38.

– Cosa vuol dire il titolo?

Corso distolse gli occhi dal dipinto e studiò il profilo della ragazza che era venuta a mettersi al suo fianco.

– Daphne era il nome della donna – rispose.

– Il nome vero?

– Daphne Maugham. Era inglese. Pavarolo è il paese dove viveva con il pittore. Erano marito e moglie. Anche lei era una pittrice.

La ragazza annuì, continuando a scrutare la donna seduta sul davanzale della finestra.

Corso la conosceva da un paio d’anni. Era brava nelle lingue straniere, ma faticava in storia. Il padre aveva un banco di frutta al mercato.

– Lei guarda Un divano per due? – chiese la ragazza.

– È una trasmissione?

– Sì.

– No, non la conosco.

– Ogni pomeriggio un personaggio famoso si siede sul divano con la giornalista, che si chiama Gabriella, e risponde a delle domande sulla sua vita, poi alla fine si salutano e lei gli dà un ritratto che un pittore ha fatto in mezz’ora. Mi chiedo come fa, a fare un ritratto così bene in mezz’ora.

Una compagna chiamò la ragazza, ma lei continuò a fissare il dipinto.

– A volte faccio finta di rispondere alle domande della giornalista: dove sono nata, com’erano i miei genitori, quando ho scoperto di avere talento e com’è cambiata la mia vita dopo il successo. Io dico sempre che sono rimasta una persona normale, vado a fare la spesa, vedo gli amici, sto in famiglia: le cose che fanno tutti.

La compagna la chiamò di nuovo. Lei si voltò e fece segno che tra un momento arrivava.

– È bello che tu tenga i piedi per terra – disse Corso.

– Ora devo andare – annuì la ragazza. – Lei sta qui?

– Sì, ancora un po’.

La ragazza raggiunse il gruppo che all’altro capo della sala faceva crocchio intorno alla guida e all’insegnante di economia aziendale. La maggior parte degli studenti davanti alle prime tele astratte avevano iniziato a lagnarsi del male ai piedi e a rimanere indietro. Corso sapeva che sarebbe dovuto andare a raccoglierli, ma non riusciva a distogliere lo sguardo dalla donna nel quadro. L’immagine aveva a che fare con qualcosa che stentava a tornargli alla mente e di cui sentiva insieme il desiderio e il rammarico.

– Si va a raccattare i dispersi?

– Sì – disse Corso, ma proprio mentre si voltava verso Monica, i suoi occhi colsero le mani intrecciate sul ginocchio della donna nel dipinto, e ricordò.

Una notte di molti anni prima si era svegliato in un letto non suo e, dopo essere rimasto a lungo disteso in silenzio, aveva preso a girare per le stanze di quella casa che non aveva mai visto.

Nel semibuio aveva osservato le fotografie della donna, dell’uomo e del ragazzino che la abitavano, i biglietti promemoria sulla lavagna di sughero e i piccoli oggetti consumati dalla vita di tutti i giorni. Una volta in bagno, si era seduto sul bordo della vasca e aveva fissato a lungo il rasoio, la crema da barba, gli spazzolini e il dentifricio di Spider Man. La notte era quasi finita e oltre il vetro smerigliato della finestra oscillava l’ombra di una magnolia grandiflora proiettata da un lampione.

Corso aveva pensato allora che tra non molto il padre e il ragazzino cui quegli oggetti appartenevano, si sarebbero svegliati nel residence dove erano andati a trascorrere il weekend e che, anche se il bambino aveva solo undici anni, avrebbero fatto colazione in silenzio, come due uomini. Finita la colazione, avrebbero preparato l’attrezzatura e sarebbero scesi alla spiaggia per immergersi prima che i bagnanti allontanassero i pesci, per poi sedere a mezzogiorno sugli scogli a mangiare focaccia, accanto alle mute lasciate ad asciugare al sole.

Era stato allora che aveva pianto per la prima e unica volta nella sua vita.

Pianto per Michelle e Martina che aveva perso da cinque anni, ma anche perché la bellezza richiede più di ogni altra cosa di essere intera e dunque non può trovare né rimedio né vera consolazione una volta perduta.

Tornato in camera, aveva visto la donna seduta sul davanzale, le colline alle spalle che schiarivano nella primissima alba. Lei, sentendolo arrivare, aveva voltato le testa ed erano rimasti a guardarsi, lui nudo e in lacrime sulla porta, lei con gli occhi ancora bagnati e le mani allacciate sul ginocchio, indosso solo la vestaglia sotto cui il controluce le disegnava i seni. Dopodiché si era vestito e, senza dire nulla, aveva lasciato per sempre quella casa dove abitava la sola persona che lo avesse visto piangere. La sola con cui avesse passato una notte soltanto. La sola che non avrebbe più rivisto e di cui non avrebbe ricordato il nome. La sola da cui aveva imparato qualcosa.

– Be’? Che c’è? – chiese Monica.

– Niente – disse Corso. – Andiamo.

Fecero il percorso a ritroso, trovando gli studenti accasciati sui divanetti, come reduci di una ritirata ingloriosa che si sono fermati a rifiatare in un luogo di cui non possono cogliere altro che la terribile lontananza da casa. Monica li convinse a seguirla, con la promessa che la visita era quasi finita, e se li tirarono appresso fino all’ultima sala, dove il grosso era radunato davanti a un dipinto di Emilio Vedova con due sole macchie di colore.

Il gruppo dei resistenti e quello dei renitenti si compattarono, non senza qualche occhiata astiosa. La guida riprese la spiegazione, ma non fece in tempo a finire la frase che la sua voce venne coperta dal sibilo acutissimo di un allarme.

Tutti si guardarono attorno, alla ricerca di qualcosa di cui ridere o lamentarsi, ma la sala era vuota, bianca, pulita e ogni cosa immobile.

Corso cercò la testa rasata di Alviano, trovandola come sempre accanto a quella riccioluta di Cammarata.

I due da un paio d’anni si muovevano all’unisono, come una coppia comica di prima della guerra: Cammarata esile, oblungo, cagionevole e sempre sull’orlo di un perenne stupore; Alviano grosso d’ossa, bernoccoluto, faccia da disertore e le labbra sempre alle prese con una mezza sigaretta. Tra loro c’erano tre anni di differenza, perché Alviano era stato bocciato due volte e per un anno aveva provato a lavorare come muratore, ma questo non aveva impedito a qualche strana alchimia di saldarli. Infatti ora ridevano entrambi, guardandosi i piedi.

Corso fece un paio di passi verso di loro.

Un addetto con una divisa azzurra era entrato nella sala. Seguito dagli occhi di tutti, raggiunse lo sportello mimetizzato nel bianco della parete, l’aprì e fece cessare il sibilo. Prima di andarsene ricordò, con tono di routine, di non avvicinarsi alle tele, perché erano protette da un sistema di allarme.

La guida riprese a parlare del periodo storico che aveva generato quel tipo di esperienza pittorica. Alcuni ragazzi ascoltavano, altri fissavano la schiena, il sedere, i capelli del compagno di fronte. Nella sala era comparso un visitatore giapponese.

Corso vide che Alviano e Cammarata si erano spostati di qualche passo. Scivolò a destra in modo da inquadrarli meglio, ma quando scorse Alviano che allungava la mano verso il dipinto, non ebbe tempo di dire o fare nulla.

Allo scattare dell’allarme questa volta la guida ebbe un moto di irritazione, ma rendendosi conto dell’inutilità della cosa, si limitò ad abbassare gli occhi sconsolata, come una madonna che assista dall’altare al saccheggio della propria chiesa.

Corso guardò Alviano. Rideva, la testa incassata nelle spalle.

Fece un passo verso di lui, ma prima che potesse raggiungerlo la collega di economia era già di fronte al ragazzo.

I due si fissarono un istante, poi la donna pronunciò una frase secca la cui parola finale, nel momento esatto in cui l’addetto faceva cessare l’allarme, risuonò per tutta la sala.

– ...cretino!

Tutti gli studenti si voltarono e restarono soltanto i passi dell’uomo in divisa azzurra che si allontanava cautamente. Anche il visitatore giapponese si era bloccato.

Corso fece l’ultimo metro e raggiunse Alviano.

– Andiamo – gli disse.

Il ragazzo teneva gli occhi in quelli della professoressa, sostenendone lo sguardo freddo. La donna era una spanna più bassa di lui, magra, con due figlie piccole e l’abitudine di venire a scuola in bicicletta, eppure tutto ciò che emanava da lei in quel momento sembrava fatto per ferire.

– Andiamo – ripeté Corso.

Alviano fece un passo all’indietro, come un grosso erbivoro che vuole sfilarsi da una posizione di svantaggio, ma non osa dare le spalle al predatore, poi, quando il suo istinto lo autorizzò, si voltò e uscì dalla sala.

Fecero alcune stanze a ritroso, le scale, una passerella sospesa sopra la biglietteria.

La terrazza del museo dava su un piccolo giardino dove con il bel tempo i visitatori potevano sedere, sfogliare i libri comprati al bookshop o passeggiare tra le aiuole. Tuttavia, in quella mattina grigia ogni cosa era coperta da una sottile patina di solitudine.

Corso guardò gli ultimi piani del palazzo di fronte. Su un balcone una mano premurosa aveva avvolto un ulivo in un velo di organza, dimenticando però di rimuoverlo alla fine dell’inverno. Dal cielo grigio scendeva una pioggia polverizzata che si notava solo su sfondo scuro.

– Quella non può darmi del cretino! – disse Alviano, dalla panchina su cui si era subito seduto. Aveva già tra le labbra la Winston lasciata a metà prima di entrare.

– Forse, – disse Corso – ma c’è un’età in cui si è cretini a fare certe cose, e tu ci sei molto vicino.

Alviano abbassò la testa e gettò fuori il fumo. La nuvola sfiorò il terreno e si disperse. Lungo il viale in quel momento stava passando un autobus elettrico. Un clacson suonava, smetteva e ricominciava.

– Non so perché faccio così – disse.

Corso appoggiò le mani sul davanzale e guardò il giardino. Al di là della vetrata che lo delimitava, i ragazzi recuperavano borse e zaini dal guardaroba. Tra poco sarebbero usciti a gruppetti, avrebbero acceso le sigarette e i telefoni sotto la pensilina, e lanciato verso di loro qualche occhiata.

– Forse dovresti... – cominciò Corso, ma si bloccò.

Sull’erba grigia del giardino, ai piedi di un albero, spiccava un cerchio di fiori cremisi ancora intatti.

Chiri tsubaki – sussurrò.

– Eh? – sollevò la testa Alviano.

Corso fissò la perfetta simmetria dei fiori. La pianta sembrava chinarsi su di loro senza rammarico, come se averli generati d’inverno e perduti ancora integri le avesse permesso di sottrarli per sempre alla morte e al disfacimento.

– Dove vai, professore? – lo chiamò Alviano, vedendolo attraversare la terrazza a passo svelto. – Che dico a quella di economia?... Professore? Dove vai?