Attraversare il giardino sotto il sole del primo pomeriggio, percorrere il sentiero di ghiaia fino al portone del piccolo edificio liberty ed entrare. Raggiungere le scale, salire i gradini a due a due, in fretta, pur sapendo che è ancora presto, e arrivare al secondo piano dove la porta dell’aula è chiusa, il corridoio immerso nel silenzio del loro sonno.
Sedere sulla panca, le ginocchia al petto, la schiena contro le piccole giacche a vento e i cappotti appesi agli attaccapanni. Fissare il buio dove stanno dormendo, sorridere dell’odore del cibo che hanno mangiato, delle sacche di stoffa con il loro nome che contengono le “cose per il bagno”. Poi sentire una canzoncina provenire dal fondo del corridoio: “Gaston, y a le téléphone qui sonne,” voltarsi e riconoscere la sua figura piccola, il viso contro il muro e il grembiulino legato in vita con del nastro da pacchi.
“Perché il nastro da pacchi?” chiedersi, alzandosi per andare da lei.
“Et y a jamais personne qui...”
“Cosa fai qui tutta sola?” chiederle, accarezzandola. “Andiamo a casa!” E proprio in quel momento accorgersi dei capelli che si staccano a ciocche dalla sua testa e dell’odore acido che il suo piccolo corpo emana, come un cancro, un grido, un addio dato male.
Corso fissò le proprie dita vuote, usate e piene di cicatrici. Le mani erano la sola cosa di lui che chiunque avrebbe trovato notevole. Almeno per come gliele aveva consegnate suo padre: quel che ne aveva fatto dopo e ne stava facendo era un’altra faccenda.
Bussarono di nuovo.
Si alzò dalla poltrona dove aveva aspettato che scivolassero le ore della notte, e andò alla porta.
– Entra – disse.
Mise su il caffè e nel farlo lanciò un’occhiata all’orologio sulla credenza. Le otto e qualche spicciolo. Lo zio aveva appoggiato la sacca accanto alla sedia, indossava la tuta grigia da sport. Il giovedì mattina aveva il corso di yoga.
– Sei andato dalla rumena? – domandò.
Corso non si stupì dell’assenza di preamboli. Non c’erano stati nemmeno quando lo zio era andato a prelevarlo bambino al collegio di Mondovì, dicendogli di sbrigarsi a fare la valigia perché il padre si era preso una scarica di pallettoni durante una battuta di caccia.
Poche ore dopo erano all’ospedale dove l’uomo giaceva in una stanza a tre letti, tutti occupati da gente che non sarebbe tornata a casa. Nei pochi minuti che gli avevano concesso di vederlo sembrava riposare inquieto, come nei pomeriggi in cui si addormentava sul divano, interrotto da sobbalzi durante i quali sgranava gli occhi senza vedere nulla. I soli istanti in cui fosse mai sembrato un uomo come tutti gli altri in confidenza con il dubbio e la colpa.
Corso però, nei pochi minuti trascorsi nella stanza, non aveva pensato a questo ma, come sempre accade nelle camere d’ospedale, a cose banali e meno riepilogative come la flebo, il cattivo odore, i vicini di letto, toccarlo o non toccarlo, l’urina e tutto il resto.
La madre stava in silenzio, una mano posata sull’avambraccio del marito dov’erano tatuati una grande X e un teschio con la rosa in bocca. Corso non sapeva cosa significassero, ma ne aveva sentito parlare in paese con disprezzo e riverenza. In fondo aveva solo nove anni e in quel letto c’era un uomo che amava nella maniera distante e controversa con cui si può amare la montagna che chiude l’orizzonte della tua valle da quando sei nato. Le ore successive le aveva passate nel corridoio, dove uomini venuti per ragioni differenti ad aspettare l’ultimo respiro sedevano lungo i due lati senza rivolgersi la parola. Un silenzio che l’aveva spossato, come stancano gli addii carichi di cose taciute.
Nelle settimane che erano seguite al funerale aveva recuperato le forze, perso l’abitudine alle preghiere che scandivano le giornate del collegio e preso a frequentare, prima con circospezione, poi apertamente, la casa dello zio, luogo coperto, vivo il padre, da un tacito veto.
Tra loro non ci era voluto molto a intendersi, e quel poco sin dall’inizio non era passato per le parole. Così, senza investiture ufficiali e con il silenzioso consenso della madre, lo zio gli aveva fatto da padre, poi da fratello e infine, se non fosse stato per la reticenza che regolava i rapporti tra gli uomini di quella terra, Corso avrebbe detto ora da amico.
Due soli i momenti in cui avevano avuto bisogno di qualcosa di più di uno sguardo per capirsi. Il primo era stato quando lo zio, ai sedici anni di Corso, gli aveva raccontato perché avesse quel nome. Il secondo quando Corso, ventenne, aveva detto allo zio di voler entrare in polizia.
“Il mio l’ho fatto,” si era limitato a dire lo zio, lasciando intendere di averlo tolto ai preti e accompagnato fin lì meglio che poteva.
Il caffè tardava. Corso bagnò il fondo della caffettiera.
– Ci ho parlato l’altra sera – disse. – Si prende un mese per dare una risposta.
Lo zio annuì. Dall’esterno veniva il rantolo di un trattore lontano che il gorgoglio del caffè coprì. Corso portò le due tazzine al tavolo, insieme allo zucchero.
– Hai ancora quella vecchia Luger? – chiese.
Lo zio mise il solito cucchiaino.
– Ce l’ho – disse.
– Funziona?
– Dipende.
Squillò il telefono. Corso raggiunse l’apparecchio. Era Arcadipane.
– Vuoi la buona o la cattiva?
– Fai tu.
– Secondo l’analisi calligrafica, la firma sui registri e le lettere sono della stessa mano, quindi quello che va al Cottolengo è il nostro uomo.
– La cattiva?
– Ci sono tre persone che corrispondono a quel nome: uno è su una sedia a rotelle, l’altro è un ragazzino di quattordici anni e il terzo un avvocato di Padova che all’epoca dei fatti aveva sette anni. Quindi nome falso. Fine della pista.
– Controllato l’estero?
– Niente.
Un raggio di sole aveva svoltato l’angolo della finestra disegnando una lama sul pavimento.
– Però ora abbiamo l’identikit, quando tornerà...
– Non verrà – disse Corso.
– È venuto gli ultimi sette anni!
– Non verrà – ripeté Corso, e riagganciò.
Per un po’ rimase a fissare la polvere che danzava minima e volatile nel corridoio di luce solare. Esisteva un ordine in quell’agitarsi? Per coglierlo bisognava condividerne la natura microscopica o elevarsi a un grado più alto della materia?
– A che ti serve la Luger? – chiese lo zio.
Corso tornò verso il caffè.
– A niente.