Lui

Aveva seguito per un po’, inconsapevolmente, alcune frecce tracciate col gesso sui marciapiedi da qualche gruppo di distributrici di omaggi pubblicitari, poi un rombo d’aereo, invisibile dietro le nubi, poi ancora una sbavatura di vernice bianca scaturita da un barattolo rovesciato per sbaglio da due operai che stavano dipingendo i segnali stradali sopra l’asfalto, spinta avanti per centinaia di metri dalle ruote delle automobili. Una finestra spalancata di colpo gli aveva fatto cambiare improvvisamente direzione. Era andato avanti così per un po’. Sembrava tutto immobile, niente sfiatava. Si era dovuto arrestare, battendo i denti per una contrazione nervosa. Ma in quello stesso momento un passante l’aveva superato e a lui era parso che la sua schiena l’invitasse a braccarlo. Poco più in là, da uno scarico dell’acqua, dopo un lungo volo all’interno della tubatura, era scaturita una farfallina di pasta, forse spinta dal vento o dal becco o dal muso di qualche piccolo animale nell’imbocco della grondaia là sui tetti. Lui le aveva dato un calcio, iniziando a seguirla. Si inabissava nella città e intanto sentiva che qualche straordinaria avventura stava per cominciare.

Aveva oltrepassato un semaforo, continuando a seguire la farfallina cruda che a volte, rilanciata in avanti dai suoi calci rasoterra, schizzava in direzioni inaspettate, senza rompersi mai. Attraversava la via, si ficcava in strade sempre più strette che lui non conosceva, e più vi si inoltrava e più aveva la sensazione che la sua schiena diventasse fragile, luminosa e trasparente, tanto che da dietro avrebbero potuto vedere i suoi organi interni come in una forma di vetro e, se solo avessero voluto, lanciandogli contro il più piccolo granello di polvere trovato lungo la via, gliel’avrebbero potuta fracassare.

Eppure, pensava, doveva esistere una strada, una strada forse difficilissima da scoprire, o che al contrario si poteva individuare solamente al primo sguardo e senza averne la minima intenzione, una strada o un percorso che permetteva di attraversare in un solo istante la città come sopra un nastro trasportatore, una strada forse composta di più strade, oppure più strade che non sapevano di essere un’unica strada, invisibile sulla carta topografica ma che non era escluso si potesse scoprire in un momento di grande distrazione, all’improvviso e senza sforzo, evidenziata nel groviglio inestricabile di vie come un percorso notturno alla luce dei raggi infrarossi o una segreta pista di atterraggio segnata da fuochi nel fondo di una giungla. Una strada forse segmentata nello spazio e nel tempo, dove si poteva entrare dalla porta di una casa al termine di un vicolo cieco per poi uscire dal retro della stessa attraverso un’altra porticina, dove ci si poteva fermare per lunghi anni in un posto qualsiasi aspettando che altre strade si connettessero, imboccando uscite d’emergenza, fingendo di obbedire alle regole del proprio ciclo vitale, risalendo verso lontane sorgenti per affacciarsi alle loro polle con la testa anche a costo di fracassarsela contro l’acqua che sgorga...

Aveva dato un nuovo calcio alla farfallina, inseguendola. La sua piccola forma svasata, dopo avere colpito lo spigolo di un muro ed essere schizzata di lato per un tratto, si era bloccata infine di fronte a una porticina.

Un istante dopo lui stava camminando all’interno di un gabinetto pubblico dove non era mai stato, lungo un corridoio ai cui lati si susseguivano orinatoi a muro dove vibrava una patina d’acqua corrente. Si muoveva su una vasta pavimentazione di cemento su cui non erano state ancora poste le mattonelle. Ma c’era qualcosa impresso sopra... Guardando meglio, aveva riconosciuto all’improvviso le impronte inconfondibili di un cane, che doveva avere scavalcato i cavalletti messi dai muratori e camminato in quel posto quando il cemento era ancora fresco. Le aveva seguite e, man mano che procedeva, si era accorto che al loro fianco c’erano altre impronte molto più fitte e quasi impercettibili, forse lasciate dalle esili e interminabili zampette di qualche microscopico insetto che doveva avere camminato per un po’ accanto all’altro animale più grande.

Svoltato l’angolo, aveva imboccato un nuovo corridoio ai cui lati si aprivano due file di stanzini. Le orme grandi e quelle microscopiche continuavano a procedere appaiate, inclinando pian piano verso destra, in direzione di uno degli stanzini. Lui aveva continuato a seguirle, finché si era trovato all’improvviso di fronte a quella ragazza...

Era all’interno dello stanzino, adesso, ma esitava a guardare per terra temendo che le impronte, oltrepassata la porta, fossero scomparse. “Eppure non dovrebbe essere successo...” congetturava “le pareti degli stanzini sono prefabbricate: significa che le hanno poste in un secondo tempo sopra un’unica vasta gettata di cemento...” Si denudò per defecare, alzandosi macchinalmente in punta di piedi e allungando al massimo il collo per potersi vedere i genitali nello specchio sopra il lavabo. Ma subito si ritrasse: forse la ragazza passava ogni giorno di fronte agli specchi degli stanzini e ritirava tutte le immagini che vi si erano riflesse, sovrapposte le une alle altre come lastre fotografiche...

Si sedette sulla tazza del water. Chiuse per un istante gli occhi, poi decise che era venuto il momento di guardare: le impronte dei due animali non erano sparite, oltrepassavano la porta e venivano avanti appaiate verso di lui sul pavimento ancora lucido d’acqua, si dirigevano verso il centro dello stanzino ma poi... cessavano di colpo.

“Com’è possibile?” si chiese. “I cani non hanno le ali!”

Continuava a guardare sbalordito.

“E l’insetto? Certo, forse quello è riuscito a volare via. A meno che non sia rimasto imprigionato con le zampette nel cemento che cominciava a solidificarsi. Forse prima di morire ha sbattuto a lungo le sue minuscole ali. E per un attimo nella sua microscopica testa avrà forse pensato di potersene volare via sollevando con sé l’intera gettata di cemento, o addirittura l’intero edificio sradicandolo dalle fondamenta...”

Alzò gli occhi, cominciò a fissare un punto lontano della parete prefabbricata. Un istante dopo si alzò di scatto e, senza neppure ricordarsi di coprirsi, salì con i piedi sulla tazza del water, allungò le braccia verso la parete, distese al massimo le dita per riuscire a toccare... sì, sì, era una minuscola scaglia di vernice color oro.

La staccò con l’unghia, la catturò nel palmo della mano mentre scendeva volteggiando. Restando in equilibrio, sfilò di tasca il portafoglio, lo aprì, ci lasciò cadere la scaglia color oro. Poi scese a terra, sedette di nuovo sulla tazza e rimase a lungo così, mentre dallo scarico saliva un leggero alito d’aria come di una bocca che stesse gridando da lontano.

Com’era finita lassù quella scaglia dorata? E quella parete, forse messa provvisoriamente in attesa dei nuovi stanzini in muratura, da dove veniva quella parete? Forse era stata caricata su un camion e portata fin lì da qualche altro gabinetto pubblico smantellato chissà quando, chissà dove. E quella piccola scaglia di vernice, rimasta nel punto di sutura tra due listelli, inosservata, resistendo a chissà quanti lavaggi e raschiature, faceva forse parte di una superficie dorata molto più vasta (oh, sì, molto più vasta!) che qualcuno doveva avere dipinto chissà quando, chissà dove...