SCENA DEL FIUME

Camminavamo allargati in mezzo al fiume, con i piedi e i polpacci dentro la corrente.

«Fate attenzione alla sirena!» avvisò il padre priore. «Se comincia a suonare bisogna scappare fuori immediatamente! Vuol dire che stanno per aprirsi le chiuse! Arriva l’acqua!»

Mi ero sollevato la veste come gli altri, arrotolandola attorno alla cintura perché non si bagnasse. L’acqua del fiume era bassa eppure turbinosa e sassi aguzzi e dalle forme inaspettate mi facevano di tanto in tanto vacillare. La giornata era immobile, serena. La testa del seminarista sordomuto si spostava appena un po’ più avanti. L’avevo osservata poco tempo prima quando, seduti ai bordi del fiume e con le vesti sollevate, ci toglievamo scarpe e calze, e non finivo di stupirmi vedendo che la crosta gelatinosa che la sovrastava non si staccava neppure in quella posizione tutta spenzolata, e che nemmeno si dilatava e si espandeva verso il basso per la forza di gravità, andando a colare tra i sassi e in mezzo al fiume. Sopra di essa si erano andati ad appiccicare pulviscoli e altre forme vegetali che il vento trasportava.

Le macchie nere delle vesti si continuavano a spostare a ventaglio in mezzo al fiume, a piccoli passi per non scivolare sulle pietre. La corrente formava mulinelli attorno alle gambe puntellate, le sospingeva di colpo in avanti, sbilanciate.

Il padre priore aveva tratto di tasca la corona del rosario e camminava più avanti, recitando. Le voci degli altri venivano da punti sempre diversi e inaspettati, perché le teste dovevano girarsi continuamente da ogni lato per scoprire sul fondo dell’acqua le pietre più insidiose e allora il diaframma si bloccava all’improvviso, quando pareva di cadere o di non potere più fare fronte alla corrente.

Mi sembrava che l’acqua fosse salita un po’, ormai mi lambiva i calzoni arrotolati al di sopra del ginocchio. “Sarò finito in qualche avvallamento...” mi dicevo. Eppure mi stupivo nel vedere che alcuni di statura più bassa camminavano con l’acqua alle caviglie mentre altri che sapevo molto più alti stavano affondati a metà coscia dentro la corrente. Il padre priore continuava a far scorrere tra le dita i grani del rosario, la cui corona si abbassava e si allungava, entrava mulinando fin dentro la corrente. Poco distante da me, il Gatto avanzava ripetendo a voce più alta le orazioni. La sua veste si era leggermente srotolata da dietro senza che lui se ne accorgesse, un suo capo era già finito da un po’ di tempo dentro l’acqua. Mi guardava, ogni tanto, mentre le sue gambe ossute parevano segare perfettamente e senza alcuno sforzo la corrente, ma i lineamenti del suo volto esprimevano un’intollerabile tensione.

La corona mi si muoveva in modo innaturale tra le dita, forse perché la corrente, accelerando a poca distanza da certi avvallamenti, faceva scorrere i grani un po’ più in fretta. Ora il Gatto mi stava fissando più scopertamente, voleva forse capire se stavo pregando oppure no. Avanzava con la testa girata, pareva voler cogliere nell’aria, tra tutte le onde sonore che passavano liberamente le une nelle altre, anche quelle delle mie possibili parole, con i loro solchi improvvisi, le loro creste.

«Piena di grazia...» arrivava la voce del padre priore, da lontano.

«Adesso e nell’ora...» recitava più da vicino il Gatto, cui la corrente stava facendo ruotare i grani più velocemente, e si trovava quindi in un punto diverso del rosario. L’altro prefetto camminava a piedi allargati dietro il Gatto, non staccava gli occhi dal capo della sua veste che nel frattempo si era srotolata un po’ di più e veleggiava e tremava dentro la corrente. L’acqua era salita ancora, mi pareva di non riuscire più a puntellarmi sulle pietre aguzze, che ricadevano e rotolavano per la forza della corrente, mi colpivano a sangue le caviglie.

«I sassi volano? Ti cambia continuamente il fondo sotto i piedi?» pareva che il Gatto mi stesse gridando, da vicino. «Tanto meglio! Si tratta semplicemente di posare i piedi sopra i sassi in volo!»

Non mi ero sbagliato, l’acqua saliva davvero, perché pochi istanti dopo cominciò a levarsi un suono lontano di sirena.

Nella foga di spostarsi più in fretta dentro la corrente, le vesti si erano srotolate ancora di più, ciascuno se le trascinava dietro fradicie, pesanti. Cercavo con la mano la tasca vera sotto quella finta della veste, per metterci dentro la corona, ma la corrente doveva avere fatto ruotare un po’ la veste, perché non la trovavo. Alcuni, che si erano avventurati in un’ansa del fiume più gonfia e più lontana, correvano con le braccia sollevate, le vesti tutte allargate nell’acqua, irrigidite. Guardavo con insistenza là dove la corrente era più turbinosa, per vedere se trasportava con sé la crosta del seminarista sordomuto, che invece si era già messo in salvo rapidamente sulla riva e sorrideva tra sé passandosi come se niente fosse le dita tra i capelli. Ancora mentre stavo molto lontano dalla riva, mi pareva di vedere traballare sulla sua testa una torre molle sagomata a gradoni come i templi assiri.

L’acqua mi era arrivata a metà coscia, ma saliva ancora. La sirena non smetteva di urlare da lontano, annunciando l’arrivo di sempre nuove e più poderose masse d’acqua. Alcuni stavano puntellati al limite di un avvallamento, con gli occhi spalancati. Sentivo l’acqua catapultarmi in avanti inzuppandomi zone sempre più alte, fino ai fianchi. La riva era ormai molto vicina ma c’erano ancora avvallamenti dentro i quali pedalavo coi piedi senza incontrare resistenza. Il padre priore, a gambe larghe sul terreno, lanciava avvertimenti a chi stava ancora dentro il fiume, indietreggiando perché l’acqua si prendeva sempre nuove porzioni della riva. Il Gatto pareva indugiare nella corrente, levava tutte e due le braccia come per facilitare così la salita continua delle acque. Afferrava ogni tanto con la mano qualche scarpa vagante a filo d’acqua, la rigettava ridendo sulla riva.

Quando fummo in salvo tutti quanti, con le scarpe bagnate ai piedi e ormai incamminati verso il seminario, una grande onda cancellò in un istante tutte e due le rive e pareva trascinare con sé lo stesso letto di pietre in cui da chissà quanto tempo era condannata a scorrere.