All’inizio credevo che, dentro la pisside, le ostie fossero immerse in qualcosa di liquido e che, per un prodigioso fenomeno di impermeabilità, apparissero asciutte quando venivano sollevate e introdotte nelle bocche. Erano stati i gesti della mano del sacerdote a suggerirmi questa idea: quel movimento del pollice e dell’indice al momento di cercare la particola nella pisside, il mignolo e l’anulare sollevati, quell’ondeggiamento come per sgocciolare, la patena dorata che il chierichetto reggeva sotto la bocca spalancata di chi riceveva l’ostia, perché non si sbrodolasse. Io, a dire la verità, la bocca non la tenevo spalancata come gli altri e avevo sempre paura che il sacerdote non riuscisse a introdurci la particola, o che questa battesse contro i denti o contro le labbra, spezzandosi o cadendo per terra se il chierichetto non fosse stato abbastanza svelto a prenderla al volo con la patena. Tanto più che avevo una naturale difficoltà ad aprire bene la bocca, che oltretutto era piccola e offriva alla particola solo un minuscolo foro.
C’era poi il fatto che il sacerdote, dopo la consacrazione, per un po’ di tempo non staccava i pollici e gli indici che avevano appena toccato la grande ostia. Perché non li staccava?
Studiavo l’espressione del sacerdote mentre si comunicava da sé con la grande ostia spezzata: insaccava la testa nelle spalle, la faccia gli si gonfiava e la bocca chiusa iniziava un moto pulsante, come un segnale osceno, un movimento di labbra che ricordava la suzione, con le guance incavate, a muso. Come faceva a non toccare coi denti un’ostia tanto grande?
Adesso invece sapevo che nella pisside non c’erano liquidi di alcun genere, che le particole erano ammassate assolutamente all’asciutto e che il sacerdote faceva quel movimento col pollice e l’indice solo per separare ogni ostia dalle altre. Qualcuno mi aveva anche detto che nella dispensa delle suore c’erano centinaia e centinaia di particole, conservate a fogli, e che venivano staccate con una semplice pressione dei pollici come certe figure tratteggiate o punteggiate sulla carta. In dispensa c’erano anche le grandi ostie del sacerdote, al centro delle quali era impresso un disegno complicato e in rilievo.
Mi trovavo bene in quel silenzio assoluto, istituzionalizzato, e non capivo come alcuni dovessero a tutti i costi scambiarsi qualche parola di nascosto salendo nei dormitori o si sedessero vicini per comunicare in altro modo, con gesti o con occhiate.
Raggiunsi l’ala più lontana dell’istituto, quella dei corrigendi. Non ero mai stato in quel posto, non me lo immaginavo tanto grande. Gli ospiti passeggiavano ognuno per conto proprio lungo i dormitori e i corridoi. Erano molto numerosi, eppure non si scontravano mai.
Cominciai a passeggiare anch’io per quegli stanzoni lunghi, collegati tra loro, ma spesso dovevo cambiare direzione all’ultimo momento per non sbattere contro qualcuno degli ospiti, i quali invece fin dall’inizio dovevano avere calcolato con precisione tutte le diagonali e i percorsi e gli angoli e le orbite di quel loro perpetuo camminare, perché non si scontravano mai.
Sentii suonare la campanella. Passati alcuni minuti mi diressi verso il refettorio. Quando entrai vidi che tutti erano in piedi attorno alla tavola. Stavano già pregando. Com’era possibile?
Andai a sedermi al mio posto e cominciai a mangiare. Nel silenzio generale una voce stava leggendo:
Salvami, o Jahve!
Non c’è più uomo pio,
scompare la fedeltà
tra i figli degli uomini.
Ognuno dice menzogne
al proprio vicino,
ovunque labbra bugiarde
e linguaggio da doppiezza di cuore.
Jahve recida ogni labbro
che blandisce a inganno
e la lingua che parla con arroganza,
quelli che dicono: “Con la nostra lingua
ci faremo forti!
Noi abbiamo le nostre labbra,
chi può essere nostro padrone?”.
Era iniziato il secondo giorno di silenzio. Inginocchiato al mio posto, osservavo certe piccole pieghe delle tovaglie sull’altare, certe asimmetrie dei fiori nei lunghissimi vasi.
Mi accostai al banco della comunione, ricevetti l’ostia e tornai al mio posto. Quel giorno l’ostia aveva un sapore gradevole. Succedeva, a volte, quando i fogli delle particole venivano cotti un attimo di troppo. Allora, a digiuno, l’ostia lasciava in bocca un piacevole sapore di bruciato e io, per conservarlo a lungo dentro di me, con la lingua spingevo la particola contro il palato, la inumidivo con la saliva quanto bastava per tenercela attaccata e lasciavo che si sciogliesse da sola piano piano. A volte riuscivo a farla durare anche mezz’ora, riducendo al minimo la salivazione. Facevo in tempo persino a uscire dalla chiesa alla fine della messa, e ancora sentivo i suoi ultimi residui – una specie di rugosità quasi impercettibile sul punto più alto della volta del palato – mentre camminavo verso il refettorio dove il primo sorso di latte bollente l’avrebbe staccata di colpo facendola precipitare giù nell’esofago come una bava sottile.
Il sacerdote aveva richiuso il tabernacolo. Si era sentito il rumore della chiave che girava con decisione nella serratura. Per tutto il tempo che rimaneva aperto era possibile intravedere al suo interno un paio di pissidi lucide con qualcosa di bianco posato sopra, un panno leggero, inamidato, che a volte la copriva interamente come un indumento intimo.
Quel giorno non celebrava la messa il solito sacerdote, ma un vecchio prete che raramente si vedeva. Di lui dicevano che non si lavava mai, che era smemorato a causa dell’età e in effetti, nel bel mezzo di una conversazione, capitava che pronunciasse frasi che nulla avevano a che vedere con l’argomento, forse resti di precedenti dialoghi, frammenti di libri letti in lontani periodi della sua vita e improvvisamente riemersi nella sua memoria. Anche durante le funzioni borbottava a volte parole incomprensibili.
La messa era quasi finita. Io sentivo ancora il sapore della sottilissima particola incollata alla volta del palato. Con un movimento all’indietro della lingua avrei potuto staccarla e poi deglutirla, facendola incidentalmente scivolare per un attimo contro la barriera interna dei denti. Ma riuscii a resistere alla tentazione e la particola rimase dov’era.
Alla fine, invece di pronunciare l’ite missa est, il vecchio prete si voltò, allargò le braccia e cominciò a borbottare: «Ma nell’istante in cui il criterio dell’autenticità nella produzione dell’arte viene meno, si trasforma anche l’intera funzione dell’arte. Al posto della sua fondazione sul rituale si instaura la fondazione su un’altra prassi: vale a dire il suo fondarsi sulla politica».
Il prete si girò di nuovo verso l’altare e tutti uscirono dalla chiesa. Ognuno cominciò a cercarsi un posto per una breve meditazione. Io mi incamminai verso l’ala dei corrigendi e, ancora per un po’ mentre camminavo lungo quei corridoi e gli ampi dormitori, sentii il leggero sapore di bruciato della particola non interamente sciolta.
O Jahve,
libera l’anima mia
dal labbro bugiardo,
dalla lingua ingannatrice!
Che male dovrei augurarti,
o lingua ingannatrice?
Frecce affilatissime di un prode
e tizzoni di ginestre!
O me infelice,
straniero in Meshec,
pellegrino fra le tende di Qedar!
La voce continuava a leggere, in attesa del cenno del sacerdote che stabiliva la fine della lettura. Solo allora si sarebbe potuto parlare.
Io avevo appena cominciato a mangiare la minestra. Dentro di me speravo che quel cenno del sacerdote non arrivasse mai, che la voce continuasse a leggere all’infinito. Però il suo esagerato trasporto, quel suo modo di sillabare le parole, mi impensierivano. Temevo che potessero spingere il sacerdote a interrompere la lettura prima del tempo.
Ingoiavo lentamente la minestra. Alla mia destra sedeva quello che aveva appena terminato di servire in tavola. Stava mangiando nel suo modo consueto, mettendo cioè il cibo tutto assieme nello stesso piatto. Quel giorno aveva buttato nella minestra: quattro fette di salame, una manciata di verze crude, un pezzo di surrogato di cioccolato, due panini spezzati, mezzo bicchiere di vino e mezzo d’acqua. Mangiava velocemente, senza guardare.
D’un tratto si sentì bussare due volte alla giostra portavivande. Il mio vicino si alzò immediatamente, si accostò. Quando tornò verso le tavolate teneva in mano un grande piatto pieno di fette di torta. Era per festeggiare la fine degli esercizi spirituali. Il mio vicino posò una fetta di torta di fronte a ciascuno, poi si sedette di nuovo, sbriciolò la sua fetta, fece cadere anche quella nel piatto e riprese a mangiare senza alzare la testa.
Io non riuscivo a impedirmi di guardarlo con la coda dell’occhio. Mi piegai verso destra passando davanti al suo corpo e allungai una mano per prendere il sale. Nel compiere il gesto urtai incidentalmente, di striscio, contro quel piatto stracolmo, che cadde a terra frantumandosi. Il contenuto si rovesciò sul pavimento: sembrava una montagnola semiliquida che si allargava piano piano, smottando, come se fosse viva.
Due giorni dopo la fine degli esercizi spirituali non avevo ancora ricominciato a parlare. Non che non avessi pronunciato una sola parola: a volte, per non attirare maggiormente l’attenzione, avevo dovuto fare qualche cenno, mormorare qualcosa che agli altri potesse sembrare un breve discorso, tentare sortite con qualche monosillabo per spezzare l’assedio. Ma le parole vere e proprie non riuscivano a salire, non c’erano, non sapevo dove andarle a cercare, come prenderle. Se possedevo le due coppie di corde vocali e se i suoni erano prodotti da queste, che entravano in vibrazione urtate dall’aria espirata dai polmoni, come mai a me i suoni non uscivano, o uscivano a tratti, con un timbro incontrollabile e imprevisto? E poi quelle corde vocali in realtà non erano “corde” ma ripiegature della mucosa disposte a coppie allo stesso livello: due inferiori, le corde vocali vere, provviste all’interno di un muscoletto che permetteva loro di avvicinarsi o di allontanarsi come labbra, e due superiori, le corde vocali false. L’effetto che facevano, nell’insieme, era quello di una cavità pulsante. Dovevano essere abbastanza simili a una vagina, a una doppia vagina o a un’unica vagina scomposta. Sopra c’era l’epiglottide che, nell’atto della deglutizione, si abbassava come un coperchio sulla glottide, impedendo al cibo di penetrare nella trachea.
Forse nel mio caso, per un comportamento incontrollabile dell’epiglottide, il cibo penetrava nella trachea e di lì, attraverso i bronchi, nei polmoni, mentre l’aria scendeva invece nell’esofago e poi nello stomaco e nell’intestino. In questo caso, quelle ripiegature della mucosa chiamate corde vocali, investite da brandelli di cibo invece che dall’aria, non potevano che produrre quell’enorme difficoltà di pronunciare parole. Le parole, le possibili o potenziali parole, erano altrove, nello stomaco, naturalmente attratte dai processi della digestione verso il colon, l’intestino tenue, il retto.
Il mattino dopo, in chiesa, non riuscivo a seguire la messa, perdevo continuamente il filo, il mio messalino era sempre due pagine più indietro. L’altare era ricoperto delle migliori tovaglie, quelle dei giorni di festa, e anche la pianeta che indossava il sacerdote era nuova e abbagliante, dura come un foglio di lamiera, e quasi non si piegava nei movimenti.
Sentii friggere i grani dell’incenso fatti cadere dal cucchiaio sopra le tre carbonelle roventi nel turibolo. Durante la comunione mi accorsi che anche la pisside era più lucida del solito. Ricevetti l’ostia e tornai al mio posto. La particola mi pareva quel giorno più spessa del solito e nello stesso tempo più cruda. La tenevo sulla lingua, senza decidermi a spingerla in alto per incollarla al palato. Se le mie supposizioni circa il funzionamento incontrollato dell’epiglottide erano esatte, allora anche l’ostia, prima di scendere nella trachea e nei bronchi, doveva passare necessariamente su quelle ripiegature chiamate corde vocali.
Mossi la lingua e sentii che l’ostia era passata vicinissima ai denti, una distanza minima, praticamente nulla: forse li aveva addirittura sfiorati, oppure la sensazione che avevo provato era data dal pressarsi dell’aria fatta più solida, schiacciata tra due corpi ormai collocati a una vicinanza estrema.
Il giorno successivo non uscii dal mio banco per fare la comunione. Man mano che mi passavano davanti per ritornare ai propri posti, gli altri mi guardavano attentamente. Avevano le guance un po’ gonfie, come sempre dopo avere ricevuto la particola, e muovevano ostentatamente la bocca per stimolare la salivazione.
Nel tardo pomeriggio, poco prima di cena, entrai in chiesa. A quell’ora di solito confessava un sacerdote esterno proveniente da un altro istituto.
Mi inginocchiai al confessionale e subito, da alcuni versi inspiegabili che venivano dall’interno, capii che là dentro non c’era il solito sacerdote.
Restai paralizzato e per un minuto intero, per quanti sforzi facessi, non riuscii ad aprire bocca.
«Avanti! Comincia la tua confessione!» suggerì dall’interno del confessionale una voce che non mi parve sconosciuta.
Accostai il viso ai piccoli fori, cercando di vedere dentro, ma colsi solo un movimento nel buio, il rumore di un respiro. Chi c’era là dentro?
«Non avere paura. Confessati!» mi incoraggiò ancora la voce dall’interno.
Allora sentii che molte parole mi erano salite improvvisamente alla gola. Stavano tutte ferme in un solo punto e mi pareva di soffocare.
Cominciai con fatica: «Prima di parlare sento l’urto del vomito... Non riesco a pronunciare le parole. Certe volte me le dimentico, mi causano veramente tutti i sintomi del vomito, mi danno le vertigini... Le parole mi fanno venire le lacrime agli occhi».
Mi interruppi, perché avevo avvertito un brusco rumore dentro il confessionale.
Poi sentii di nuovo la voce che veniva dall’interno, questa volta completamente alterata: «Il cibo, introdotto nella bocca, viene sottoposto a un primo importante processo meccanico: la masticazione. Il mascellare inferiore, con i suoi caratteristici movimenti di abbassamento, di sollevamento e laterali, schiaccia il cibo contro i denti, che lo tagliano (incisivi), lo triturano e maciullano (premolari e molari). Concorrono alla masticazione le guance e soprattutto la lingua che spinge di continuo il cibo sotto le arcate dentarie».
Rimasi impietrito, sapendo per di più che, se io non potevo vedere all’interno del confessionale, chi stava dentro, il vecchio prete che soffriva di smemoratezza, ormai ne ero certo, poteva vedere me accostando nel buio l’occhio a uno dei piccoli fori.
«Avanti!» gridò la voce da dentro.
«Certe volte penso che le parole siano il diavolo...» ripresi. «Perché mi devo sentire la carne trita contro le corde vocali? Le parole... fanno cadere tutti i denti!»
Il prete era balzato fuori dal confessionale. In mezzo alla chiesa, tra le due file di banchi, gridava senza più controllarsi: «Dinamite! Di ogni sostanza buona, questa è la migliore! Riempi con diverse libbre di questa materia divina un tubo di un pollice, tampona le due estremità, inserisci una cartuccia collegata a una miccia...».
Io fissavo la porta. Ero sicuro che, prima o poi, attirati da quel gran gridare, sarebbero arrivati di corsa tutti gli altri.