Corso sedeva su una delle quattro sedie intorno al tavolo. Era stato Buozzi ad accompagnarlo di sotto, dicendogli di accomodarsi: Arcadipane era “rientrante” da una riunione in questura, sarebbe stato lì a minuti.
Non ci voleva molto a capire che la stanza serviva per gli interrogatori: niente finestre, nessun arredo, muri ad assorbimento acustico, il solito grande specchio, luce artificiale. Le pareti di un verde pallido, appena tinteggiate. Il pavimento di gomma grigia.
Ai suoi tempi il piano interrato era utilizzato come schedario e la sala interrogatori si trovava all’ultimo piano, così, facendo sedere l’interlocutore spalle alla finestra, poteva sentire quel che aveva da dire e guardare la Mole spuntare oltre il palazzo della Rai, senza aver l’aria di disinteressarsi del tutto di lui.
Forse per questo non ricordava nessuno di quei visi. Non li guardava. Mentre ricordava bene il tetto di pietra e la guglia sotto gli scrosci dei temporali, innevati, sbiancati dal sole, lucidi delle estenuanti piogge autunnali e appena accennati nella grassa nebbia delle prime ore.
Nella stanza entrò una ragazza. La riconobbe subito: era quella vista di sopra qualche settimana prima, quella con il cucchiaino ritorto all’orecchio, quella in un mare di guai.
Senza salutare andò all’altro capo del tavolo, scostò la sedia, gettò la borsa sul piano e ne tirò fuori un piccolo computer. Mentre sedeva e accendeva il portatile, Corso cercò nell’aria: soltanto una lontanissima eco di benzina, poi lo schermo le illuminò il viso e notò che aveva un piccolo anello alla narice destra, forse d’ambra, che si smarriva nella carnagione olivastra. Indossava una canottiera cachi sotto il giubbotto di pelle, jeans neri e anfibi verde carapace allacciati a metà.
– Sei vegetariano? – chiese.
Aveva una voce lenta, femminile, malgrado l’aspetto e l’età.
– No – disse Corso. – Tu?
La ragazza alzò le spalle.
– No, per niente.
I polsi le uscivano dalle maniche del giubbotto come snodi di una vecchia lampada da tecnigrafo. Tuttavia il suo non era il tipo di magrezza che fa pensare alla malattia, alla fragilità o al bisogno. Corso ragionò che poteva avere venticinque anni.
– Chi ti ha detto di venire qui? – le chiese.
La ragazza toccò un paio di tasti. Cinque delle sue dita avevano le unghie avvolte dal nastro adesivo.
– Il capo.
– Chi è il tuo capo?
Estrasse dalla borsa una decina di quaderni.
– Non tu – disse impilandoli di fianco al pc.
Corso li osservò. Solo tre in verità erano quaderni; gli altri erano piccoli bloc-notes e, un paio, plichi di foglietti tenuti insieme con uno spago.
Quando la ragazza era entrata aveva stimato dieci possibilità su cento che fosse lì per quel motivo, trenta che si trattasse di un errore (l’avevano condotta nella stanza sbagliata) e sessanta che Arcadipane volesse un parere su un altro caso. Ora il dieci era diventato il novanta. Cosa fosse il dieci rimasto, non valeva più la pena chiederselo.
– Se la pianti di fissarmi, mi fai un favore – disse lei.
Aveva zigomi nordici, malgrado i capelli neri, mentre le spalle forti e leggere sembravano arrivare dai Balcani. Il naso e la bocca erano del tutto francesi. Ogni commento su di lei, del resto, si sarebbe potuto concludere con un “malgrado”, il che generava un indiscutibile e fastidioso bisogno di guardarla.
– Sei un’agente? – domandò Corso.
Gli occhi senza trucco della ragazza lo fissarono per la prima volta da sopra lo schermo, come prendendo la rincorsa, ma in quel momento la porta si aprì e Arcadipane entrò nella stanza, seguito da una nuvola di fumo.
Il commissario sedette, trafelato, la giacca gualcita dal sedile dell’auto. Il fumo andò subito a prendere posto sotto il soffitto.
– Mettiamo in chiaro una cosa, – e fece un ultimo tiro che gli sprofondò le guance – questo incontro non c’è mai stato, io non ho mai incaricato Isa di niente e la cosa non mi è comunque stata suggerita da un ex commissario depresso che ricevo ogni tanto solo in nome della vecchia amicizia, ok?
Nessuno dei due rispose.
– Allora. – Spense la sigaretta a terra con la punta della scarpa. – Isa è andata al Cottolengo a parlare con quella cazzo di suora e, non so come, ha avuto il permesso di prendere i quaderni della tua amica grafomane. Le ho detto di controllare le targhe che la picchiatella ha segnato il 24 dicembre degli ultimi sette anni, e di fare un confronto. Ammesso che abbia scritto qualcosa di sensato...
La ragazza fissava lo schermo senza darsi pena di nascondere la noia. Adesso che aveva incrociato le mani dietro la sedia, le bretelle della fondina le disegnavano seni più grandi di quanto la sua magrezza lasciasse supporre.
– ...secondo me è tempo perso, perché non è detto che Autunnale doveva venire in macchina e parcheggiare pure in quella strada. Comunque, visto che hai detto che è l’ultimo favore che mi chiedevi...
Dal silenzio che seguì, Arcadipane si rese conto di essere stato l’unico ad aver sentito il bisogno di quel riepilogo. Prese dalla tasca le sigarette e ne mise una tra le labbra, molto velocemente.
– Leviamoci ’sto dente – disse accendendo.
La ragazza staccò la schiena dalla sedia e con un dito fece ruotare il computer in modo che i due potessero vedere lo schermo. C’erano un paio di cerchi divisi in spicchi colorati.
– Queste – disse indicando il primo – sono le targhe che ricorrono più di una volta nei sette anni. Sono diciannove sulle duecentoundici riportate nei taccuini. Il secondo grafico è invece il risultato della verifica di queste diciannove: sei risultano di proprietà di persone che lavorano o lavoravano nella struttura, otto sono di residenti del quartiere, quattro sono intestate a persone che avevano o hanno un parente ricoverato. L’ultima – e con una delle dita fasciate indicò lo spicchio più piccolo della torta – compare tre volte in sette anni. È di proprietà di un certo Amedeo Luda.
Dedicò ai due uomini uno sguardo inappetente, poi girò il computer verso di sé, allungò le gambe e rimise la schiena contro la sedia.
– Chi è questo Amedeo Luda? – domandò Corso.
La ragazza lasciò cadere il mento sullo sterno.
– Non mi è stato chiesto di verificare – disse. E, alzando appena gli occhi su Arcadipane: – Mi hai detto di non farla fuori dal vaso, no?
– Ti ho anche detto di non dare del tu ai superiori – disse il commissario. – Hai verificato o no questo Luda?
La ragazza tornò a fissare il monitor.
– Ha ottantatré anni, origini nobili, vedovo, vive in collina. In passato è stato azionista di una banca e membro di alcuni consigli di amministrazione, ma è noto soprattutto come collezionista d’arte giapponese. A un centinaio di metri dal Cottolengo c’è un antiquario molto stimato nell’ambiente dell’arte orientale. Il proprietario e Luda sono amici, e pare che Luda vada a trovarlo ogni vigilia per acquistare qualche pezzo da regalare a Natale.
– Questo come lo sai?
– Ho chiamato.
– Chi hai chiamato?
– Il negozio – disse la ragazza. – Ho detto che volevo fare un acquisto e cercavo l’antiquario da cui proveniva un pezzo che lo scorso Natale mio padre ha ricevuto da un collezionista. Il proprietario mi ha chiesto se il collezionista era Luda. Ho detto che era lui. Così quello mi ha...
– Ho capito, ho capito, non stiamo facendo a chi ce l’ha più lungo. Altro?
La ragazza spostò il ciuffo che le copriva metà del viso. Sul collo, a destra, dove i capelli non erano rasati e le scendevano sulla spalla, aveva sette piccoli segni blu, forse le Pleiadi. Il cucchiaino invece stava nel lobo sinistro.
– No – disse.
– Tu? – chiese Arcadipane a Corso.
– No.
– Ok, puoi andare.
La ragazza chiuse il computer.
– Questi? – disse accennando ai taccuini.
– Che ti ha detto la suora?
– Di riportarli.
– E allora riportali.
La ragazza li gettò senza riguardo nella borsa e fece lo stesso con il pc, poi si alzò. Era qualcosa di più che un metro e settanta, ma la magrezza la faceva sembrare più alta e selvatica. Arrivata alla porta, la mano già sulla maniglia, si voltò.
– Quand’è che mi rimandi fuori?
Arcadipane non la guardò.
– Quando impari a dare del lei ai superiori e a tenere le mani a posto.
– Cioè?
Arcadipane spense la sigaretta per terra, non distante da quella di prima, per dire che il discorso era finito, e la ragazza uscì.
Rimasero in silenzio per qualche secondo, che poi divenne minuto. Arcadipane però aveva da fare al piano di sopra e non amava fumare nelle stanze senza finestre.
– Non credo che l’ottantenne Luda sia il brizzolato di cinquant’anni che cerchiamo – disse.
– Probabile, – si grattò una mano Corso – ma che faresti se non fosse un caso vecchio di vent’anni?
Arcadipane accese un’altra della sue sigarette e fece una serie di tiri molto lunghi, meditativi, rigirando il pacchetto sul tavolo. Prima orizzontale, poi verticale, poi di nuovo orizzontale.
– A un patto però – concluse.
– Cioè?
– Che ti porti la ragazza.
Corso guardò la sedia vuota dove fino a poco prima c’era stata lei.
– Di sopra, o se la vogliono scopare o non la possono vedere – disse Arcadipane. – Oppure tutti e due. Lei non è che faccia molto per facilitare le cose. Forse è lesbica, non so, non sono uno che ci capisce. Comunque bisogna che qualcuno le insegni a stare al mondo. Magari a te ne capitano tutti i giorni a scuola, di quelle così.
– Perché è in castigo?
Arcadipane disegnò un paio di cerchi nell’aria con la sigaretta, come per rappresentare un insieme di cose.
– È strafottente, sboccata. E poi quindici giorni fa ha rotto il naso a un collega.
– Perché?
– Dice che allungava le mani.
– È vero?
– Che cazzo ne so? Sei stato al mio posto, no? Non è che apro il confessionale e quelli vengono a dirmi i loro peccati.
– Trasferiscila.
Arcadipane scosse la testa.
– Con tutti gli imbecilli che ho per le mani, me ne arriva una in gamba e la spedisco? Mi fai proprio coglione, allora! – Dovette stendere la gamba per schiacciare quel che della sigaretta aveva lasciato cadere a terra.
– E poi è la figlia di Mancini.
Corso ci mise un po’.
– Mancini...
– Mancini, Mancini – annuì Arcadipane. – Se fosse stato un altro Mancini, non ti avrei detto che era figlia di Mancini, no? – Frugò di nuovo nel pacchetto. – Allora che fai, te la prendi?