Da quando era stato svegliato nella cabina telefonica, il serpente, fuggito poche ore prima da un rettilario, strisciando sullo stomaco vuoto, aveva ormai percorso molta strada, faticosamente, perché non riusciva ad attutire l’asprezza di certi spigoli di marciapiede che incontrava. Nella cabina, prima di appoggiare la testa su quella comoda forcella, aggrovigliato attorno all’apparecchio telefonico, si era lasciato ciondolare per un po’ vicino al ricevitore staccato e penzolante, aveva ascoltato con stupore la vibrazione sonora che ne scaturiva, regolare, intermittente e remota come il verso di un animale notturno tra il fogliame. Poi si era sentito stringere improvvisamente dalla mano di qualcuno che credeva di avere afferrato la cornetta. Un istante dopo aveva sentito le grida dell’uomo che fuggiva.
Aveva abbandonato la cabina, strisciando per un po’ sotto le automobili in sosta. D’un tratto, sporgendo la testa oltre il gradino del marciapiede, aveva visto di fronte a sé la straripante vetrina di una macelleria. Piccoli animali scuoiati penzolavano in fila dal soffitto e non era il caso di sottilizzare se erano vivi o morti. Il serpente congetturava che, avvitandosi sul bancone e inalberando la testa, con uno scatto fulmineo sarebbe riuscito a addentarli. Era stato sul punto di srotolarsi pezzo dopo pezzo da sotto l’automobile, di attraversare facendo finta di niente il marciapiede, ma la vista della grande mannaia che il macellaio mulinava nell’aria lo aveva dissuaso dal tentare. Stava ancora in quella posizione, con la testa sul gradino del marciapiede e gli occhi incollati alla vetrina quando, sbucando fulmineo da una grata, un gatto era balzato su di lui addentandogli la testa. Aveva sentito uno dei suoi dentini aguzzi penetrare dolorosamente nella gelatina del cervello. Aveva sbattuto più volte la testa, alla quale il gatto stava ancora uncinato con unghie e denti, poi l’aveva ritirata di scatto sotto l’automobile.
Adesso gli pareva che quella bestia non ci fosse più. Aveva infilato la testa in un buco di scarico dell’acqua che si apriva nello zoccolo del marciapiede. C’era fresco e buio là dentro e se faceva sibilare la lingua poteva misurare quanto fosse vasta e risonante quella cavità. “Se solo potessi scomparire per sempre qui dentro...” pensava “lasciarmi cadere dall’alto nell’acqua buia che scorre in silenzio sotto la città!”
Era rimasto a lungo così, affacciato al buco di scarico, mentre il tremendo dolore lentamente si affievoliva.
Più tardi, continuando a strisciare sotto le macchine in sosta, si era trovato tra le grandi ruote di un autobus parcheggiato a uno dei lati della strada. Aveva guardato in alto, tra gli ingranaggi incrostati di fango. Si era annodato in cerca di un posto sicuro là in mezzo, ma quando l’autobus si era rimesso in moto gli era parso che uno degli ingranaggi, girando vorticosamente, gli avesse stracciato le squame in qualche parte lontanissima del corpo. Si era avviluppato meglio attorno a una barra che rimaneva immobile o che forse girava vorticosamente ma che, scivolando sulle squame, non spostava di un millimetro il suo corpo. Il motore rombava sopra di lui, mandava aria calda. Le sue vibrazioni lo intontivano un po’. Nei tragitti più lunghi tra una fermata e l’altra, quando l’autobus prendeva velocità e l’asfalto fuggiva di sotto, mentre le grandi ruote giravano vorticosamente sulla strada e la sbarra metallica ruotava senza incontrare attrito all’interno del suo corpo aggrovigliato, il serpente, immobile, sibilava.
Poi l’autobus si era fermato per non ripartire più. “Sarà arrivato al capolinea” si era detto il serpente, cominciando a srotolarsi e a scivolare via. Adesso la sua fame era davvero incontenibile. Aveva attraversato la strada, arcuando molto le sue spire per fare presa sull’asfalto. Poco più in là si era fermato a bere nella conchiglia di una fontanella. Inalberando la testa, si era incantato a guardare, appena sopra il rubinetto, l’immagine piccola e in rilievo di un serpente nell’atto di inghiottire un neonato. “Sarà lo stemma di questa città...” si era detto. Strisciando per un po’ senza neppure cercare di nascondersi, si era imbattuto poco dopo in un’edicola. “Forse là in alto troverò il modo di procurarmi un po’ di cibo” fantasticava arrampicandosi sul suo tetto.
Era rimasto là sopra molto a lungo. Sporgeva la testa non visto, la lasciava penzolare osservando da vicino le persone che comperavano il giornale, e qualche volta, rasentando con la bocca e la lingua qualcuno dei loro volti, non riusciva a trattenere un sibilo. I suoi occhi erano attratti da un’immagine a colori che spiccava sulla copertina di una rivista: gli pareva di riconoscere della carne viva e del pelo. Aveva accostato la testa ancora di più, lambendola con la lingua. C’era stato un improvviso trambusto all’interno dell’edicola. Il serpente aveva spalancato la bocca, addentando con forza la rivista prima di fuggire. Ma, mentre strisciava giù dal tettuccio dell’edicola mordendo più volte la sua preda, si era reso conto che non era commestibile.
Nella zona in cui si trovava non c’erano macchine sotto cui nascondersi. Così aveva cominciato a strisciare dietro il gradino di un marciapiede e gli pareva che nessuno potesse vederlo. C’era un semaforo incredibilmente rosso al centro della strada. “Finalmente!” si era detto il serpente, e nel suo cervello forato dal dentino del gatto si era mossa un’improvvisa fantasia sanguinaria. Risalendo faticosamente fino in cima, spira dopo spira, inalberato di fronte al globo acceso e rigurgitante del semaforo, aveva scagliato la testa contro il vetro, a occhi spalancati. Un istante dopo stava precipitando a terra per il dolore. C’erano vetri rotti sull’asfalto, segno che forse non era stata la sua testa a fracassarsi. Si era contratto, slanciandosi in avanti aveva raggiunto di nuovo il marciapiede, e mentre attraversava un cancello inutilmente chiuso sentiva dietro di sé il tonfo delle automobili che si stavano scontrando con fragore.
Ora, sepolto nell’erba, strisciava piano piano, invisibile. Voleva raggiungere una grande casa che si indovinava sul fondo. Che fatica! Ecco... arrivato! Ma com’era difficile salire su per quello scalone segmentandosi a ogni gradino, e poi attraversare il portone passando sotto quel busto di gesso immobile in cima a quella ringhiera di finto marmo, e poi avanzare scivolando su quei pavimenti lucidi per la cera, attraverso le gambe ricurve delle sedie e dei tavoli, e poi ancora attraverso quella vasta anticamera illuminata a malapena da un lucernario là in alto, fino a un’ultima camera dalla tappezzeria blu scura dove c’era una donna che gemeva e urlava al centro di un grande letto insanguinato.
Dopo due o tre tentativi falliti, era riuscito a strisciare sulla cornice di una porta a muro, fino in cima. Da là sopra, sporgendosi di tanto in tanto, poteva vedere quanto stava succedendo giù nella stanza. Ma non era facile capire. Stava spuntando qualcosa. Una cosa insanguinata era scaturita di colpo da un grande squarcio pulsante. Poco più sotto, su un lenzuolo bianco, si era riversata nello stesso istante un’incontenibile scarica di feci. Una testa di neonato d’uomo ci era piombata dentro a capofitto. Poi era sgusciato fuori il resto del corpo.
Il serpente fissava con sospetto il brandello di cibo rigettato con furia da quell’altro animale a bocca spalancata. Per guardare meglio aveva lasciato pendere sempre più la testa oltre la cornice della porta a muro, girandola da una parte perché aveva gli occhi ai due lati. Poi c’era stato un grido e la sua lingua, nell’eccitazione, non aveva saputo trattenere un sibilo.
Quando tutti erano finalmente usciti dalla stanza e solo la donna dormiva di schianto nel suo letto, era sceso in silenzio, strisciando lungo la cornice. Aveva inalberato la testa vicino alla testa del neonato, osservandolo un po’ con diffidenza. Per sicurezza, l’aveva lambita con la lingua. Poi, una dopo l’altra, aveva sollevato le sue spire nella culla posta a fianco del grande letto e l’aveva riempita completamente. Si era disteso sul corpo del neonato, avviluppandolo. Intanto, nella sua bocca enormemente dilatata, ripercorrendo lo stesso viaggio all’incontrario, sprofondava già il piccolo cranio lavato e profumato. L’intero corpo del neonato scendeva piano verso lo stomaco del serpente, divincolandosi a ogni contrazione della bestia. Ormai quella fame terribile era placata. Il serpente, ancora disteso in spire sempre più lente nella culla, aveva sentito con dolcezza il piccolo corpo muoversi un’ultima volta dentro di sé.
Poi si era improvvisamente assopito. Non si sentiva più niente. Forse era notte. Doveva scuotersi di dosso la profonda sonnolenza della digestione, lasciare quella comoda culla e fuggire, pensava il serpente. Si era lasciato cadere sul pavimento, pesantemente, aveva ritrovato quello scalone ed era sceso piano, un gradino dopo l’altro, cercando di non rotolare giù nel dormiveglia. Fuori, l’aria umida della notte sulle sue squame l’aveva fatto trasalire. Con un ultimo sforzo aveva percorso ancora un po’ di strada.
Ma non ce la faceva più ad andare avanti.
“Adesso mi fermo” si era detto.
Pochi istanti dopo, disteso di traverso in mezzo alla strada, con il gonfiore dello stomaco sopra le rotaie di un tram, il serpente si era finalmente addormentato.