8.

Aprendo la porta della stanza, Jean-Claude Monticelli trovò la ragazza seduta a gambe incrociate sul letto. Guardava la televisione.

Aveva tutta l’aria di essere la sorella minore di quella della sera prima: capelli biondi, seni piccoli e alti, gambe ragazzine, scarpe dozzinali, fuseaux e una maglia di paillette senza maniche. Questa però aveva un trucco leggero e lo sguardo meno collaudato.

Jean-Claude chiuse la porta e lasciò scivolare a terra la cerata che aveva indossato quando nel bosco si era messo a piovere. Un’acqua paradossale, fine e fredda, mentre il sole arrossava la porzione di cielo sgombra da nubi. Che rammarico essere già quasi alle auto, aveva pensato, e non essere soli.

La ragazza tolse i piedi dal letto, sorrise e fece un gesto come a dire “Vittoria?”.

Jean-Claude le parlò in inglese. Fu questione di pochi secondi. La ragazza prese i soldi e uscì. Mentre lo salutava, nei suoi occhi non c’erano domande inespresse. Doveva accadere spesso che la gente fosse stanca al ritorno dalle battute, che pensasse di sì e poi decidesse di no, per motivi diversi, talvolta bizzarri, come la fedeltà, la paura di fallire o di innamorarsi: tutte cose che interessavano poco lei e non riguardavano lui.

Jean-Claude fece una doccia, telefonò in Svizzera dalla camera, risolse con un sì e con un no un paio di faccende di lavoro, quindi scese a cenare.

La sala aveva sedici tavoli, tutti apparecchiati per due. Venne fatto accomodare accanto al camino e fu portato via un coperto. Mentre aspettava il cervo con verdure, bevve mezza bottiglia del rosso francese che aveva ordinato.

Gli uomini nella sala erano perlopiù in affari e sedevano con giovani donne che si protendevano verso di loro come se il discorso comprendesse qualche novità sul Sacro Graal o sull’omicidio Kennedy. Invece, gli uomini parlavano nelle rispettive lingue dei contratti firmati in giornata o di quelli che non erano riusciti a firmare a causa della burocrazia e della corruzione del paese dove stavano cenando e dove, pagando il giusto, quella notte avrebbero fatto l’amore.

Jean-Claude mangiò il cervo e uscì a fumare sulla terrazza. All’altro capo della loggia, appoggiato alla balaustra, c’era un uomo di qualche anno più vecchio. Si occupava di tori e del commercio del loro sperma. Tre giorni prima avevano scambiato qualche parola, ma questa volta rimasero a fumare il sigaro ciascuno rivolto verso un punto cardinale differente della città.

Il cameriere si avvicinò: una telefonata.

Monticelli raggiunse una delle cabine in mogano e velluto rosso davanti alla reception. Sollevò il ricevitore e ascoltò.

– L’indirizzo? – disse quando dall’altra parte fecero silenzio.

– Che ci sia lui – disse prima di riattaccare.

Uscito dalla cabina, andò al bar. Molti degli uomini che aveva visto al ristorante si erano trasferiti al bancone. Bevevano whisky, cognac o liquori italiani. Le ragazze avevano ordinato cocktail colorati. Cominciavano ad avere l’aria stanca e a sorridere a caso.

Appoggiò la schiena alla balaustra e riaccese il sigaro. A uno dei tavoli gli parve di scorgere la ragazza della camera, o forse la sorella, ma la prima boccata di fumo gli cancellò quel pensiero.

Guardò verso la porta che dava sulla terrazza.

La notte era calma, il parco dell’albergo silenzioso, il muro di cinta e la sorveglianza rassicuranti. Magnifico sapere che oltre quel muro c’era una città gravida di odori, istinti e impunità.