La ragazza del Bhutan

Immobile sotto le coperte, avvolta nel suo vestito a strisce colorate come in un lenzuolo, la ragazza del Bhutan non riusciva a prendere sonno.

Che cosa stava succedendo intorno a lei? Cosa si stava preparando in quella casa? Chi era di preciso quell’ospite che non se ne andava mai e dormiva in una stanza poco più grande di uno sgabuzzino? Perché non aveva saputo trattenersi dall’accarezzare la testa di quell’invitato che dormiva? E perché, approfittando del fatto che nessuno conosceva la sua lingua, aveva cantato di fronte a tutti quell’orribile canzone oscena sentita un giorno in un mercato di Punakha? Chissà se il vecchio era ancora vivo in qualche punto della città di Dacca? Chissà cosa stava succedendo in quello stesso istante nella grande casa sopra lo strapiombo? E gli occhi azzurri di quella scimmia delle nevi... Quando guardava oltre la valle profonda come un abisso, e la foresta di fronte, con le sue fiere, in direzione del Chomo Lhari, la divina regina delle montagne... Sapeva da poco che avrebbe dovuto compiere quel viaggio. Chi, se non lei, poteva farlo? In piedi sulla balconata, evitando di guardare oltre il vertiginoso strapiombo di roccia, cercava di sillabare una sola parola nella strana lingua straniera di suo padre. Si aggrappava alla ringhiera per non gridarla precipitando, mentre i suoi due fratelli maschi ridevano sommessamente, abbracciati. Sotto i suoi occhi il costone di roccia che sosteneva la casa, liscio e diritto e come tagliato da un enorme coltello, scendeva per un migliaio di metri, perpendicolarmente, verso la valle che schiumava vapori. Vedeva le cime fittissime dei grandi alberi che si divincolavano nella selvaggia poltiglia di nubi e, più in alto, i grandi crinali contro il cielo. Pronunciava un’altra volta la stessa parola, per imprimersela a fondo nella mente, mentre il vuoto cresceva dentro di lei come se gli immensi spazi aerei stessero per risucchiarla. Muoveva pianissimo la lingua, mentre il cielo diventava sempre più denso dentro la sua bocca, e chiudeva gli occhi in preda a una sensazione tellurica. Rimaneva immobile e silenziosa e intanto orde di nubi, districandosi dalla foresta, dilagavano ferocemente verso lontani crinali. “Dragone tonante!” pensava allora, gridando dentro di sé, rivolta alle estreme retroguardie che fuggivano a ventre squarciato oltre gli spuntoni di roccia. Scendeva nel fondo della casa, tesseva per un po’ di tempo in compagnia delle serve e dei parenti. Poi tornava sullo strapiombo, e se qualche defunto era stato esposto ai rapaci della montagna un’incontenibile nostalgia la faceva piangere in silenzio. Avrebbe voluto esserci lei al posto del defunto, legata al palo, se così avesse potuto vedersi anche solo per un istante da quell’enorme lontananza. Il grande buio primordiale cancellava a poco a poco ogni cosa, la foresta si impregnava di nero come un’immensa spugna notturna e forse gli occhi del defunto, strappati dal becco di un rapace e sollevati nell’aria oltre il crinale, riuscivano a vederla per un istante da lontano, immobile come una maschera laccata, mentre le lanterne si accendevano una dopo l’altra nella sua casa, dall’altra parte della valle.

Quando le bufere di neve bloccavano ogni cosa e le piste scavate nella roccia scomparivano, avvolta nel suo vestito come in un lenzuolo, sprofondata in un alto strato di riso nel magazzino, rimaneva addormentata per giorni. Respirava piano, solo un filo d’aria riusciva a filtrare tra i chicchi, che le riempivano completamente le orecchie nel sonno. Le serve e i parenti stavano intanto tessendo le sue vesti nuziali, gli scialli che le vergini avrebbero sventolato di fronte agli arcieri, mentre lo zucchetto di perle era già pronto da tempo sopra un cuscino ricamato.

Ma si avvicinava il giorno della partenza. Nella casa preparavano provviste e regali, accumulavano cibo per il viaggio. Il giorno stabilito, con una piccola carovana di sette muli, aveva imboccato il sentiero a gradini scolpito nella roccia. Era con lei un vecchio servo armato di schioppo, che conosceva le montagne. I muli, cui avevano fatto ingoiare a forza alcune uova, avanzavano sicuri sui gradini, coi loro carichi traballanti.

Il viaggio sulle montagne era durato un mese intero. Si fermavano una sola volta al giorno, per mangiare e dar da mangiare ai muli. Di notte, riparati in qualche anfratto, lei e il vecchio dormivano avvolti insieme in un’unica striscia di stoffa colorata, per scaldarsi, mentre i loro vestiti facevano da lenzuolo. Il vecchio teneva vicino a sé lo schioppo e anche dormendo non smetteva di seguire il rumore degli orsi che si muovevano sulla montagna. Lei posava la testa sulla sua barba bianca, si addormentava. Nel cielo grandi masse d’aria si scontravano con fragore e i fulmini percuotevano così forte la montagna che sembravano sradicarla.

Cavalcando in silenzio di fronte a lei, il vecchio fissava le montagne che si illuminavano a poco a poco. Vista da dietro, la sua barba bianca irradiava la luce del sole appena nato. Gli zoccoli dei muli avanzavano piano, scivolavano sulle rocce lucide di pioggia. Oltrepassata una gola, avevano costeggiato per un po’ un torrente fragoroso. Con le gambe piantate nell’acqua, un uomo stava conficcando un cilindro a pale tra le pietre. Lei aveva tirato le redini del mulo, era scesa a terra. Appoggiata a una roccia, aveva scritto una preghiera su un foglietto, che aveva consegnato all’uomo del torrente, perché la mettesse insieme alle altre nel cilindro. Ormai il palo di sostegno era ben conficcato nel letto del torrente, le pale facevano ruotare il cilindro su se stesso innalzando una dopo l’altra le preghiere che vi erano contenute. L’acqua correva forte, faceva volare i sassi sul fondo, come frecce. Il piccolo macchinario di legno continuava a ruotare vorticosamente. Lei aveva ascoltato per un po’ il suo cigolio ininterrotto nel silenzio delle montagne. Poi era montata di nuovo sul mulo. Il vecchio, chinando un po’ la testa, aveva rimesso in movimento la piccola carovana.

Scendevano lentamente. Girando attorno alle montagne o imboccando le valli, vedevano a volte le nubi sotto di sé. I muli le calpestavano con gli zoccoli, attraversandole da parte a parte, quando ne uscivano le loro code fumigavano. Di notte, avvolti insieme nell’unica striscia di stoffa colorata, lei ascoltava il vecchio che dormiva. Tremava un po’, si svegliava di tanto in tanto, all’improvviso. «Ssssssh... Ci sentiranno gli orsi!» sussurrava riaddormentandosi di nuovo come un sasso. Fuori dalla grotta lontani urli di fiera e versi di rapaci si richiamavano attraverso lo spazio. Il vecchio impugnava improvvisamente lo schioppo, senza svegliarsi, e lei, fissandolo da vicino nell’oscurità, a poco a poco capiva che stava perdendo la ragione.

Continuavano a scendere, costeggiando foreste sempre più vaste. Apparivano qua e là negli avvallamenti i primi branchi di yak. Lontani pastori camminavano tutti inclinati in avanti, in bilico sui crinali come su un filo. Il vecchio non faceva più attenzione alle piste. I muli scendevano liberamente verso le prime pianure, apparivano sempre più spesso delle case isolate, i sentieri si allargavano a poco a poco, diventavano per qualche tratto piccole strade. E più proseguivano e più il vecchio perdeva la ragione. Non ricordava più le piste, non ricordava più dov’erano diretti né dove avrebbero dovuto lasciare i muli. Sulle loro groppe i carichi pendevano sgonfi, dondolando a ogni passo.

Alcuni giorni prima di arrivare in pianura avevano scorto da lontano un monastero. Incitando i muli, lei vi aveva diretto la piccola carovana. Era entrata nel tempio, aveva respirato a lungo l’odore del grasso che si scioglieva nelle lampade dell’altare. Lance e pugnali luccicavano nelle mani dei danzatori mascherati e anche a occhi chiusi lei vedeva mulinare i loro lampi. I suonatori, gonfiando al massimo le gote, davano fiato ai loro interminabili corni. La piccola folla era muta, le maschere dondolavano al suono dei cembali e dei flauti, mentre invisibili tamburi rullavano in qualche punto lontano della valle.

Poi il rito era terminato, c’era stato un improvviso silenzio. Spade e pugnali erano stati appesi alle pareti e i danzatori avevano sollevato sopra di sé le grandi maschere di gesso. Mentre il tempio si svuotava e il vecchio, accucciato per terra, dormiva profondamente, lei era rimasta a lungo immobile di fronte a una piccola immagine sacra scolpita nel burro colorato.

Si erano rimessi in viaggio. Adesso guidava lei la carovana. Dopo avere lasciato i muli prima del confine, si erano diretti con ogni mezzo verso Dacca. Avevano viaggiato sul tetto di vecchie corriere dipinte, su minuscoli treni, su grandi carri tirati da dromedari, su barche di terracotta. Tutt’intorno le acque silenziose uscivano dagli argini dei grandi fiumi, brillavano accecanti nelle campagne allagate. Di giorno carovane di nomadi si spostavano in sella ai dromedari. Le gobbe traballavano sotto il peso delle impalcature in legno ricoperte di stracci, da cui emergevano aguzze le teste rasate dei bambini. E c’erano distese dove l’acqua si era da poco ritirata e zone paludose dove i serpenti divoravano grandi topi in fuga, mentre le interminabili zampe dei trampolieri camminavano leggere nel fango. Avevano dormito ai bordi delle risaie, in piccole stanze roventi come fornaci, su palafitte circondate dall’acqua. Il vecchio la seguiva senza parlare, assente. Di sera, nei centri abitati, tra il brulicare di vesti colorate e di capelli lucidi unti con olio profumato, a volte si perdeva e allora lei doveva cercarlo.

Erano arrivati finalmente a Dacca. Il vecchio guardava la città e sembrava non vederla. Aggrappato al braccio di lei, avanzava piano nelle vie brulicanti. Nel formicolare delle piazze sbattevano contro animali e persone, e donne velate, ondeggianti tra la folla, li osservavano attraverso l’impenetrabile ricamo delle finestrelle. Si inoltravano sempre più nella città seguendo l’acqua del Buriganga, ai cui bordi le case si accatastavano le une sulle altre e sembravano sempre sul punto di franare. Sui tetti uomini cenciosi dormivano puntellando il cielo con le ossa delle ginocchia. In un piccolo albergo lungo il fiume lei aveva affidato il vecchio a una donna musulmana. Aveva cercato di spiegarsi a gesti, perché non conosceva il bengali. La donna era chiusa dalla testa ai piedi in una grande veste di lino. Lei fissava la finestrella all’altezza degli occhi, ma il suo ricamo era impenetrabile. Solo quando le aveva consegnato il denaro, la donna, aprendo appena due lembi della veste, aveva mostrato per un istante la punta dipinta di una mano.

Aveva salutato il vecchio, che non l’aveva sentita: sorrideva silenziosamente tra sé, seduto su uno sgabello girato contro il muro.

E poi l’incantatore di serpenti aveva disteso il braccio: aggrovigliate attorno al polso, puntate tutte quante nella stessa direzione, anche le teste dei rettili sembravano volerle indicare la strada che conduceva all’aeroporto.