BRIANNA
Castello di Fionn, territorio di lord MacQuinn
Il mattino dopo, presi l’occorrente per scrivere e tornai al laboratorio di arazzeria. Questa volta proseguii direttamente fino al salone principale e bussai contro lo stipite per annunciare la mia presenza, quindi mi fermai sulla soglia, abbracciando con lo sguardo l’intera sala e le donne già immerse nel loro lavoro.
«Buongiorno» salutai con tutta l’allegria di cui ero capace.
Dopo quello che era successo la sera prima, le tessitrici avevano sicuramente iniziato a spettegolare su di me, così decisi di non sfuggire a quelle chiacchiere, ma di affrontarle a viso aperto.
C’erano una sessantina di donne, impegnate in compiti differenti. Alcune sedevano al telaio e trasformavano trama e ordito in arazzi meravigliosi. Altre invece disegnavano i cartoni che poi sarebbero stati riprodotti sugli arazzi, altre ancora filavano la lana. Fra queste notai subito Neeve, seduta in una chiazza di luce che le illuminava i bei capelli biondi con un’aura dorata. Non appena mi vide, il suo sguardo si accese, e dal suo sorriso intuii che avrebbe voluto invitarmi a entrare, invece non disse nulla perché accanto a lei c’era di nuovo la donna anziana che mi aveva guardata con disprezzo dopo che Pierce aveva lasciato il castello.
«Come posso aiutarvi?» domandò quest’ultima in tono rispettoso, anche se per nulla accogliente. Teneva una mano sulla spalla di Neeve, come per trattenerla seduta al suo posto, e mi fissava con aria torva. Aveva una massa di capelli striati di grigio che incorniciava il viso spigoloso.
Presi un lungo respiro, mentre tastavo nervosamente la cinghia della mia cartella di cuoio. «Mio padre mi ha chiesto di aiutarlo a raccogliere le accuse dei MacQuinn da portare al processo contro i Lannon.»
Nessuno parlò, e io iniziai a sospettare che la donna accanto a Neeve fosse il capo delle tessitrici, e che non avrei mai potuto essere accettata in quel luogo senza la sua benedizione.
«E perché mai dovremmo raccontare le nostre accuse proprio a voi?» domandò la donna.
Per un attimo rimasi senza parole.
«Dai, Betha, non essere scortese con questa ragazza» intervenne dal lato opposto del salone un’altra tessitrice, che portava i lunghi capelli bianchi intrecciati sulla testa come una corona. «Ti consiglio di non dimenticare che è la figlia di lord MacQuinn.»
«Già, e mi chiedo com’è possibile un fatto del genere» replicò Betha beffarda. E poi, rivolta a me: «Siamo sicuri che lord MacQuinn sapeva di chi eravate figlia, quando vi ha adottata?».
Non risposi, ma il cuore mi batteva nel petto come un martello. Sentii il viso avvampare: volevo con tutta me stessa essere sincera con la gente dei MacQuinn, ma come potevo dire la verità a Betha? In effetti, quando mi aveva adottata Jourdain non sapeva che io ero la figlia di Brendan Allenach. Non lo sapevo neppure io, però questo non avrebbe fatto nessuna differenza per quelle donne.
«Sono qui per raccogliere le accuse, come mio padre ha richiesto» ripetei, la voce alterata. «Andrò a sedermi fuori dal portone principale. Se qualcuna vorrà raccontarmi ciò che ha da dire, mi troverà lì.»
Evitai lo sguardo di Neeve, temendo che se l’avessi guardata la mia finta sicurezza sarebbe andata in frantumi, e dopo aver percorso a ritroso il corridoio che portava al portone d’ingresso mi ritrovai fuori, immersa nella luce del mattino. Sotto le finestre dell’edificio notai un ceppo e andai a sistemarmi lì, gli stivaletti confusi tra i ciuffi d’erba.
Non so quanto aspettai, avvolta nel mio mantello, con il vento che mi scompigliava i capelli e i fogli bianchi fermati con una pietra. Sentivo le donne discutere dietro le finestre chiuse, ma le loro parole erano indecifrabili. Attesi finché le ombre non si fecero lunghe e le mie mani di ghiaccio, finché non mi sentii trafiggere il cuore dalla bruciante verità: nessuna delle tessitrici sarebbe venuta da me.
Le donne dei MacQuinn non volevano che fossi io a raccogliere le loro accuse, perciò quando uno stalliere mi chiese di scrivere quanto aveva da dire ne rimasi sconcertata.
Mi avvicinò dopo cena, lungo il sentiero che portava alle scuderie, mentre passeggiavo con Nessie.
«Signorina Brianna?» L’uomo si fermò davanti a me, alto e dinoccolato, i lunghi capelli raccolti nelle tipiche trecce dei maevaniani. Non capii perché avesse un’aria così preoccupata finché non mi accorsi che stava fissando il cane, che gli ringhiava contro.
«Buona, Nessie» le ordinai, e subito lei si calmò e si accucciò accanto a me.
«So quello che state facendo per Neeve» mormorò lo sconosciuto. «E voglio ringraziarvi per aver deciso di insegnarle a leggere e per aver trascritto le sue memorie.»
Se conosceva i miei accordi con Neeve, di certo li aveva saputi da lei.
«Neeve è una persona molto intelligente» dissi. «E io sono felice di poterle insegnare tutto ciò che vorrà.»
«E per caso sareste disposta a scrivere qualcosa anche per me?»
La richiesta mi colse di sorpresa. Non sapevo che cosa rispondere, e proprio in quel momento fui distratta da una ventata gelida che ci investì, sollevandomi il mantello.
«Non importa» si affrettò ad aggiungere lo stalliere, cogliendo la mia esitazione, e fece per andarsene.
«Sarei onorata di scrivere per voi» risposi infine, e l’uomo si fermò. «Solo, mi chiedevo come mai vi siete rivolto a me e non a mio fratello.»
Lo stalliere mi guardò. «Preferisco che siate voi a scrivere per me, signorina.»
Le sue parole mi lasciarono perplessa, ma annuii. «Dove?»
Lui indicò un punto oltre il muro delle scuderie, una casupola di pietra con una porticina in mezzo alle due finestre.
«Laggiù. È la selleria. Nessuno ci disturberà. Va bene se ci vediamo lì fra un’ora?»
«Benissimo.» E ci allontanammo in direzioni opposte: lui tornò alle scuderie e io proseguii verso il castello. La mia domanda però non aveva trovato risposta: perché si era rivolto a me e non a Luc?
Un’ora dopo, arrivai alla selleria camminando nel buio, con l’occorrente per scrivere infilato nella mia cartella di cuoio. Lo stalliere mi aspettava all’interno con una lanterna accesa posata su un tavolo sbilenco.
Appena entrai si alzò e aspettò che mi richiudessi la porta cigolante alle spalle.
Posai la cartella sul tavolo e mi sedetti sui sacchi di granaglie che lo stalliere aveva impilato per me in mancanza di una sedia, quindi disposi sul ripiano i fogli, il calamaio e la penna d’oca. Quando fui pronta, lo guardai e attesi che iniziasse il suo racconto, immersa in uno strano odore, un misto di cavalli, cuoio e cereali.
«Non so da dove iniziare» disse l’uomo, che nel frattempo si era di nuovo seduto al tavolo.
«Forse potreste iniziare dicendomi il vostro nome» suggerii.
«Mi chiamo Dillon. Come mio padre.»
«Dillon MacQuinn?»
«Sì» confermò. «Il nostro cognome è sempre stato lo stesso del nostro lord.»
Scrissi la data di quel giorno seguita dal nome della persona. Dillon però sembrò di nuovo in difficoltà. Io aspettai in silenzio per dargli il tempo di riordinare le idee. Dopo qualche secondo, iniziò a parlare. E io a scrivere.
Mi chiamo Dillon MacQuinn. Sono nato nel primo degli anni bui, un anno dopo la fuga di lord MacQuinn e la terribile morte di lady MacQuinn. Ho vissuto tutta la mia vita sotto gli Allenach e quindi non potevo fare confronti, però sono sempre stato nelle scuderie, anche prima di saper camminare, e ho sentito molti racconti, perciò sapevo bene di che pasta era fatto lord Allenach.
Era buono con chi si sottometteva, con chi lo compiaceva, con chi eseguiva alla lettera i suoi ordini. Mio padre, che era il capo di tutti gli stallieri, era una di queste persone. Se Allenach diceva di mangiare, lui mangiava. Se diceva di piangere, lui piangeva. Se diceva di saltare, lui saltava. E quando ordinò a mio padre di cedergli la moglie, lui fece anche questo.
Mi interruppi, cercando di mantenere la mano ferma. Per un attimo, temetti di non riuscire più a respirare e mi resi conto che forse avevo sopravvalutato il mio coraggio. Volevo essere d’aiuto, volevo raccogliere le storie e le accuse dei MacQuinn per permettere a quelle persone di liberare la mente e il cuore dagli orrori degli anni bui, però tutto questo non faceva che aumentare il disprezzo verso le mie origini.
«Signorina Brianna» sussurrò Dillon.
A fatica incrociai il suo sguardo, mentre le parole scritte sul foglio mi bruciavano come fumo negli occhi.
«Credetemi, signorina, se vi dico che è nel vostro interesse sentire la fine della mia storia.»
Respirai a fondo. Dovevo fidarmi, dovevo credere che in quel racconto ci fosse qualcosa da ascoltare. Con calma intinsi la penna nel calamaio e mi preparai a scrivere.
Mia madre era bellissima. E attirò l’attenzione di Allenach sin dalla prima volta che la vide. Per mio padre sapere la moglie costretta nel letto del lord fu devastante. Io avevo solo tre anni e non riuscivo a capire perché mia madre non era più a casa come prima.
Fu l’amante di Allenach per due anni. Ma quando lui si rese conto che non rimaneva incinta, la fece uccidere senza troppo clamore. Mio padre non riuscì a riprendersi dal dolore e la seguì a breve distanza.
Nel 1547 successe qualcosa di strano. Allenach prese a trascorrere più tempo al castello di Damhan, la sua residenza estiva, e finalmente ci lasciò in pace. Le nostre donne iniziarono a sentirsi più tranquille perché probabilmente dopo mia madre non avrebbe più scelto una di loro. Si diceva in giro che Allenach voleva una figlia, anche illegittima, visto che aveva già due figli maschi e un lord senza eredi femmine era considerato un inetto. Poi, l’autunno seguente, iniziarono a circolare altri voci: che Allenach aveva avuto una figlia con una donna valeniana, di nome Rosalie Paquet, e che aveva intenzione di riconoscerla. Tre anni dopo, però, qualcosa doveva aver scombinato i suoi piani perché tornò a Fionn e di nuovo si prese un’altra delle nostre donne come amante, deciso ad avere una figlia a qualsiasi costo.
Scelse la più bella fra tutte le tessitrici, Lara, e vederla finire tra le grinfie di quell’uomo spezzò il cuore a tutti quanti. Dopo qualche tempo Lara gli diede la bambina che lui voleva. La piccola, tuttavia, all’età di un anno fu colpita dal vaiolo. La terribile malattia le deturpò per sempre il viso e si prese la vita della sua mamma. La bambina sembrava destinata a morire e a seguire la madre oltre i confini del mondo terreno, invece lottò con tutte le sue forze. Quella bambina voleva vivere. E quando Allenach si rese conto che sua figlia non sarebbe morta e avrebbe portato con fierezza le sue cicatrici, la abbandonò, lasciandola alle cure delle tessitrici.
Avevo gli occhi pieni di lacrime, e la mia mano tremava al punto che non riuscivo più a scrivere. Dillon allora continuò a parlare, non più per farmi registrare le sue memorie ma per farmi sapere.
«Le tessitrici le volevano bene e la allevarono come una figlia. La chiamarono Neeve, e decisero che non le avrebbero mai svelato il nome del suo vero padre, raccontandole invece che era la figlia di un bravo artigiano.
«E ancora una volta iniziammo a chiederci come mai Allenach ignorava le donne MacQuinn. Dopo la nascita di Neeve, nessuna di loro fu più molestata. Solo adesso riesco a sospettare il perché: le nostre donne erano protette dall’esistenza di un’altra persona, dalla promessa di un’altra figlia al di là del canale.»
Dillon si sporse verso di me e mi prese le mani. Ero scossa dai singhiozzi, e sentivo che quella notizia avrebbe cambiato molte cose.
Neeve era la mia sorellastra. Era mia sorella.
«Brianna, lo so che adesso le donne vi rifiutano» mormorò Dillon, «ma un giorno, quando il tempo avrà rimarginato tutte le ferite, vi vorranno bene, proprio come a Neeve.»