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La notte non è mai lunga per chi è fulmineo

CARTIER
Castello di Brígh, territorio di lord Morgane

Mi svegliai di scatto, accasciato contro la parete, con il torcicollo e le mani gelate. Le prime luci del mattino filtravano nella stanza illuminando la polvere sui miei stivali. Mi stropicciai gli occhi e cercai di capire dove fossi. La prima cosa che notai fu la coperta, vuota e abbandonata sul pavimento.

Ero nella camera da letto dei miei genitori. E morivo di freddo.

Mi strofinai il viso con le mani e udii il cigolio distante del portone d’ingresso. L’eco della vita tornava a invadere il castello come un cuore che riprende a battere.

Mi alzai in piedi, curioso di capire se Tomas avesse riconsiderato la mia offerta di ospitalità e fosse scappato via nella notte, e uscii dalla stanza. Ma quando ero ancora sulle scale che conducevano al piano inferiore, sentii la voce del ragazzino.

«Siete qui per incontrare lord Aodhan?»

Mi fermai. Tomas, in equilibrio su un piede solo, parlava con un uomo fermo sulla soglia. La luce era troppo intensa per distinguere il visitatore, e mi accorsi che stavo trattenendo il respiro.

«Sta dormendo. Vi consiglio di riprovare più tardi» aggiunse Tomas, e si accinse a richiudere i battenti, compito tutt’altro che facile visto come giravano malamente sui cardini.

«Tomas, sono qui» gli dissi con una voce quasi irriconoscibile, mentre finivo di scendere le scale facendo attenzione ai gradini sconnessi.

Lui si fermò, sia pur di malavoglia, e spalancò nuovamente il portone.

Un uomo anziano varcò la soglia, nel bagliore del sole che sorgeva alle sue spalle. La chioma canuta era raccolta in una treccia, il viso era solcato da rughe profonde, gli abiti erano logori. Non appena incrociò il mio sguardo, i suoi occhi s’illuminarono di stupore.

«Seamus Morgane» esclamai. Sapevo molto bene chi era il mio visitatore. Era un uomo che mi aveva tenuto fra le braccia quando ero solo un neonato e che si era inginocchiato davanti a me per giurarmi la sua lealtà. Mio padre mi aveva parlato infinite volte del più fidato tra i suoi vassalli.

«Aodhan, mio lord.» Seamus s’inginocchiò, ignorando i detriti sparsi sul pavimento.

«No, no, vi prego.» Gli presi le mani e lo invitai ad alzarsi. Poi, ignorate le formalità, lo abbracciai e sentii i singhiozzi scuotergli il petto mentre anche lui mi stringeva a sé.

«Bentornato a casa, Seamus» lo salutai con un sorriso.

Il vassallo si ricompose e, tenendomi per le spalle, si tirò indietro per osservarmi meglio. Sembrava sbalordito, come se non riuscisse a credere che fossi proprio io, lì, di fronte a lui. «Mi sembra… mi sembra impossibile» disse a fatica, serrando le mani su di me con più forza.

«Volete entrare?» lo invitai. «Temo però di non potervi offrire nulla perché qui non ho né cibo né bevande.»

Prima che Seamus potesse rispondere, da fuori arrivò un grido, e subito dopo vidi nel cortile una donna anziana con una nuvola di capelli argentei che le scendevano sulle spalle. Aspettava davanti a un carro carico di provviste e si premeva un angolo del variopinto grembiule contro la bocca, come se anche lei stesse cercando di fermare i singhiozzi che la mia presenza le aveva provocato.

«Mio signore» intervenne Seamus, indicando verso l’esterno. «Lei è Aileen, mia moglie.»

«Numi del cielo! Ma come vi siete fatto grande!» esclamò la donna, e raggiunse il marito sulla soglia asciugandosi gli occhi con il grembiule. Poi allungò le braccia e mi invitò ad avvicinarmi per abbracciarla. Mi arrivava alle spalle, eppure mi strinse così forte che mi tolse quasi il respiro, e subito dopo mi spinse via per studiare meglio il mio viso e imprimerselo per bene nella mente.

«Come pensavo» commentò, tirando su con il naso. «Avete la corporatura di lord Kane. Però hai visto, Seamus? I colori sono quelli di lady Líle, e anche gli occhi!»

«Ma certo, tesoro. È il loro figliolo» rispose Seamus, e rimediò un’affettuosa manata dalla moglie.

«Lo so anch’io. E devo dire che è davvero il più bel figliolo che abbia mai visto.»

Mi sentii arrossire, imbarazzato da tanta attenzione. Fui quindi molto felice di essere salvato da Seamus, che portò la conversazione su argomenti più pragmatici. «Siamo i primi ad arrivare, mio signore?»

Annuii, e il mio torcicollo protestò vivacemente. «Ho lanciato un appello alla mia gente, invitando tutti a tornare appena possibile, ma temo che le condizioni del castello siano decisamente peggiori di quanto mi aspettassi. Niente cibo. Niente acqua. Non ci sono coperte. Non posso dare niente a nessuno.»

«Ce lo aspettavamo» ribatté Aileen, indicandomi il carro. «Quello è un regalo da parte di lord Burke. Negli anni bui abbiamo lavorato al suo servizio. Fortunatamente è stato buono con noi, con la gente dei Morgane.»

Uscii in cortile e mi avvicinai al mezzo, più che altro per nascondere la commozione. C’erano pile di coperte e matasse di filati, capi di vestiario appena confezionati, marmitte in ghisa per cucinare, barili di birra e di sidro, forme di formaggio, ceste di frutta, interi quarti di carne essiccata. Trovai perfino una batteria di secchi per prendere l’acqua dal pozzo, nonché carta e inchiostro per scrivere.

«Direi che ho un grosso debito con lord Burke» commentai.

«No, mio signore» mi corresse Seamus, che nel frattempo mi aveva raggiunto. «È lord Burke a essere in debito con voi per non aver parlato quando avrebbe dovuto, e questo è solo l’inizio» spiegò, posandomi una mano sulla spalla.

Fissai Seamus senza sapere che cosa dire.

«Forza, venite! Portiamo dentro questa roba, così possiamo cominciare a dare una pulita» ci sollecitò Aileen, come se avesse percepito i dolorosi pensieri che si agitavano nella mia mente.

Iniziammo così a trasportare cesti e botti nelle cucine, e fu solo a quel punto che notai la scomparsa di Tomas. Stavo per chiamarlo, quando fui distratto da qualcuno che bussava al portone.

«Lord Aodhan!» Un giovane dai capelli bruni, con il viso coperto di lentiggini e le braccia grosse come le mie cosce, mi salutò con un grande sorriso. «Sono Derry, il vostro muratore.» E subito iniziò a darsi da fare insieme agli altri.

Con il passare delle ore, sempre più persone arrivarono al castello portando ogni sorta di oggetto in dono. Tornarono anche due altri vassalli, con un seguito di mugnai, candelieri, tessitrici, guaritori, giardinieri, mastri birrai, cuochi, manovali, mastri bottai, mezzadri… Alcuni mi salutavano ridendo, altri piangendo; alcuni non li avevo mai visti, altri li riconobbi subito perché erano gli uomini e le donne che avevano combattuto al mio fianco qualche giorno prima, durante l’assalto al palazzo reale. Adesso però avevano portato anche le loro famiglie, i bambini, i nonni, il bestiame. E la mia testa si riempì di nomi, e le braccia iniziarono a dolermi per la quantità di provviste trasportate nelle dispense del maniero.

Nel pomeriggio, le donne iniziarono a ripulire e riordinare il salone, mentre gli uomini si occuparono di estirpare le erbacce e i rampicanti selvatici che invadevano il cortile, e liberare le stanze dai vetri rotti e dai mobili deteriorati.

Stavo portando fuori la carcassa di una sedia, quando notai Derry fissare la pietra su cui era inciso il nome di Declan. Prima che potessi avere il tempo di dire qualcosa, il muratore prese un piccone e la scalzò rabbiosamente dal terreno. Quindi la rigirò in modo che il nome non si vedesse e la consegnò a uno dei ragazzi, che aveva richiamato con un fischio.

«Portala nel pantano oltre quel bosco» gli indicò. «Non girarla. Capito? Buttala lì dentro così come te l’ho data.»

Il ragazzo lo guardò con aria perplessa, poi annuì e schizzò via, tenendo la pietra fra le mani come fosse una patata bollente.

Io proseguii, cercando di non farmi notare da Derry, e raggiunsi la catasta dei mobili vecchi. Nonostante fossi immerso nella luce del giorno, mi sentii pervadere da una sensazione oscura.

Alle mie spalle il castello, davanti a me un cumulo di mobilia che attendeva di essere bruciata, e su tutto il soffio freddo e pungente del vento che scendeva dalle montagne. E ancora quelle oscure parole, che si alzavano come un sibilo dal frusciare dell’erba, come una maledizione dallo stormire delle querce.

Dove sei, Aodhan?

Chiusi gli occhi, cercando di concentrarmi sulla realtà, sulla verità: il ritmo del mio battito, la solidità della terra sotto di me, il vocio della mia gente in lontananza.

La voce tornò, giovane eppure crudele, accompagnata dall’odore del fuoco, un fortissimo aroma di legna bruciata.

Dove sei, Aodhan?

«Lord Aodhan?»

Riaprii gli occhi e mi voltai, sollevato di vedere Seamus avvicinarsi con i resti di uno sgabello. Lo aiutai a gettare i legni sulla catasta e poi riattraversammo insieme il cortile, dove Derry aveva già sostituito la pietra di Declan con una nuova, anonima.

«Aileen vi stava cercando» disse infine il vassallo, accompagnandomi fino all’atrio. Notai subito che il locale era vuoto e silenzioso, dopodiché seguii Seamus nel salone, dove tutti si erano riuniti per aspettarmi.

Appena varcata la soglia mi fermai, colpito dalla trasformazione. Nel grande camino ardeva il fuoco e i tavoli, ben allineati sui cavalletti e decorati con le ghirlande azzurre di fiori di Corogan appena colti, erano apparecchiati con stoviglie scompagnate e taglieri di legno. La fioca luce delle candele illuminava le vivande – per lo più pane, formaggio e verdure sottaceto, più un paio di agnelli che qualcuno aveva trovato il tempo di arrostire. Il pavimento era stato tirato a lucido e splendeva quanto una moneta fresca di conio. Ma ciò che soprattutto attirò il mio sguardo fu l’insegna che spiccava sul muro sopra il camino.

Era lo stemma dei Morgane. Un cavallo argentato al centro di un campo blu come una notte d’estate.

Mi fermai tra la mia gente e osservai il simbolo che ero nato per onorare, il simbolo in nome del quale mia madre e mia sorella erano state trucidate, il simbolo per il quale avevo versato il mio sangue sul campo di battaglia.

«La notte non è mai lunga per chi è fulmineo» scandì Seamus a voce alta, facendo risuonare il sacro motto del casato nel grande salone. Quindi si voltò verso di me e mi porse un calice d’argento colmo di birra. «E sempre sarà il primo a vedere la luce.»

Strinsi il calice fra le mani e mi augurai che quelle parole fossero di buon auspicio, perché avevo la sensazione di essermi infilato in un tunnel senza sapere se e quando avrei mai visto rivisto la luce.

«A chi è fulmineo!» gridò Derry, alzando la coppa.

«A lord Morgane!» aggiunse Aileen, salendo su una panca per riuscire a vedermi in mezzo alla folla.

Tutti brindarono alla mia salute, e io risposi alzando il mio calice.

In apparenza sembravo calmo e felice di bere con la mia gente, ma dentro mi sentivo tremare sotto il peso di tanta responsabilità.

Nonostante la rumorosa allegria scatenata dal banchetto, mentre raggiungevo il mio posto al tavolo d’onore udii ancora la voce provenire da un angolo buio della sala.

Dove sei, Aodhan?

Chi sei? replicai stizzito dentro di me, il pensiero fisso su quella frase mentre mi accomodavo sulla sedia.

La voce, però, così com’era arrivata se ne andò, e io mi ritrovai a chiedermi se quelle parole immaginarie non fossero l’effetto sulla mia mente della spossatezza di quei giorni.

In quel momento Aileen mi servì il pezzo migliore di un agnello arrostito e mentre osservavo deliziato il sugo della carne spandersi nel piatto, finalmente compresi.

Quelle parole erano state pronunciate lì al castello venticinque anni prima. Provenivano dalla persona che aveva messo a ferro e fuoco il villaggio per trovare mia sorella, e me.

Declan Lannon.