CARTIER
Castello reale di Lyonesse, territori di lord Burke
Cavalcavo nel buio della notte, i denti affondati nel vento, il cuore veloce come gli zoccoli del cavallo. Non è possibile, pensavo, e intanto sfrecciavo verso Lyonesse sotto l’occhio vigile della luna e delle stelle, che mi guidavano con la loro luce d’argento.
Giunto al castello reale, trovai le porte della cinta esterna sprangate. Martellai con i pugni contro i battenti fino a spaccarmi le mani, e sporcai con il mio sangue il legno e il ferro. E continuai ancora e ancora, finché un soldato dei Burke guardò in strada dall’alto della torre di guardia.
«Cosa succede? Vai a dormire, razza di ubriacone» mi inveì contro. «Le porte devono restare chiuse di notte.»
«Sono Aodhan Morgane. Aprite le porte.»
Il soldato reggeva una torcia, perciò lo vidi in faccia mentre strizzava gli occhi cercando di vedere il mio stemma sotto la luce della luna. Poi scomparve all’interno e dopo poco le porte si schiusero scricchiolando il necessario a far passare me e il cavallo.
Proseguii fino alla corte centrale, smontai di sella e lasciai il mio destriero sul selciato perché gli stallieri dormivano tutti. Mi avvicinai quindi alle porte del castello, che trovai sprangate come quelle esterne. Di nuovo, iniziai a colpire i battenti con tutte le mie forze e dopo un tempo che mi sembrò eterno la finestrella si aprì e il maggiordomo del castello sbirciò verso di me, gli occhi illuminati da una candela e visibilmente infastidito.
«Cosa succede?»
«Aprite» ordinai.
«Non apriamo a nessuno a qu…»
«Aprite immediatamente questa porta, altrimenti vi faccio licenziare dalla regina in persona.»
Il maggiordomo mi riconobbe all’istante e impallidì. «Vi chiedo scusa, lord Morgane. Un momento, per favore.»
Il pesante portone si aprì e io entrai nel castello, infilandomi subito nei tortuosi corridoi che conducevano alle segrete. L’accesso era piantonato da due guardie dei Burke, e per la terza volta pronunciai la mia richiesta: «Aprite la porta e lasciatemi passare».
«Non possiamo, lord Morgane» rispose uno degli uomini. «L’accesso alle segrete deve essere autorizzato dalla regina in persona.»
Era vero. Avevamo stabilito quella regola dopo l’evasione di Declan, perciò tornai indietro, imboccai la scalinata e percorsi il corridoio superiore fino a raggiungere gli appartamenti reali. Ovviamente, l’ingresso era presidiato da un folto drappello di guardie e venni bloccato ben lontano dalla porta.
«Svegliatela» chiesi, disperato. «Svegliate la regina.»
«Lord Morgane» mi disse una soldatessa che mi sbarrava la strada «la regina è esausta. Non potete attendere domattina?»
«No. È una faccenda che non può aspettare. Svegliate Isolde.» Stavo gridando, nella speranza che lei mi sentisse. «Ho cavalcato nella notte per venire qui e adesso devo vederla.»
«Lord Morgane, mantenete la calma, altrimenti sarò costretta a farvi scort…»
«Lasciatelo passare.»
La voce di Isolde placò di colpo la confusione. Ci voltammo tutti verso di lei. Ferma sulla soglia, avvolta in uno scialle e con una candela in mano, sembrava effettivamente sfinita. Le guardie si fecero da parte e mi lasciarono entrare.
«Isolde, ho assolutamente bisogno che autorizzi il mio accesso alle segrete» sussurrai.
Non era certo la richiesta che si aspettava da me. Sbatté le palpebre e schiuse le labbra per parlare; poi però cambiò idea, e capii che non voleva farmi domande. Si fidava di me, ero il suo più vecchio amico, quello che un tempo, seduto con lei nel buio di un armadio, le aveva preso la mano e le aveva predetto che sarebbe stata la più grande regina del Nord.
Allora annuì e mi accompagnò fino all’entrata delle segrete e qui, con la fiamma tremula di una candela davanti al viso, diede il suo ordine alle guardie.
«Accompagnate giù lord Aodhan e risalite ad attendere qui il suo ritorno.»
Il secondino si posò la mano sul cuore, dopodiché prese le chiavi e aprì la porta principale.
Di colpo mi accorsi che stavo tremando, e il mio respiro era affannato.
Isolde sembrò accorgersene, perché mi strinse affettuosamente una mano fra le sue. Quando mi lasciò, ero pronto per entrare nelle viscere del castello. La guardia e io prendemmo una torcia a testa e iniziammo a scendere.
Avvolto dall’oscurità, mi sentii subito mordere dal freddo umido delle segrete.
Giunti in fondo alle scale, l’uomo mi lasciò solo. «Vi aspetterò di sopra, mio signore.»
Annuii e mi infilai nel reticolo di cunicoli nella luce incerta della torcia. Non sapevo dove andare ed ero quasi certo che mi sarei perso, eppure mi spingevo sempre più avanti.
Ben presto mi sentii così stanco che mi appoggiai al muro per riprendere fiato. Chiusi gli occhi e per la prima volta pensai che forse mi ero sbagliato. Forse Declan aveva mentito per il puro gusto di ferirmi.
In quel momento però sentii un rumore distante. Il fruscio di una ramazza.
Mi lasciai guidare da quel suono, che rimbalzava fra i muri delle gallerie senza lasciarsi afferrare, a volte lontano, a volte più vicino. Quando ormai pensavo di essermi perso e di tornare sempre allo stesso punto, vidi una luce brillare in fondo a uno dei cunicoli.
La seguii e arrivai a una galleria illuminata da una serie di torce fissate al muro nei loro sostegni.
E lì trovai la figura velata.
La osservai prendere la scopa e spazzare via un cumulo di ossicini, accompagnata dal fluttuare dei veli neri sotto cui si nascondeva. Non mi aveva visto. Non ancora.
Così pronunciai il suo nome, che richiamai dalle tenebre dopo venticinque lunghi anni. «Líle.»
La figura velata si fermò. Poi lentamente si girò verso di me.
Non sapevo che cosa aspettarmi, adesso che il momento era arrivato. Di certo non mi aspettavo che si voltasse e andasse via.
Forse non era lei. Declan mi aveva preso in giro, era finalmente riuscito a distruggermi. Sentivo le sue parole girarmi in testa, entrare nei miei pensieri. “Tu e io siamo legati come fratelli attraverso di lei. E lei vive grazie a me. Voglio che tu lo sappia, prima di uccidermi. Lei vive perché io le voglio bene.”
Il cuore prese a battermi furiosamente quando finalmente riuscii a pronunciare quella parola. «Madre.»
La figura velata di nuovo si fermò. La vidi appoggiare al muro la mano destra, quella che Declan aveva incatenato nella cella, per cercare sostegno.
Mi avvicinai, continuando a sussurrare: «Madre… madre…».
Da sotto i suoi veli arrivò un suono soffocato. Stava piangendo.
Tesi le braccia, non desiderando altro che di poterla stringere. Lei non si mosse dal muro, ma si toccò il viso velato con la mano.
«Sono Aodhan» mormorai. «Vostro figlio.»
Aspetterò qui a braccia aperte tutto il tempo che le occorrerà, pensai. Aspetterò qui finché non sarà pronta a venire da me.
Infine la figura velata mi si avvicinò. Mi tese la mano, intrecciò le dita alle mie e poi si lasciò abbracciare. Io la strinsi sul mio cuore. Attraverso la stoffa sentii la pelle coriacea della schiena, martoriata dalle cicatrici, e la sentii esile come un filo di fumo. E le lacrime mi inumidirono gli occhi.
Dopo un po’ si staccò da me e lentamente si sollevò i veli che le coprivano il volto.
Mio padre aveva ragione. Líle Morgane era bellissima.
I capelli, lisci e morbidi come seta, le scendevano sul collo, illuminati da qualche filo d’argento. Gli occhi erano incredibilmente azzurri, la pelle diafana, quasi traslucida dopo i lunghi anni trascorsi nel buio delle segrete. Aveva una lunga cicatrice sulla guancia, altre sulla fronte, e capii subito che era stato Declan a sfregiarla in quel modo.
Poi la sua mano disegnò con grazia qualcosa nell’aria e capii che erano lettere. Stava scrivendo il mio nome.
Aodhan.
E io pensai: Declan l’ha rinchiusa qui dentro per tutti questi anni, e Gilroy le ha mozzato la mano sinistra, le ha tagliato la lingua, l’ha torturata, eppure nessuno dei due è riuscito a privarla della sua forza.
Aodhan, scrisse ancora nell’aria Líle.
La strinsi di nuovo a me e piansi tra i suoi capelli.
Sembrava uscito da un sogno il giorno in cui riportai mia madre a casa, nelle terre dei Morgane. Avevo scritto una lettera ad Aileen, la nostra governante, per darle la notizia e per chiederle di tenere le persone tranquille quando fossimo arrivati. Ma avrei dovuto prevedere che i festeggiamenti sarebbero stati inevitabili.
Quando arrivammo e la videro spuntare dalla carrozza, i Morgane, che non erano certo persone dal cuore tenero, si gettarono in ginocchio e poi piansero, e risero, e cercarono di toccarla. Tutto quell’entusiasmo, però, la spaventò, e quando mi accorsi che era sul punto di cadere nel panico, riunii tutte le persone nel salone del castello e chiesi di sedersi in silenzio intorno ai tavoli per aspettare lì che la accompagnassi da loro. Persino Ewan sembrava molto emozionato, e accettò di staccarsi da me solo quando gli dissi che poteva andare da Derry e dagli altri muratori.
«Madre, ditemi se tutto questo è troppo per voi» sussurrai a Líle, che era rimasta nel cortile a fissare il castello. Chissà che cosa le stava passando per la mente, chissà se pensava a mio padre, o a mia sorella.
Mi parlò a gesti, con una lunga ed elegante catena di movimenti che non riuscivo ancora a capire bene. Pensai che mi stesse spiegando quanto si sentisse sopraffatta dalle emozioni, e che non volesse vedere la folla in attesa.
«Posso accompagnarvi subito nelle vostre stanze» suggerii con dolcezza, ma lei scosse la testa e di nuovo formò le parole con le dita. «Quindi volete andare nel salone?»
Annuì, ma ebbi la sensazione di non riuscire a cogliere l’essenza di ciò che mi stava dicendo.
La presi per mano e la condussi dentro Brígh. Aileen ci stava aspettando nell’atrio, incapace di contenere l’emozione per l’arrivo di Líle.
«Mia signora» la salutò con un inchino. E si vedeva che stava facendo del suo meglio per non scoppiare in lacrime.
Líle allargò le braccia e le sorrise affettuosamente, poi le due donne si abbracciarono con trasporto e io distolsi discretamente lo sguardo per lasciarle sole a condividere quel momento di intimità.
Quando entrammo nel salone, i Morgane fecero del loro meglio per restare composti, ma appena la videro non poterono evitare di alzarsi in piedi e di seguirla con lo sguardo finché arrivò al tavolo d’onore, dove le lasciai il mio posto.
Mi accomodai accanto a lei e la osservai con attenzione, pronto a cogliere il minimo segno di disagio. Invece lei continuò a guardare tutti i presenti, il viso addolcito dall’affetto via via che riconosceva i vecchi amici.
Dopo un certo tempo mi fece segno che voleva scrivere.
Aileen si precipitò a prendere carta, penna e calamaio prim’ancora che io potessi alzarmi dalla sedia. La governante tornò dopo poco e posò l’occorrente davanti a Líle, che iniziò a scrivere. Capii in quel momento perché la sua calligrafia fosse così stentata: era mancina e Gilroy le aveva tagliato proprio la mano sinistra. Con calma scrisse un messaggio e poi mi passò il foglio, facendomi cenno di leggerlo.
Mi alzai e sperai che la mia voce non tremasse.
«“Ai Morgane. Mi riempie di gioia rivedervi, e voglio esprimervi tutta la mia ammirazione per aver resistito nonostante il buio di questi lunghi anni, e per essere rimasti fedeli al vostro lord. Non posso parlare con la bocca, ma posso comunicare a gesti e mi auguro che presto avrò modo di incontrare ognuno di voi. Vi chiedo però soltanto una cosa: non rivolgetevi a me come alla vostra lady. Non sono più lady Morgane. Sono soltanto Líle.”»
Posai il foglio e cercai di sciogliere il nodo che mi stringeva la gola. I Morgane alzarono i calici verso di lei, annuendo, anche se alcuni sembravano perplessi, quasi non potessero scindere il titolo dalla persona.
Capii solo in quel momento che cosa mia madre avesse cercato di dirmi nel cortile: Non sono più la lady dei Morgane. Ora sono soltanto Líle.
La settimana seguente fu un susseguirsi di complicazioni e piccoli successi.
Avrei voluto ridare a mia madre le sue stanze, quelle che un tempo aveva condiviso con mio padre, ma lei non vi era neppure voluta entrare. Invece, aveva chiesto per sé la camera di Ashling, dove aveva dipinto per la figlia una foresta incantata. Aileen e io ci impegnammo molto per arredare la camera, che era stata completamente svuotata e ripulita durante i lavori di ristrutturazione del castello. Commissionai al mio falegname uno splendido letto e Aileen chiese alle donne di confezionare un materasso di piume. Coprimmo il pavimento di tappeti e pelli di animale, e mettemmo le tende alle finestre; infine, il sarto cucì dei vestiti nuovi e io riempii gli scaffali di libri e rifornii lo scrittoio di tutta la carta, le penne e l’inchiostro che si potessero desiderare.
Líle apprezzò molto la nuova stanza e questo fu per me un grandissimo sollievo. Ma poi una mattina Aileen venne da me e mi disse: «Lord Aodhan, vostra madre non dorme nel letto. Si sdraia sul pavimento, davanti al camino».
Di primo acchito mi sentii mortificato. Poi pensai che Líle aveva fatto così per venticinque anni. «Aileen, lasciatela dormire dove vuole.»
«Ma, mio signore, non posso…»
Le strinsi il braccio in un gesto di simpatia, nonché per ricordarle che non potevamo neanche lontanamente immaginare quello che mia madre aveva dovuto sopportare. E che se lei voleva restare velata e dormire sul pavimento, lo volevo anch’io.
La questione successiva fu che Líle desiderava darsi da fare. Voleva spazzare, voleva pulire, voleva togliere le erbacce dall’orto, impastare insieme ai fornai, strigliare i cavalli con gli stallieri. Si copriva la testa con uno scialle, indossava abiti dimessi, ignorando i bei vestiti che Aileen aveva fatto cucire per lei, e lavorava al fianco dei Morgane.
La prima volta, la donna che stava pulendo il salone era venuta da me spaventata. «Vuole spazzare, togliere le ragnatele e pulire la cenere dai camini» mi aveva riferito, torcendosi le mani per l’agitazione. «Non possiamo permetterle di fare una cosa del genere. È la nostra lady.»
«È Líle adesso, e se vuole faticare fianco a fianco con voi, lasciateglielo fare, anzi, accoglietela a braccia aperte» avevo replicato, sperando di aver ben dissimulato la mia irritazione.
Iniziai così a osservare mia madre, e mi accorsi che si metteva all’opera di mattino, appena sveglia, e non smetteva fino al tramonto, e lavorava così duramente che nessuno dei Morgane sembrava poterle star dietro. Immaginai che cercasse di sfinirsi di fatica per non avere il tempo, né la forza, di fermarsi a pensare, a ricordare. E, di nuovo, mi sentii mortificato. Ci sentimmo tutti mortificati.
Forse, però, la sorpresa più grande fu Ewan. Si era subito affezionato a Líle, e lei a lui; la seguiva ovunque, e aveva imparato il linguaggio dei segni prima di tutti noi. Mia madre gli avrebbe insegnato a lavorare, pensai divertito, osservando Ewan seguirla con la paletta, con una pila di biancheria fresca di bucato, con i vestiti sporchi di farina.
In quella prima settimana, mia madre mangiò soltanto pane e formaggio. Non volle carne, e neppure birra. Invece, fu molto felice di poter di nuovo prendere il tè, con il miele e una goccia di panna. Il mio tempo con lei doveva attendere la sera, quando le portavo in camera un vassoio con la sua bevanda preferita e ci sedevamo davanti al camino – sul pavimento, ovvio – crogiolandoci davanti al fuoco, e imparando a conoscerci davanti a una tazza fumante. Perché in realtà eravamo due perfetti estranei: io non sapevo niente di lei e lei non sapeva niente di me.
Durante una di quelle serate, mi consegnò dei fogli fitti di parole.
«Devo leggerli adesso?» domandai.
No. Dopo.
Annuii e li misi da parte, poi tornai alla nostra particolare conversazione. Dentro di me, però, continuavo a pensare che avrei dovuto essere a Lyonesse, ad assistere all’esecuzione dei Lannon. Pensavo che quella mattina Gilroy e Oona erano stati portati davanti alla regina, ai nobili e al popolo di Maevania e che si erano inginocchiati sul ceppo del boia per essere decapitati.
Ero l’unico lord a non essere presente. Isolde mi aveva dispensato, ordinandomi di restare a casa con mia madre, e io avevo accettato di buon grado perché il solo pensiero di lasciarla mi angosciava. Tuttavia, ero preoccupato per Ewan e Keela, che dovevano ancora essere graziati, e io non avrei potuto essere presente al procedimento per testimoniare in loro favore.
Brianna testimonierà per loro, mi aveva scritto Isolde. Dichiarerà che Ewan e Keela Lannon le hanno salvato la vita.
Scacciai i Lannon dai miei pensieri e dissi: «C’è un motivo per cui sapevo dove trovarvi, madre. Si chiama Brianna».
Líle mi posò una mano sul cuore. L’aveva intuito. O forse lo aveva capito dal modo in cui avevo pronunciato il suo nome.
«Sì. È lei la regina del mio cuore. È la figlia adottiva di Davin MacQuinn» spiegai a mia madre.
Sentire il nome del lord la commosse. Sorrise e a gesti mi disse: Voglio rivederlo, e vorrei anche conoscere lei.
«Saranno all’incoronazione di Isolde» le risposi. «Verrai anche tu con me e con i Morgane a festeggiare?» Ripensai alle lettere che avevo scritto a Jourdain e Brianna, raccontando loro che mia madre era viva. Ma per quanto fossero entrambi impazienti di venire a conoscerla, si rendevano conto che Líle aveva ancora bisogno di tempo per ritrovare il legame con i Morgane.
Sì, ci verrò.
Sorrisi e la baciai sulla guancia, pensando: come farò a sopportare l’emozione di vedere tutte le persone che amo finalmente insieme e felici?
Dopo aver finito il tè, la salutai e presi i fogli che mi aveva dato. Arrivato in camera, trovai Ewan che russava beato nel suo lettino accanto al fuoco. Aveva lavorato tutto il giorno con Líle e i muratori, e doveva essere esausto.
Sedetti al mio scrittoio con le pagine di mia madre. Mi accorsi subito che quello era il suo racconto, la sua parte della storia. Esitai, e mi rigirai i fogli tra le dita, sotto la luce fioca delle candele. Avevo quasi timore a leggere quelle parole, ma poi pensai: se Líle è pronta a raccontare, io sarò pronto ad ascoltare.
Aodhan,
so che hai molte domande, e che vorrai sapere come sono sopravvissuta alla prima rivolta e ai lunghi anni di prigionia.
Prima di tutto, devi sapere che non è passato un solo giorno senza che pensassi a voi: a te, ad Ashling e a tuo padre. Tu e tua sorella non avete mai lasciato il mio cuore, anche quando sono caduta nelle tenebre più nere e pensavo che non vi avrei mai più rivisti.
Forse un’altra sera ti scriverò di momenti più felici, come il giorno in cui sei nato e di tua sorella, che si divertiva a farti i dispetti. Per adesso, però, lasciami tornare a venticinque anni fa.
Quel giorno, durante la battaglia, tuo padre e io ci dividemmo. Io mi ritrovai con una guarnigione di soldati alle spalle e un mare di Allenach e di Lannon davanti. Gilroy mi inseguì e quando mi raggiunse mi mozzò la mano, che cadde insieme alla spada. Poi mi caricò sul suo cavallo e rientrò al castello. Entrato nella corte, mi fece smontare e mi trascinò nella sala del trono. Sapevo che cosa aveva intenzione di fare: mi avrebbe decapitata ai piedi del trono, perché io ero nata Lannon e attraverso di me voleva dare l’esempio.
Soffrivo terribilmente, non solo per il dolore fisico, ma perché sapevo che, nonostante tutti i nostri sforzi, avremmo perso. Malgrado ciò, anche mentre ero lì, inginocchiata, in attesa che lui sferrasse il colpo mortale… io volevo vivere. Volevo vivere per te e per Ashling, e per tuo padre, che amavo profondamente. D’un tratto dall’ombra sbucò Declan, che si rivolse al padre gridando pietà, implorandolo di lasciarmi vivere. E poi si gettò sopra di me, urlando che se il padre avesse voluto uccidermi, avrebbe dovuto uccidere anche lui.
Forse però dovrei raccontarti qualcosa di Declan.
Quando aveva sette anni, mi chiese di insegnargli a dipingere. Aveva visto qualche mio disegno e voleva imparare. Il padre, ovviamente, pensava che l’arte fosse una perdita di tempo, io invece vidi in quella richiesta un’occasione per allontanare Declan dal castello, dove a causa di Oona e Gilroy la malvagità regnava sovrana. Avrei potuto proteggere il futuro re, fare di lui un uomo buono e giusto, molto diverso dal padre. Gilroy accettò, però volle in cambio qualcosa. In segno della mia fedeltà ai Lannon, mi chiese di accettare il fidanzamento fra Ashling e Declan. Tua sorella aveva appena un anno, e la proposta mi lasciò sconcertata. Finché tuo padre un giorno mi disse: «Se puoi insegnare a Declan a dipingere, gli potrai anche insegnare a essere un bravo re. E nostra figlia sarà regina al suo fianco».
Così accettai. Declan trascorreva con noi molte settimane all’anno, studiando pittura. Ma più mi affezionavo a lui come a un figlio, più vedevo emergere tutto il buio che aveva nel cuore. A poco a poco, anno dopo anno, si faceva sempre più insensibile e violento, e io iniziai a capire che non avrei potuto salvarlo da se stesso. Non avrei potuto redimerlo. Ero disperata, e in qualche modo sentivo di averlo deluso, eppure lui mi voleva ancora bene, e nonostante tutto si sforzava di essere migliore, e lo faceva per me.
Ben presto, però, iniziai non solo ad aver paura per lui, ma anche ad aver paura di lui. Ruppi il fidanzamento con Ashling e tuo padre e io iniziammo a organizzare la rivolta perché da troppo tempo ormai assistevamo alle atrocità di Gilroy e Oona. Il resto della storia lo conosci già.
E così, quel giorno, nella sala del trono, Declan implorò il padre di salvarmi la vita. Inaspettatamente, Gilroy accettò e mi rinchiuse nelle segrete, dove rimasi incatenata e agonizzante per sei mesi. Gilroy attese che la ferita al polso in qualche modo si rimarginasse e poi mi tagliò la lingua, così che non potessi più parlare. Quel primo anno fu il più terribile. Il dolore sembrava non lasciarmi mai, e mi tormentavano due pensieri fissi: se tuo padre fosse riuscito a sopravvivere, e se avessero fatto del male a te e ad Ashling. Non sapevo niente e non potevo certo chiedere informazioni ai miei carcerieri. Finché una delle guardie ebbe pietà di me. Era un Lannon, è vero, però aveva preso a benvolermi e mi portava sempre il cibo migliore, l’acqua più pulita, erbe e pozioni che mi aiutassero a guarire. Fu quell’uomo a raccontarmi che cosa era successo dopo il fallimento dell’insurrezione. Mi disse che tu e tuo padre eravate riusciti a fuggire insieme a Davin, Lucas, Braden e Isolde. Che i Morgane erano stati affidati a lord Burke. Che mio padre, un vassallo dei Lannon, aveva cercato di incitare il popolo a una seconda rivolta ma che aveva fallito, e per questo Gilroy aveva sterminato tutta la mia famiglia. Piansi per giorni quando lo seppi, quando mi dissero che tutti i miei famigliari erano morti, ma piansi ancora di più quando seppi che tu e tuo padre eravate sopravvissuti. Solo questa notizia mi diede la speranza che mi serviva per non lasciarmi morire, per giocare le mie carte. Avrei sfidato i Lannon semplicemente restando viva, pronta a riabbracciarvi quando foste tornati.
Rimasi rinchiusa nelle segrete per cinque anni. Declan veniva spesso a trovarmi. Non posso neanche lontanamente descrivere quanto angoscianti e terribili fossero quelle visite, e non perché lui fosse crudele con me, ma perché mi rendevo conto che cadeva sempre più vittima dei suoi demoni, e tutto il bene che avevo cercato di coltivare nella sua mente e nel suo cuore era appassito e poi morto. Però mi portava sempre carta e inchiostro, così potevo comunicare con lui scrivendo. Continuava a insistere che dovevo abbandonare i Morgane e riprendere il mio nome, che dovevo rinnegare tuo padre e il mio casato, e che se lo avessi fatto mi avrebbe tolto dalle segrete e mi avrebbe trovato un posto nel castello.
Per un mese scese da me quasi ogni giorno nella speranza che scrivessi la mia abiura. E di fronte al mio rifiuto, era sempre più esasperato. «Líle, ma non volete vivere?» mi gridava. «Non volete vivere in un luogo confortevole? Io vi posso proteggere. Posso darvi un’esistenza migliore di questa.»
Io però rifiutavo di rinnegare il nome dei Morgane. E così lui smise di farmi visita, e non lo vidi più per almeno un anno. Durante quel periodo, la guardia amica cercò di farmi evadere. Mi aveva parlato di un fiume sotterraneo che sfociava nella baia. Impiegammo molto tempo per mettere a punto un piano e quando finalmente il giorno fatidico arrivò, lui mi fece uscire di nascosto dalla cella e mi condusse fino al fiume. Ma fuggire dalle segrete controllate dai Lannon non era impresa da poco. Fummo scoperti dalla stessa Oona. Mi aveva sempre odiata perché sapeva che Declan mi amava più di lei, e si vendicò facendomi frustare, mentre la guardia fu torturata a morte.
Ero di nuovo rinchiusa nella mia cella, abbandonata al dolore e alla disperazione più cupa, quando Declan tornò a farmi visita. Non sapeva che avevo tentato di evadere e che la madre mi aveva fatto frustare fin quasi a morirne. «Volete che la uccida?» mi domandò, con una tale freddezza che dapprima pensai si stesse prendendo gioco di me. Invece non scherzava. Aveva soltanto sedici anni, eppure avrebbe ucciso la madre per me – per dirti quale livello di malvagità pervadeva quella famiglia.
Mi tolse dalle segrete e mi portò nei suoi appartamenti. Credo che con quel gesto sperasse di convincermi a farmi rinnegare il nome dei Morgane, adesso che mi aveva concesso di ristabilirmi in un luogo confortevole. Aveva paura – come tutti i Lannon, del resto – che tu e Kane, insieme a Davin e Lucas, Braden e Isolde, sareste tornati per vendicarvi. E voleva essere certo che avrei scelto lui e non te, se davvero quel giorno fosse arrivato.
Ovviamente rifiutai di dargli questa certezza, e ciò lo mandò su tutte le furie, al punto che mi sfregiò il viso e mi rispedì nelle segrete. Da quel momento non comunicai con anima viva per cinque lunghi anni. E rimasi sola nell’oscurità.
Detesto ammetterlo, ma quei cinque anni finirono per spezzarmi. Ero prigioniera dei Lannon già da dieci, e se tu fossi tornato in Maevania, Aodhan, ne avresti avuti undici. Così iniziai a pregare che Kane ti tenesse lontano da tutto quell’orrore, e che ti crescesse in un mondo dove tu saresti stato amato e protetto. Forse Kane, che mi credeva morta, si sarebbe risposato e questa donna ti avrebbe cresciuto con amore. Lo pensavo così intensamente che finii per crederci.
Quando Declan decise di tornare a farmi visita era ormai un uomo. Il tempo aveva piegato la mia volontà e infine rinnegai i Morgane. Avrei voluto riprendere il mio nome da ragazza, Hayden, ma Declan mi disse che gli Hayden erano tutti morti e che dovevo chiamarmi Lannon.
Così diventai Líle Lannon.
Declan mi coprì con un velo e mi portò nel castello, come cameriera personale della sua sposa. Nessuno sapeva chi fossi veramente, tranne lui, Gilroy e Oona. E per un paio di anni andò tutto bene: io stavo zitta e tenevo la testa bassa, così nessuno si accorgeva di me. Ma quando Declan iniziò a picchiare la moglie, io lo affrontai e gli scrissi che poteva essere una persona migliore di così. Per tutta risposta lui mi rise in faccia, quasi fossi uscita di senno. La sua malvagità diventò un problema ancora più grande quando nacquero Ewan e Keela, perché non avrei potuto proteggere la madre e anche i bambini.
Quando la donna morì, Declan tornò a rinchiudermi nelle segrete, forse perché temeva che potessi fuggire con i suoi figli. Mi costrinse in una cella per un anno, poi decise di lasciarmi libera per spazzare via le ossa nelle gallerie della prigione. Finii per perdere la nozione del tempo, non sapevo più che giorno né che anno fosse, e neppure quanti anni avessi. Quando scoppiò la nuova insurrezione, non seppi che cosa fare. Ero stata rinchiusa per talmente tanti anni che l’idea di uscire dalle segrete per tornare alla luce mi terrorizzava. E così continuai a spazzare le ossa.
Finché un giorno ti ho visto, Aodhan. Ci siamo quasi scontrati in una galleria, e in quel momento ho creduto che il cuore mi scoppiasse dentro al petto. Sapevo che eri tu. Ma avevo troppa paura di rivelarmi, anche dopo che Declan mi aveva incatenata dentro la sua cella e tu mi avevi rivista, insieme a Davin e alla regina. Mi vergognavo di aver rinnegato il mio nome, e non sapevo c he cosa fosse meglio per te, così sono rimasta dov’ero, in quei cunicoli, immersa nelle tenebre. E poi tu sei tornato. E non smetterò mai di chiedermi che cosa ti abbia riportato da me, come tu abbia saputo di me.
Un giorno vorrò ascoltare la tua storia, quello che hai vissuto in tutti questi anni. Vorrò sapere dove tuo padre ti ha cresciuto, i luoghi che hai visitato, le persone che hai conosciuto e amato. Ti vorrò ascoltare mentre mi racconterai come hai pianificato il tuo ritorno in Maevania, come hai rimesso Isolde sul trono.
Ma, per il momento, credo che mi basti poterti dire che ti voglio bene, Aodhan, figlio mio, cuore mio. E sono infinitamente grata che tu sia ridisceso nelle tenebre per portarmi via.