Ero stato il primo a entrare nella sala delle riunioni.
“Com’è cominciato tutto questo?” mi chiedevo, aspettando l’arrivo degli altri.
Non ricordavo bene, probabilmente in un laboratorio di analisi.
Anche allora era mattina, ed ero a digiuno. Avevo svuotato da poco l’intestino e, percorrendo il lungo corridoio che saliva e scendeva, provavo una leggera vertigine. Allo sportello dell’accettazione avevo mostrato all’infermiera la lista delle analisi che dovevo fare. Ero stato mandato in due diversi ambulatori. In uno di questi mi avevano ordinato di sputare dentro un barattolo. Lo avevo fatto con difficoltà, cercando di non espellere troppo lentamente lo sputo, per non dovere poi staccare la saliva dalle labbra. Ma neppure troppo forte, perché non apparisse come un insulto. Lo sputo, forse troppo piccolo, era stato chiuso nel barattolo con un coperchio ed etichettato con il mio nome.
Nel secondo ambulatorio mi avevano prelevato il sangue. Anche dopo avermi stretto al braccio il laccio emostatico avevano faticato a trovare il punto adatto, perché le mie vene non sono in superficie. Erano riusciti alla fine a spingere l’ago in una bolla azzurra apparsa dopo un po’ e io mi ero stupito nel vedere che il sangue affluiva realmente nella siringa, tanto abbondante da poter essere dirottato in diverse fiale, su ciascuna delle quali veniva applicata un’etichetta autoadesiva con tanto di nome.
Ero tornato in accettazione. L’infermiera mi aveva consegnato una bottiglietta perché ci raccogliessi l’orina e allora ero andato a chiudermi in uno dei gabinetti. Appena dentro, mi ero accorto che il buco del water era otturato da una gran quantità di vetri rotti, fiale e altri recipienti che qualcuno aveva fracassato là dentro.
Avevo cominciato a orinare nella bottiglietta poi, vedendo che era quasi colma, avevo dirottato gli ultimi spruzzi sui vetri rotti ammassati nel buco. Non la finiva più di uscire, quel giorno. Nella mia mano la piccola bottiglia era molto calda. Non sapevo come fare a consegnarla all’infermiera dell’accettazione. “Forse, se aspetto un po’, si raffredda...” mi ero detto. Avevo lasciato passare una decina di minuti, ma la bottiglietta non si raffreddava, manteneva sempre la stessa temperatura, come se al suo interno qualcosa emanasse un calore inestinguibile. “Forse” mi ero detto ancora “non dovrei tenerla sempre con la stessa mano, perché così non riesco a capire se la temperatura rimane sempre uguale o se diminuisce.” Mi ero passato la bottiglietta nell’altra mano, ma nel passaggio mi era sembrato di toccare qualcosa di rovente. “È perché vengo da fuori e ho le mani gelate...” avevo pensato. “Invece le mani dell’infermiera, stando in quella gabbia di vetro riscaldata, devono essere molto più calde delle mie e allora forse la loro temperatura si avvicina a quella della bottiglietta e non avvertiranno un contrasto così impressionante. Meglio ancora se la temperatura è la stessa. Ma è difficile. Speriamo...”
Avevo deciso di aspettare altri cinque minuti. Ma un po’ alla volta mi era venuto un sospetto: “E se fossero le mie stesse mani a impedire che l’orina si raffreddi?”. Così avevo posato la bottiglietta su una mensola per poi riprenderla in mano dopo un po’. Ma, toccandola di nuovo, mi era parsa talmente calda che avevo provato l’impulso di gettarla a terra con spavento.
Finalmente, non potendo più tenere occupato il gabinetto, ero uscito con la bottiglietta, l’avevo consegnata all’infermiera che l’aveva etichettata col mio nome e poi, invece di riporla in fretta, l’aveva tenuta a lungo stretta nella mano mentre parlava con me come se niente fosse. A un certo punto se l’era addirittura posata contro una guancia, come per scaldarsi.
Prima di andarmene, l’infermiera mi aveva consegnato un barattolo di plastica col coperchio, perché ci raccogliessi un frammento delle mie feci.
“Me lo riporti domani!” aveva detto tracciando con la biro una riga a due centimetri circa dalla base del recipiente, per indicare la quantità che ne occorreva.
A casa avevo faticato molto per riuscire a far cadere un frammento di feci proporzionato nel barattolo. Dopo vari tentativi falliti ero riuscito a defecare in un recipiente di plastica. Mentalmente avevo valutato quale parte sarebbe stata più adatta: c’erano pezzi troppo induriti e altri che invece si sarebbero staccati troppo facilmente dal cucchiaio, col pericolo di sporcare i bordi del barattolo. Inoltre, dopo avere trasferito la porzione prescelta nel recipiente, mi ero accorto che era orribile a vedersi. Sembrava carne trita. Con mille precauzioni ero riuscito a buttarla via. Avevo individuato un’altra porzione e l’avevo trasferita nel barattolo. Ma l’impressione finale era di nuovo orribile: non solo somigliava ancora a carne trita ma, essendo molto indurita, bastava muovere leggermente il barattolo perché emettesse dei piccoli suoni scontrandosi e rotolando sul fondo di plastica.
Avevo avvolto il barattolo in vari strati di carta di giornale, sigillandolo infine con del nastro adesivo, con la speranza che in questo modo non venisse aperto all’atto della consegna.
La mattina successiva, invece, non solo l’infermiera aveva lacerato la carta con decisione ma aveva persino guardato di fronte a me il contenuto del barattolo e, prima di etichettarlo con il mio nome, lo aveva addirittura scosso due o tre volte facendogli emettere dei suoni.
«Ripassi fra una settimana per i risultati!» mi aveva detto consegnandomi un foglio.
La settimana dopo, appena entrato, mi ero reso conto che la situazione era cambiata. C’era animazione nelle varie stanze, persino nei corridoi, e gente seduta sui gradini delle scale a parlare. Non sembrava neppure lo stesso posto visto la settimana prima. Avevo girato nelle stanze a pianterreno, per vedere se trovavo l’infermiera. In una delle sale era in corso un’assemblea. Ero salito al primo piano. Stavo per salire al secondo, quando mi ero sentito afferrare per un braccio. Era l’infermiera.
«Che confusione, oggi!» aveva detto accaldata, sorridendo.
E, prima di consegnarmi le analisi, mi aveva detto: «Ti interessa venire alle nostre riunioni?».
«Alle vostre riunioni?» mi ero stupito. «Perché: che riunioni sono? Che posto è questo? Voi chi siete?»
Stava per iniziare la riunione. L’uomo incaricato di registrare la relazione introduttiva entrò nella stanza. Teneva in mano un registratore su cui erano ammucchiati alcuni vecchi nastri. Era arrivato in ritardo, quella mattina, e non aveva ancora scelto il nastro su cui registrare la riunione, cancellando la registrazione precedente. Inserì il primo nastro, lo fece srotolare per un po’ a grande velocità. Nel silenzio si sentivano i piccoli stridori, interrotti e rilanciati continuamente, delle parole che fuggivano all’incontrario verso chissà dove.
L’incaricato delle registrazioni premette il tasto dell’ascolto e allora quella voce fulminea rallentò al massimo, improvvisamente: “Ptialina, enzima del gruppo delle amilasi presente nella saliva e responsabile dell’azione digestiva della stessa”.
L’incaricato della registrazione tolse il nastro e ne inserì un altro: “La penna mi cade dalla mano. È necessario che io soffra. Addio, carnefici, è necessario che io vi maledica”.
Il relatore, innervosito per il ritardo, cominciò ad agitarsi sulla sedia, facendo intendere che voleva iniziare al più presto. Il responsabile della registrazione guardava con una certa ostilità il registratore. Non sapendo decidersi, inserì un terzo nastro: “.......................................... ti perdo / senza un diletto, inutilmente, in questo / soggiorno disumano, intra gli affanni, / o dell’arida vita unico fiore”.
Il responsabile della registrazione ora fissava il registratore con grande sospetto, mentre la voce continuava a recitare, col dito pronto sul nastro dell’arresto. Il relatore, spazientito al massimo per il ritardo, fece un gesto brusco con la mano, come per dire: “Va bene, facciamola finita, cancella pure questo!”. E iniziò senza indugio la sua relazione.
Mi appoggiai allo schienale della sedia, scivolando un po’ giù come gli altri. Guardavo il relatore e anche uno seduto di fronte, che aveva parte della faccia ustionata. Quest’ultimo dovevo guardarlo più raramente e con mille precauzioni. Il relatore, invece, proprio perché stava parlando, potevo fissarlo quanto volevo senza che ciò potesse venire interpretato come ostilità. Per poter guardare un solo attimo e come distrattamente il volto dell’ustionato dovevo invece, prima e dopo, fissare a lungo e con simulato interesse una serie di piccoli oggetti insignificanti, di particolari minimi che, investiti con tale insistenza dal mio sguardo, calamitavano dopo un po’ anche gli sguardi degli altri. A questo scopo mi ero costruito una rete di punti fissi, formata da una mano che tamburellava sul piano del tavolo, una crepa del muro, una macchia d’inchiostro su un foglio e un orecchio femminile. Poi potevo guardare finalmente l’ustionato...
Del relatore, invece, fissavo in modo particolare la lingua, più precisamente la sua piccola punta grigia che a volte sporgeva un po’ dalle labbra. Chissà perché quell’uomo stava tanto attento a non allargare eccessivamente le labbra e a non agitare troppo la lingua nella bocca spalancata? Cercava forse di nascondere qualcosa? La lingua stessa, forse... Forse la sua non era una lingua come tutte le altre, forse era un’altra cosa. In questo caso, se si fosse lasciato prendere dalla foga e avesse perso il controllo di sé, nella frenesia di parlare quella strana lingua avrebbe cominciato a gonfiarsi e ad allungarsi verso l’esterno e tutti avrebbero potuto vedere... una certa enorme cosa simile a una lumaca col guscio, tirata fuori con sensazioni di vomito dalla cavità della gola che, sollecitata così a lungo da tante e tanto grandi parole, si sarebbe allargata orribilmente e sempre più, dilatandosi a dismisura come per un parto.
La relazione fu molto lunga, ma non tolse completamente il tempo agli interventi. Mentre questi si susseguivano, io immaginavo che ogni seggiola fosse collocata sopra uno stantuffo, all’interno di un mastodontico macchinario in grado di calcolare l’intreccio dei più nascosti umori, i rapporti che intercorrevano tra gli occhi di tutti e ogni minima variazione nei lineamenti del relatore, le reazioni a catena, gli accumuli sotterranei di ostilità, le impercettibili interruzioni di giudizio. Così sarebbe stato possibile visualizzare immediatamente le valutazioni di ciascun intervento: alcune sedie sarebbero rimaste immobili o addirittura sarebbero sprofondate lentamente facendo schizzare via frammenti di mattonelle spaccate, mentre altre si sarebbero sollevate sempre più verso l’alto liberando in tutta la sua estensione il lucido stantuffo, trascinando in alcuni casi l’oratore, per una troppo improvvisa accelerazione dei consensi, a fracassarsi il cranio contro il soffitto, o a emergere con la testa nella stanza del piano di sopra attraverso il pavimento squarciato, oppure, nell’impossibilità di sfondare il soffitto e sotto gli impulsi incalzanti dei consensi, a far sobbalzare per le spinte della scatola cranica martellante contro il soffitto l’intero edificio come per sradicarlo dalle fondamenta.
Entrai nell’agenzia fotografica. Era un ambiente enorme, come un hangar, con le pareti interamente nascoste da cassettiere di metallo. Tutte le fotografie erano contenute in cassetti etichettati, divise per argomenti disposti in ordine alfabetico.
Un uomo grande e tarchiato mi si avvicinò. Era calvo, aveva un occhio morto e una cicatrice molto evidente che, partendo dalla fronte, gli spaccava in due un sopracciglio prima di attraversare l’intera guancia.
«Cosa le serve?» domandò l’uomo.
«L’immagine di una strage.»
«Per quale giornale?»
Glielo dissi.
«Va bene,» rispose l’uomo «le trovo io quello che fa per lei.»
E dopo avermi fatto accomodare a una scrivania si diresse verso un corridoio.
Mi guardai attorno. L’immenso stanzone nel quale mi trovavo era deserto, regnava un silenzio assoluto. Prima di arrivare lì, mi ero immaginato che un’agenzia fotografica fosse un luogo pieno di animazione e di disordine, di ritagli fotografici disseminati ovunque, di gente intenta a contrattare, di fotografi continuamente in arrivo con pacchi di fotografie appena sviluppate e ancora un po’ umide. Il posto in cui mi trovavo era invece l’opposto di tutto questo. Così mi veniva da domandarmi chi potesse avere organizzato quell’imponente lavoro, riempito e aggiornato continuamente quella sterminata successione di cassettiere che arrivava fino al soffitto. E, dato che non vedevo fotografi, come facevano le immagini ad affluire continuamente all’agenzia? Forse, pensavo, arrivavano per posta, chiuse in piccole buste che venivano ritirate dall’unica persona che pareva occuparsi direttamente dell’aggiornamento degli schedari, già suddivise per argomenti e quindi più facili da collocare al posto giusto durante un’unica ampia ispezione lungo i corridoi e nell’immenso stanzone. E com’era possibile rinnovare continuamente le fotografie senza che avvenisse una parallela e periodica operazione di scarto? Chi eseguiva questa operazione? Con quale criterio? Quali fotografie venivano scartate? E perché? Dove andavano a finire? Cosa restava di loro? E, mentre avveniva tutto questo, dov’era finito il fotografo, dov’era finito l’oggetto fotografato?
L’uomo tornò dopo un po’ con una grossa busta su cui c’era scritto: TERRORISMO.
«Guardi queste, intanto!» mi disse. «Vado a cercarne altre.»
Aprii la busta, cominciai a esaminare le fotografie. Non dovevano essere state catalogate con cura secondo l’argomento, dato che in mezzo ce n’era una che raffigurava il particolare di una piccola testa di neonato avvicinata da una mano di donna a un’enorme mammella turgida per l’allattamento.
«E questa cosa c’entra qui in mezzo?» chiesi all’uomo, mentre mi passava vicino alla ricerca di altre raccolte fotografiche.
«Non lo so. I clienti frugano nelle buste e poi non sempre hanno la pazienza di rimettere tutte le foto al posto giusto.»
Trovai una sola immagine di strage, ma poco efficace. Doveva essere stata scattata molto tempo dopo l’esplosione e non si vedevano i cadaveri. Anche il grande buco provocato dallo scoppio della bomba non era inquadrato del tutto. La tenni comunque da parte.
L’uomo tornò con un’altra grossa busta. Guardò la fotografia che avevo messo da parte e scosse due o tre volte la testa.
«Ce ne sono di meglio! Se ha un po’ di tempo gliele trovo. Qui non si vedono neanche i morti. Intanto guardi queste...»
L’uomo scomparve del tutto. A me pareva che in quell’immenso stanzone avvolto da ogni parte da un numero incalcolabile di immagini nascoste nelle cassettiere il silenzio fosse diverso che altrove, insostenibile. Cominciai a guardare le fotografie della seconda busta. Si trattava di una raccolta molto ampia, che partiva dall’immagine del ritrovamento della fossa della morte di Ur, precedente il 2500 a.C.
Di quel nuovo pacco ne scelsi una. Sembrava abbastanza efficace: era un’immagine presa dall’alto, la stessa di prima, ma in questa il buco provocato dall’esplosione era perfettamente inquadrato al centro e si vedevano anche alcuni corpi, calcinacci e detriti.
L’uomo ritornò con una terza busta. Guardò la nuova fotografia che avevo messo da parte: «Uhm... ce n’è di meglio ancora. Qui non si vede il sangue. Guardi queste!».
Aprii la terza busta. L’uomo stavolta si era fermato lì vicino a guardare, sicuro che quella terza ricerca avrebbe dato esito positivo.
La fotografia della strage era tra le prime e mi aggredì improvvisamente. La scelsi subito, senza esitare.
«Prendo questa!»
«Ha visto?» disse l’uomo. «Ci vuole pazienza, non bisogna scoraggiarsi subito!»
Mi avviai verso l’ufficio per pagare la fotografia che avevo scelto.
Mentre uscivo dall’agenzia fotografica, l’uomo mi si accostò. Mi guardava senza parlare, mi si avvicinava sempre più con la sua grossa testa, portandola a pochi centimetri dalla mia e piegandola nello stesso tempo un po’ di lato per offrire una migliore angolazione al suo unico occhio vivo. Ansimava un po’, si sentiva l’odore del suo fiato e io non capivo che cosa volesse.
«Ho anch’io i vostri stessi ideali...» sussurrò infine l’uomo, girandosi un po’ da una parte per essere certo che nessun altro sentisse.
Uscii dall’agenzia fotografica e cominciai a camminare senza una direzione precisa, senza accorgermi che stavo allungando sempre più il passo e attraversando quasi di corsa strade a quattro corsie. Cominciavo ad avvertire forti dolori all’intestino. Accelerai ancora di più l’andatura. Alcuni isolati dopo, il mio passo sostenuto si trasformò in una leggera corsa e la gente cominciava a guardarmi dai bordi delle grandi strade piene di vetrine e di specchi in cui si poteva vedere la propria immagine fuggendo. Mi spostavo di scatto da una parte all’altra per evitare di scontrarmi con i passanti che mi venivano addosso, mentre un sudore gelido cominciava a incollarmi i capelli alla fronte.
Intravidi una sopraelevata in lontananza. C’era uno scalo ferroviario. L’asfalto fresco fumava sui marciapiedi. Cominciai a correre a perdifiato, salii col cuore in gola una rampa di scale e mi ritrovai vicino a una successione senza fine di binari illuminati che formavano grandi anse e poi riprendevano a correre come un fiume di metallo fuso. Arrivai fino a un enorme intrico di scambi, cercai un lembo di terra tenera ai bordi estremi della ferrovia, mi guardai attorno per vedere se qualcuno mi stava osservando da lontano. Poi, con la punta di una scarpa, con le mani e le unghie, cominciai a rimuovere la terra, a scavare e a raspare, e quando vidi ai miei piedi una piccola buca fresca mi abbassai i calzoni rimanendo nudo dalla cintola in giù in quel grande anfiteatro di binari, nell’aria fredda sollevata dal passaggio dei treni. Mi accucciai a defecare. Mi svuotai rapidamente, trasferendo in pochi istanti dentro quella piccola buca l’intero contenuto del mio intestino.
Alla fine mi alzai, spinsi un po’ di terra smossa dentro la buca. Poi mi coricai lì vicino, per terra, in un punto riparato da cui potevo vedere i giochi di luce sui binari e le vorticose ruote metalliche dei grandi convogli internazionali che sfrecciavano senza saperlo a poca distanza dal contenuto della mia piccola buca.