19.

Jean-Claude Monticelli parcheggiò l’auto presa a noleggio, una giapponese di piccola cilindrata, nel cortile della vecchia fornace. Chiuse la cartina che lo aveva guidato nel dedalo dei campi, prese la valigetta dal sedile e uscì.

La fabbrica consisteva di un edificio in mattoni, una ciminiera conoidale, un essiccatoio e due capannoni più recenti con la copertura in eternit, anch’essi abbandonati da tempo. Vetri, grondaie e fili elettrici erano stati trafugati, e l’insieme nudo di muri, vegetazione e metallo conferiva allo spazio un tono riposante.

Mise i guanti e respirò quell’odore di pacificata rovina. Il cielo sin dall’alba era coperto da un panno cenere. Da un filare di pioppi alcuni uccelli cercavano inutilmente di coprire il mormorio del fiume.

Camminando quasi sulle punte, perché l’orlo dei pantaloni non toccasse il fango, si avviò verso la grande porta semiaperta della fornace. Presagendo la natura del luogo, aveva indossato le scarpe che impiegava durante le battute di caccia. Sul sedile posteriore dell’auto, tuttavia, lo attendevano un paio di morbidissimi mocassini di daino svedese.

Fece scorrere il portello da cui i camion avevano avuto accesso al magazzino ed entrò. L’interno era ampio, ben illuminato e rampicato da un’edera rigogliosa: pronto per lo scatto di qualche servizio di archeologia industriale.

Monticelli si diresse verso la scala che portava all’ufficio sopraelevato da cui un tempo qualche ligio servitore aveva sorvegliato, attraverso le pareti di vetro, le operazioni di carico e scarico.

Quando entrò nella stanza, l’uomo sedeva dietro la scrivania. Sorridente, rilassato, ma con le occhiaie azzurrate di chi ha alle spalle una serie di notti tirate per le lunghe. Anche i suoi vestiti non erano professionali, di un celeste acceso, vistosi e di taglio dozzinale.

Aveva inoltre addosso molto oro, cosa che Monticelli trovava tollerabile soltanto negli uomini grassi o nelle donne di colore, mentre l’uomo, più o meno quarant’anni, era di classica corporatura slava: sguardo sfrontato, di bell’aspetto e non troppo usurato dai vizi della cocaina (narici con i capillari rotti) e del gioco d’azzardo (unghie eccessivamente curate).

L’uomo allungò cordialmente la mano a indicare la sedia davanti alla scrivania: lo stesso gesto fatto dal socio il giorno prima, forse un marchio della ditta.

Monticelli abbassò gli occhi per vagliare la pulizia della sedia e si accomodò. Quando li rialzò, l’uomo aveva già fatto scivolare verso di lui il raccoglitore.

– La ragazza in albergo piaceva? – chiese.

Monticelli prese il raccoglitore e lo sfogliò.

Le ragazze erano otto, come richiesto, tutte magre e vagamente bionde, fotografate in costume e in abito da sera. Sotto erano riportati il nome, l’età, la città di provenienza e il titolo di studio (c’era persino una laureata in un’università inglese). Sul retro della pagina alcune frasi attribuite alle ragazze (Il tuo piacere è il mio), un numero di passaporto e la fotocopia di un certificato medico, completo di test Aids e malattie veneree.

– Quando possono essere in Svizzera? – domandò Monticelli.

– Se facciamo il pagamento adesso, – sorrise l’uomo – la prossima settimana. Tutto perfetto – e spalancò le mani a mostrare la facilità della cosa.

– Bene – disse Monticelli, continuando a scorrere le infinite tonalità di biondo che possono avere le ragazze dell’Est. – Prima, però, vorrei la garanzia che lei è davvero Adrian.

L’uomo rise e si dondolò sulla sedia che non era fatta per dondolarsi. Il pavimento era pieno di vetri rotti e fogli di giornale, vecchie riviste in sobri caratteri sovietici. Quando ebbe finito di dondolarsi, ma non di ridere, infilò una mano nella tasca interna della giacca e gettò sul tavolo il passaporto.

Monticelli controllò che i dati corrispondessero e lo mise in tasca.

Adrian smise di ridere. Due gambe della sedia erano rimaste sollevate in una sorta di attesa vigile.

Monticelli gli mostrò il palmo della mano, come a dire “una formalità”, quindi aprì la ventiquattrore che teneva in grembo.

Lo scatto delle due piccole serrature parve rassicurare il rumeno, che poggiò a terra le gambe della sedia e tornò a rilassarsi contro lo schienale.

Monticelli sorrise per confermargli che era esattamente quello che doveva fare, poi abbassò lo sguardo e trafficò all’interno della ventiquattrore. Quando ebbe finito, richiuse il coperchio della valigetta, tese il braccio che reggeva la pistola silenziata e collocò una pallottola di piccolo calibro al centro della fronte del suo interlocutore.

Il rumore fu quello di una moneta che cade innocua nella vasca di una fontana.

Gli occhi di Adrian rimasero spalancati. Le labbra come a metà di una parola sulla cui esattezza si è improvvisamente incerti. Il foro sulla fronte era non più grande di un nocciolo di ciliegia. Pochissimo il sangue che ne usciva.

Monticelli svitò il silenziatore e lo ripose nella valigetta insieme all’arma, fermandoli entrambi con gli appositi lacci di velcro, quindi estrasse un taccuino dalla tasca della giacca e tirò una riga sulla prima voce di un elenco di cinque.

Quando si avvide che il corpo di Adrian stava scivolando di lato, ritirò il taccuino, si allungò e, facendo attenzione a non sfiorare con la cravatta la scrivania impolverata, lo rimise dritto.

Quindi estrasse dalla valigetta una macchina polaroid e il giornale acquistato poco prima di fronte all’autonoleggio.