28.

– Prego, signor Monticelli, il dottore l’aspetta.

Jean-Claude Monticelli chiuse la rivista, prese la valigetta e si alzò dall’ampia poltrona in cui si era da poco seduto. Attraversò la sala dalla boiserie in radica, sorrise alla giovane segretaria che un paio di anni prima aveva sostituito Renata, ritiratasi dopo la pensione nella casa di Maiorca con il marito, ed entrò nello studio.

L’aveva sempre trovato dimesso, quasi trasandato, tenuto conto delle parcelle che vi si pagavano e dell’indiscutibile gusto di Klaus per le cose belle, soprattutto se bionde o capaci di superare i duecentocinquanta chilometri orari. Tuttavia, pensava che la cosa avesse una sua ragion d’essere: i richiami alla caducità della vita non possono non contemplare una nota di squallore.

Sedette sulla plasticaccia dell’unica sedia di fronte alla scrivania in laminato di Klaus e sorrise. Klaus non amava che i pazienti entrassero accompagnati. Genitori, coniugi e affini dovevano aspettare nella sala fatta per aspettare. Per questo davanti alla scrivania c’era una sola sedia. Per questo alle pareti non c’erano quadri o attestati. Niente distrazioni.

– Eccoci – disse Klaus.

A un giudizio sommario lo si sarebbe detto un Rembrandt dal ventre prominente, la testa di un bue su cui si inseguivano pochi capelli di un rosso appena più blando rispetto a quello della barba. Su una guancia aveva un grosso porro non privo di virilità. Andando più per il sottile si sarebbero notati il naso camuso, i lobi forati ma privi di orecchini e le mani di un paio di taglie più piccole rispetto a tutto il resto.

– Eccoci – disse Monticelli, adagiando la valigetta sulle ginocchia. – Hai tutto?

L’uomo slacciò le piccole mani, prese una cartella dal cassetto e la depose al centro esatto della scrivania. Il fronte plastificato portava il nome e il logo dello studio. Il logo era una sua ideazione, ricavata a memoria dal disegno che vedeva sull’insegna dell’osteria del Renano dove la madre da bambino lo mandava a recuperare il padre. Rappresentava un alveare sopra un nido di serpi. A saperlo erano soltanto in quattro.

– Dai un’occhiata – disse.

Monticelli prese la cartella e sfogliò con calma le cinque pagine che conteneva. La stanza era perfettamente isolata e la palazzina a due piani di cui faceva parte sorgeva in una zona collinare, esclusiva, a cinque minuti dal centro ma immersa nel verde. Come dire: nessun rumore e abitanti con una genetica vocazione alla riservatezza.

– Mi pare convincente, – disse richiudendo l’incartamento – ma sei tu quello del mestiere. Che ne pensi?

Klaus alzò le spalle.

– Quel tipo di carcinoma non richiede troppi esami e ha un decorso molto rapido. Inoltre è compatibile con il passato clinico, le attuali condizioni di buona salute apparente e la prospettiva di morte nel giro di pochi mesi. Inutile dirti che chiunque verificasse i valori su un campione di sangue o di urina, scoprirebbe che sono falsi.

– Forse perché sono falsi?

Klaus sorrise, mostrando un dente d’oro. Una faccenda molto vecchia.

– Immagino non ti debba chiedere a cosa ti serva – disse.

– Vorresti?

– No, ma non vorrei andarci di mezzo. E nemmeno le persone cui ho chiesto di fare quello che gli ho chiesto di fare.

Monticelli prese una caramella di zucchero dalla boccia trasparente sulla scrivania. La scartò, la mise in bocca e affusolò la carta fino a farne una grande spina di acacia.

– Da quanto ci conosciamo? – chiese, deponendola sulla scrivania come la lancetta di una bussola che punta l’est.

– Vent’anni fa mi hai pagato per una falsa dichiarazione.

– Hai mai saputo perché?

– No.

– Qualcuno è mai venuto a chiedertene conto?

– No.

– E per vent’anni siamo rimasti ottimi amici.

– Ottimi.

Monticelli allargò le mani e le tenne sospese, finché l’uomo sorrise, questa volta più largo, rivelando un secondo dente d’oro.

– Beviamo qualcosa?

– Dopo – disse Monticelli.

Fece scattare le serrature della ventiquattrore, cercò al­l’interno e posò sulla scrivania tre buste bianche.

L’uomo che sembrava Rembrandt le aprì e contò sommariamente il denaro.

– Molto esatto – disse.

Monticelli annuì, continuando a sfogliare l’agendina che aveva estratto dalla tasca. Arrivato alla pagina che cercava, tracciò una riga sulla seconda voce della lista. Un segno di grafite di cui apprezzò la nettezza e la pulizia.