40.

La stanza in cui aspettava da una ventina di minuti era la stessa: odore di plastica, muri fonoassorbenti e luce al neon, ma questa volta, quando la porta si aprì per lasciar entrare Isa e Arcadipane, Corso aveva sul tavolo davanti a sé una cartellina ingiallita, il romanzo di Kawabata, un piccolo blocco di appunti e una matita.

Fuori pioveva come piove d’autunno, stancamente e senza pentimento, fregandosene dei primi di giugno e delle due settimane alla fine della scuola. Corso, uscendo quella mattina, aveva ricambiato il disinteresse: niente giacca, niente cappello, niente ombrello. Solo camicia, sandali e pantaloni leggeri, che si erano subito inzuppati, e un sacchetto di plastica intorno allo zaino per proteggere qualcosa che non doveva bagnarsi.

Isa sedette alla sua destra, il commissario a sinistra. Il lato vuoto del tavolo lasciava aperta la visuale sulla porta su cui era affisso il divieto di fumare.

– Troppo borghese l’ombrello? – chiese Arcadipane.

Corso spostò dalla fronte i capelli bagnati, poi, come fosse la continuazione dello stesso gesto, prese la matita e scrisse sulla prima pagina del taccuino una parola che fece scivolare verso la ragazza.

– Cerca qualche immagine, per favore.

Arcadipane tolse dalla tasca posacenere e pacchetto.

– Ne ho tre – fece, sbirciandoci dentro. – Vale a dire dieci minuti.

Era l’unico ad avere vestiti e scarpe asciutti, segno che era al lavoro dall’alba o aveva passato la notte in servizio. Il posacenere aveva al centro uno stemma della polizia. Roba di araldica militare. Corso fu contento quando la prima cenere ci cadde sopra.

– Ecco – fece Isa.

Corso si sporse a guardare lo schermo del pc.

– Ingrandisci questa – disse senza bisogno di pensarci molto.

La ragazza eseguì. Quella mattina aveva messo pantaloni semplici e una camicia da uomo marrone; il colletto aveva una riga più scura dove la pioggia si era infilata tra il casco e il giubbotto. Niente macchie, strappi o spille con scritte minacciose. I soliti anfibi.

Quando Isa ebbe finito, Corso girò lo schermo verso il commissario.

– Questi sono fiori di Camellia japonica, una pianta originaria del Giappone che fiorisce in autunno e in inverno. La particolarità dei suoi fiori è che cadono a terra a primavera perfettamente integri.

Arcadipane dedicò un rapido sguardo a tutto quel rosso.

– Però! – e mostrò la sigaretta come si rammenta la clessidra a un concorrente.

Corso fece un debole sorriso. Aprì la cartellina su cui una calligrafia non sua aveva scritto AUTUNNALE, dispose sul tavolo sei foto in bianco e nero, e piegò lo schermo, rivolgendolo verso il soffitto.

– Alzati – disse.

– Perché?

– Alzatevi, per favore.

Arcadipane e Isa si alzarono.

– Cosa vedete?

Arcadipane si sporse in avanti, le mani aggrappate al bordo del tavolo.

– Dei fiori buttati per terra – disse – e sei foto che ho visto mille volte.

Corso attese.

– Il disegno – disse Isa.

– Che disegno? – la squadrò Arcadipane.

Isa ingrandì di un paio di volte l’immagine del portatile.

– Quello dei fiori. È lo stesso che c’è sulla schiena delle donne.

Arcadipane accostò il viso allo schermo, poi a una delle fotografie.

– Forse – ammise. – Ma che vuol dire?

– Vuol dire che Autunnale non incideva linee casuali, – disse Corso – ma riproduceva sulla schiena delle donne il disegno delle chiri tsubaki.

– Di che?

– È il nome giapponese di questa camelia. I suoi fiori in Giappone sono considerati simbolo di perfezione, ma anche della “vita spezzata” nella giovinezza.

– Allora adesso sappiamo che è uno che si intende di fiori. Altro?

– I bonsai che la Pontremoli ha ricevuto negli ultimi anni sono della stessa pianta.

Il volto del commissario non lasciò trasparire alcuna sorpresa. Con grande lentezza portò la sigaretta alla bocca e fumò, gli occhi stretti come tutte le volte in cui la sua mente di grana grossa doveva macinare qualcosa di molto sottile.

– Questo – disse riaffidando la sigaretta al posacenere – conferma solo che l’uomo che va dalla Pontremoli e Autunnale sono la stessa persona. Cosa già nota, no?

Corso annuì, sapeva che giocare al ribasso era il modo del commissario per affilare i pensieri. Fece spazio sul tavolo ed estrasse dalla cartella altre foto in bianco e nero di formato differente.

– Queste sono state scattate dai carabinieri a casa Pontremoli, il giorno in cui la madre si è gettata dal balcone. La terrazza – disse calando la prima. – Il vialetto – posandoci sopra la seconda. – E il giardino.

– È la stessa pianta – disse Isa.

– Sì, e ne ho notata una identica nel giardino di Luda, quando siamo andati a fargli visita.

– Erano tutti e due fissati con l’Oriente – sbuffò Arcadipane. – Possono averla vista in uno dei loro viaggi.

– In effetti c’è una Camellia japonica molto famosa in un tempio di Kyoto – assentì Corso. – Ma credo sia un altro, il motivo per cui tutti e due avevano una chiri tsubaki in giardino.

Prese dal tavolo il libro che fino a quel momento aveva riposato con la copertina rivolta al soffitto, l’aprì dove aveva inserito una vecchia cartolina e lesse: – “Per questo nella casa delle ‘belle addormentate’, mentre aveva il braccio della ragazza sugli occhi, a Eguchi era apparsa la visione delle chiri tsubaki in piena fioritura”. – Quindi chiuse il libro e lo rimise sul tavolo.

Arcadipane lo fissò con un sentimento che oscillava tra l’ostilità e la rinuncia, poi si staccò dal tavolo e prese a camminare per la stanza. Sebbene i suoi passi fossero lenti, la brevità delle gambe toglieva loro qualsiasi solennità. La grossa testa gli oscillava sul collo come un maglio.

– Ammettiamo pure – disse – che quei tre erano così fuori di testa da mettere su la casa di appuntamenti dopo averlo letto in un libro, e che magari pure Tabasso aveva in giardino gli stessi zubachi che Autunnale incideva sulle donne e che ha portato alla Pontremoli – si fermò, prese la sigaretta dal posacenere e fece un tiro. Il fumo che gli uscì dalle labbra sostituì per qualche istante la trasparenza dell’aria sopra il tavolo.

– Pontremoli e Tabasso sono morti da quindici anni, quindi non possono averti mandato le ultime lettere né aver portato i fiori al Cottolengo, mentre Luda, che potrebbe averlo fatto, non corrisponde per niente all’identikit di Autunnale fatto dalle suore. Conclusione... – Arcadipane fissò Corso attraverso l’opacità del fumo che diradava – ...nessuno di loro tre può essere Autunnale!

A eccezione del filo che si alzava dalla sigaretta, tutto rimase fermo. Fino a che Isa non scostò la sedia con un calcio e andò ad appoggiarsi contro la parete, gli occhi fissi alle foto che coprivano il tavolo.

– Pezzi di merda – sussurrò, prima di strappare il nastro dal pollice destro e cacciarsi il dito tra le labbra.

Corso ricordò allora una cosa che aveva osservato molto presto: quando la mente si spinge a fondo cercando di comprendere qualcosa, il corpo è quasi sempre abbandonato alla deriva. Qualcuno parla, qualcuno trema, altri gesticolano, altri ancora lasciano semplicemente il corpo in balìa di ciò che c’è attorno: la pioggia, una persona, un concerto di Brahms, un tram che sopraggiunge, ma sempre in una sorta di stallo durante il quale può accadergli qualsiasi cosa e insieme nulla che davvero significhi.

Nel suo caso, all’epoca in cui capire era qualcosa che gli accadeva spesso, il suo corpo emetteva sibili su una lunghezza d’onda che solo Michelle, il loro gatto e talvolta Arcadipane riuscivano a cogliere.

La sera prima, quando gli era accaduto di avvertirli dopo tanto tempo, era stato terribile e commovente insieme.

– Nessuno di loro è Autunnale – disse.

– No? – azzardò il commissario.

– No, ma l’hanno educato al loro gusto e alla loro assenza di scrupoli. E quando Autunnale è diventato quello che sappiamo l’hanno lasciato fare, se ne sono compiaciuti e l’hanno protetto.

Arcadipane guardò Corso, le foto sul tavolo, le camelie e infine la sigaretta che esalava in quel momento l’ultimo respiro.

– Il figlio dei Pontremoli è morto, la figlia è un vegetale e quello dei Tabasso, oltre a non corrispondere alla descrizione, all’epoca era soltanto un ragazzino. Nessuno di loro può essere andato al Cottolengo o aver messo il capello nella busta.

Corso sbirciò le macchie di bagnato che i suoi sandali avevano lasciato sulla gomma del pavimento.

– Quel capello infatti non è della Pontremoli – disse.

– Cazzo dici? Il Dna...

– ...dice che il capello appartiene a qualcuno che ha la stessa discendenza materna.

Il commissario tenne i suoi occhi d’un nero bituminoso nel grigio di quelli di Corso per qualche lungo, lento, limaccioso istante.

– Ma come cazzo...

Corso fece di sì con la testa: era l’errore più stupido che potessero commettere, ma anche il più logico e quindi quello con maggiore possibilità di durare.

Arcadipane tolse la penultima dal pacchetto, la mise in bocca e l’accese.

– Lo troviamo ancora secondo te?

Corso soppesò Isa e quel pollice che teneva infantilmente stretto tra le labbra guerriere.

– Lui è convinto di sì – annuì.