– Metti questo sotto il braccio.
– Non è il caso.
– Sei venuto a bussare alle sei di mattina, lo decido io cos’è il caso.
Corso prese il termometro e lo infilò sotto il maglione, poi bevve un altro sorso di tisana. Sudava in tutto il corpo e non era certo di quello che facevano le sue mani, così posò subito la tazza. L’odore del cibo consumato la sera prima nella sala gli dava il voltastomaco.
Cesare aveva ripreso a passare con lo straccio i bicchieri usciti dalla lavastoviglie.
– Dopo vado a prenderti dei calzoni – disse. – Non saranno all’ultima moda, ma almeno ti coprono le gambe.
Bip.
– Dammi.
Corso estrasse il termometro e glielo passò. Cesare lo mise a favore della luce che entrava smaltata dalla finestra, poi lo abbassò sotto quella del neon, quindi lo posò sul bancone.
– Dacci un’occhiata tu – si rassegnò.
Corso lo avvicinò al viso. Fece di sì con la testa.
– Prima di mandar giù un’aspirina – disse Cesare – devi mangiare qualcosa.
Rimase di sopra una decina di minuti, durante i quali Corso abbandonò la testa tra le braccia incrociate sul bancone, continuando a sentire i passi, la porta che cigolava e la musica araba.
La notte era ridisceso all’attacco che dal cielo precipitava una sottile polvere fredda, come se qualcuno scartavetrasse una stella di ghiaccio. Aveva le mani irrigidite, i pantaloni strappati e non poteva più leggere l’ora sul suo Cyma, così aveva alzato due sponde di sassi sotto l’ombra del primo larice, un letto e una sepoltura insieme, e si era rannicchiato ad ascoltare il rumore bambino e privo di pericoli della neve.
Quando alla prima luce aveva aperto gli occhi, un sottile tappeto candido copriva le rocce, ricamato da piccole tracce. Forse un ermellino.
Aveva pensato all’animale che si avvicinava nel buio, silenzioso e affusolato, lo annusava e si allontanava senza paura, come ci si lascia alle spalle un legno morto o un gesto senza conseguenze. Una parte.
Alzò la testa e fissò l’aspirina ribollire nel bicchiere.
– Dovresti portare con te la tua amica, qualche volta – disse Cesare. – Magari con lei non cercheresti di ammazzarti.
Corso aspettò che l’effervescenza nel bicchiere terminasse. Nel piatto accanto c’erano due fette di pane, del prosciutto e una noce di burro. Al centro un uovo strapazzato.
– Forse si sposa, con uno della tua età – disse, e bevve d’un fiato.
– Son donne di buon senso – alzò le spalle Cesare.
Mentre Corso mangiava, passò la corriera delle sette. Alla fermata non doveva esserci nessuno, perché l’autista si limitò a scalare le marce e gonfiare il petto del diesel prima dei tornanti. Poi tutto svanì. La neve colava dai tetti.
– Ce n’è una nuova sui lupi – disse Cesare. – Vuoi sentirla?
Corso si limitò a sollevare il mento.
– La comunità montana ha dato a quelli degli alpeggi dei cani che vengono dalla Spagna. Stanno tutto il giorno seduti sotto un albero, non gli passa nemmeno per la testa di andare a prendere le bestie che si allontanano, ma se un lupo si avvicina lo fanno scappare con la coda fra le gambe, e se non è di quell’idea, sono capaci di lasciarlo per morto – annuì alla perfezione della cosa. – Basta fargli vedere il terreno che devono guardare e loro si mettono al lavoro, per il resto sono come cani da compagnia. Li puoi anche mettere a dormire con i bambini. Che ne pensi?
Corso continuò a fissare il viso biblico di Cesare.
– Ottimo – disse, poi guardò in giro in cerca di Brian.
– È di sopra – disse Cesare.
– Lo fai salire in casa?
– È lui che vuole.
– Credevo non potesse.
– Non poteva.
– E ora sì?
– Ora sì.
La porta si aprì mostrando una sagoma smilza. Il sole fuori era una luce già adulta. C’era qualcosa di ansante nella fretta di quelle mattine di essere pomeriggio, di quella stagione di essere estate. Corso lo avvertiva, ma non sapeva che farsene.
– Un caffè buono lo fate anche ai terroni? – disse il forestale. – O è solo per la gente del posto?
Cesare caricò il filtro e lo strinse alla macchina con un gesto metalmeccanico. La vecchia Faema sfiatò, come un bovino costretto ad alzarsi, e il caffè cominciò a colare rugginoso nella tazza. L’uomo intanto era andato a sedere sullo sgabello accanto a Corso.
– Trovato neve lassù?
– Uh, uh – fece Corso.
Cesare posò la tazzina sul banco. Il forestale strappò l’angolo di due bustine, le appaiò e ne fece scivolare il contenuto nel caffè con molta delicatezza. Dalle maniche arrotolate della camicia le braccia gli uscivano scure e indolenti. Un braccialetto d’oro al polso.
– Approfitto che vi trovo per togliermi lo scrupolo – disse.
Sfilò di tasca un blocchetto giallo, lo appoggiò sul banco e cominciò a sfogliarlo. Il freddo del mattino aveva consegnato ai suoi occhi un celeste più netto.
– La Volvo qui fuori è la vostra, no? – E lesse il numero di targa.
Corso annuì continuando a giocare con una briciola di pane.
Il forestale bevve un sorso. Sulle pagine aveva targhe, orari, nomi di borgate, uno di donna e lo schizzo di una stanza o un sentiero.
– Ieri sera qualcuno ha segnalato dei colpi di fucile in località Serra, dove era parcheggiata la vostra macchina. Stamattina sono salito e ho trovato un camoscio abbattuto in un cespuglio. Sicuro qualche bracconiere l’ha nascosto per andare a prenderlo quando la neve andava via.
Corso prese tra le dita la briciola con cui aveva giocato e la mise in bocca. Il forestale mandò giù l’ultimo sorso di caffè e sorrise.
– Io credo – disse poggiandogli una mano sulla spalla – che se non ci aiutiamo tra noi che in montagna...
Non ci fu alcun trambusto. Né la tazzina né il bicchiere si rovesciarono. Solo lo scatto preciso e breve della mano sinistra di Corso, dopodiché rimase solo il mantice della bocca del forestale che cercava ossigeno, i testicoli serrati in una morsa.
– Corso.
Corso fissava le pagine aperte del taccuino sotto la guancia del forestale.
– Corso!
Spostò gli occhi sul vecchio.
– Ha capito.
Corso guardò il viso livido dell’uomo, poi di nuovo il taccuino.
– Vero che hai capito? – disse Cesare.
Il forestale annuì, stropicciando le pagine.
Corso lasciò la presa e l’uomo scivolò dallo sgabello, raggomitolandosi a terra senza respiro.
– Dammi la linea, per favore – disse Corso.
Cesare allungò una mano verso il contatore degli scatti.
– L’uovo lo finisci? – disse.
– Lo dai a Brian?
– No, lo fa andar male di corpo.
– Allora lascialo qui – disse Corso, poi scavalcò l’uomo dagli occhi azzurri che aveva cominciato a tossire e andò al telefono.