Non erano questi i patti!

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Quando fu dentro la sala, seduto in una delle prime file, si lasciò scivolare giù, sollevando le ginocchia contro il sedile di fronte. Si accertò con una mano che la propria testa fosse ben nascosta dallo schienale, perché nessuno da dietro potesse riconoscerla. D’altra parte, anche se fosse andato a sedersi nelle ultime file... C’era sempre chi si girava a guardare il volto di chi stava dietro, quando alzavano le luci per l’intervallo, certe volte si giravano file intere col pretesto di farsi accendere la sigaretta, per esempio, con gli occhi intenti al di sopra della fiamma. Ma anche mentre c’era buio succedeva che qualcuno si girasse, quando gli occhi si erano ormai abituati all’oscurità, durante certi cambi di luce sullo schermo, allungando il collo e manovrandolo con accanimento, fingendo di guardare il raggio di luce sprigionato dalla cabina di proiezione, come per domandarsi: “Sarà proprio vero che l’immagine scaturisce da quel piccolo foro che c’è nella cabina di proiezione, fuggendo dalla pellicola attraversata dalla luce, lungo il fascio colorato che investe lo schermo? O non saranno invece le immagini dello schermo a fuggire attraverso quel raggio, rimpicciolendosi, gettandosi dentro la cabina, penetrando nel suo occhio e poi nell’occhio del proiettore e poi impressionando la pellicola che, ruotando in anse complesse, viene a creare la necessità di un uomo che manovri il proiettore e di un cinematografo e di strade per poterci arrivare ecc ecc?”.

La sua testa era comunque abbastanza nascosta. Tanto più che sullo schermo stavano adesso scorrendo scene notturne e quindi anche il raggio che scaturiva dalla cabina di proiezione era per fortuna molto scuro. Una carrozza stava correndo silenziosamente nella pallida luce lunare. Al suo interno due uomini stavano seduti uno di fronte all’altro, senza parlare. Il primo, molto giovane, indossava tricorno e abito talare. L’altro, un asiatico, portava una lunga veste di seta e sembrava avere molta fretta, infatti batteva ogni tanto contro la parete con il pomo d’avorio di un bastone da passeggio, per incitare il cocchiere che stava a cassetta. Oltre i finestrini della carrozza si indovinavano grandi scogliere e, più in basso, riflessi di luna sul mare.

Ed era proprio di quei riflessi che lui cominciava a preoccuparsi: erano luminosi, argentei, prolungati, e quando apparivano il raggio di luce che usciva dalla cabina di proiezione rischiarava improvvisamente tutta la sala. Decise di abbassare le ginocchia, che erano ancora contro lo schienale di fronte, perché fosse impossibile riconoscerle. Ma un istante dopo apparve una grande luna al centro dello schermo, in primo piano, e il raggio di luce si schiarì al massimo, illuminò a giorno tutto il locale, come un bengala.

Passarono alcuni interminabili istanti così, mentre la colonna sonora saliva sempre più, inarrestabile.

Poi tutte le luci si accesero di colpo per l’intervallo.

Lui teneva gli occhi bassi, vedeva solo, sparsi sul pavimento, alcuni pezzi di gommapiuma strappati dalle imbottiture dei sedili. Erano ormai informi e sembrava fossero stati sminuzzati o masticati o addirittura divorati e poi rigurgitati un’infinità di volte tra spaventosi conati di vomito e contrazioni dell’esofago. Quando le luci si spensero di nuovo gli parve che la sua testa si dilatasse lentamente nello spazio buio. Se la toccò con la mano, per paura che le sue nuove dimensioni impedissero la vista dello schermo a chi stava dietro. Anche il raggio era di nuovo scuro, quasi nero. All’interno della carrozza l’uomo in abito talare stava adesso fissando l’asiatico.

«Non erano questi i patti!» esclamò infine.

«Cerchiamo piuttosto di arrivare in tempo!» rispose l’altro, sprezzante.

Ora che l’inquadratura era più ampia si poteva indovinare anche la presenza di un terzo, invisibile passeggero, un animale forse, contenuto in un recipiente cilindrico sigillato con un nastro rosa, simile a una cappelliera.

«Sei sicuro che riesca a respirare?» chiese l’asiatico.

«Ho fatto dei buchi...»

L’uomo in abito talare aveva risposto controvoglia, come se non volesse arrendersi su nulla.

L’ospite della cappelliera, quasi si rendesse conto che stavano parlando di lui, emise un lunghissimo verso sconosciuto. L’uomo in abito talare si lasciò cadere contro lo schienale, sospirando. Era inquadrato in primo piano e il suo vestito era veramente tutto nero, e così il raggio di luce che usciva dalla cabina di proiezione. Lui lo guardava, a tratti, nel buio della sala, e non riusciva quasi a distinguerlo dal resto dello spazio buio. “Impossibile vedermi!” si disse. Dalla cappelliera usciva adesso un piccolo verso terribile, come se qualcuno stesse canticchiando sommessamente al suo interno.

«Non erano questi i patti!» ripeté l’uomo in abito talare, che pareva sul punto di cedere alle lacrime.

L’asiatico sorrise, socchiudendo gli occhi.

Un istante dopo, rannicchiato nel buio, lui riuscì appena a soffocare un grido: sullo schermo, a un repentino cambio d’inquadratura, era apparsa in primo piano la nuca del cocchiere, puntata in avanti per la grande velocità della corsa, e lui l’aveva improvvisamente riconosciuta.

«La mia testa!» mormorò, alzando istintivamente una mano per proteggersela.

Dal resto della sala non veniva il minimo rumore. “Che cosa ne hanno fatto!” si diceva. “Hanno cambiato tutto quanto! Io non ho mai guidato una carrozza!”

La sua testa in primo piano era sempre al centro dello schermo, gigantesca. Era così vicina che, sotto i capelli tagliati molto corti, riusciva a distinguere minuscole cicatrici e altri segni che si congiungevano e si intersecavano di continuo come la topografia di uno scavo archeologico.

Alzò gli occhi verso il raggio di luce e, da uno scatto improvviso all’interno delle sue fasce colorate, capì che era cambiata di nuovo l’inquadratura. Nella carrozza i due erano adesso girati verso il finestrino, guardavano alcuni cavalieri lontani che si spostavano lentamente nell’acqua bassa del mare.

«Chi sono?» chiese l’asiatico.

«Pescatori a cavallo» rispose l’altro, sempre controvoglia.

«E cosa pescano?»

«Gamberi grigi.»

C’era bassa marea e le loro forme si erano spinte fino a un miglio di distanza dalla riva senza che l’acqua oltrepassasse il ventre delle bestie, che trascinavano dietro di sé grandi reti aperte.

L’uomo in abito talare si distese di nuovo contro lo schienale e anche l’asiatico allontanò lo sguardo dal finestrino.

«Non erano questi i patti!» ripeté per la terza volta l’uomo in abito talare, scuotendo più volte la testa, a occhi chiusi.

Un istante dopo il suo corpo si allargò a macchia d’olio sullo schermo, mentre si avventava improvvisamente sull’asiatico. Lo colpì con furia al torace e al volto, i suoi pugni gli fracassavano le ossa. Tutto l’interno della carrozza traballava. L’altro non diceva niente, non smetteva di guardarlo intensamente mentre cadeva riverso sul sedile.

Oltre il finestrino si indovinavano ancora le forme lontane dei pescatori a cavallo. Si spostavano lentamente, senza muovere il velo d’acqua. Dalla cappelliera veniva adesso un ronzio cadenzato, come se l’ospite al suo interno fosse sprofondato nel sonno e stesse russando. L’uomo in abito talare guardò ancora per un istante il corpo riverso dell’asiatico, che stava vomitando sangue sulla sua lunga veste di seta. Poi spalancò la portella, balzò sul tetto della carrozza in corsa. In piedi nella luce lunare, a gambe e braccia larghe per mantenere l’equilibrio, mosse un paio di passi in avanti, si portò alle spalle del cocchiere. Con un gesto fulmineo fece scattare un braccio, estrasse di tasca un coltello luccicante, gli immerse la sua lunga lama nella schiena.

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