35.

Il telefono squillava da un pezzo. Era la seconda volta che chiamava. Dalla prima erano passati sì e no due minuti: il tempo di aspettare il verde dell’unico semaforo sulla strada per uscire dal paese.

– Pronto? – staccò finalmente lo zio.

– Sono Corso.

– Ero fuori che attaccavo il tamagnone.

– Ho bisogno tu faccia due cose per me, in fretta.

– Cosa capita?

– Dopo ti dico, adesso vai al bar, Elena dovrebbe essere di turno. Non dirle niente, ma stai lì finché non arrivo e controlla che nessuno le giri intorno. Se vuole andare perché ha finito, non farla uscire, le dici che mi deve aspettare. Se invece non è al bar, vai a casa sua e aspetti fuori finché non arrivo. Se vedi una macchina o qualcuno, sali in casa da lei e mi chiami. Hai capito?

– Credo.

– Prima di andare prendi la Luger, caricala e portala con te. Non usarla, qualsiasi cosa succeda. Voglio solo che me la consegni quando sono lì.

– Se devo fare in fretta o faccio una cosa o faccio l’altra.

– Perché?

– La Luger non l’ho qui, devo andare a prenderla.

Corso rifletté.

– Lascia perdere la Luger allora, vai al bar.

– Vado al bar.

– Sì, vai.

Chiuse la comunicazione con il cellulare e guardò l’ora. Sarebbe stato laggiù tra una ventina di minuti, lo zio un po’ prima. Rallentò attraversando l’unico paese sul tragitto, poche migliaia di cristiani, tre ristoranti, uno soltanto buono, una tabaccheria il cui gestore era stato suo compagno di scuola, due attività di parrucchiera, una con negozio, l’altra in casa, un meccanico, un carrozziere, una grossa boita dove facevano pianali per bisarche impiegando più di venti operai, un’impresa edile, un negozio di alimentari, un bar con tre macchinette e ricevitoria, la struttura di una pompa di benzina iniziata ma mai aperta per problemi di credito, un’impresa di pompe funebri, una chiesa, un asilo a conduzione familiare (la madre aveva un vecchio diploma di maestra e un occhio di vetro, la figlia un attestato di educatrice) e una scuola elementare.

Uscito dalle case, Corso cercò nel portafogli il biglietto con il numero, ma quando l’ebbe estratto si accorse di non riuscire a leggerlo, comporlo e guidare nello stesso momento, allora rallentò a bordo strada.

– Sì – rispose Isa.

Corso ripartì sollevando un po’ di ghiaia.

– Si sono mossi.

– Cioè?

– Una scritta davanti alla scuola dove insegno. – E gliela recitò.

– È lui?

– No.

– Come fai a dirlo?

– Non è il suo modo.

– Allora chi è stato? Non dovevano essere tutti morti o decrepiti?

– Non importa. Quando mi hai detto che esiste un fascicolo su di me, era vero?

– Perché cazzo te l’avrei detto se no?

– Cosa c’è scritto?

– Quello che ti ho detto.

– Nient’altro?

Isa rimase in silenzio. Corso aveva imparato a suo tempo a capire perché la gente stesse zitta. Quello era il genere di silenzio di chi non ha proprio niente da dire. Però aveva bisogno di esserne sicuro.

– Nel fascicolo si parla di una relazione con una donna?

– Che donna?

– C’è scritto o no?

– No, non c’è scritto.

– Ora devo sistemare una cosa, ti chiamo stasera.

– E io cazzo faccio?

Corso svoltò nella strada che lasciava la provinciale per tagliare a sud. La campagna intorno inverdiva, dopo alcune notti di pioggia e mattine fresche. Qualcosa di toccante, per chi non avesse avuto altro per la testa.

– Tieni d’occhio Luda, – disse Corso – vedi se riceve visite, se esce, controlla dove va. Con i telefoni puoi fare niente?

– Prima che le chiamate finiscano dove posso controllarle ci vuole qualche giorno.

– Non importa allora, pensa a Luda.

– Arcadipane?

– Ti ha chiesto qualcosa?

– No.

– Lasciamolo stare, ci parlo io stasera.

– Ma dove stai andando?

Corso vide in lontananza il paese. Non aveva nemmeno voltato la faccia verso casa sua o dello zio. Nessun pensiero estraneo, niente sguardi indietro, solo il presente e la traiettoria con cui andava a cadere qualche metro più in là. Era molto tempo che non funzionava a quel modo. Non credeva di esserne ancora capace.

– Chiama solo se c’è qualcosa – disse. – Altrimenti mi faccio vivo io.