CARTIER
Castello di Brígh, territorio di lord Morgane
C’era stato un tempo nella mia vita in cui pensavo che non avrei mai fatto ritorno in Maevania. Non ricordavo il castello in cui ero nato; non ricordavo i lai delle terre appartenute alla mia famiglia per generazioni; non ricordavo le persone che mi avevano giurato fedeltà mentre mia madre mi teneva stretto al cuore. Ricordavo invece un luogo dove regnavano la grazia, la bellezza e la passione; un paese che più tardi avrei scoperto non essere il mio anche se avrei desiderato che lo fosse, un regno che mi aveva accolto e protetto per venticinque anni.
La Valenia era la mia terra d’adozione.
Ma la Maevania… era la mia casa.
Ero cresciuto convinto di essere Théo d’Aramitz e poi ero diventato Cartier Évariste, due identità dietro le quali nascondermi, uno scudo per proteggere un uomo che non sapeva dove avrebbe dovuto vivere né chi avrebbe dovuto essere.
A questo pensavo mentre lasciavo il castello di Jourdain ben oltre la mezzanotte.
«Morgane, sarebbe meglio per voi passare qui la notte» aveva suggerito lui dopo la riunione. Mi aveva seguito in fondo alle scale, preoccupato. «Non c’è motivo di cavalcare fino al vostro castello a quest’ora così tarda.»
Ma quello che davvero intendeva dire era: Perché volete dormire tutto solo in un maniero diroccato?
Non avevo avuto il coraggio di rispondere che quella notte avevo bisogno di stare sulla mia terra, avevo bisogno di dormire dove mio padre, mia madre e mia sorella avevano dormito. Avevo bisogno di muovermi dentro il castello che avevo ereditato – poco importava se fatiscente – prima che la mia gente iniziasse a tornare.
Mi ero fermato nell’atrio e avevo ripreso la spada, la borsa e il mantello. Brianna mi aspettava sulla soglia, i battenti del portone già aperti contro la notte. Immagino che lei avesse capito perché volevo rientrare al castello, perché l’avevo udita sussurrare: «È tutto a posto, padre».
Per mia fortuna Jourdain non aveva aggiunto altro, e mi aveva stretto il braccio in un saluto silenzioso.
Era stata una strana serata, avevo pensato avvicinandomi a Brianna. Non mi aspettavo di ascoltare i rimpianti di Jourdain, né di assistere alla rinascita del clan MacQuinn. Mi sentivo un intruso. E mi opprimeva il pensiero di tornare alla mia terra e alla mia gente.
Brianna mi aveva sorriso e io avevo osservato per un istante la brezza della sera giocare fra i suoi capelli.
Come siamo arrivati a questo punto, tu e io? avrei voluto domandarle, ma avevo trattenuto le parole e mi ero lasciato accarezzare il viso.
«Ci rivedremo presto» le avevo sussurrato, senza osare baciarla proprio lì, nella casa paterna, dove quasi sicuramente Jourdain ci stava osservando.
Lei aveva risposto con un cenno del capo, e aveva ritirato la mano.
Ero andato a prendere il cavallo nelle scuderie ed ero partito sotto il cielo punteggiato di stelle.
Le mie terre si estendevano a ovest di quelle di Jourdain, e i nostri castelli si trovavano a diverse miglia di distanza, circa un’ora a cavallo. Nel pomeriggio, durante il tragitto verso il castello di Fionn, Brianna e io avevamo scoperto un sentiero battuto dai cervi che collegava i due territori, e lo avevamo percorso al posto della strada principale, inoltrandoci nel bosco e proseguendo tra i pascoli dopo aver superato un fiumiciattolo.
Decisi di ripercorrere lo stesso sentiero, benché fosse la via più lunga, intricata di rami e cespugli spinosi, e cavalcai come se la conoscessi a memoria, guidato dalla luna, dal vento e dal buio della notte.
Durante il giorno ero già stato al castello di Brígh, e lo avevo esplorato con calma, percorrendo i corridoi e visitando le stanze, strappando erbacce e togliendo ragnatele, nel tentativo di ritrovare qualche ricordo legato a quel luogo. Avevo solo un anno quando mio padre era fuggito portandomi con sé, ma avevo sperato che fra quelle mura almeno un frammento di memoria avesse resistito e messo radici per convincermi che dopo venticinque anni di solitudine meritavo di essere tornato. Invece non ricordavo nulla. Tra quelle pietre ero un perfetto estraneo. Ed ero rimasto seduto sul pavimento nella stanza dei miei genitori in preda allo sconforto finché non era arrivata Brianna.
Quel luogo mi aveva decisamente sorpreso. Quando mio padre aveva deciso di svelarmi la mia vera identità, aveva parlato di Brígh come di uno splendido maniero, descrivendomelo in ogni particolare. Purtroppo, ciò che avevo trovato non corrispondeva affatto al suo racconto.
Arrivato nei pressi del castello, portai il cavallo al trotto e, aiutato dal chiaro di luna, mi guardai intorno, strizzando gli occhi irritati dal freddo.
Davanti a me vidi una massa di pietre grigie e cadenti e, sullo sfondo, le pendici delle montagne che allungavano le loro ombre sulle torri e i piani superiori della struttura. Il tetto in alcuni punti era crollato, ma per fortuna i muri erano intatti anche se gran parte delle finestre erano rotte e i rampicanti selvatici nascondevano quasi del tutto la facciata. Il cortile era una selva di erbacce. In vita mia non avevo mai visto un luogo più desolato.
Scesi da cavallo e affondai nell’erba alta. Continuai a osservare il castello, che sembrò fissarmi a sua volta con aria malevola.
Che cosa avrei potuto fare di quel luogo diroccato? Come avrei potuto ricostruirlo?
Tolsi i finimenti al cavallo e lo legai sotto una quercia, quindi mi aprii un varco verso il castello. Raggiunto il centro del cortile, mi fermai in un groviglio di rovi, erbacce e ciottoli sconnessi, e di nuovo mi guardai intorno. Quel che vedevo mi apparteneva, le cose buone come quelle cattive.
Erano quasi le due del mattino ed ero esausto, eppure mi resi conto di non avere per niente sonno. Iniziai così a fare la prima cosa che mi venne in mente: strappare le erbacce. Lavorai alacremente, sudando malgrado la gelida aria autunnale, finché non riuscii a scaldarmi.
A un certo punto decisi di mettermi carponi per lavorare meglio. E strappando un cespuglio di verga d’oro, la vidi: una grossa pietra con un’incisione. Ripulii il terreno intorno e, complice il chiaro di luna, riuscii a distinguere le lettere.
DECLAN.
Sobbalzai, ma non riuscii a distogliere lo sguardo da quel nome.
Era il figlio di Gilroy Lannon. Il principe.
C’era anche lui, allora, quella notte. La notte della prima tragica insurrezione, quando mia madre fu trucidata in battaglia e mia sorella assassinata.
Era stato lì.
E aveva inciso il suo nome sulle pietre della mia casa, il fondamento stesso della mia famiglia, come se con quel gesto avesse potuto soggiogarmi per sempre.
Rabbrividii e andai a sedermi su una montagnola, la spada al fianco e le mani sporche di terra.
In quel preciso momento Declan Lannon era in catene nelle segrete reali, in attesa di affrontare il processo che si sarebbe tenuto di lì a una decina di giorni. E avrebbe avuto ciò che meritava.
Una ben misera soddisfazione, in fondo. Mia madre e mia sorella non sarebbero mai più tornate. Il mio castello era in rovina. La mia gente dispersa. Perfino mio padre non c’era più, ed era morto in terra straniera senza poter rivedere la sua patria.
Ero completamente solo.
Un rumore interruppe i miei pensieri. Un rotolare di pietre all’interno del castello. D’istinto alzai gli occhi verso le finestre rotte e, guardingo, mi rialzai sfoderando la spada.
Quindi avanzai tra le sterpaglie fino al portone di ingresso, i cui battenti scardinati mi attendevano semiaperti. Spingere quel portale di quercia, sfiorandone gli intagli, mi diede i brividi. Sbirciai tra le ombre dell’atrio. Le pietre del pavimento erano luride e danneggiate, ma nel chiarore della luna che filtrava dalle aperture delle finestre riuscii a distinguere le impronte di due piccoli piedi nudi.
Le orme proseguivano nel salone. Dovetti strizzare gli occhi nella penombra per seguirle fino alla cucina, dove mi spostai fra tavoli abbandonati, un camino spento, le pareti nude dove un tempo c’erano arazzi e gonfaloni. Ovviamente le impronte mi condussero alla dispensa, e poi davanti a ogni stipo e a ogni credenza in una vana ricerca di cibo. Vidi botti di birra vuote che odoravano ancora di malto, mazzi di erbe aromatiche essiccate appesi alle travi del soffitto, un servizio di calici tempestati di pietre preziose e coperti da strati di polvere, i cocci di qualche bottiglia di vino sparsi sul pavimento. Una macchia di sangue, dove un piede nudo aveva forse calpestato un pezzo di vetro.
Mi accovacciai e toccai le gocce scarlatte. Erano fresche.
La scia di sangue mi guidò poi fino alla porta sul retro delle cucine, e dopo in uno stretto corridoio che sbucava nell’atrio di servizio, dove le scale della servitù salivano in una stretta spirale fino al primo piano. Le imboccai, facendomi largo tra una fitta coltre di ragnatele con un brivido di disgusto, finché non giunsi al pianerottolo.
Nel corridoio di fronte a me la luce della luna filtrava a chiazze, illuminando cumuli di foglie secche entrate dalle finestre rotte. Continuai a seguire la scia calpestando le foglie e inciampando in ogni irregolarità del pavimento, troppo esausto per essere prudente. Di sicuro il proprietario delle orme mi avrebbe sentito.
Arrivai davanti alla camera dei miei genitori, lo stesso luogo dove avevo incontrato Brianna quello stesso pomeriggio, quando le avevo consegnato il suo mantello di appassionata.
Sospirai, girai la maniglia, aprii la porta e sbirciai nella penombra. Ritrovai subito il punto in cui Brianna e io avevamo pulito il pavimento per ammirare il disegno delle mattonelle. Nel pomeriggio, quando lei era arrivata, d’un tratto mi era sembrato che la stanza tornasse a vivere, come se il luogo appartenesse più a lei che a me.
Entrai, ma in quello stesso momento fui colpito alla nuca da una manciata di ghiaia. Mi voltai di scatto, e riuscii a intravvedere due gambette pallide e una zazzera arruffata sparire dietro un armadio sbilenco.
«Non voglio farti del male» dissi. «Esci fuori. Ho visto che hai un piede ferito. Posso aiutarti.»
Mi avvicinai di qualche passo, poi aspettai che l’intruso facesse capolino dal nascondiglio. Invece non successe niente, così mi avvicinai ancora.
«Sono Cartier Évariste» dissi, e la naturalezza con cui pronunciai il mio pseudonimo valeniano mi colpì.
Nessuna risposta.
Feci ancora qualche passo e sbirciai nella fessura dietro l’armadio. «Chi sei?»
Un attimo dopo mi arrivò addosso un’altra raffica di sassolini. Mi entrò anche della terra negli occhi, ma riuscii ugualmente ad afferrare un braccetto ossuto. Seguirono urla e strattoni, e quando finalmente riuscii a togliermi la terra dagli occhi vidi un bambino pelle e ossa con il viso spruzzato di lentiggini e una zazzera di capelli rossi che gli ricadeva sugli occhi. Avrà avuto al massimo una decina d’anni.
«Che ci fai qui?» domandai, cercando di controllare l’irritazione.
Per tutta risposta il ragazzino mi sputò in faccia.
Dovetti fare appello a tutta la mia pazienza per non reagire. Mi ripulii la faccia e insistei. «Sei solo? Dove sono i tuoi genitori?»
Il bambino fece per sputare di nuovo, però io lo anticipai trascinandolo via da dietro l’armadio e portandolo a sedere sul letto. I suoi vestiti erano logori, era scalzo e il piede ferito sanguinava ancora, e gli procurava una fitta di dolore ogni volta che lo appoggiava.
«Ti sei fatto male oggi?» gli domandai mentre mi inginocchiavo per esaminare la ferita.
Lui reagì con un versaccio, ma alla fine mi lasciò guardare. La scheggia di vetro era ancora conficcata nella carne.
«C’è bisogno di qualche punto» gli comunicai con cautela, notando il suo sguardo preoccupato. «Tua madre e tuo padre ti staranno cercando. Perché non mi dici dove sono? Così posso riportarti da loro.»
Il ragazzino guardò altrove, incrociando le braccine ossute.
Come sospettavo. Era un orfano che si nascondeva tra le rovine di Brígh.
«Sei fortunato. So ricucire le ferite.» Mi alzai e mi sfilai la borsa che tenevo a tracolla per recuperare la selce con cui accendere le vecchie candele che c’erano nella stanza. Quindi presi una coperta e il sacchetto con gli strumenti medici, che portavo sempre con me. «Perché non vieni a sdraiarti qui sulla coperta, così mi posso occupare di quel piede?»
Il bambino era ostinato, ma il dolore alla fine lo portò a cedere. Si avvicinò zoppicando e si stese davanti a me, sgranando gli occhi di fronte alle pinze chirurgiche che avevo in mano.
Presi il flacone con le erbe sedative e sciolsi ciò che rimaneva nella borraccia.
«Bevi. Ti aiuterà a sopportare il dolore.»
Il ragazzino prese il contenitore e lo annusò con diffidenza, ma poi si convinse e dopo averne trangugiato il contenuto attese che la pozione facesse effetto.
«Ce l’hai un nome?» gli domandai intanto che gli sollevavo il piede.
Esitò un istante, poi sussurrò: «Tomas».
«Bene. Un nome da persona forte.» Con delicatezza iniziai a estrarre un pezzo di vetro. Tomas fece una smorfia di dolore, così continuai a parlare per distrarlo. «Quand’ero piccolo, avrei voluto avere lo stesso nome di mio padre, ma anziché Kane mi chiamarono Aodhan. Immagino che fosse un vecchio nome di famiglia.»
«Ma prima avevate detto che vi chiamavate Car… Cartier.» Era chiaro che Tomas non aveva dimestichezza con i nomi valeniani. Nel frattempo riuscii a togliere anche l’ultima scheggia.
«Vero. Perché ho due nomi.»
«Ma perché una persona» la pulizia della ferita costrinse Tomas a un’altra smorfia di dolore «ha bisogno di due nomi?»
«A volte è necessario per sopravvivere» spiegai, e la risposta sembrò soddisfarlo perché restò tranquillo, mentre io iniziavo a ricucire il taglio.
Una volta terminata l’operazione, fasciai con cura il piede e diedi a Tomas la mela che avevo nella borsa. Mentre lui la mangiava mi aggirai per la stanza alla ricerca di un’altra coperta in cui avvolgermi per dormire, visto che la stanza era molto fredda a causa dell’aria notturna che entrava dalle finestre rotte.
Mi soffermai qualche minuto davanti alla libreria, e ai numerosi volumi rilegati in pelle ancora allineati sui ripiani. Mi tornò in mente l’amore di mio padre per i libri; purtroppo quelli erano quasi tutti ammuffiti, con le copertine irrigidite e rovinate dal tempo. Uno in particolare attirò la mia attenzione: aveva un aspetto anonimo rispetto agli altri, impreziositi da raffinate decorazioni, e conteneva un foglio che spuntava oltre il margine superiore. L’esperienza mi aveva insegnato che nei libri in apparenza meno interessanti si celava il sapere più profondo, così, senza farmi vedere da Tomas, lo sfilai dallo scaffale e me lo nascosi sotto il farsetto.
Purtroppo non trovai niente di utile per coprirmi, perciò decisi di sedermi contro il muro, sotto la luce di una candela.
Tomas intanto si era arrotolato dentro la sua coperta, simile a un enorme bruco. «Ma voi dormite seduto?» mi chiese con aria assonnata.
«Sì.»
«Volete la coperta?»
«No.»
Tomas sbadigliò e si grattò il naso lentigginoso. «Siete il lord di questo castello?»
Il mio desiderio di celare la verità mi sorprese, perciò mi sembrò strano rispondere: «Sì. Sono il lord».
«Avete intenzione di punirmi perché mi sono nascosto nel vostro castello?»
Non seppi cosa rispondere, perché mi rendevo conto che il bambino temeva il castigo per ciò che aveva fatto, ma al tempo stesso capivo che voleva solo sopravvivere.
«Lo so che ho sbagliato a buttarvi la ghiaia in faccia, signore» proseguì Tomas, visibilmente spaventato. «Ma vi prego… vi prego, non punitemi troppo. Se volete, posso lavorare per voi. Vi giuro che posso farcela. Posso farvi da messaggero. O da coppiere, e se volete anche da stalliere.»
Non desideravo che quel bambino diventasse un mio servitore. Da lui volevo solo delle risposte. Avrei voluto domandargli: Chi sei? Chi sono i tuoi genitori? Da dove vieni? Però dovevo prima conquistare la sua fiducia e la sua amicizia.
«Sono sicuro che troverò un compito adatto a te» mormorai. «E finché sarai sulle mie terre, ti terrò sotto la mia protezione.»
Tomas mi espresse la sua gratitudine con uno strano verso e chiuse gli occhi. Dopo alcuni secondi stava già russando.
Attesi qualche minuto e poi sfilai il volume da sotto il farsetto. Lo sfogliai delicatamente, incuriosito dall’idea di aver casualmente scelto un libro di poesie che forse era appartenuto a mia madre. Mentre la immaginavo tenerlo fra le mani e leggerlo seduta accanto alla finestra, un foglio scivolò fuori dalle pagine. Era piegato, ma si intravvedevano i segni delle parole scritte a mano.
La pergamena mi si aprì sul palmo della mano, delicata come un’ala di farfalla.
12 gennaio 1541
Kane,
lo so, entrambi pensavamo che sarebbe stata la scelta migliore, ma oggi ti dico che la mia famiglia non è affidabile. Durante la tua assenza, Oona è venuta a farci visita. Credo che non si fidi di me, di quello che insegno a suo figlio Declan durante le nostre lezioni. Ho visto Declan trascinare Ashling in giro per il cortile tenendola per i capelli. Avresti dovuto vedere la sua espressione mentre nostra figlia piangeva: sembrava che il suo dolore gli procurasse soddisfazione. Ciò che vedo in quel ragazzo mi fa paura; ho la sensazione di averlo in qualche modo deluso e adesso non mi dà più ascolto. Come vorrei che le cose fossero andate diversamente! E forse sarebbe stato così, se Declan avesse potuto vivere con noi, invece di stare con i genitori a Lyonesse. Oona, evidentemente, non era affatto sorpresa da quel comportamento, e non è intervenuta mentre osservava il figlio maltrattare Ashling. «È solo un bambino» ha detto. «Ha undici anni. Col tempo vedrai che smetterà di fare certe cose.»
Però io non posso più sopportare questa situazione. Non ho intenzione di usare nostra figlia come una pedina, e so che anche tu saresti d’accordo con me. Per questo ho deciso di andare fino a Lyonesse e rompere il fidanzamento di Ashling. È un compito che spetta a me. Partirò all’alba e viaggerò con Seamus.
A presto,
Líle
Dovetti leggere la lettera due volte prima di riuscire a coglierne il senso. Kane, mio padre. Líle, mia madre. Ashling, mia sorella, fidanzata con Declan Lannon. All’epoca aveva solo cinque anni, visto che lo scritto precedeva di qualche mese il giorno della sua morte. A che cosa si riferivano i miei genitori? A quanto ne sapevo, le casate dei Lannon e dei Morgane erano rivali, ma non avrei mai immaginato che all’origine di quell’ostilità ci fossero i miei genitori.
“La mia famiglia non è affidabile”, aveva scritto mia madre.
La mia famiglia.
Avvicinai la lettera alla luce della candela.
Che cosa insegnava a Declan? Che cosa aveva visto in lui?
Mio padre non mi aveva mai parlato della mia famiglia materna, e ignoravo quindi che lei appartenesse al casato dei Lannon. Lui mi aveva raccontato che era bellissima, che era buona, che era gentile. Che la sua risata riempiva le stanze di luce. Che la gente dei Morgane la amava moltissimo. Che lui l’amava moltissimo.
Ripiegai il foglio e me lo infilai in tasca, eppure quelle parole continuarono a risuonarmi in testa. Mia madre era una Lannon. E un altro pensiero: Per metà sono un Lannon anch’io.