avranno fame, no?».
Quella notte lui era rimasto seduto per terra sul terrazzino, nascosto dietro uno schermo di vetro smerigliato e quando nelle case tutte le luci erano ormai spente da tempo aveva visto camminare per le strade una pattuglia, comandata da un uomo che stava a cavalcioni su un animale altissimo del tutto simile a una giraffa. Era seduto su una strana sella, studiata apposta per eliminare la forte pendenza della groppa, e impartiva ordini da lassù con un megafono. Gli altri a terra stringevano in mano dei lanciafiamme e, a un incrocio, forse per provarne il funzionamento, avevano bruciato un cane randagio che stava dormendo accucciato di fronte a una delle porte. Verso le quattro del mattino un altro gruppo di uomini aveva iniziato a fare buchi nel marciapiede con i martelli pneumatici. Alla fine il marciapiede era inutilizzabile e bisognava camminare sulla strada.
Il giorno dopo, tornando a casa, lui aveva visto che dalla fessura di una delle macchinette per timbrare i biglietti della metropolitana usciva una piccola lingua strappata, che gocciolava sangue. E più avanti, appeso allo specchietto retrovisore di un’automobile in sosta, uno strano sacchetto che sembrava uno scroto umano ripulito dei peli. Nell’androne di casa, prima dell’inizio delle scale, alcuni bambini giocavano con una mano dalle unghie smaltate: ne muovevano le articolazioni, l’aprivano e la chiudevano, la facevano ballare in cima a un bastoncino e non sembrava proprio che si trattasse della mano mozzata di una bambola.
Era ancora nella metropolitana in attesa del treno. Adesso gli sembrava così evidente che non capiva come avesse fatto a non rendersene conto prima. Forse perché quei rumori erano talmente impercettibili da venire scambiati con quelli già presenti nella sua memoria: insomma, gli pareva proprio che dal fondo delle gallerie provenisse un leggero verso di grilli e di cicale.
Una notte, nel primo sonno, era stato svegliato da un rombo che faceva tremare i vetri e la casa intera. Si era alzato a guardare da una fessura della finestra e aveva visto tre enormi cabine di camion. Su ciascuna di esse era installato un altissimo braccio metallico, girevole e con un’articolazione nel mezzo, in cima al quale si trovava una piccola piattaforma da cui partiva una specie di zampa metallica, simile a quella delle ruspe. Gli enormi macchinari si fermavano davanti alle case. Intanto dalle cabine manovravano perché le zampe si arrestassero di fronte a ogni finestra, che veniva poi strappata dai cardini in pochi secondi, con un colpo secco, assieme a pezzi di muro.
Nel giro di tre quarti d’ora tutte le finestre che davano sulla strada – anche le sue – erano state strappate.
La mattina dopo, quando era uscito di casa, tutte le finestre erano per terra, in mezzo alle strade, e c’erano anche delle teste conficcate sui semafori e in cima ai paletti delle segnalazioni stradali. Scendendo nella metropolitana gli era parso che i versi fossero cresciuti di intensità. Si guardava attorno, fissava sbalordito le altre persone in attesa, che parevano non sentire assolutamente nulla.
La vigilia di Natale la città era stata attraversata di notte da una piattaforma di ferro con le ringhiere, altissima, montata su un’enorme cabina di camion. Non si riusciva a capire cosa ci fosse sopra, dal basso si poteva solo vedere di scorcio il piano inferiore della piattaforma. Oltre i suoi giganteschi spigoli si avvertiva appena un leggero bagliore come l’emanazione lontana di una luce accecante che doveva esserci là in alto, mentre un suono attutito, simile a un ronzio, faceva pensare che lassù si fossero scatenate musiche assordanti e lontani versi di animali. La folla stava assiepata ai lati delle strade e tutti, inspiegabilmente, tenevano le bocche spalancate, dalle quali però non usciva alcun suono. Arrivata finalmente nella piazza centrale, la cabina si era fermata. Dal suo tetto si era levato un lunghissimo pistone che aveva portato molto più in alto ancora la piattaforma. Da essa intanto volavano giù pezzi di zebra che dovevano avere appena tagliato là in alto con una sega.
Nelle case senza finestre molte famiglie erano ancora riunite a tavola per la cena. Ma alle tre di notte, mentre ormai tutti o quasi erano a dormire, erano passate delle autoblindo munite di cannoncini, che avevano cominciato a sparare enormi vesciche d’acqua dentro i buchi delle finestre. Lui quella notte si era svegliato di soprassalto: il suo letto stava galleggiando nella stanza piena d’acqua. Aveva cercato di tenersi sveglio per un po’, poi si era riaddormentato e quando finalmente era riuscito a svegliarsi di nuovo si era accorto che il letto non c’era più, che era coricato direttamente sul filo dell’acqua, e forse per tutto quel tempo si era tenuto a galla muovendo lentamente le braccia nel sonno, affondando per poi riemergere innumerevoli volte senza mai svegliarsi.
Intanto anche nelle altre case stava succedendo la stessa cosa e qua e là c’erano morti annegati, soprattutto neonati gonfi d’acqua che galleggiavano.
Per le strade, in quei giorni, si cominciava già a vedere gente con voluminosi pacchi in mano, perché le feste erano vicine. Nella metropolitana i versi erano cresciuti ancora. Lui si accostava all’imbocco delle gallerie e ci guardava dentro senza vedere niente. Dal fondo venivano urli interminabili, che si accavallavano e si rilanciavano continuamente in modo assordante. Le sere e le notti successive c’erano state altre ronde, con uomini armati che imbracciavano a mo’ di scudi grandi gusci di testuggine marina. Un giorno lui aveva trovato vicino a casa uno di questi gusci, perso sicuramente o abbandonato nella corsa da qualcuno degli uomini armati. Lo aveva portato di nascosto nella sua stanza. Era talmente grande che quella notte ci aveva dormito dentro e aveva riposato come non gli succedeva da tempo, e quando si girava nel sonno il guscio di testuggine ondeggiava come una culla sul suo dorso convesso.
Il mattino dopo si era svegliato tranquillo, aveva controllato se nel cassetto c’era ancora il becco di gallina. C’era. Lo aveva osservato attentamente, rigirandoselo tra le mani, poi se lo era introdotto nello sfintere anale e ce lo aveva lasciato per un po’ mentre osservava la stanza senza pensare a niente.
Era uscito di casa un paio d’ore dopo. Nei marciapiedi avevano scavato con i martelli pneumatici buche profonde, lunghissime come corridoi, simili a trincee. Molte tubature erano state bucate e fischiavano liberando getti d’acqua altissimi e colonne di gas. Per terra, vicino ai marciapiedi e ai margini delle strade, c’era un numero enorme di pesci morti, a pancia all’aria.
Era entrato in un negozio a comperare un panettone, poi aveva camminato a lungo per le strade gremite di quegli ultimi giorni di festa. Tra le schegge di cranio esposte nei negozi gli pareva di riconoscere espressioni famigliari, pezzi d’occhio segati, o di labbra o di gengive, fegati dalle dimensioni spropositate o dentature digrignanti sotto i riflettori o vassoi d’acciaio pieni di cervelli. Poi ogni brandello finiva nei sacchetti di cellophane, prendeva strade diverse e diversi tram e metropolitane, e a volte qualcuno di essi si sporgeva e poi usciva dai sacchetti troppo pieni, operando minuscoli spostamenti sul filo del pavimento, scivolando tra i piedi della gente prima di venire scoperto e rimesso a posto, schiacciato dentro fino a soffocare, mentre nelle vie del centro le luci arancioni, verdi e rosse dei semafori si accendevano all’interno di facce cave, ripulite, con occhi e bocche appositamente allargate come zucche vuote in certe notti d’estate.
Era sceso nella metropolitana e subito, tra lo stupore e la curiosità dei passanti, aveva dovuto tapparsi le orecchie. Agli urli lancinanti di grilli e cicale pareva essersi unita una miriade di altri suoni. Sentiva gracidii smisurati, come emessi da qualche animale gigantesco che toccava col dorso il soffitto delle gallerie, rumori e odori schifosi e sconosciuti, sospiri fetidi che uscivano dai cunicoli bui, come se là in fondo andassero ammassandosi enormi quantità di immondizie e di feci.
Lei nel frattempo stava affrettandosi lungo una strada di case pericolanti, a una decina di minuti dalla stazione della metropolitana, e intanto pensava: “Chi sono? Non ricordo più chi sono. Sono uscita in fretta e non ricordo neppure se ho estratto per bene tutta la cicoria dalla vagina... Comunque sia, adesso non c’è più tempo, non c’è più tempo. E poi facevo meglio a mettere le altre scarpe, avrei potuto camminare un po’ più in fretta. Ora però devo fermarmi lo stesso perché non riesco più a tenerla...”.
Dopo avere posato a terra con cura la scatola del panettone che reggeva con una mano, era scesa in una delle lunghe trincee scavate nel marciapiede. Aveva dovuto fare un piccolo salto per scendere nella parte più profonda ancora, dove nessuno potesse vederla. Si era accucciata, con le mutande abbassate al ginocchio, aveva orinato e alla fine si era accorta che nella fretta non aveva visto una piccola scimmia morta, distesa per terra, e l’aveva bagnata.
Uscita di nuovo fuori, aveva aumentato il passo, guardata nel passare da centinaia di musi e di occhi esposti nelle vetrine. Finalmente, sul marciapiede della metropolitana, dopo avere constatato di essere in perfetto orario, si era data un po’ di respiro, sedendosi per alcuni minuti su una panchina prima dell’arrivo del treno. Aveva notato che un uomo, seduto a sua volta su una panchina nel marciapiede di fronte al suo, una decina di metri oltre la fossa dei binari, la stava guardando tra le gambe.
A poca distanza, in fila con gli altri, c’era anche lui che aspettava lo stesso treno.
Poi il treno era arrivato, completamente spento, e qualcuno diceva che si trattava di un guasto, altri di una misura di sicurezza per far sì che non venisse avvistato nel buio delle gallerie. Ma non si capiva da chi non doveva venire avvistato.
Erano saliti tutti e due, lei e lui, sul secondo vagone, ma da porte diverse. Intanto, nel buio lui pensava: “Che secolo orrendo è questo nostro Novecento!”. Era rimasto immobile per un po’, poi aveva iniziato ad attraversare la vettura tra la gente ammassata. Molti tenevano bene in alto con la mano pacchi voluminosi, perché non si sfondassero nella calca. A metà della vettura aveva fatto una sosta. Dietro di lui due persone stavano parlando tra loro sottovoce e una stava bisbigliando all’altra: «Sveglia con lancette e cassa di metallo, quadrante in plastica, buco nel quadrante fatto a caldo, con un chiodo. Quando la lancetta lo tocca si chiude il circuito e scoppia».
Poco alla volta, lui era riuscito a raggiungere il lato opposto del vagone e si era aggrappato al corrimano. Aveva lasciato passare così alcuni istanti, poi, con estrema precauzione, aveva infilato una mano in tasca, tirando fuori il becco di gallina. Era rimasto immobile. Le porte del vagone si erano aperte per alcuni istanti a una stazione, lasciando entrare un po’ di luce. Poi il convoglio si era rituffato nella galleria buia. C’era un certo trambusto vicino a lui. Aveva l’impressione che qualcuno o qualcosa, muovendosi a fatica tra la gente, gli si stesse avvicinando. Un attimo dopo una mano, insinuandosi tra le sue dita, aveva afferrato nel buio il becco di gallina, sfilandoglielo dal pugno. Lui aveva girato la testa, ma attorno era tutto nero e non vedeva niente. D’un tratto qualcosa di lieve gli aveva sfiorato la guancia nel buio e più che una mano sembrava una zampa morbida di gatto. Lui aveva chiuso gli occhi e gli era venuto da piangere pensando che non avrebbe mai più provato niente di simile per l’eternità, mentre il treno correva nelle gallerie buie gremite di invisibili bestie urlanti.
Aveva lasciato passare così alcuni lunghissimi minuti, poi si era girato leggermente, e allora la mano sconosciuta aveva scambiato la scatola del panettone che lui reggeva con un’altra scatola identica, ma un po’ più pesante.
Alla fermata successiva era sceso dalla vettura. Fuori dalla metropolitana tutte le case erano scoperchiate e l’intrico delle vie era gremito di luci, scimmie morte, occhi e zucche vuote. Aveva controllato la nuova scatola del panettone. L’aveva sollevata e se l’era accostata per un istante all’orecchio, ascoltando il regolare ticchettio che proveniva dall’interno...
Poi era uscito dalla pagina