Caro fratello, sono seduto per terra come un cane e la polvere delle calde pianure sale sin quassù e oscura il cielo. Cos’è successo nella tua casa? Perché sono stato posto qui? Cosa ci si aspetta da me, a questo punto? Cosa dovrei dire? Cosa dovrei spiegare? Perché è stato posto sulle mie spalle il peso di dare un senso a tutto quanto è successo qui dentro? Che spiegazione potrei mai dare stando qui dove sono, separato, solo su questo strapiombo, da così lontano?
Sto scrivendo su questo quaderno di carta di riso, che era suo. Lo teneva in una piega della veste, insieme a una coppa orlata d’argento da cui prendeva cibo e acqua. Di fronte a me, ma distanti una decina di metri, i miei due figli maschi, povere creature ebeti e gozzute, non smettono di guardarmi e di ridere tra di loro. Lo fanno sempre, anche quando passo o mi vedono per un istante dentro la casa o in un angolo della terrazza. Emettono piccoli versi, perché non possono parlare. È strano... ho sposato due donne, quando sono venuto quassù, e una è molto bella e vive ancora, il suo nome è An Wa. Ma proprio lei è la madre dei due maschi. L’altra invece, che proveniva dalle zone tropicali e aveva il volto deturpato dal vaiolo, mi ha dato quella figlia che ti ho mandato e che non è più tornata.
Ho inviato una carovana sulle sue tracce, l’ho equipaggiata perché arrivasse fino a Punakha e anche oltre. Gli uomini di cui era composta sono tornati da poco, li ho visti improvvisamente dall’alto quando erano ancora a tre giorni di marcia dalla casa. Mi spingevo con il collo e la testa sullo strapiombo e lì vicino i miei due figli maschi ridevano tra loro mentre cercavo inutilmente con gli occhi i suoi lineamenti sul crinale della montagna, i colori della sua veste nella fessura improvvisa di una nube.
Sono arrivati a mani vuote, anche il vecchio servo che l’aveva accompagnata non ha fatto più ritorno, scomparsi tutti e due chissà dove... Ho raggiunto il magazzino, mi sono tuffato sotto uno strato di riso e ho cominciato a nuotare là in fondo a occhi aperti, mentre le assi del pavimento scricchiolavano, allungavo le braccia e mi pareva che forse l’avrei trovata laggiù in qualche punto profondo, e i chicchi di riso scorrevano contro i miei occhi e le punte delle mie dita sfioravano qualche frammento sfilacciato di sacco, come un nastro slacciato dei suoi sandali in fuga...
Io la guardavo, a volte, stupito di vedere lineamenti asiatici su un volto che tanto mi somigliava. Le parlavo nella mia lingua, solo a lei, e a lei non importava di capire. Le avevo permesso di lasciarsi crescere i capelli, ne aveva fatto una treccia che toccava di tanto in tanto con la mano, quando le ho parlato per la prima volta di quel viaggio, sullo sfondo di una valanga fragorosa che si era staccata dal fronte di una delle montagne che ci sono qui in alto. Si era levato il verso degli orsi che fuggivano atterriti verso il fondovalle.
Mi sono appena fatto portare il mantello, ho sfiorato con la mano la corta spada ricurva infilata nella fascia della tunica e intanto i miei figli maschi stanno ancora ridendo sommessamente, l’uno nelle braccia dell’altro. Il volto di An Wa è apparso improvvisamente dietro una delle finestre, mi ha guardato per un istante con odio.
Sono successe molte cose da quando si attendeva il ritorno di mia figlia. All’inizio non me ne accorgevo. Stavo sempre qui sopra, sullo strapiombo, guardavo le nuvole sotto di me, speravo che se ne aprisse qualcuna all’improvviso. È trascorso tanto tempo così. Un giorno mi hanno annunciato l’arrivo di una carovana. Non l’avevo vista avvicinarsi, erano due soli uomini e tre muli. L’abbiamo alloggiata, abbiamo nutrito uomini e bestie. Io guardavo il capo della carovana, che rimaneva ostinatamente in silenzio. Mi domandavo chi fosse, ma non osavo chiederglielo. Fuori aveva cominciato a piovere, diluviava, i fulmini sradicavano gli alberi sui fianchi delle montagne, i tuoni scuotevano dalle fondamenta tutta la casa sull’orlo dello strapiombo. Anche An Wa fissava il volto impassibile del capo carovana, che continuava a tacere. Da sotto il pavimento venivano le voci sommesse dei servi e dei parenti, coricati al buio sulle stuoie.
«Sono un emissario dello sposo» ha dichiarato alla fine il capo carovana. «Ma la sposa dov’è?»
Mi sono preso la testa tra le mani.
Ha continuato a piovere per quattro giorni e quattro notti. Io mi applicavo il parapioggia di vimini sulle spalle e salivo ugualmente sullo strapiombo. Stavo immobile per ore e ore e tutta la foresta si impregnava e pareva spezzarsi sopra le bestie atterrite negli anfratti. Ma se solo giravo impercettibilmente la testa scorgevo il cranio rasato dell’emissario dello sposo immobile accanto a me da chissà quanto tempo, anche lui tutto proteso sopra lo strapiombo, e allora mi assaliva il sospetto che quell’uomo non fosse in realtà un emissario dello sposo ma lo sposo stesso.
Non parlava con nessuno, non chiedeva nulla e di notte non si coricava per dormire. Quando se n’è andato l’ho seguito con gli occhi per giorni e giorni dal bordo dello strapiombo. Si spostava e si allontanava, in bilico sui fianchi delle montagne, scompariva e riappariva per un istante a distanza di giorni, in qualche crepa della foresta. Io andavo a gettarmi sullo strato di riso, rimanevo immobile là dentro a faccia in giù. Poi, con un colpo di reni, riemergevo muovendo grandi bracciate al di sopra della testa e certe volte mi sembrava di essere andato a toccare il corpo di An Wa in qualche punto molto profondo e che la sua vagina e il suo ventre fossero tutti pieni di riso. Mi pareva che i servi e i parenti avessero smesso da un po’ di tempo di parlare in druk-ke, perché io non potessi capirli, che avessero cominciato a parlare nelle loro lingue di provenienza, e ce ne sono di assamesi, di lepcha e di gurung, certi provengono persino dalle tribù dei Monpa e dei Dakpa, sperdute a oriente. Guardavo i miei due figli maschi che ridevano di fronte a me masticando lunghe strisce di carne essiccata sul margine estremo dello strapiombo.
Sta venendo un suono rauco di corni, sale da un canalone, da qualche villaggio sperduto o da qualche monastero. Tu non saprai mai come sono arrivato sin qui, per quali strade... Fra un po’ sorgeranno le grandi stelle himalaiane. Mi sono avvolto nel mantello e attendo che si allarghino a macchia d’olio sopra di me. An Wa ha mandato una serva a chiamarmi, ma non andrò. Sono ancora seduto per terra, sto scrivendo al buio e i miei occhi non distinguono più le parole...
Come, che cosa potrebbero gridare quei due, precipitando? Non parole, perché non possono parlare, perché i loro versi non sono organizzati in un linguaggio, neppure tra queste barriere di terra e di ghiaccio, deriva di continenti. Continuerebbero a ridere, forse, vedendo il mio volto schizzare verso l’altro, rimpicciolendosi, fino alla sommità sempre più lontana dello strapiombo.
È passato altro tempo, credo. Dev’essere arrivata un’altra carovana. Sono monaci o briganti? Difficile dirlo. Bisogna stare attenti.
È notte, questa giornata interminabile è finita.
Ho acceso un lume in un angolo della mia stanza, vicino alla stuoia. An Wa è in un’altra parte della casa. Servi e parenti si sono finalmente addormentati, sento i loro versi venire da sotto il pavimento. Già questa mattina li ho osservati, quando An Wa ha aperto la dispensa per distribuire il cibo, prima che si avviassero verso il deposito, qualche centinaio di metri sotto la casa. Parlavano per lo più in assamese e io capivo che c’era qualcosa nell’aria. Mi domandavo: “Cos’è successo? Dove sono finito? Cosa ci fanno attorno a me tutti questi volti grinzosi?”. Sono uscito di casa e ho raggiunto il deposito. La nuova carovana è alloggiata là sotto da tre giorni, e sono cinque uomini e sette muli. Ho osservato a lungo ogni cosa mentre parlavo col capo carovana. Intanto mi chiedevo se erano veramente monaci, nonostante i loro abiti e il cranio rasato. C’è qualcosa in loro... Hanno volti scuri, abbronzati, ma la pelle sul cranio è così bianca, come scoperta da poco, e mani e braccia sono così muscolose... Ho guardato per un po’ le loro grandi ceste, cercando di capire cosa potessero contenere. «Tra poco vi chiederò di ricambiarmi il favore» ho annunciato al capo carovana prima di andarmene. L’uomo ha arrovesciato leggermente la testa come per sfuggirmi e io vedevo solo le sue narici che diventavano sempre più sottili e lontane.
Andrò a trovarlo ancora, tra poco, quando avrò finito questa lettera. Ci sono già andato molte volte, quest’oggi, ci sono state estenuanti trattative.
Ho lasciato il deposito e sono rientrato in casa, camminando in una schiuma di nubi sull’orlo del precipizio. Appena sono entrato ho visto An Wa. Le sono passato vicino per salire sulla balconata e affacciarmi allo strapiombo. Nello stesso istante sono stato fulminato di colpo da qualcosa. Mi è sfuggito un verso di dolore. I figli dei servi, seduti per terra, hanno alzato tutti insieme gli occhi verso di me. Mi sono portato una mano dietro il collo e subito ho capito che era stato trapassato dal suo artiglio di grifone. Non pendeva più dal collo di An Wa, infatti, con la sua capocchia di pietra turchese. L’ho guardata, anche i suoi occhi si sono assottigliati, sono diventati due fessure.
Poco dopo, sui bordi dello strapiombo, ho afferrato l’artiglio con due dita, cercando di strapparlo. Sotto di me, in fondo alla valle, le nuvole schiumavano sulla foresta. Io seguivo certi filamenti che si staccavano di tanto in tanto e fuggivano verso l’alto. Mi sono messo a pensare a lei, ma non solo a lei... Deve essere successo qualcosa di enorme, nella tua casa lontana, quando mia figlia è arrivata fin là, o forse prima, forse addirittura prima che io venissi quassù, forse sotto i miei stessi occhi. Mi slancio in avanti a parlartene, adesso, e so che queste parole non ti arriveranno.
Così mi sono dimenticato dell’artiglio, ho abbassato la mano e ho ripreso a scrutare i fianchi della montagna fino a quando ho sentito dei passi alle mie spalle. Mi sono girato di colpo: servi e parenti erano disposti a semicerchio dietro di me. Si sono seduti per terra, capivo anche se non li vedevo che stavano fissando la capocchia di pietra turchese che mi spuntava dal collo e più il tempo passava e più capivo che si stavano schierando inconsapevolmente dalla mia parte. Sentivo che in qualche punto lontano della casa An Wa stava rovesciando ogni cosa per terra con fragore. I miei figli maschi erano spariti. È difficile spiegare... li portano in un angolo remoto, certe volte, in una stanza vuota dove le finestre danno su una cieca parete di roccia, perché nessuno possa vedere, anche se tutt’intorno alla casa è solo spazio...
Poi servi e parenti si sono alzati, sono andati via. Ho portato di nuovo la mano alla pietra turchese ma un secondo dopo, guardando verso il deposito, ho visto che An Wa stava parlando concitatamente con il capo carovana. Forse mi ha scorto da lontano, non lo so. L’ha salutato in fretta ed è corso verso casa. Allora sono corsa fuori anch’io, e intanto sentivo la pietra turchese dondolare sulla carne del mio collo. Ci siamo incrociati per un istante, io e An Wa, ciascuno dei due cercava di spingere l’altro verso il precipizio. Ho raggiunto il capo carovana e subito abbiamo cominciato a trattare. Io guardavo le grandi ceste vicino alle quali sostava sempre uno di quei due monaci o presunti monaci, con le grandi braccia muscolose incrociate sul petto. Sono tornato verso casa. Ne stava uscendo la bambina di una delle serve, quella incaricata di... alleggerire ogni tanto i miei due figli maschi, con la mano. L’ho guardata: il suo volto era lordo di materia seminale. Chiazze dense, vischiose, di colore verdognolo e addirittura azzurro. Anche la sua mano ne era imbrattata. La teneva aperta di fronte a sé, un po’ staccata, mentre si dirigeva verso una polla d’acqua che sgorgava da una crepa della roccia, a piccoli passi tranquilli.
Ero di nuovo sullo strapiombo, da quanto tempo non so, quando mi sono ricordato di nuovo dell’artiglio. Stavo pensando ancora ai miei due figli maschi... cosa potrebbero gridare, precipitando, quale accelerazione potrebbe accendersi improvvisamente nei meccanismi della loro lingua, e potrebbero poi essi stessi interpretarne la forma, ne avrebbero il tempo, precipitando? E se ciò non fosse possibile, chi mai potrebbe farlo? Io, forse? Inclinando al massimo la testa, con l’orecchio sullo strapiombo per distinguere il loro verso dal verso degli orsi, dal fragore delle valanghe... Chi potrebbe, chi oserebbe, nella frazione di un secondo, da un frammento minuscolo di quella lingua mai udita, decifrare non solo il senso di alcune parole ma di tutte le possibili voci di quel nuovo idioma, saggiarne ogni potenziale espansione? Perché i due potrebbero contraddirsi, precipitando, e allora da una minima variazione grammaticale nascerebbero inevitabilmente contrapposte civiltà con le loro strutture politiche, religiose, culturali e sociali, con le loro invenzioni tecniche e con le loro macchine da guerra e col cigolare delle loro torri mobili, o si potrebbe viceversa risalire a queste... e allora per di qui, passa qualcosa per di qui, potrei dire, da questo punto esatto sopra lo strapiombo, anche l’immagine di mia figlia ci si muove ormai dentro, con i suoi lineamenti di asiatica scomparsa, e anche la tua casa, fratello, e anche ciò che ci è successo dentro e ciò che è successo prima, e io ascolterei quel verso con l’orecchio sullo strapiombo e forse qualcosa di questo verso potrei finalmente interpretarlo come una parola definitiva...
Mi sono dimenticato di nuovo dell’artiglio. Il tempo passava, credo. Un grande rapace ha attraversato lo spazio con una piccola bestia viva nel becco, senza neppure battere le ali. D’un tratto, da un rumore lievissimo di passi, ho capito che An Wa era arrivata alle mie spalle. Non mi sono girato, ma mi pareva che il mio volto, scorrendo attorno alle ossa del cranio, mi fosse finito dietro la testa e che i miei lineamenti, scivolando, si fossero stirati leggermente, pur rimanendo gli stessi, fossero diventati simili a quelli di un asiatico. Non vedevo più lo strapiombo, non sapevo più dov’era finita la pietra turchese, eppure mi è parso per un istante di essere sul punto di conseguire una vittoria.
Ho sentito i passi di An Wa allontanarsi. Subito dopo ho ricominciato a vedere lo strapiombo. L’artiglio era ancora sul mio collo. Ne ho afferrato la capocchia con la mano, ero proprio sul punto di strapparlo quando ho sentito gridare in assamese. Poi il frastuono è salito su su fino alla balconata, un tramestio di piedi si avvicinava. Alcuni istanti dopo il corpo di un uomo dilaniato è stato gettato a pochi metri da me. Servi e parenti avevano sangue sulle braccia, anche sulle grinze dei volti, nelle piccole rughe attorno agli occhi. Quando hanno ripreso a parlare in druk-ke ho capito dalle loro parole che l’uomo era stato dilaniato da un irbis delle nevi.
Ci siamo guardati a lungo, io e il gruppo dei servi e dei parenti. Anche se nessuno parlava non era difficile capire che la situazione si era di nuovo capovolta. Abbracciandosi la testa l’un l’altro, solo i miei due figli maschi rompevano il silenzio con le loro risa. Dietro di loro era apparso il volto del capo carovana, che vedevo per la prima volta all’interno della mia casa.
Il resto della mattina è trascorso così. Io non ho preso cibo. Mentre passavo vicino alla porta una favilla, staccatasi da un tizzone che un servo mulinava nell’aria, è venuta a spegnersi contro le mie labbra. Sono sceso di nuovo nel deposito. C’è stata una nuova, estenuante trattativa col capo carovana. Gli altri, accovacciati vicino alle ceste, tenevano gli occhi chiusi fingendo di dormire.
Adesso sto pensando di nuovo a quella cosa... Ho appoggiato la testa contro la parete, in un momento di stanchezza, e la pietra turchese ha tintinnato per un istante. Significa che l’artiglio è ancora lì. Non ci ho pensato per il resto della giornata. Pensavo all’irbis delle nevi. Non capivo cosa stava succedendo intorno a me, sentivo i passi di An Wa che correva da un capo all’altro della casa e sul volto dei servi e dei parenti si divincolava un riflesso buio come un’ombra nell’acqua. I miei figli maschi hanno suonato i loro tamburi per tutto il pomeriggio, accovacciati sull’orlo dello strapiombo.
Mi sono spostato attraverso la casa, poco fa, e passando davanti alla camera di An Wa ho visto l’ombra della sua testa contro una parete. Era accucciata di fronte al corpo nudo di uno dei servi, la cui ombra arrivava fino al soffitto. Gli stava parlando sottovoce, con la bocca premuta contro il suo basso ventre, e sembrava incitarlo a qualche impresa perché l’ombra ricurva di una sciabola, impugnata dall’uomo a braccia sollevate, ha attraversato improvvisamente tutto il soffitto. Nel resto della casa, rannicchiati sulle loro stuoie, servi e parenti sembravano dormire, eppure sentivo i loro occhi sopra di me mentre passavo nell’oscurità. Credo di conoscerne la ragione: il fatto è che non sono più vestito come prima, da un po’ di tempo in qua...
Ci penso ancora... Hai mai visto due ebeti suonare il tamburo sull’orlo di uno strapiombo? Hai mai sentito un suono simile? Io l’ascoltavo, ma non ero vicino a loro, ero dentro, li potevo vedere da una finestrella. È vero, non sono più vestito come prima. È successo poco fa. Stavo osservando i miei abiti asiatici, mi dicevo che erano come quei suoni di tamburo sullo strapiombo. Mi sono avvicinato a una vecchia cassa di legno. Ci ho frugato dentro per un po’, fino a quando mi è capitato in mano un pezzo di carta piegato e ripiegato più volte. L’ho disteso con precauzione, un po’ alla volta, e alla fine ho capito che si trattava di un frac, o meglio del modello in carta usato a suo tempo per confezionare un frac. Non avrei mai pensato che fosse arrivato sin quassù, non mi ricordavo più di quel vestito che un tempo avevo indossato, di quello vero, voglio dire, e tanto meno del suo modello in carta usato per prepararlo. Ne sai qualcosa, tu? Ci deve essere stata una cerimonia, da qualche parte... Mi sono tolto i vestiti asiatici, ho indossato quell’abito di carta, piano piano, per non stracciarlo, infilando la spada ricurva nella fascia che ho stretto di nuovo attorno ai calzoni. Sono uscito per un po’ sull’orlo dello strapiombo e sopra di me c’erano solo stelle.
Poi sono sceso fino al deposito. Non ho avuto bisogno di svegliarli. Sono rimasto diritto sulla soglia. Non avevo mantello. Dentro hanno cominciato a tremare come foglie. «Scenderò di nuovo qui» ho detto a quella masnada «e allora vi consegnerò quello che sapete!» Mi sono girato di schiena e sono tornato indietro, ma mi sembrava che qualcuno mi stesse osservando da una delle finestre della casa. Sentivo la coda del frac sbattere contro le mie gambe, una sola, perché l’altra non c’è più, è stata strappata, anzi, a guardare bene quello che ne resta sembra che sia stata addirittura lacerata a morsi. Ho attraversato di nuovo la casa e quando sono tornato di nuovo sullo strapiombo ho capito che non ero solo. Avevo il mantello, adesso, ma l’abito di carta che c’era sotto faceva rumore a ogni passo. Scricchiolava, soprattutto attorno alle giunture di gambe e braccia, perché in quei punti la carta è rimasta piegata per molti anni in senso apposto. Continuavo a scricchiolare, camminando avanti e indietro sopra lo strapiombo. Pensavo ancora al suono dei tamburi. Non ci pensavo per caso. C’era un contorno più scuro contro il cielo... non proprio il cielo, contro la montagna buia di fronte, dall’altra parte della valle. Il cielo è più in alto. Grosse nuvole non ce n’erano, stavano alla larga. Io scricchiolavo. Deve esserci una piega anche a metà schiena, orizzontale, passa da parte a parte. Già... proprio una bella cerimonia, a ripensarci dopo tanto tempo! Ne sai qualcosa, tu? Ho sentito un rumorino. Non adesso, prima. Ma escludo che potesse trattarsi di una piccola risata. Neppure di un singulto. E non era neanche un verso, neanche un versolino. Era veramente e soltanto un rumorino, quale potrebbe sfuggire a un oggetto, una volta sola nella sua vita, inspiegabilmente, durante una rotazione attorno a se stesso assolutamente identica a tutte le altre. Le nuvole se ne stavano alla larga, non mi inzuppavano il vestito. Sono tornato di fronte al contorno più scuro contro il cielo: c’erano dentro due paia di occhi sbarrati, sembrava che a un’unica vite fossero spuntate due teste. «Sono loro due! Sono i miei figli!»
Niente. Ho sollevato le braccia nell’aria, allargandole smisuratamente sull’orlo dello strapiombo. Adesso non potrei ripetere quel gesto, sono cose che vengono così una sola volta nella vita. Sotto il mantello il colletto del frac di carta è rimasto appeso per un istante alla capocchia di pietra turchese, come a un attaccapanni. Non si è stracciato, però. Ho disteso ancora di più il braccio sinistro, perché nella manica destra c’è un’altra piega oltre a quella all’altezza del gomito, proprio al centro dell’avambraccio. Anche la mia mano deve essersi allargata ancora di più, a dismisura, le mie dita devono essere diventate interminabili, e le tenevo divise, quattro da una parte e il pollice dall’altra. Il loro raggio d’azione era davvero molto vasto. Anche il pollice ha lavorato bene, devo dire, nonostante fosse solo, ha lavorato meglio, se è per quello, perché le quattro dita, colpendo punti diversi di ciascuno dei due volti, non erano mai d’accordo tra di loro, mentre il pollice solo, con la sua superficie inflessibile e decorata... in pieno volto... come una stecca da bigliardo al culmine della sua concentrazione. Via! I miei due figli maschi sono volati in perfetto silenzio giù dallo strapiombo.
Un istante dopo ero tutto proteso in avanti, il mio orecchio si allargava a dismisura sopra la voragine per cogliere il più piccolo suono che potesse scaturire dai loro corpi che stavano precipitando, la testa faceva fatica a sostenerlo e dovevo stare aggrappato alla ringhiera per non precipitare a mia volta. Un pensiero mi era scoppiato di colpo nella testa: “Ecco, è il momento!”. La macchia del mio profilo galleggiava sullo strapiombo, il mio orecchio era sempre più vasto, era diventato trasparente e crudo. Ma fuori di me tutto era solo nero e silenzio, così nero e così silenzio che non si capiva dove finiva il loro silenzio e dove cominciava quell’altro silenzio più grande. Eppure, eppure, mi dicevo – e si accendevano dentro di me lampi di selvaggia speranza – esisteva forse un margine, una sutura tra i due silenzi, e forse operando su questa sutura e su questo margine... Ma era tutto e solo nero e silenzio. “Maledetti!” ho pensato. “Avete avuto voi l’ultima parola!”
Quando sono rientrato in casa mi sono passato una mano sul volto, mi sembrava che fosse diventato tutto nero, galleggiando così sullo strapiombo, anche gli occhi che erano rimasti aperti e sbarrati sopra tutto quel buio. Ho scritto qualcosa in fretta sulla coda del frac, torcendo il busto, per paura di scordarmene. Avrò tempo di pensarci più avanti, forse.
È passato altro tempo. Sono uscito di nuovo, poco fa, per confrontare i due silenzi. È stato dopo che sono sceso giù, ma avevo già visto l’ombra della sciabola impennata contro il soffitto. Nel buio è volato un rampino, è passato a pochi centimetri dal mio volto, senza stracciarlo. Forse, pensavo, se confrontassi i due silenzi, quello di prima e quello di adesso, da una minima differenza che si potrebbe cogliere tra di essi... E allora le torri mobili ricomincerebbero a cigolare e le fiere si sveglierebbero di soprassalto dentro le loro tane e le valanghe, bloccate lungo tutto il fronte di un vertiginoso pendio, riprenderebbero a precipitare, e l’acqua produrrebbe ancora attrito scivolando e fischiando nelle crepe della montagna, e io da un minimo appiglio potrei far scaturire... e potrei innestarmi su quei fili che sicuramente da qualche parte ci sono, che mi potrebbero collegare anche a tutto quanto finora è successo qui dentro. E potrei inscriverci anche il suono dei passi di mia figlia nella tua casa lontana, e poi oltre la tua casa, rimanendo immobile qui dove sono, così avulso da tutto, così separato, fino al punto oltre il quale ogni traccia si perde.
Questo pensavo, sull’orlo dello strapiombo.
Poco fa mi è tornato in mente quanto ho scritto sulla coda del frac. L’ho riletto di nuovo, torcendomi, per paura di non ricordare le parole esatte. È una cosa che ti riguarda, credo. Ma c’è bisogno che lo riporti anche qui? Sappi solo che me lo sono appuntato sulla coda del frac, sappi solo che è scritto! Le parole si torcono su questo foglio di carta di riso che sto imbrattando, come se altri occhi, e non i tuoi, lo stessero leggendo in questo stesso istante, come se stessero pensando dentro di sé: “C’è aria di famiglia in questi occhi!”.
Mi sono alzato di nuovo, lentamente, senza stracciarmi, e risuonavo. Quando l’hai capito? Non lo saprò mai. Forse in quello stesso istante stavo seguendo il volo geodetico di un rapace tra due immaginari punti dello spazio. Sotto il pavimento molte bocche stavano bisbigliando tra loro, come all’interno di uno stesso sogno. L’ombra gocciolante di una sciabola si sposta lungo i muri della casa. An Wa è distesa per terra, sulla schiena, ma tiene le zampe alzate e divaricate contro il muro. Sta guardando l’ombra interna del proprio canale uterino contro la parete e l’ombra attraversa da parte a parte lo spessore del muro e sbuca all’esterno della casa come una canna fumaria sopra lo strapiombo. Mi sono alzato appena in tempo... appena in tempo perché un istante dopo, sbucando da una fessura tra due assi del pavimento, è apparsa la testa luccicante di un rampino. Sfrecciava avanti e indietro, cercando di agganciarmi. Si è fermata un istante, stupita di non incontrare resistenza, ha cercato ancora un po’, è salita più in alto per dilaniarmi, si è spostata di nuovo, girandosi tutt’intorno come un periscopio, ha cominciato a correre all’impazzata lungo tutta la fessura del pavimento e intanto, nello stanzone che c’è di sotto, la piramide dei servi e dei parenti, l’uno sulle spalle dell’altro, stava barcollando avanti e indietro sormontata dal manovratore del rampino. Era vicinissimo, in realtà, ma la fessura non mi intersecava. Non sono riusciti ad agganciarmi, per tirarmi giù facendomi passare attraverso la fessura. Non hanno agganciato neppure la coda del frac, per accalcarsi attorno a quella e leggere cosa c’è scritto sopra. Io forse me ne sarei dimenticato, dopo un po’. Peccato, ti è andata male!
Poi il rampino si è ritirato, è scomparso di nuovo nella fessura. Scendeva piano e, piegato com’era, mi sembrava che stesse facendo un inchino. Mi ritiro anch’io, restano ancora poche cose da dire.
Ho cambiato posto, mi sono seduto su un asse un po’ più larga e adesso le due fessure corrono ai lati, ancora più distanti da me. Fra poco porterò questo quaderno al capo carovana e gli spiegherò come spedirlo a te, una volta che sarà arrivato a Punakha. Non so neppure se si è deciso finalmente ad accettare questo incarico. È tutto il giorno che trattiamo. Lo chiuderò bene in una busta, perché non possa leggerlo durante il viaggio. Ma forse lui straccerà la busta e lo aprirà, una notte, in fondo a una grotta, per decifrare le parole contro il fuoco. E subito ritornerà indietro, selvaggiamente verso la casa...
Ma allora io non ci sarò.
Non rientrerò neanche per un istante, dopo essere disceso fino al deposito, e forse il manovratore del rampino si sarà già addormentato in cima alla piramide. Mi chiedo ancora perché ho spinto mia figlia a questo viaggio. Doveva fare da tramite tra noi, un’ultima volta prima della fine? È stato veramente per questo? A volte, quando sono accovacciato sullo strapiombo e viene da lontano il suono rauco dei corni e delle trombe, mi sorprendo a pensare che forse il vero motivo non è questo, o perlomeno non è solo questo, forse miravo a qualcosa d’altro, forse non eri tu la persona che lei doveva incontrare, e noi ormai lo sappiamo molto bene...
Ecco, sto per salutarti, ma direi proprio che adesso siamo pari. Tu non leggerai mai queste parole, che si torcono ancora sulla carta e non è solo per il buio o per il lume che si allunga e sta per finire.
Domani bruceranno l’uomo dilaniato dall’irbis delle nevi. La pietra turchese è sempre al suo posto, conficcata dentro la carne del mio collo. Mi sembrava importante che si sapesse anche questo.
Passerò vicino all’uomo che manovra il rampino, scenderò verso il deposito e poi riprenderò a salire dall’altra parte del crinale. Mi allontanerò rapidamente dalla casa e per molto tempo sentirò solo il suono del mio abito di carta sotto il mantello. Ci sono zone molto più in alto ancora, abitate da minuscole popolazioni che si accampano lassù per pochi mesi all’anno, predoni, nomadi e seminomadi, uomini che viaggiano e si spostano tra le montagne inseguendo per i loro commerci le carovane. Attraverserò le tundre, i deserti alpini. Se ci sarà in po’ di sole il mio corpo proietterà una piccola ombra sui fianchi delle montagne. Entrerò un giorno in uno dei piccoli villaggi che ci sono là in alto, invisibili finché non ci sei proprio dentro, sulle terrazze moreniche e gli anfiteatri glaciali.