5. Una voce pubblica
Tra il 1842 e il 1845 la realtà mise un punto a quel che rimaneva del sogno. La passione di Charlotte per il suo insegnante e le parole scambiate fra loro riempirono i suoi scritti. In qualche modo, Monsieur Heger seppe infondere fiducia nella promessa balenata nelle figure della signorina West, della signorina Hastings o della signorina Hall. Se non altro, Monsieur diede a Charlotte quell’approvazione esterna che tanto desiderava. Da quel momento scrisse solo di donne come quelle, lasciò da parte le bellezze stereotipate in un atteggiamento di sfida nei confronti delle sorelle, convinte che il bell’aspetto fosse una caratteristica essenziale delle eroine dei romanzi.
«Proverò che avete torto», replicava Charlotte. «Vi dimostrerò che un’eroina piccola e modesta come me può essere interessante quanto le vostre»354.
Maturò questa determinazione negli anni di evidente sofferenza che seguirono il soggiorno a Bruxelles, quando cucì le labbra persino con Emily – che a sua volta, in quel periodo, nascondeva alcune sue nuove poesie in un cassetto, convinta che fossero troppo insolite per essere condivise: «Non ho speranza nel mondo di fuori; / due volte mi è caro il mondo che è in me; è [...] il tuo mondo in cui tu e io e la libertà / godiamo di sovranità indiscussa»355. È impossibile definire l’effetto di questo reciproco silenzio: la profondità, il peso delle parole sepolte – soprattutto tra sorelle così legate tra loro – nel corso di quegli anni pazienti, oscuri, durante i quali ognuna compì per proprio conto un balzo dai “giochi” giovanili alle opere più classiche. Nel febbraio del 1844, mentre Charlotte lottava contro l’apatia che l’aveva colpita al ritorno da Bruxelles, Emily iniziò a raccogliere, ritoccare e aggiungere componimenti alle poesie del ciclo di Gondal356. Il 1843 e più ancora il 1844 furono, per lei, anni prolifici. Quando Charlotte ebbe infine modo di leggere le poesie di Emily, nell’autunno del 1845, il suo stupore diede la misura di quanto imprevisti fossero stati i progressi della sorella.
Nell’estate del 1845, prima che Charlotte scoprisse quei versi, le sorelle apparivano come tre donne distinte, ognuna chiusa nel proprio “mondo interiore”. Da bambine e adolescenti la loro fantasia era sbocciata all’unisono; tra il 1843 e il 1845 fu necessaria una separazione affinché ognuna trovasse la propria voce. In quel periodo Charlotte aveva ventinove anni, Emily stava per compierne ventisette e Anne venticinque. Come ricordò Charlotte: «Un tempo mostravamo l’una all’altra quel che scrivevamo, ma negli ultimi anni questa abitudine allo scambio e al confronto era venuta meno, per questo eravamo all’oscuro dei progressi che ognuna di noi aveva compiuto»357. Anne era a conoscenza del fatto che Emily stava scrivendo «poesie» indipendenti dal ciclo di Gondal: «Mi domando di che si tratti»358. Un appunto sul diario di Emily (datato 30 luglio, in coincidenza con il suo compleanno, ma in realtà scritto il giorno successivo) ci offre un suo autoritratto nella placida cornice della vita domestica («Ora devo tornare a piegare il bucato e stirare»). Affermava di aver «imparato a vivere nel presente, ansiosa di un futuro in cui non riuscirò a fare tutto ciò che voglio [...] il mio unico desiderio è che tutti possano essere tranquilli e attivi come me»359 – un indizio di un certo scontento tra le mura della canonica. Scontento che, con buone probabilità, dipendeva da Charlotte, muta mentre aspettava, giorno dopo giorno, l’arrivo della posta, e sconfortata per Branwell che, dopo una serie di licenziamenti, alla fine, in quello stesso mese di luglio, mandò in frantumi le speranze della famiglia.
In ogni suo impiego, Branwell iniziava facendo del suo meglio, ma ben presto era più preoccupato di recuperare il suo ruolo di capopopolo, la sua eloquenza e i suoi sogni di gloria mettendosi al centro di un gruppo di compagni di bevute disposti ad ammirarlo. Dopo vani tentativi di stabilirsi a Bradford come ritrattista, nel giugno del 1840 fu licenziato dai Postlethwaite, la famiglia residente nel Lake District presso cui lavorava come precettore. In questo periodo ebbe modo di incontrare Hartley Coleridge, che risvegliò le sue ambizioni letterarie tessendo le lodi delle sue poesie e delle sue traduzioni di Orazio. Fu probabilmente in questa disposizione d’animo che respinse seccamente Mary Taylor – in visita in canonica proprio quando Branwell fece ritorno alla casa paterna –, dalla quale si era sentito attratto in occasione di un precedente incontro. Charlotte accusò ingiustamente Mary di mostrare con troppa libertà i propri sentimenti – un uomo, pensava, veniva così spinto ad allontanarsi. Rifiutando Mary, Branwell si rivelò volubile o incapace di apprezzare le qualità della ragazza, e forse anche un giovane dalle pretese irrealistiche. Tre mesi dopo, nel settembre del 1840, quando Branwell accettò quello che agli occhi di sua sorella era l’ennesimo impiego degradante, Charlotte scrisse in toni sarcastici a Ellen: «Una mia lontana conoscenza, un certo Patrick Boanerges, è partito per cercare fortuna come addetto ferroviario, un po’ come un selvaggio, avventuroso e romantico cavaliere errante sulla linea Leeds-Manchester»360. Nel 1842, in seguito al licenziamento (per condotta negligente), Branwell riuscì a far pubblicare sull’«Halifax Guardian» un suo sonetto, autocommiserativo ma riuscito, On Peaceful Death and Painful Life. Nel gennaio del 1843, Anne fece in modo che Branwell la raggiungesse a Thorp Green in veste di tutore dell’undicenne Edmund Robinson. Portandolo vicino a sé, Anne sperava di poter controllare il fratello, ma non poté impedire che si invaghisse della padrona di casa, la signora Robinson. Fu dunque inevitabile, nel luglio del 1845, l’umiliante licenziamento di Branwell da parte del marito; poco prima, il 18 giugno, senza alcun preavviso la stessa Anne aveva improvvisamente lasciato il suo impiego presso i Robinson. Tornato definitivamente a casa, Branwell costrinse la sua famiglia ad assistere a violente crisi di autocommiserazione, per poi annegare ogni sera le sue pene al Black Bull. Ormai dipendente dal gin e dall’oppio, si ridusse a mendicare denaro dal padre e da chiunque fosse disposto a dargliene. La sua crescente agitazione potrebbe aver costituito una fonte d’ispirazione per gli attacchi di follia nella soffitta di Jane Eyre (ottobre 1847), i quali, affermava Charlotte, non erano frutto di fantasie gotiche, bensì «fin troppo reali», una forma di «follia morale, in cui tutto ciò che è bene o perfino umano sembra sparire dalla mente, sostituito da una natura malvagia [...]. Tutto appare demoniaco»361. Branwell sarebbe servito da spunto anche ad Anne, che inserì nel suo secondo romanzo, Il segreto della signora in nero (giugno 1848), un resoconto degli effetti degradanti della dipsomania nell’ambito della vita familiare.
Nella versione della storia data da Branwell, la signora Robinson «mi ha mostrato un grado di gentilezza che, un giorno in cui ero profondamente afflitto per la condotta del marito, maturò nella dichiarazione di qualcosa che andava oltre i normali sentimenti. La mia ammirazione per le sue qualità intellettuali e personali [...] nonostante abbia diciassette anni più di me, il tutto combinato con un affetto da parte mia, portò ad attenzioni reciproche di cui solo in minima parte ero andato in cerca»362. Rimase convinto che la signora Robinson non desiderasse altro che concedergli tutta se stessa – e tutte le sue proprietà. Non è possibile sapere quanto ci sia di vero in questo resoconto e quanto di favoleggiato, ma, sulle prime, l’atteggiamento delle sorelle Brontë per la disgrazia di Branwell non fu di condanna: lo considerarono uno sprovveduto, un giocattolo nelle abili mani della sua datrice di lavoro. Il palese disprezzo nutrito da Anne nei confronti della sua padrona doveva aver influenzato l’idea che si erano fatte della signora Robinson: la giudicavano una donna frivola che con la sua debolezza e malafede aveva distorto le figlie in tal misura che Anne, come istitutrice, non aveva potuto raddrizzarle, e una manipolatrice che aveva giocato incautamente con un precettore giovane e ingenuo fino a stringerlo in pugno.
Una pagina del diario di Anne, datata «giovedì 31 luglio 1845», un mese e mezzo dopo il suo ritorno a Haworth, è l’autoritratto di una donna giunta al limite della sopportazione («Io non potrei, comunque, essere più spenta e vecchia di mente»). Come istitutrice, aveva resistito per oltre quattro anni nell’oscurità sociale in cui era relegata a Thorp Green, costretta per lungo tempo ad avere «esperienze talvolta spiacevoli, ma talaltra inattese, che mi hanno insegnato qualcosa sulla natura umana».
Nessuno di questi autoritratti rimandava un’immagine fedele. I Brontë presentavano l’uno all’altro – e per certi versi a se stessi – costruzioni che si basavano sulle mode dell’epoca. Branwell recitava il suo dramma byroniano, mentre le sorelle si allenavano in quella che Charlotte definì «l’eterna finzione»363 della copertura protettiva. Col tempo, queste facciate avrebbero decorato la leggenda delle Brontë, ma le loro opere ci raccontano un’altra storia. Il 9 ottobre del 1845, Emily rifiutò l’umiltà per osare «il balzo finale» dalla vita alla «libertà eterna»364, dando espressione a uno stato d’animo diametralmente opposto alla tranquillità domestica di cui si ammantava. L’apparente spossatezza di Anne è smentita dall’energia della sua satira sulle manie dei ricchi e della piccola nobiltà contenuta nel romanzo a cui aveva lavorato nell’ombra nel periodo trascorso al servizio degli Ingham e dei Robinson. Quella storia, avrebbe detto più avanti Charlotte, era lo «specchio della mente dell’autore»365: narrava l’esperienza di una misteriosa istitutrice dallo spirito fine, anche se invisibile ai suoi rozzi padroni, che riesce a preservare intatti, nello spazio incontaminato della vita privata, il suo senso morale e la sua capacità di amare. Quando fuggì366 da Thorp Green, nel giugno del 1845, Anne aveva terminato i primi due volumi di Passaggi nella vita di un individuo367 e, a dire il vero, proprio quando scrisse di sentirsi «vecchia di mente» stava ultimando il terzo.
Intitolata in seguito Agnes Grey, l’opera venne infine pubblicata insieme a Cime tempestose nel dicembre del 1847. Per Charlotte, Agnes Grey divenne l’istitutrice per antonomasia – si capisce dai riferimenti che ne fece in due suoi romanzi successivi: in Jane Eyre, «signorina Grey» è il nome dell’istitutrice tormentata dai piccoli Ingram (un po’ come accadeva ad Anne durante il suo primo impiego, tartassata dagli insopportabili Ingham); e, nel successivo Shirley, il nome da ragazza della simpatica istitutrice è ancora una volta «signorina Grey».
Nel biennio 1847-48, quando Branwell divenne sempre più un tormento per la sua famiglia, Anne si immerse nella stesura di un secondo romanzo in cui ritrasse il perverso Arthur Huntingdon, che abusa della propria famiglia assumendo tratti quasi demoniaci. A differenza dell’eroe di Emily, Heathcliff, che a sua volta logora i rapporti familiari, Arthur è moralmente incapace di stringere qualsiasi legame trascendente. In questo senso il romanzo di Anne potrebbe essere letto come una replica mondana a Cime tempestose.
Pure Charlotte alla fine condannò Branwell, ancor più a causa dell’imperterrita devozione del padre per l’unico figlio maschio. La crescente distanza che la separava dal fratello, un tempo suo partner intellettuale, è avvolta da un’aura di moralismo vittoriano che, sebbene incongrua, è comunque meno fuorviante dei tentativi di chi vorrebbe innalzare la scrittura di Branwell al livello di quella delle sorelle. Già da molto giovane si era crogiolato in pose cimiteriali che hanno contribuito alla sua leggenda, e che Charlotte, appena adolescente, aveva parodiato con divertito sarcasmo. Emily, che nei confronti del fratello aveva adottato un atteggiamento di pragmatica tolleranza, fu infine costretta a riconoscere in lui «una creatura senza speranza». A partire dal 1845 le sorelle non poterono più invitare nessuno nella canonica, turbata da quella presenza, e abbandonarono il progetto di allestire una scuola tra le mura domestiche – in ogni caso sarebbe stato assai difficile trovare allieve. Charlotte si avvicinò come mai prima a Ellen, cui confidò le disgrazie di Branwell, certa di trovare comprensione nell’amica – anche il «dissoluto» (alcolizzato) fratello di Ellen, Joseph, aveva portato un certo subbuglio nella famiglia Nussey368, e a un altro suo fratello, George, mentalmente instabile, era stata infine diagnosticata una forma di pazzia. Branwell continuava a simulare emozioni, alimentandole con alcol e droghe, fino a che non sprofondò in una confusione tra sogno e realtà priva di speranza.
L’incauto abbandono ai sentimenti inscenato da Branwell sotto gli occhi delle sorelle si avvicinava in modo inquietante a quello che Charlotte aveva espresso con parole misurate confidandosi con Mary ed Ellen, o nella sua breve corrispondenza con Monsieur. In questo senso, il fratello restava la sua controparte emotiva – amorale, anarchico, incline all’autodistruzione attraverso l’abbandono alle passioni che, nel caso di Branwell, erano adultere e prive di vergogna (Branwell scrisse a un amico che la signora Robinson «per anni» gli aveva concesso «tutto» il suo amore369). Charlotte riteneva il peccato «una forma di follia»370, e corse ai ripari armandosi di un rigido autocontrollo unito al ripetuto richiamo al senso del dovere. Le sue lettere insistono sulla crescente cecità del padre, sempre più dipendente da lei, che per lui leggeva ad alta voce sentendosi obbligata a rimanere in casa per stargli vicino. Ma quella casa era ovviamente anche l’unico posto in cui Charlotte era libera di scrivere. In pubblico parlava solo di disperazione e dovere, ma tra le mura domestiche teneva in vita una forma di esistenza alternativa – la vita ininterrotta dell’arte. Nelle sue lettere a Monsieur dichiarò che perseguire «la carriera delle lettere» le era impossibile, eppure si stava dedicando proprio a quello, con gli appunti presi nel suo quaderno di tedesco e, presto, con i due romanzi scritti tra il 1845 e il 1847. Continuava a lamentarsi con Ellen di non aver realizzato nulla nella vita («Presto avrò trentun anni, la mia giovinezza è trascorsa come in un sogno – e ne ho fatto un pessimo uso. Che ho realizzato in questi ultimi trent’anni? Un bel nulla»371), ma nello stesso momento in cui scriveva queste frasi, il 24 marzo del 1847, aveva appena cominciato (il 16 marzo) la bella copia372 del suo secondo romanzo, Jane Eyre.
In privato quanto si era interrogata? Fino a che punto aveva messo in discussione l’assoluta priorità del dovere femminile? O il rifiuto di Monsieur di scriverle quelle parole che tanto avrebbe voluto ricevere? L’amore le era negato nella forma di una semplice risposta ma, se in quanto donna ciò la tormentava, come scrittrice restava convinta dell’unicità del rapporto che la legava al suo maestro e considerava un’essenziale benedizione il fatto che un’autorità esterna alla canonica avesse scorto in lei delle potenzialità. Aveva, dunque, un pubblico immaginario. In questo modo, restò emotivamente scissa tra il mondo diurno del tedioso dovere e il mondo oscuro della passione anarchica. C’era un pericolo in questa dicotomia – l’irrequieta paralisi del 1844-45 –, ma fu nel corso di questo muto intervallo che riuscì a sviluppare una strategia di sopravvivenza: apparire calma in superficie, dove si posa lo sguardo della gente, eppure crescere interiormente, diventando una scrittrice.
Nell’opera che stava preparando per la pubblicazione esplorava i risultati della propria esperienza all’estero. Anche nel periodo più buio trascorso a Bruxelles, quando si era sentita rifiutata come mai prima, aveva corretto e raccolto le poesie giovanili, imparando a esorcizzare l’apatia, la vergogna o la solitudine attraverso la scrittura373. Non è difficile immaginarla intenta a rivedere i suoi versi, o immersa nella scrittura di Il professore. Solo scrivendo poté dare sfogo alla propria voce, e lo fece proprio mettendo in scena la riduzione al silenzio dei più profondi bisogni delle donne: Frances Henri, china mentre cuce; Jane Eyre, muta e seduta in un angolo del salotto, seminascosta da una tenda mentre Rochester canta con Blanche Ingram; e più tardi, in Shirley, Caroline Helstone374 che schiaccia nel palmo della mano lo scorpione che la punge – una pressione esercitata nell’urgenza di un desiderio destinato a svuotare lo spirito. Dando espressione ai pensieri ridotti al silenzio, la voce di Charlotte Brontë offriva al lettore un’esperienza condivisa, coinvolgente, di autentica confessione, spogliata dei lussuosi orpelli delle storie romantiche ambientate nell’alta società e capace di giungere alle nude verità della vita interiore.
Tali verità avevano echeggiato a lungo nei recessi della coscienza, già dai tempi del “Roe Head Journal”. Ma come fece Charlotte a intonare una voce pubblica, e chi le avrebbe prestato ascolto?
La vita delle sorelle giunse a un punto di svolta nell’autunno del 1845. Proprio nel momento in cui Emily osò compiere «il balzo finale», Charlotte si imbatté nelle sue poesie, che lesse in solitudine e in gran segreto. Un’immediata eccitazione la spinse a confessare la scoperta. «Dapprima fui rimproverata severamente per essermi presa un’inammissibile libertà»375 – proprio quello che Charlotte si aspettava. Il suo primo compito era ora quello di convincere Emily a consegnarle a un pubblico, a partire proprio dalle sorelle. Per mezzo di suppliche e ragionamenti, alla fine estorse il consenso a che le «rime», come le chiamava Emily, fossero pubblicate. Emily non vi alludeva mai, o soltanto con tono spregiativo, ma la sicurezza di Charlotte non vacillò nemmeno per un istante:
Mi colpirono come lo squillo di una tromba quando le lessi [...]. Non conosco donna che abbia mai scritto poesie simili. Energia concentrata, chiarezza, raffinatezza – uno strano, forte pathos sono le loro caratteristiche; estremamente differenti dalla debole dispersività, dalla studiata eppure fiacca verbosità che annacqua i versi anche dei poeti più popolari. Questa è la mia opinione, ponderata e quanto mai imparziale, alla quale mi atterrò anche se tutte le critiche nella stampa ne avessero un’altra.
La pubblicazione delle Poesie, nel maggio del 1846, si deve a un atto illegittimo di lettura rinforzato da un fiume di persuasione: Charlotte ripeté con convinzione che la poesia di Emily non era «simile a quella che di consueto scrivono le donne»376. I suoi stessi versi, a confronto, le apparivano «rozzi e rapsodici»377. Colpita da una voce più intensa e più audace della propria, fortificata dalla certezza del genio di Emily, compì uno scatto d’ambizione. Charlotte comprese come in un lampo che ognuna di loro doveva ora emergere dal riserbo, che dovevano tornare a leggere l’una all’altra i propri lavori e, con maggiore audacia, divenire voci capaci di sovrapporsi e farsi udire anche oltre le mura della canonica. Lasciata a se stessa, Emily avrebbe di certo custodito in segreto i propri versi per tutta la vita. La sua inflessibile volontà non le avrebbe mai concesso di avventurarsi nel territorio degli interessi mondani. Il suo coraggio era relegato all’intimità, era un desiderio di isolarsi dai contemporanei e dal mondo per come lei lo conosceva per rivolgersi a un assoluto; il coraggio di Charlotte era invece votato ad affrontare l’esposizione della pubblicazione. Questo genere di audacia pubblica era incoraggiata dalle ripetute esortazioni di Mary, convinta che le donne dovessero agire per se stesse. Sopra ogni cosa, diceva Mary, le donne devono imparare a gestire gli affari. Così Charlotte decise di diventare per le sorelle una sorta di impresaria. Per riuscirci, avrebbe dovuto sfidare l’icona vittoriana della donna fragile, che si tiene al riparo dal contatto con le sordide faccende della vita pubblica378. Anne accettò un’offerta di pubblicazione delle sue poesie. Nonostante possedesse la tenacia di chi nutre grandi ambizioni, era troppo timida per gli affari, e Charlotte lo sapeva: «Una natura costituzionalmente riservata e taciturna la metteva in ombra, e copriva la sua mente [...] con una sorta di velo monacale, che raramente veniva sollevato»379.
Fu così che un atto di lettura le imbarcò in un’avventura comune, allo stesso tempo privata e pubblica. Da quel momento in poi, le sorelle rinnovarono il loro legame e ancora una volta condivisero il loro lavoro come creature della notte, riunite nella penombra della sala da pranzo una volta che il padre si era ritirato nella propria stanza. Branwell non aveva alcun ruolo in questa scena, e non era incluso nei piani delle sorelle, sebbene fosse altrettanto prolifico e restasse l’unico Brontë ad aver già pubblicato una poesia. Decisero di escluderlo di comune accordo? O fu una scelta di Charlotte in qualità di guida nella sfera pubblica? È improbabile che l’esclusione del fratello sia avvenuta su basi estetiche – anche le poesie di Anne e Charlotte erano piuttosto deboli. Forse Branwell fu tagliato fuori dalle sue condizioni psichiche, che lui stesso descrisse così nell’ottobre del 1845, all’età di ventotto anni: «Ho giaciuto per nove lunghe settimane distrutto mentalmente e fisicamente»380. Ma la ragione più plausibile per la sua esclusione è anche la più banale: Branwell era semplicemente troppo loquace (in particolare quando beveva) per poter mantenere quel riserbo così importante per le sue sorelle.
Il primo atto fu quello di ribattezzarsi: «Contrarie alla notorietà personale», avrebbe spiegato più tardi Charlotte, «nascondemmo i nostri nomi sotto quelli di Currer, Ellis e Acton Bell: scelta di nomi ambigua, determinata da uno scrupolo di coscienza all’idea di adottare nomi inequivocabilmente maschili, unita alla volontà di non proclamarci donne, perché – non sospettando allora che il nostro modo di pensare e di scrivere non era quello che si definisce “femminile” – avevamo la vaga sensazione che le autrici vengano spesso guardate con pregiudizio; avevamo osservato che a volte i critici si servono, per condannarle, dell’arma del loro essere donne, e per lodarle di un’adulazione che non è vera lode»381.
Il cognome che avevano scelto, Bell, era il secondo nome del nuovo curato a servizio presso il signor Brontë, Arthur Bell Nicholls, un affascinante irlandese, alto e barbuto, arrivato a Haworth sei mesi prima, nel maggio 1845. Charlotte lo considerava «un giovane rispettabile»382 che in chiesa leggeva molto bene. L’appropriazione del suo nome mostra che le sorelle si erano giocosamente accorte della presenza di questo buon partito, sebbene lo ignorassero di proposito, come se non esistesse. (Tre mesi dopo che il nome Bell era apparso sulla copertina del volume Poesie, Ellen prese in giro Charlotte dicendole che si vociferava che avrebbe sposato il signor Nicholls. Lei negò indignata: «Gli unici contatti che ho avuto con il signor Nicholls sono stati improntati a una cortesia fredda e distaccata»383, replicò nel luglio 1846. Era sicura di apparire ai suoi occhi come una «zitella»: se si fosse sparsa tale voce, anche in termini scherzosi, sarebbe diventata lo zimbello di tutti i curati, che lei definiva, sulla difensiva, «esemplari del sesso “più rozzo”, decisamente poco interessanti, limitati e non attraenti»).
La copertura del nome Currer era necessaria, spiegò Charlotte alla signora Gaskell quando Shirley, il suo terzo romanzo, venne pubblicato alla fine del 1849: «Currer Bell dichiara alla signora Gaskell che la ragione principale per cui rimane nell’anonimato è il timore che, abbandonandolo, la sua forza e il suo coraggio vengano meno, e che si astenga poi dallo scrivere la nuda verità»384.
Così Currer Bell si separò da Charlotte Brontë, ed ebbe un’esistenza autonoma. Tale fenomeno è forse più comprensibile se calato in epoca vittoriana, quando raggiunse il suo apice un’ideologia che, vedendo nelle donne solo “mogli” e “madri”, sequestrava loro lo spirito e le relegava alle mansioni domestiche; così, un’alternativa spettrale si distaccò e vide la luce. Ottanta anni dopo, e quasi dieci dopo che le donne ebbero ottenuto il diritto di voto in Gran Bretagna, Virginia Woolf si interessò alle difficoltà di Currer Bell vedendole in continuità con quelle di una donna nata con il dono per la scrittura o per la recitazione nei secoli precedenti. L’ipotetica «sorella» di Shakespeare avrebbe sentito l’obbligo alla verità e quello alla femminilità tra loro così distanti e opposti che «sarebbe certamente impazzita o si sarebbe suicidata o avrebbe finito i suoi giorni in qualche capanna solitaria fuori dal villaggio, metà strega, metà maga, temuta e schernita»385. Se fosse sopravvissuta, la sua scrittura sarebbe risultata comunque deformata, e sarebbe circolata solo sotto copertura.
Una simile protezione era sentita come necessaria. Ancora nel XIX secolo, un retaggio del senso di castità imponeva alle donne l’anonimato. Currer Bell, George Eliot, George Sand, tutte vittime del conflitto interiore, come provano i lori scritti, cercarono invano di coprirsi sotto un nome maschile. Così rendevano omaggio alla convenzione secondo cui le donne dovevano tenersi a debita distanza dalla sfera pubblica – convenzione che, se non era stata istituita dagli uomini, veniva da loro ampiamente incoraggiata (la principale virtù di una donna è quella di non far parlare di sé, diceva Pericle, egli stesso un uomo piuttosto chiacchierato). L’anonimato scorreva nelle loro vene.
L’esposizione pubblica portò spesso Virginia Woolf – che apparteneva alla prima generazione di donne per cui pubblicare con il proprio nome era pratica usuale – sull’orlo dell’esaurimento nervoso. «Verrà mai un tempo», si chiese nel marzo del 1919, appena prima di proporre all’editore Duckworth il suo Notte e giorno, «nel quale io regga alla lettura di un mio scritto stampato senza arrossire, senza rabbrividire, senza provare il bisogno di cercare riparo?»386. Virginia Woolf e Sylvia Plath subirono lo stesso attacco inflitto alla fine del XVIII secolo a Mary Wollstonecraft387, che scrisse senza la copertura dell’anonimato: pubblicando delle sconsiderate Memorie (1798) sulla vita della moglie, il marito, William Godwin, raccontò la relazione clandestina di Mary Wollstonecraft con Gilbert Imlay e rivelò che la sua prima figlia era illegittima, causando accessi reazionari che dagli anni Novanta del Settecento si protrassero fino al secolo successivo. La sconveniente vita privata dell’autrice, si disse, screditava la sua opera, Rivendicazione dei diritti della donna. Di casi analoghi ce ne sono molti: se la vita privata di un’autrice è considerata disdicevole, i lettori vengono invitati a sottovalutarne l’opera. È successo anche nel 1989, quando il biografo ufficiale di Sylvia Plath388, l’agente del marito da cui aveva divorziato, punì la poetessa per la sua eccessiva – e quindi tutt’altro che femminile – “ambizione”, senza tributare il doveroso riconoscimento alla grandezza dei suoi versi. Spesso i più agguerriti detrattori di grandi donne sono donne di levatura inferiore, che sperano di guadagnare consenso nel ruolo di portabandiera dell’opinione comune. Fu una giornalista, Elizabeth Rigby, a dar fuoco alle polveri scagliando per prima l’accusa di “volgarità” contro Currer Bell e a diffondere l’infamante tesi che, se era stata una donna a scrivere Jane Eyre, si trattava di una «che, per qualche ragione, aveva rinunciato da tempo alla compagnia del proprio sesso» 389. Un secolo dopo, Queenie Leavis attaccò Virginia Woolf per il suo elitarismo. Tale accusa, pensata per colpire la sua opera attraverso la sua vita, non si era quasi mai sentita nei confronti degli uomini celebri. Nessun critico di Dickens o di Tolstoj si sognerebbe mai di sottovalutare la loro opera sulla base di un’informazione biografica – quale, ad esempio, il fatto che entro le mura domestiche le loro doti umane lasciassero molto a desiderare. Ancora oggi, un secolo e mezzo dopo l’esperienza di Charlotte Brontë, simili armi biografiche sono puntate contro le donne scrittrici: appare dunque quanto mai giustificata la rigida scelta dello pseudonimo Currer Bell, a cui si unì la decisione di coprirsi sotto il velo di una femminilità modesta e moralista. Nel lontano 1837, Southey aveva fornito il copione, e Charlotte aveva provato la parte nelle sue lettere di risposta, imitando la rettitudine in modo così impeccabile, così perfettamente stilizzato, che il suo virtuosismo rasentava quasi il caricaturale.
La verità le impose di tirar fuori l’energica voce che Southey le aveva negato. Costui le aveva insegnato che il tono spontaneo, diretto, non era ammesso – non in una donna. Avrebbe dovuto intonare la voce di Currer Bell per poter affermare la «nuda verità» attraverso un io romanzesco: l’io di un uomo, il freddo Crimsworth; l’io di una sopravvissuta, Jane Eyre, che impara a frenare la rabbia e il desiderio tirando le redini della ragione. Tale voce era profondamente intima, aveva il vantaggio di essere lontana dalla voce metropolitana dell’epoca; la sua schiettezza non era intaccata dalle mode del momento. Diversamente da quella di Thackeray o di Dickens, questa voce non proveniva da una vita pubblica, ma da una dimensione ulteriore, esterna all’ordine sociale di allora proprio come quella usata da Jane per dichiararsi a Rochester.
La timida, esitante signorina Brontë, che in seguito avrebbe incontrato il suo pubblico a Londra, non avrebbe mai sopportato l’apparente fallimento del volume Poesie, che vendette due copie, e i ripetuti rifiuti opposti a Il professore, ma Currer Bell aveva ben altra tempra: «L’insuccesso non riuscì a sconfiggerci: il semplice tentativo di riuscire aveva dato una straordinaria nota di vivacità all’esistenza; dovevamo continuare». Terminò la stesura del romanzo il 27 giugno del 1846. Tra il 1846 e il 1847 lo sottopose a sei editori diversi, senza pensare che i nomi delle case editrici a cui lo aveva inviato in precedenza, cancellati sull’intestazione del pacco, non offrivano la miglior presentazione agli occhi dell’ultimo destinatario. Inviò il manoscritto a Henry Colburn390 il 4 luglio 1846. Le venne restituito il mese successivo, proprio la mattina il cui il sessantanovenne signor Brontë si sottopose a un intervento alla cataratta. Charlotte si trovava con lui a Manchester, e lì, a pochi giorni dal rifiuto del manoscritto, iniziò a scrivere il suo secondo romanzo, solo due mesi dopo aver terminato il primo.
L’appassionante vicenda di Jane Eyre391 trae spunto da un curioso episodio accaduto nei pressi di Leeds nel periodo in cui Charlotte insegnava a Roe Head – a scuola il fatto aveva destato un’accesa curiosità. Una certa istitutrice aveva sposato un gentiluomo che lavorava per la famiglia presso cui la donna era a servizio. Un anno dopo il matrimonio, quando la coppia aveva già avuto un bambino, si scoprì che il marito aveva un’altra moglie. Quest’ultima, a quanto si diceva, era matta, o almeno con questa scusa l’uomo giustificava la sua bigamia. Charlotte potrebbe essersi ricordata di questa storia nel luglio 1845, quando fece visita alla residenza della famiglia Eyre, a North Lees, nel corso di un soggiorno di tre settimane con Ellen a Hathersage, nel Derbyshire. La prima padrona di North Lees, si diceva, era impazzita e aveva finito i suoi giorni rinchiusa in una stanza dalle pareti imbottite al secondo piano, dove poi era morta a causa di un incendio. Vicende drammatiche come queste si sedimentarono nella sua coscienza, dove maturarono fino a confluire nella storia di una giovane, ingenua istitutrice che si innamora del suo datore di lavoro, intenzionato a sposarla nonostante abbia già una moglie, pazza e pericolosa, relegata in gran segreto nel piano più alto della sua tenuta di campagna. Questa trama ricca di brivido e orrore deve probabilmente qualcosa alla familiarità di Charlotte con la più popolare delle autrici gotiche, Ann Radcliffe392 (1764-1823), le cui macabre storie, alla fine, hanno sempre una spiegazione razionale. Ma Jane Eyre si distingue dai numerosi predecessori sia della tradizione gotica sia di quella del romanzo rosa per la sua insolita eroina: non una svenevole bellezza, non un fragile modello di sensibilità, Jane è una comune istitutrice dotata di spirito e capace di raccontare la propria storia con coinvolgente sincerità.
Charlotte scrisse in fretta e furia, in condizioni improbabili, mentre giaceva insonne in preda al mal di denti o si prendeva cura del padre nel mese successivo all’intervento, tra l’agosto e il settembre del 1846. Il chirurgo, il signor Wilson, aveva prescritto «totale privazione di luce» e «assoluto riposo»393. Quello che accadde nel periodo in cui Charlotte restò al fianco del signor Brontë in quella stanza oscurata di Boundary Street rimane avvolto nell’ombra. Tutto ciò che sappiamo è che lei sedeva in silenzio, al buio, e da quel buio e da quel silenzio filtrò una voce che combinò in sé la fredda razionalità di Crimsworth, l’ardore delle lettere indirizzate a Monsieur e la sicurezza del “Roe Head Journal”. Era una voce abbastanza forte per attraversare lo spazio che la separava dal mondo esterno. Avvicinandosi a un lettore senza volto, parlando nell’intimità, da vita privata a vita privata, la voce superava la barriera del riserbo. Il lettore cui si rivolgeva era simile alle allieve che Charlotte aveva stregato con le sue storie di fantasmi nel dormitorio di Roe Head quando venivano spente le luci. Ora al lettore stava per essere rivelata la vita di una donna.
Per il personaggio di Jane Eyre, Charlotte Brontë prese in esame la vita di un’istitutrice mite in superficie ma ardente dentro. A quell’epoca aveva già elaborato, con Il professore, l’esperienza di Bruxelles; ritornò allora sui racconti del 1838-41, nei quali aveva esplorato la natura e il destino della signorina West, della signorina Hall e della signorina Hastings attingendo a piene mani al proprio carattere e alle circostanze della propria vita. Jane Eyre assume i tratti di una nuova tipologia di donna, costruita miscelando alcuni elementi di Charlotte stessa, delle sue sorelle e di Mary Taylor. Nel corso di quel fruttuoso mese trascorso a Manchester, Charlotte pensò spesso all’amica che aveva iniziato una nuova vita nella lontana Nuova Zelanda.
Dalle sue ultime lettere, Mary appariva «nel suo elemento – perché si trova in un luogo dove può svolgere un compito importante, dove può aspettarsi un grande miglioramento»41. Mentre Jane Eyre prendeva corpo nella sua mente, Charlotte si ispirò alla forza d’animo e all’indipendenza dell’amica, che ignorava le convenzioni, le prerogative dello status e gli agiati standard della classe media ai quali era stata abituata: «Siede su una sedia senza schienale in una casa di legno priva di tappeti, ma non si sente affatto umiliata né pensa di esserlo vivendo in così misero alloggio»394. Abbiamo qui un modello per Jane, la quale a sua volta prende le distanze dal passato per diventare direttrice di una scuola di villaggio alloggiata in una semplice casa di legno. Mary fu la prima a conoscere l’identità segreta di Currer Bell: Charlotte le inviò una copia di Jane Eyre a suo nome – un gesto unico, se si considera che allora non l’aveva detto nemmeno a Ellen.
Ellen, che aveva familiarità con le fonti d’ispirazione di Charlotte, disse in seguito che l’amica aveva combinato tra loro caratteri differenti395. Si può osservare in Jane una calma sopportazione che non apparteneva né a Charlotte (che trovava sollievo nel lamentarsi) né alla vivace Mary, ma che forse proveniva da Anne Brontë, l’unica delle sorelle in grado di tollerare anche lunghi «esili» in quel mondo inospitale per il quale Jane è costretta a peregrinare. Tornata a casa da Manchester, quando poté infine sollevare lo sguardo dal manoscritto che l’aveva tenuta impegnata senza sosta, trovò le sue sorelle ognuna china nella lavorazione di un libro. Le ragazze «sembravano pensierose quasi fino alla severità». Dall’aspetto serio e slanciato, «entrambe avevano un viso aristocratico e intelligente»396. Così le descrisse nel suo romanzo attraverso i personaggi delle due studiose sorelle Rivers, Diana e Mary, che offrono un rifugio a Jane, in fuga dal bigamo Rochester. E non dobbiamo dimenticarci di Maria Brontë, che sopravvive nelle pagine del romanzo attraverso la spirituale Helen Burns, il primo modello da seguire per Jane – che prende ispirazione dalla sua integrità priva di compromessi, pur non accogliendo la sua abnegazione. I piatti esempi che aveva ricevuto in collegio, i santi dalla volontà d’acciaio e i bravi bambini che morivano puri dei racconti evangelici, svaniscono all’impatto palpabile con il soffio vitale di Helen Burns, trascendente e destinata a perire. Più tardi, quando i critici trovarono eccessiva la perfezione morale del personaggio di Burns, Charlotte sostenne con insistenza che fosse «assolutamente reale. Da questo punto di vista, non ho esagerato nulla. Mi sono anzi astenuta dal trascrivere molto di ciò che sapevo a suo riguardo, per evitare che il racconto apparisse poco credibile»397.
Pur prendendo ispirazione da donne reali per creare una nuova figura femminile, Charlotte doveva immaginare situazioni in cui tale creatura fosse spinta a uscire dalle ombre della mente per calcare il proscenio dell’azione – non, come nel caso di Mary, in qualche remoto avamposto dell’impero, ma nei placidi salotti e nelle scuole repressive del nord dell’Inghilterra. Il passaggio dalla vita alla creazione letteraria è un salto da un tipo di verità a un altro. Qual è, potremmo chiedere, migliore: la verità dei documenti o quella dell’immaginazione, i fatti o la finzione? Jane Eyre è troppo sincera, impavida e, in definitiva, troppo fuori dagli schemi per esistere nell’Inghilterra del XIX secolo; è una verità frutto della creazione: non il fedele ritratto di una donna reale, ma il modello di come potrebbe essere una donna. Jane ci pone di fronte ai problemi e alle possibilità di questa natura femminile ancora in potenza.
Jane Eyre è, soprattutto, un pellegrinaggio. Il romanzo segue la bambina e la donna lungo un cammino disseminato di insidie verso un nuovo Eden: un amore capace di unire la virtù e il sogno di una passione duratura. Stando a questa nuova mappa per l’anima, la Caduta non è data dalla disobbedienza, bensì dall’obbedienza priva di ragionamento. La signora Reed, la zia tutrice di Jane, si lamenta di non aver mai visto un bambino come lei. Jane si distingue da tutti gli altri perché non può fare a meno di pensare con la propria testa; la magione dei Reed diventa lo scenario di una brutale repressione perché Jane pensa, e anche perché, in quanto bambina, esprime quello che pensa con tagliente acume: «Devo parlare...». Jane si difende da chi la rappresenta in modo ingiusto con un discorso pienamente argomentato, e mentre parla sente che la sua anima inizia a espandersi, a riempirsi «dei più strani sentimenti di libertà e di trionfo che mai avessi provato. Mi sembrava che si fossero spezzate catene invisibili». Crescendo, Jane impara che non deve sempre usare il linguaggio in quel modo: deve mettere a tacere la verità e modularla attraverso una voce sommessa e educata; tuttavia la sua ricerca del vero continua.
Nel suo pellegrinaggio attraverso il mondo sociale, la tentazione di cadere è sempre in agguato in varie forme. Jane sarebbe persa se cadesse in uno dei molti tranelli disposti lungo il suo cammino. C’è la trama ordita dai Reed, che vorrebbero immobilizzare la piccola orfana in una posizione di dipendenza e povertà. C’è la trama della scuola di carità di Lowood, che vorrebbe instillare nella ragazza l’umiltà per destinarla al servizio delle classi superiori. C’è il tranello teso a una Jane ormai adulta da un gentiluomo sposato, che vorrebbe farla diventare la sua amante in un rifugio mediterraneo dove lui, secondo il costume locale, la ripagherebbe con gentilezze da sultano, meraviglie erotiche e beni materiali. E infine la più plausibile di tutte le trame, il matrimonio tradizionale, servita su un piatto d’argento da un uomo di statuaria bellezza e di irreprensibile virtù quale St John Rivers: la tentazione della Jane matura di asservirsi a un egocentrico missionario. Sarà in grado di distinguere le valide pretese dell’altruismo dalla trappola del sacrificio di sé, che rischia di farle sprecare la vita – o, peggio, perdere se stessa – al servizio del puro principio, senza il calore di alcuna concessione ai bisogni umani?
La pellegrina deve riconoscere in queste trame il marchio della finzione: tutte si basano sulla falsa premessa di una natura femminile docile e inferiore. La pioniera di un nuovo pellegrinaggio deve grattare via le incrostazioni del linguaggio, smascherare le ipocrisie religiose e quelle dell’amore, per vedere – vedere nel senso della rivelazione – il devastante egoismo di coloro che occupano le posizioni di potere. Come Christian, il protagonista di Il viaggio del pellegrino, che deve combattere contro l’Ostinazione e la Grande Disperazione, così Jane deve sconfiggere in duello le ingannevoli maschere della Benevolenza del XIX secolo. La signora Reed, il reverendo Brocklehurst, il signor Rochester e il reverendo Rivers si credono dei benefattori. Cedendo alla signora Reed, al fondatore della scuola di carità, al suo amante (nel suo aspetto da sultano) o al suo apparente salvatore, Jane perderebbe la propria anima. Quando Rochester, ostacolato nei suoi piani di bigamia, supplica Jane di vivere con lui, se non altro per trattenerlo dalla «lussuria», dal «vizio» e dalla «disperazione», lei è tentata di «salvarlo». Quando lui le chiede di trasgredire «una legge umana»398, Coscienza e Ragione si rivelano traditori e il Sentimento reclama:
«Chi al mondo si preoccupa di te? Chi danneggerai con le tue azioni?».
Ma la risposta era indomabile: «Io mi preoccupo di me».399
Questo indomito «Io» la sostiene nella scena successiva, quando Rochester la possiede fisicamente – dal punto di vista fisico lei è impotente, mentre Rochester, spinto da una furia di possesso, può concedersi di perdere il controllo. Gli occhi di Jane incontrano lo sguardo famelico dell’uomo e gli ricordano ciò che lei è realmente: «Spiritualmente, ero ancora padrona della mia anima, dunque certa della mia salvezza»400.
In molti hanno criticato Jane per la sua resistenza. Mary Ann Evans (che più in là avrebbe preso il nome di George Eliot) scrisse a Charles Bray nel giugno del 1848: «Il sacrificio di sé è sempre positivo – ma sarebbe auspicabile che avvenisse in nome di una causa più nobile di una legge diabolica che incatena un uomo anima e corpo a una carcassa in putrefazione»401. Alla fine, quando decise di convivere con George Henry Lewes, incastrato in un matrimonio licenzioso, Mary Ann Evans non pretese un legame riconosciuto dalla legge, sapendo che le circostanze lo rendevano impossibile. Lo stesso fa Rochester, che rimprovera a Jane di avere una natura «difficile» – «granitica», conferma lei. Al di là della morale, il suo essere «difficile» dipende dal fatto che non vuole consegnarsi a un uomo che è stato disonesto con lei. Passionale com’è, non si lascia irretire in vecchi schemi di seduzione che la fisserebbero nella debole posizione dell’amante. In retrospettiva, il rifiuto opposto da Elizabeth Hastings al suo seducente amante non era altro che una prova generale del rifiuto oltremodo difficile di Jane.
Jane racconta il suo pellegrinaggio attraverso un mondo in cui le conquiste sono precarie e il pericolo non smette mai di minacciandola. La pellegrina deve mantenere la lucidità a tutti i costi – l’accorta consapevolezza dell’ingiustizia e dello sfruttamento mascherato da benevolenza –, deve poter vedere le cose chiaramente, senza lasciarsi offuscare da quella rabbia che ha conosciuto da bambina, quando, rinchiusa nella Stanza Rossa, urlava e picchiava contro la porta finché la sua furia non degenerava in malattia. Quella precoce tendenza all’eccesso le ha insegnato a individuare una via di mezzo fondamentale in tutte le sue conquiste: per accedere alla conoscenza senza capitolare all’aspetto irregimentato dell’insegnamento; per preservare la forza dei sentimenti senza cedere alla licenziosità; per diventare autosufficiente e indipendente a livello economico senza abbassarsi a una fredda mentalità calcolatrice. Se vuole sopravvivere, non può nemmeno permettersi di soccombere alla disperazione quando viene rinchiusa nella Stanza Rossa, o umiliata a scuola, o – in quella che è la prova più difficile – quando non può sposare Rochester.
Un simile percorso richiede più forza di quanta ne fosse normalmente concessa alle donne del XIX secolo. In breve, un simile cammino era percorribile solo ponendo una nuova premessa circa la natura del “sesso debole”. Tale premessa derivava dalle scoperte che Charlotte aveva fatto su se stessa, le sue sorelle e le sue amiche, e fu la scottante portata di tali rivelazioni a rendere il libro così rivoluzionario, per la sua epoca come per la nostra. «In genere, gli eroi e le eroine dei romanzi sono personaggi [...] che non potrei mai [...] credere naturali, né desiderare di imitare». Quando Charlotte Brontë teorizzava, faceva appello alla Natura: «Se fossi obbligata a copiare un qualsiasi scrittore del passato, anche il più grande, persino Scott [...] non scriverei affatto [...]. Se non posso guardare oltre i maestri più grandi per studiare la Natura stessa, non ho alcun diritto di dipingere. Se non ho il coraggio di utilizzare il linguaggio della Verità piuttosto che il gergo della Convenzione, è meglio che io taccia»402.
Rochester parla il linguaggio della verità. Lui solo ha la profondità necessaria per capire Jane, la sicurezza per incoraggiarla a essere se stessa: «Sospettavo che il tuo carattere fosse inconsueto, completamente nuovo per me, e volevo sondarlo più a fondo e conoscerlo meglio»403. Ciò aveva trovato conferma nella capacità di Monsieur di comprendere Charlotte; non solo, Rochester si rivolge a Jane in uno stile molto simile a quello di Heger404:
Entrasti nella stanza con un’aria timida e indipendente a un tempo [...]. Ti ho fatta parlare: ti trovai subito piena di strani contrasti. I tuoi modi, il tuo vestito obbedivano a una disciplina severa; [...] eppure, quando ti si rivolgeva la parola, guardavi fisso l’interlocutore con uno sguardo penetrante, spavaldo, ardente: ogni tuo sguardo esprimeva intelligenza, forza [...].405
Col tempo, lui comprende di avere davanti agli occhi una natura che rimane inalterata. Non era un «fiore passeggero; ma piuttosto la radiosa immagine di un fiore, intagliato in una gemma indistruttibile»406.
Jane, in quanto creatura ritrovata, non consente alcuna caduta in un linguaggio riduttivo. Quando Rochester le assegna il ruolo di angelo della consolazione, lei lo deride:
«Non sono un angelo», dichiarai, «e non sarò un angelo finché non morirò: sarò me stessa. Signor Rochester, non dovete aspettare né esigere nulla di celestiale da me, perché non lo avrete, proprio come io non lo avrò da voi; e io non me lo aspetto certo».407
Quando Rochester parla della moglie pazza definendola «quel demonio [...] quella terribile strega», ancora una volta Jane rifiuterà il suo linguaggio:
«Signore», lo interruppi, «siete senza pietà verso quella povera signora: parlate di lei con odio, con astio vendicativo. È crudele: non ne ha colpa se è pazza».408
La visione riduttiva a cui Jane resiste è radicata nella teologia, nella semplicistica divisione delle donne in sante o peccatrici. A differenza di Jane, Charlotte ricorreva a volte a espressioni convenzionali, come quando, per tenersi a debita distanza e preservare intatta la propria nobiltà d’animo, disse che Branwell era un’«anima smarrita». Emily, che non aveva bisogno di sentirsi migliore, poteva permettersi di compatire Branwell, di vedere in lui la caduta, non il demonio.
Emily si spinse oltre la sorella nel mettere in discussione i codici e il linguaggio della religione, con il suo assalto al paradiso, al dogmatismo, alla falsa umiltà. La religione organizzata aveva gestito il monopolio delle anime, Emily le reclamava409. Quando Heathcliff grida: «Non posso vivere senza la mia anima!», si riferisce all’eterno amore che l’ha avvinto in gioventù a Catherine Earnshaw. Cime tempestose venne terminato appena prima che Charlotte iniziasse Jane Eyre, e quasi certamente divenne un argomento delle conversazioni notturne tra le sorelle. Charlotte condivideva con la sorella l’ideale di una passione duratura definita in parte proprio attraverso il suo fallimento. Laddove Jane Eyre indaga il pericolo dell’oblio dell’erotismo, Cime tempestose esplora una passione più insolita, avvolta da intrighi e trame sociali: la Caduta di Catherine in un tiepido matrimonio con Edgar Linton; la Caduta di Heathcliff nelle trappole del potere, specialmente in quella della vendetta, che abbrutisce la sua natura. Tradendo la natura, entrambi gli amanti perdono se stessi e vagano in una landa selvaggia – Heatcliff diviene un mostro calcolatore, Catherine un fantasma. Alla fine, Catherine e Heathcliff ritrovano le loro anime, il loro paradiso – che non è un luogo di riposo per creature che si accontentano di obbedire, ma un’unione spirituale. Per Emily, tale unione può essere perfetta solo nella morte. La sua posizione fu più radicale di quella di Charlotte: considerò l’integrità spirituale impossibile in un mondo vuoto e superficiale410, verso il quale provava un disprezzo e un rigetto assoluti. Come Maria Brontë, Emily bramò la libertà che solo la morte può dare. Per lei, l’integrità raggiungeva un’esistenza assoluta oltre la vita; in questo mondo terreno, la sua manifestazione immanente andava ricercata tra le rocce dell’immutabile brughiera, il paesaggio più vicino al paradiso concepito da Emily.
Charlotte disse di Cime tempestose: «È un’opera dallo spirito rustico, come la brughiera, selvaggia e nodosa come le radici della terra. Né potrebbe essere altrimenti, essendo l’autrice stessa nata e cresciuta nelle brughiere [...]. Le sue colline natie rappresentavano molto più che un semplice spettacolo; erano il luogo in cui viveva, di cui era parte, tanto quanto gli uccelli selvatici, gli abitanti, l’erica e i frutti»411. Quando scrisse queste parole, Charlotte stava costruendo la leggenda della sorella ormai morta. Centrale, in tale leggenda, è l’assoluta solitudine di Emily: Charlotte afferma che la sorella non conosceva le persone con cui viveva più di quanto una «monaca» conosca coloro che ogni tanto bussano alla porta del suo convento. Ciò che Emily sapeva dei loro personali cammini, del loro linguaggio e delle storie di famiglia era una conoscenza di seconda mano, insiste Charlotte, sperando così di separare la sorella dalla rudezza, dalla crudeltà, dall’odio quasi diabolico e dal desiderio di vendetta che accende l’animo dei suoi eroi romanzeschi. È indubbio che Charlotte desiderasse attenuare il senso di orrore provato dai primi lettori di Cime tempestose, ma così stava anche occultando qualcosa.
Emily potrebbe non essere stata affatto così reclusa come l’ha ritratta Charlotte. Sembra che facesse visita agli Heaton, una famiglia di antiche origini che dal 1513 risiedeva nell’estremità opposta della brughiera; le voci familiari dicono che fu Emily l’unica delle Brontë a mantenere una forma di contatto con il loro avo, Robert Heaton, che morì nel 1846412 (l’anno in cui lei terminò Cime tempestose), e i suoi cinque figli, musicisti piuttosto schivi. La loro casa, Ponden House (l’attuale Ponden Hall), fu costruita nel 1541, e un’ulteriore residenza, chiamata in modo fuorviante Ponden Old House, venne edificata nel 1634. Ponden è stata spesso considerata una fonte d’ispirazione per la grandiosa residenza di Thrushcross Grange del romanzo di Emily Brontë, ma, sebbene avesse una magnifica biblioteca (alla quale, a quanto si dice, i ragazzi Brontë ebbero accesso), il lungo e basso edificio è più simile a una fattoria, dunque più simile a Wuthering Heights, in particolare l’Old House, che ha davanti un albero con un ramo che sbatte contro una finestra, proprio come nel romanzo. L’edificio principale fu ricostruito nel 1801 e la data, incisa sopra il portale, è quella in cui inizia Cime tempestose. Dalla trama del romanzo si capisce che Emily non era interessata solo alla residenza, ma anche alla famiglia e alla sua storia: in epoca antica, la famiglia era stata cacciata da Henry Casson, il secondo marito della giovane vedova Heaton, che mantenne il controllo sulla proprietà per quasi vent’anni tra il 1640 e il 1660. Il legittimo erede, il suo figliastro, non ricevette alcuna istruzione. Il nome Heaton è chiaramente vicino a quello di Hareton, l’erede orfano e incolto del romanzo di Emily Brontë. In Cime tempestose, finché Hareton non è che un bambino e un ragazzo, la sua eredità è usurpata dallo spregiudicato Heathcliff. L’unione tra il brutale Heathcliff e la nobile Isabella di Thrushcross Grange potrebbe trarre ispirazione da un fatto accaduto in tempi più recenti nella famiglia Heaton. La giovane Elizabeth Heaton si innamorò di un ragazzo delle consegne di nome John Bakes, che finì per sposare. Il loro matrimonio fu un disastro ed Elizabeth fece presto ritorno a Ponden, dove nel 1816 morì a soli ventun anni, seguita poco dopo dalla figlia più piccola. Tale tragedia doveva essere fresca nella memoria dei fratelli sopravvissuti a Elizabeth, Robert Heaton, residente a Ponden, e Michael Heaton, che viveva nella Royd House di Oxenhope.
Le connessioni tra la storia di questa famiglia e Cime tempestose restano delle supposizioni, ma un fatto certo e alquanto singolare è che ci furono degli screzi tra gli Heaton e il signor Brontë. Robert e Michael Heaton erano per via ereditaria amministratori fiduciari delle terre della chiesa, la principale fonte di entrate per l’incaricato di Haworth. Le lettere del signor Brontë agli Heaton erano fredde e formali, e nulla in esse lascia pensare che le due famiglie si frequentassero. Quando, il 5 marzo del 1860, Michael Heaton morì all’età di settant’anni, il signor Brontë si rifiutò di seppellirlo nel terreno adiacente la canonica. Persino al suo curato, il signor Nicholls, negò l’autorizzazione a farlo. Nell’immediato, la ragione fu che l’area di sepoltura era stata dichiarata al completo, ma c’è un fatto che lascia interdetti: anche quando arrivò un’autorizzazione dal segretario di Stato (datata 7 marzo) per tumulare il signor Heaton accanto ai suoi antenati, il signor Brontë si oppose. Alla fine, Michael fu sepolto dal signor Grant di Oxenhope. È possibile che il signor Brontë sia stato semplicemente pignolo, ma la sua sarebbe stata una posizione irragionevole, dato che egli stesso si aspettava di venir sepolto accanto alla canonica con la moglie e i figli. Il membro della famiglia Heaton a cui il signor Brontë si era opposto più fermamente era il figlio ed erede di Michael, Robert, che aveva la stessa età di Branwell e un anno e mezzo più di Emily. Nel 1842, mentre Emily si trovava a Bruxelles, Robert aveva sposato Mary Ann Bailey, che diede alla luce un figlio poco dopo, nel settembre dello stesso anno. Negli archivi degli Heaton non si trova, stranamente, una data precisa del matrimonio. Si era trattato di una seduzione illecita che il signor Brontë disapprovava (la signora Gaskell ha testimoniato che un Heaton sedusse realmente una ragazza)? Un’altra possibilità è che i Brontë, quanto mai suscettibili per via della loro recente ascesa sociale, fossero rimasti feriti da un qualche sgarbo legato a questioni di classe. Forse – mi sono chiesta – c’era stato uno sgarbo simile al rifiuto opposto da Catherine Earnshaw alla proposta di matrimonio di Heathcliff, un rifiuto motivato sulla base della sua inferiorità sociale. Questo evento condurrà Catherine a una morte prematura e metterà in moto il lungo declino di Heathcliff, che avrà termine solo quando i due innamorati si rincontreranno dopo la morte, spettri nella brughiera.
Charlotte, simile ai profeti dell’Antico Testamento, era tutta presa dalle preoccupazioni sociali; Emily sentiva la tensione del Nuovo Testamento ad andare oltre la morte. Emily praticò una solitudine alla quale anche Byron413, a tratti, si avvicinò, senza riuscire a conviverci né a portarla alla sua forma più pura e assoluta:
Dalla mia giovinezza, il mio spirito non s’accompagnò all’anima degli uomini, né contemplò la terra con occhi umani[...].414
Emily cambiava rotta con più irruenza di Charlotte, passò dalla «speranza» a «l’arcobaleno della fantasia», per poi rivolgersi a quello che chiamava «infinito». Come la sua ammiratrice Emily Dickinson, viveva nell’attesa di una resurrezione dopo la morte.
Charlotte non considerava impossibile l’esistenza su questa terra di una passione duratura. Jane Eyre non si accontenta di nulla di più e nulla di meno di un Rochester trasformato. Lui è l’uomo da educare. Anche se rimane accecato nell’incendio che uccide la moglie, può imparare a “vedere” la sua vera compagna415, che non è destinata a vivere alle sue dipendenze piena di gratitudine, ma da sua pari. Rochester esce dall’oscurità, ed è perlopiù una creazione al buio. Il suo aspetto – sgradevole o meno – è irrilevante perché ciò che Jane coglie è la promessa che lui possa conoscerla. Tale conoscenza è in una certa misura ostacolata dal suo atteggiamento da sultano (l’errata forma di autoritarismo che presuppone che sia lui a pensare per lei, costringendola nella trappola di una falsa unione). Rochester deve imparare a vedere il diritto di Jane a una propria integrità: questa “visione” costituisce un trionfo, non una sconfitta. Farsi beffe di Rochester in quanto sogno impossibile significa interpretare in modo errato Charlotte Brontë, che era una riformista. Laddove Emily sfocia nell’”infinito”, Charlotte si rivela più vicina ai contemporanei come Dickens e la signora Gaskell, che mirano a una società migliore attraverso personaggi riformati. Rochester non è concepito per rappresentare l’uomo del XIX secolo, ma quello che un uomo sarebbe potuto divenire.
Charlotte Brontë negò ogni identificazione con Jane, ad eccezione del loro comune aspetto ordinario. Era, nei confronti della società vittoriana, un atteggiamento prudente, volto a preservare il proprio distacco da quella voce fin troppo appassionata. In effetti, l’autrice non aveva né la rabbia palese né l’incrollabile forza d’animo della sua eroina. Ma la storia di Jane rappresenta un parallelo esemplare, che porta alla luce la struttura profonda della vita della stessa Charlotte. Il sottotitolo, Un’autobiografia, è veritiero, non perché, come nel caso di Il professore, attinge a eventi realmente accaduti nella vita dell’autrice, ma per le polarità attive in Jane Eyre: l’opposta tensione verso il pellegrinaggio e verso la passione, il gelo e il fuoco, la morsa d’acciaio del controllo razionale e l’anarchico abbandono che Charlotte aveva conosciuto sulla scia di Branwell. «L’azione del racconto è a volte innaturale», commentò un recensore, «ma la passione è sempre sincera»416. «È un’autobiografia», scrisse George Henry Lewes sulle pagine del «Fraser’s Magazine», «non, forse, nei nudi fatti e nelle circostanze, ma nelle sofferenze in quanto tali e nelle esperienze»417.
L’autobiografia è un tentativo di estrarre una forma e un senso dalla vita vissuta. Le lettere di Charlotte indirizzate a Ellen e a Monsieur insistono sull’atrofia che caratterizzò la sua esistenza a Haworth, sulla perdita del suo maître e sulla disperazione imposta dal «non far nulla» tra i trenta e i trentuno anni. A Ellen confida, inoltre, l’impossibilità del matrimonio: gli unici uomini che incontrava nel West Yorkshire erano parroci dalle vedute «limitate» o cinici avventurieri, come il fratello di Mary, Joe, interessato al bell’aspetto e alle disponibilità economiche della futura sposa. Nessuno degli inglesi che incontrò in vita avrebbe mai concepito di conoscere una donna nei termini in cui lei desiderava essere conosciuta, né sarebbe mai stato in grado di pronunciare le parole liberatorie che Rochester rivolge a Jane: «Un giorno imparerete, credo, a essere naturale con me, così come io trovo impossibile essere convenzionale con voi»418.
Sarebbe più facile dilungarsi sulla futilità o la tristezza, ma questo non renderebbe giustizia all’imperativo di Currer Bell: la volontà di dare alla vita un significato. Jane Eyre narra solo quei travagli capaci di portare a una conquista. La perdita di Maria, raccontata attraverso la figura di Helen Burns, è una tappa formativa nel corso di un pellegrinaggio. La perdita di Monsieur e la depressione che ne consegue conducono Jane nelle terre selvagge nei pressi di Whitcross. La conquista che ne ricava l’eroina è la stessa che fece Charlotte nel periodo successivo a Bruxelles: un’ostinata capacità di resistere e sopportare, che nel romanzo giunge a un culmine drammatico nel volume finale, quando Jane deve separarsi da Rochester per andare incontro a un altro destino. La località di Whitcross trae ispirazione da una stele di pietra conosciuta come Moscar Cross, situata vicino alla brughiera di Hallam, nel Derbyshire, un luogo che Charlotte probabilmente visitò nell’estate del 1845, quando, con Ellen, trascorse le vacanze nel villaggio di Hathersage. La stele stava a indicare il punto in cui la vecchia strada sulla linea est-ovest, da Sheffield a Manchester, incontrava l’arteria nord-sud dallo Yorkshire. Ma forse per Charlotte segnò anche un momento nel tempo, a un anno e mezzo dalla sua fuga da Monsieur, quando concepì per se stessa un nuovo corso.
In Jane Eyre, Currer Bell è riuscito a trasporre in dramma desideri e principi, così da parlare a tutti i lettori, non solo alle donne. Attraverso l’“altro” nascosto419 in ogni donna, scopriamo l’irriducibile singolarità di ogni membro della nostra specie e, oltre a questo, i dualismi che attraversano ognuno di noi, i nostri linguaggi plurali che, ancor più dell’orizzonte a lungo contemplato da Jane, rimangono spesso al di fuori del nostro campo visuale. Un recensore, William George Clark, avendo sentito singolari elogi del romanzo, decise di essere un critico severo «quanto Croker»420. Ma andando avanti nella lettura, si scordò di lodi e critiche: si identificò con Jane in tutte le sue traversie, «e finalmente, alle quattro circa del mattino, sposai Rochester». A coinvolgere il lettore, come riconobbe Lewes, è la voce del libro: «È l’anima che parla all’anima, è un discorso che arriva dalle profondità di uno spirito in lotta, sofferente, che troppo ha sopportato: suspiria de profundis!»421.
Charlotte Brontë scrisse agli albori di una lunga e mai conclusa epoca in cui le donne sono chiamate a contestare gli abusi del potere – il potere sessuale, la violenza, il militarismo e i danni che essi provocano –, ma in fondo uomini e donne, osservati da una distanza oggettiva, appartengono alla stessa specie, condividono gli stessi fondamentali schemi esistenziali. C’è, potremmo ben chiederci, al livello della specie, qualcosa in grado di accendere il nostro interesse, e dovremmo andare avanti? Jane, in quanto sopravvissuta, dotata di un inflessibile coraggio morale, di una ragione al comando della passione e di una forza che deriva dalla vivacità intellettuale, incarna una resilienza di principio che tutti possiamo condividere. In quanto orfana, rappresenta tutti coloro che vivono in una qualche forma di dipendenza e in solitudine, che sono vulnerabili agli abusi – che si tratti degli ignobili abusi sull’infanzia, sulle classi subalterne, sulle donne, o anche di quella più subdola forma di abuso indagata dall’opera di Charlotte Brontë nel suo complesso: la negazione dei sentimenti.
Il prepotente John Reed schiaffeggia Jane perché non è disposta a trattarlo con la dovuta deferenza. Blocklehurst la umilia e riduce alla fame le ragazze di Lowood per piegare la loro forza d’animo; ma quando Jane si guarda indietro, sono le parole del direttore del collegio – parole repressive, minacciose, bigotte – ad accendere in lei il risentimento. Jane si sente attratta da Rochester, nonostante i suoi dubbi trascorsi, il suo ringhiare e la sua tetraggine, perché egli suscita l’opposto di quella negazione: «Non sono stata avvilita e paralizzata», gli dice Jane spiegandogli la ragione del proprio attaccamento. «Non sono stata seppellita insieme a menti inferiori, esclusa anche dal più piccolo bagliore di comunione con l’intelligenza, l’energia, la nobiltà»422.
Al contrario, il signor Brocklehurst e St John Rivers sono le colonne portanti di una struttura repressiva che nega la possibilità del sentimento a chi è destinato a una posizione sociale subalterna. Il pericolo di questa prigionia emotiva è lo svuotamento del carattere, ciò che temette Anne Brontë trovandosi «smorta» dopo gli anni trascorsi al servizio dei Robinson, o ciò che teme Jane nel momento in cui il signor Rivers (dicendo «Io [...] Io [...] Io») insiste sul matrimonio solo per soddisfare le proprie ambizioni morali.
Sia Jane che Rochester trascorrono un periodo a contatto con la natura selvaggia: Jane quando mendica cibo e riparo nei pressi di Whitcross; Rochester quando, cieco, è recluso a Ferndean, dopo l’incendio che ha distrutto la sua casa. L’autonomia di Jane è messa alla prova in condizioni estreme, quando è del tutto priva di protezione, soldi, igiene, persino del riserbo, così prezioso per il suo orgoglio. Rochester, a sua volta, è spogliato del suo potente aspetto di sultano – il potere che aveva incantato le donne parassita (Céline, Giacinta e Clara) nel corso del suo licenzioso passato. La sua liberalità da sultano era stata motivo d’irritazione per Jane: l’avrebbe resa una ridicola bambola. Peggio ancora, aveva presupposto di pensare al suo posto, progettando un falso matrimonio: «Non direi che lui mi abbia tradito: ma la qualità dell’immacolata verità era sparita dalla sua mente, e dalla sua presenza ho il dovere di sottrarmi». Eppure, tutto ciò che è desiderabile nel potere di Rochester sopravvive a questa separazione e alle successive ordalie. Ancora rintracciabili al di sotto della sua patina di amarezza appaiono la sua cultura, i suoi giochi verbali, il suo impegno nei confronti di Jane. Il capitolo finale, che narra i primi anni di matrimonio della coppia, constata il successo di una compatibilità duratura: «Parliamo, credo, tutto il giorno»423.
Questa soluzione del conflitto tra libertà e legame è possibile solo quando Jane si è finalmente epurata da due forme di tirannia. In primo luogo deve liberarsi dalla tirannia dell’eccessivo abbandono: l’abbandono infantile alla rabbia e l’abbandono più adulto agli appetiti che portano alla frenesia nascosta in casa di Rochester, Thornfield Hall424.
Bertha Mason Rochester, la donna pazza rinchiusa al terzo piano, è più un monito che un personaggio425: un avvertimento sui rischi della passione irrazionale. In una frase cancellata dal manoscritto, Jane le si avvicina ammettendo una fondamentale avventatezza nel modo in cui è stata suscettibile a Rochester durante il loro fidanzamento: «Se lui era sottomesso lo ero anch’io – e da un’influenza insolita e irresistibile»426. Ciò accade dopo la rivelazione della tentata bigamia, seguita dalla visita alla moglie folle di Rochester. Jane, sola nella sua stanza, argina lo slancio della passione attraverso le parole (pesantemente calcate nel manoscritto): «Ma ora – io ho pensato»427. La sua affermazione della ragione la separa nettamente dalla follia in cui Rochester continua a essere implicato. Bertha incarna l’elemento anarchico presente in Rochester, che rimane incontrollato fino a che la donna non muore. La sua fine tra le fiamme lo lascia segnato e, in una certa misura, invalido. È suggestivo che a essere compromesso sia Rochester, non Jane. Lui è inoltre segnato da una sfilza di giudizi errati. Bertha Mason non era mai stata una donna promettente; era ottusa, aveva gli occhi lenti e fissi, come quelli di suo fratello.
La follia creativa che Charlotte Brontë e altre scrittrici – Emily Dickinson, Olive Schreiner, Virginia Woolf, Sylvia Plath – sperimentarono, in un modo o nell’altro, è differente dalla follia malvagia di Bertha. La sua violenza è stupida, come quella di un cane da combattimento dai denti aguzzi. Agli occhi di Charlotte Brontë, Bertha è la causa della propria disgrazia, non il marito. Infondere in Bertha un sentimento femminista non è opportuno né costruttivo, se vogliamo attenerci a quello che c’è sulla pagina, valutandolo in relazione alla sua epoca e al suo luogo. Parte della grandezza di Charlotte Brontë risiede nel suo rifiuto di semplificare la verità riducendola all’evidenza. Le donne non sono semplicemente vittime; hanno, dentro di sé, la facoltà di fare conquiste, persino nelle condizioni più oppressive. È questo ciò che Charlotte voleva mostrare.
Bertha non deve essere accostata alle donne intraprendenti e ambiziose, piuttosto al prototipo di donna appariscente che Charlotte disprezzava: le ricche, ottuse, insensibili beltà. Gli uomini le inseguono, abiurano la loro migliore natura in favore della lussuria e della cupidigia, così come Rochester ha umiliato se stesso nel corso della sua unione con Bertha. Rappresenta una minaccia in quanto è un retaggio dei pericoli insiti nella natura di Rochester, nascosti e a lungo ignorati da Jane, che si trova in balia di un uomo abituato alla bassezza, capace di trattare una successione di corpi come un piacevole passatempo. Ecco cosa significa Bertha in quanto compagna di Rochester: è una parte di lui che potrebbe rimanere invisibile ma che continua a esistere. Rochester oscilla tra la passione corrotta e la passione che ha conosciuto con Jane, un sentimento capace di redimerlo e guarirlo perché (lo capisce leggendolo sul volto di Jane) ha il dono della razionalità.
Rochester occupa una posizione ambigua. In parte rappresenta l’uomo della tradizione che costruisce idealmente “la donna” quale suo opposto e alieno, un “altro” difettoso da tenere confinato per poter vivere in modo autonomo. Relegare Bertha in un’area separata della casa equivale a rigettare una parte di sé, il desiderio bestiale e la rabbia, che sfoga solo al di fuori di quei confini domestici su cui deve vigilare con la massima cautela – senza successo, dato che Bertha tende a romperli e a invadere la camera da letto del marito con folli intenzioni incendiarie. Eppure, allo stesso tempo, Rochester è un uomo capace di imparare a prendersi cura dell’“altro” nelle sembianze di Jane, che arriva a riconoscere come la parte migliore di sé. È capace di promuovere un’autentica conoscenza di questo “spirito” alieno. Sicuro della propria virilità, sa ammettere l’“altro” nella sua sfera intima, ma riesce a farlo solo grazie a un amore che limita la sua tendenza a usare la forza e scadere nella lussuria.
La tirannia della licenziosità non è più pericolosa della tirannia dell’autocontrollo, della negazione del sentimento che il signor Brocklehurst e St John Rivers cercano di imporre attraverso la loro interpretazione della religione. Soccombere a Rivers e ai suoi pretenziosi discorsi sul sacrificio equivarrebbe per Jane a perdere una metà di sé. Lei prega in un modo diverso da quello di St John, ma a suo modo efficace. Così come ha affermato il suo diritto alla comunione con ciò che è luminoso, energico, elevato, Jane rivendica con Rivers ciò che già Helen Burns aveva praticato: una propria forma di religione. La vera audacia di questo romanzo non risiede nei momenti di ribellione o di rabbia di Jane, non nelle trame amorose tra Jane e Rochester, e nemmeno nella sostituzione dell’ipocrisia con una cristianità più pura, ma nel fatto che Jane reclami di pensare per sé – non solo come donna e lavoratrice, ma in quanto spirito uguale a ogni altro spirito, e con il medesimo diritto a esistere e a esperire:
«Ho un’anima come voi [dice Jane a Rochester], e un cuore forse più grande del vostro! [...] Non vi parlo attraverso le usanze e le convenzioni, neppure attraverso la mia spoglia mortale: è il mio spirito che si rivolge al vostro spirito; come se entrambi avessimo conosciuto la morte e fossimo ai piedi di Dio, noi due, uguali... come siamo!».428
Nel corso delle sue esperienze, Jane fa la conoscenza di due estremi opposti: una vita caotica e ricolma di rabbia e una vita di ordine e disciplina. È qui che Charlotte Brontë ha dato forma e sostanza all’intima stravaganza della propria vita, scissa tra le rivendicazioni dell’io e quelle della società. È qui che risiede il «conflitto interiore» che Virginia Woolf ha percepito in Currer Bell e George Eliot – e, presumibilmente, in se stessa, “notte e giorno”. Fino a che punto Charlotte Brontë abbia risolto il suo «conflitto interiore» resta da stabilire; ma, tra il 1846 e il 1847, Currer Bell segnò la strada per la sua risoluzione seguendo Jane Eyre nelle sue tappe dal repressivo collegio di Lowood alla tempestosa Thornfield, e poi da Thornfield allo spoglio banco di prova di Whitcross, fino alla sistemazione conclusiva nel fertile paesaggio di Ferndean, dove la derelitta magione abitata da un Rochester ormai compromesso può essere restaurata. Nel corso delle sue peregrinazioni, Jane impara a proteggere se stessa sia dai bollenti eccessi passionali sia da quelli della gelida autodisciplina. Questi estremi vengono incarnati da due uomini: Rochester, che offre la passione senza matrimonio, e Rivers, che offre un matrimonio privo di passione.
Mentre Jane passa da un luogo all’altro, il disegno della sua vita prende forma. Oscilla tra il pericolo della passione e quello dell’astensione. Gateshead, il punto da cui prendono avvio i suoi viaggi, è un luogo di violenza fisica, celata da una patina di raffinatezza borghese. Il compiaciuto John Reed offende Jane. Il rabbioso ardore con cui Jane reagisce porta a ulteriori violenze quando viene rinchiusa nella Stanza Rossa. Qui la sua furia esplode, e macabre paure riducono la piccola all’insensibilità.
Lowood funge da contrappeso. Il clima è rigido, un freddo raggelante. L’unico caminetto acceso è circondato dalle ragazze più alte e corpulente, così che le più piccole sono tagliate fuori da ogni fonte di calore. L’acqua delle bacinelle, al mattino, è gelida; di conseguenza Helen viene fustigata per non essersi pulita le unghie. Helen, signorina Temple: i loro nomi evocano la classicità. Helen sta leggendo un’opera neoclassica, Rasselas, un dialogo razionale sulla vanità dei desideri umani, portato avanti con calmo autocontrollo. È da Helen e dalla signorina Temple che Jane impara a riconoscere l’importanza di una condotta sociale dignitosa e la virtù dell’umiltà, della povertà, del lavoro e del sacrificio. Nel momento in cui lascia Lowood, otto anni più tardi, Jane è un’altra persona: «Mi ero votata al dovere e all’ordine [...]. Agli occhi altrui, apparivo disciplinata e quieta»429.
La disciplina è una risposta alla rabbia inutile. La grazia del decoro si rivela essenziale per i progressi di Jane nella sfera pubblica. A Lowood impara il francese e le altre materie che le daranno gli strumenti per guadagnarsi da vivere e mantenersi. In breve, Lowood ha dato i suoi frutti, e, in definitiva, non è il dolore che conta, ma le conquiste – se possono essere distillate e applicate. Jane deve a Lowood il fatto di potersi mantenere con dignità nel momento in cui si attiene – com’è suo dovere, se ci tiene a sopravvivere – alle vacue norme della sua epoca: l’artificio delle bambole esangui, Adèle e Blanche; il narcisismo della vanitosa Georgiana Reed; lo snobismo mercenario della zia Reed e di Lady Ingram, cieche nei confronti della ragazza che si sta formando negli unici spazi a sua disposizione, la sedia accanto alla finestra e l’angolo più remoto e in penombra del salotto. Blanche Ingram, appariscente e vistosa, incarna il gusto dell’epoca e occupa il centro della scena con i suoi gingilli – i boccoli, i ninnoli, le sue inappuntabili doti femminili –, mentre Jane, un’eroina del futuro ancora misconosciuta, si allontana sullo sfondo. Rochester la segue e le ordina di rimanere. Impedendo che una donna genuina sparisca su per le scale, Rochester compie un gesto che sembra trascendere la sua epoca e rivolgersi a un tempo a venire. Jane viene richiamata – trascinata in piena luce – perché solo Rochester ne riconosce l’autenticità. Porla in apparente competizione con Blanche significa fomentare l’amore di Jane alla crudele maniera di Zamorna, ma anche incitarla a rompere il silenzio perché faccia la sua famosa dichiarazione sull’uguaglianza delle loro anime.
Jane aveva lasciato Lowood per cercare «una nuova servitù», ma a Thornfield, priva del modello della signorina Temple, si ritrova di nuovo nel suo «elemento naturale»430 e ritorna preda di bisogni mai sopiti. È esaltata sentendosi dire da Rochester che «non è naturalmente austera». Un’allenata compostezza le ha attutito la voce e irrigidito le membra, ma lui la libererà. Eppure, questo salvatore è anche il carceriere di sua moglie. Le scene di Thornfield riprendono la storia del dissoluto Mr B e della sua serva virtuosa, storia che Jane aveva ascoltato da bambina quando Bessie leggeva ad alta voce le pagine di Pamela431 (1740) di Richardson. Ma al di là di questo specifico riferimento, ad aver influenzato Charlotte è il mondo chiuso in se stesso di tutte le eroine di Richardson: donne prigioniere o in fuga disperata, timorose di essere abusate sessualmente e combattute tra l’istinto alla reazione e quello alla conservazione. Le alte fiamme in cui avvampa Thornfield sono il simbolo della passione nei suoi aspetti erotici e distruttivi. Il fuoco attorno al letto di Rochester mette in guardia dal suo licenzioso passato, ma verrà affrontato da Jane nel momento del salvataggio. Nella misura in cui tale atto lascia presagire il loro felice futuro, rappresenta una sorta di risposta pratica al futile abbandono alle emozioni cui si assiste in Cime tempestose, dove la morente Catherine toglie le piume dal suo cuscino in un gesto di sconforto. Segregata tra le mura domestiche e isolata per via della gravidanza, rinchiusa nella propria stanza in spirito di rivolta, spalanca le finestre come se potesse volare con lo spirito verso la brughiera. La selvaggia natura di Catherine vorrebbe raggiungere Peniston Crag, il rifugio della sua infanzia. Il desiderio di scappare dal soffocante matrimonio con un gentiluomo affettuoso ma troppo chiuso in se stesso è risvegliato dal bisogno di recuperare quella natura che la sua anima gemella, Heathcliff, condivide con lei. Perché Heathcliff è, in una forma più pura rispetto a Catherine, la natura stessa: inebriante e spesso anarchica. In Cime tempestose, la passione e la società sono incompatibili; in Jane Eyre, Charlotte Brontë ha sfidato quest’opinione, ma per lungo tempo Rochester rimane una figura senza legge.
A Thornfield Jane deve compiere un percorso difficile – quando prova a contenere il desiderio che il suo amore sia corrisposto, e più tardi quando deve affrontare la perversa passione che offusca il passato di Rochester, rappresentata dalla donna rinchiusa all’ultimo piano o in fuga, con intenzioni malvagie, nei corridoi della notte. Ciò che le fa più male è il mutare del sentimento che nutre per Rochester nel momento in cui scopre il suo inganno: «Il signor Rochester non era più per me quello che era stato; perché non era quale io l’avevo immaginato»432. Il dolore più intenso è la perdita della fiducia: la perdita di quella verità immediata, persino graffiante, che aveva suscitato l’amore di Jane.
Se a Thornfield – che rappresenta una tentazione più insidiosa di Gateshead – aveva creduto di poter vivere di solo sentimento, a Moor House, la residenza di Rivers, deve affrontare l’ultima tentazione, quella della rinuncia alla carne – in una versione più sottile rispetto alla Lowood del signor Brocklehurst. «Non ci sono uomini buoni del genere di Brocklehurst»433, scrisse Mary dalla Nuova Zelanda quando ricevette il libro. Ma Charlotte tracciava, invece, una distinzione, per quanto piccola: il signor Brocklehurst era una «colonna nera», Rivers una «colonna bianca». In quanto missionario, Rivers offre un lavoro a Jane, la realizzazione di una parte della sua natura – a discapito, tuttavia, di quella parte vitale che aveva scoperto a Thornfield.
Alla fine i due amanti, messi alla prova dalle rispettive traversie, si ritrovano nel rifugio di Ferndean, un luogo ricalcato sulle rovine di Wycoller Hall, in un angolo di mondo remoto e intatto, attraversato da un torrente e protetto da grandi alberi, situato al capo opposto della brughiera rispetto a Haworth. Questa nuova unione rischiava di essere un bagno di sentimentalismo, ma entrambi parlano con tono asciutto, quasi brusco, che segnala inequivocabilmente la loro sicurezza: hanno trovato la giusta via di mezzo tra passione e autocontrollo.
L’ultimo degli editori a respingere il breve romanzo Il professore fu Smith, Elder & Co., che scrisse però una lettera incoraggiante in cui suggeriva che un’opera più voluminosa avrebbe ricevuto una maggiore attenzione. Tre settimane dopo, il 24 agosto del 1847, Charlotte inviò alla casa editrice il manoscritto di Jane Eyre. L’editore George Smith lo lesse tutto nell’arco della domenica seguente, annullando una corsa a cavallo, saltando la cena, e rifiutandosi di andare a dormire finché non ebbe finito il libro. Il lunedì successivo offrì a Currer Bell cento sterline (a cui si aggiungeranno in seguito vari extra fino ad arrivare a un totale di cinquecento). Sei settimane dopo, il 16 ottobre 1847, l’editore pubblicò il romanzo.
Ci fu un’esplosione di elogi. Gli uomini poco attraenti si davano «un’aria alla Rochester»434. A far più piacere a Charlotte fu il commento di una scrittrice, la signorina Kavanagh, che aveva trovato il libro «suggestivo»435. Charlotte descrisse poi il personaggio di un libro della signorina Kavanagh come «poco riuscito, eccetto dove c’era duro lavoro da fare, e avversità contro cui lottare: crescerà alla perfezione [...] nell’ombra». Nelle parole di Charlotte sembra trattarsi di Jane. Di tutti gli scrittori coevi, il più ammirato da Charlotte era William Makepeace Thackeray, l’autore di La fiera della vanità, che scrisse a William Smith Williams, il primo sostenitore di Charlotte alla Smith, Elder: «Avrei preferito non mi avesse inviato Jane Eyre. Mi ha coinvolto al punto che ho perso (o guadagnato, se vuole) un’intera giornata leggendolo nel momento in cui ero più indaffarato, quando gli stampatori aspettavano imploranti una copia da me»436.
Un altro scrittore affermato, John Gibson Lockhart (figliastro di Sir Walter Scott, di cui fu il biografo), scrisse il 29 dicembre 1847: «Ho finito le avventure della signorina Jane Eyre, e penso che sia il personaggio più intelligente mai scritto da quando Austen ed Edgeworth erano nel loro momento d’oro. Molto meglio questa sfacciata signorina che cinquanta libri di Trollope e Martineau avvolti in un copriletto, con cinquanta Dickens e Bulwer a tenergli compagnia»437.
L’espressione «sfacciata signorina» spiega perché il romanzo fu considerato, per i successivi trent’anni, «pericoloso», come scrisse Anne Mozley nella rivista «Christian Remembrancer» nell’aprile 1853. Mozley si lamentava dell’«oltraggio al decoro» e non vedeva «alcuna [...] piena comprensione della reale natura femminile. Costui [Currer Bell] non è in grado di apprezzare il fascino che una quotidianità di semplici doveri e innocenti piaceri esercita su coloro che sono felici di praticarli e di goderne»438. Lady Herschel, in visita alla signora Smith, madre dell’editore, rimase scioccata quando vide il romanzo in bella mostra nel salone. Non si dovevano forse proteggere le giovani figlie di Smith dai pericoli del libro? E, stranamente, anche la figlia della signora Gaskell dovette chiedere alla madre il permesso di leggerlo. «Mi dispiace di non averti mai detto che la tua lettura di Jane Eyre non mi preoccupò»439, disse alla figlia Marianne la futura biografa di Charlotte nel 1854. La signora Oliphant, la principale avversaria dell’emancipazione femminile, disse che «questo furioso far l’amore altro non era che una selvaggia dichiarazione dei “Diritti della donna” in un altro senso». Mise in guardia dalla «volgarità» e dalla «rifinita indelicatezza»440 del romanzo. Spesso erano proprio le donne a temere il romanzo, e se ne servivano per ammonire sui pericoli di un carattere ribelle.
Queste donne erano particolarmente infastidite dalla concezione del desiderio presente nel libro. Oggi sappiamo che il desiderio attivo nelle donne era considerato un tabù per ragioni più nascoste e inquietanti del banale moralismo vittoriano. La scissione di Rochester tra moglie e amanti era, ovviamente, la norma nell’Inghilterra del XIX secolo, e la paura connessa era senza dubbio la diffusione delle malattie veneree. Meno nota è l’influente opinione di numerosi medici e ciarlatani che, dal XVII fino agli inizi del XX secolo, misero gli uomini in guardia sostenendo che «una donna aveva più probabilità di trasmettere certe malattie quanto più si avvicinava all’orgasmo»441. Questa credenza plasmò un segreto atteggiamento maschile, durato per varie epoche, che vedeva nell’eccitazione della donna il segno della malattia. Tale tabù potrebbe spiegare i due pesi e le due misure applicati dai recensori di Jane Eyre, quanto mai ansiosi di determinare il sesso dell’autore: la «North British Review» sostenne che «se Jane Eyre fosse l’opera di una donna, si tratterebbe di una donna asessuata», e l’«Economist» elogiò il libro se scritto da un uomo e lo dichiarò «detestabile»442 se scritto da una donna. Queste erano senza dubbio le recensioni più dolorose per l’autrice: «A certi critici mi piacerebbe rispondere: “Per voi io non sono né un uomo né una donna – mi presento a voi solo come autore. È il solo criterio in base al quale avete il diritto di giudicarmi – il solo terreno su cui accetto il vostro giudizio».
Verso la metà del XX secolo era comune leggere Jane Eyre come un’espressione dell’antagonismo di genere, e individuare nella cecità di Rochester una forma di «evirazione»443. Tali lettori erano i discendenti di quei primi recensori che avevano frainteso il desiderio di esperienze di Jane per una minaccia femminista. Mary Taylor scrisse a Charlotte: «Sei molto diversa da me, non hai alcuna dottrina da predicare». Era sorpresa, lo riconobbe, di trovare Jane Eyre «così perfetto come opera d’arte»444. Questa separazione della dottrina e dell’arte è troppo rigida. Charlotte, è vero, non era una femminista polemica. Allo stesso tempo, non aboliva l’ideologia: la stava estendendo dall’arena dei diritti pubblici alla più complessa, segreta, perfino protetta dal tabù, arena del sentimento privato – quello spazio mentale in cui, come intuì Mill, le donne erano ridotte in una schiavitù più insidiosa e profonda di quella determinata dai più palesi limiti imposti al lavoro, alla proprietà e al voto femminile. Questa forma di emancipazione è tuttora a venire; Jane preannuncia un futuro che noi abbiamo la possibilità di realizzare. Forse non è una predicatrice, ma è in qualche misura simile a un profeta.
Il romanzo è profetico nella ricerca d’indipendenza di Jane, e sopra ogni cosa nella sua rivendicazione del diritto ad avere sentimenti propri. Jane giunge, alla fine, all’unione domestica approvata dalla società, ma nel percorso si è rifiutata di fare violenza alla propria natura. Jane Eyre è la trionfante affermazione dell’inviolabilità dell’anima individuale.
354 HM racconta questo aneddoto nel suo necrologio per CB, «The Daily News», aprile 1885; ripreso in The Brontës: The Critical Heritage, a cura di Miriam Allot, Londra, Routledge, 1974, pp. 301-305.
355 All’immaginazione, in Anne Charlotte Emily Brontë, Poesie, Milano, Mondadori, 2004, p. 745.
356 Il manoscritto si trova alla British Library. Vedi The Complete Poems, a cura di Janet Gezari, Londra, Penguin Classics.
357 CB, “Biographical Notice”.
358 AB, pagina di diario, 31 luglio 1845, in CBL, i, pp. 409-411; trad. it. in Lettere, op. cit., p. 83.
359 EB, pagina di diario, 30 luglio 1845, in CBL, i, pp. 407-409; trad. it. in Lettere, cit., p. 82.
360 CB a EN, settembre 1840, in CBL, i, p. 228.
361 A WSW, 4 gennaio 1848, in CBL, ii, p. 3.
362 Lettera a Francis Grundy, ottobre 1845, LFC, ii, pp. 64-65.
363 Frances, scritta nel 1843 circa; trad. it. Poesie, cit., p. 265..
364 Julian M. and A.G. Richelle, in The Complete Poems, a cura di Janet Gezari, Harmondsworth, Penguin, 1992, pp. 177-181; trad. it. in Poesie, cit., pp. 801-803. Datato il 9 ottobre 1845, questo appunto si trova nel quaderno dei Gondal Poems, e Janet Gezari suggerisce che EB stesse riportando questa stessa poesia nel momento esatto in cui Charlotte la lesse per la prima volta. Parte di queste poesie vennero pubblicate poi in Poems (1846).
365 CB a WSW, 21 dicembre 1847, in CBL, I, p. 580.
366 Pagina di diario, 31 luglio 1845, in CBL, I, pp. 409-411; trad. it. in Lettere, cit., p. 83.
367 Ibid.
368 Joseph Nussey morì per una combinazione di alcolismo e tubercolosi nel 1846.
369 PBB a J.B. Leyland, giugno o luglio 1846, LFC, II, p. 99.
370 A WSW, 4 gennaio 1848, LFC, II, p. 173.
371 BPM, Bon 191, LFC, II, p. 30.
372 Jane Eyre: An Autobiography, Add MS 43474-6. Parte del George Smith Memorial Bequest. La prima pagina è datata 16 marzo 1847. È un manoscritto pulito, a differenza di quello di Villette.
373 Juliet Baker, note a The Brontës: Selected Poems, a cura di Juliet R.V. Barker, Londra, Dent, 1985, p. 106.
374 Sh, cap. VII, p. 106.
375 I primi ricordi a questo proposito di CB si trovano in una lettera a WSW del settembre 1848, CBL, II, p. 119.
376 CB, “Biographical Notice”; trad. it. in Emily Brontë, Poesie, cit., p. xli.
377 CB a WSW, settembre 1848, CBL, II, p. 119.
378 CB, “Biographical Notice”.
379 Ibid.
380 PBB a Francis Grundy, LFC, II, trad. it. in Lettere, cit., p.87.
381 CB, “Biographical Notice”; trad. it. in Poesie, cit., p. xli.
382 Alla signora Rand, 16 maggio 1845, CBL, I, 393.
383 A EN, 10 luglio 1846, BPM. Gr. E: 10, CBL, I, p. 483.
384 CB a EG, 17 novembre 1849?, CBL, II, p. 228.
385 Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 80.
386 The Diary of Virginia Woolf, a cura di Anne Olivier Bell, Londra, Hogarth, 1977, I, p. 259; trad. it. Virginia Woolf, Diario di una scrittrice, Milano, Mondadori, 1979, p. 30.
387 Si veda Claire Tomalin, The Life and Death of Mary Wollstonecraft, Londra, Weidenfeld & Nicolson, 1974, pp. 225-226, e William St Clair, The Godwins and the Shelleys, Londra, Faber, 1989, capitolo 14.
388 Lyndall Gordon, “The Burden of Life”, in «Poetry Review», n. lxxix, inverno 1989-60, pp. 60-62.
389 “Vanity Fair and Jane Eyre”, in «Quarterly Review», n. lxxxiv, dicembre 1848, pp. 153-185. Cfr. capitolo I.
390 Winifred Gérin, Charlotte Brontë: The Evolution of Genius, Oxford University Press, 1967, p. 327.
391 Life, p. 114; trad. it. in Elizabeth Gaskell, La vita di Charlotte Brontë, Milano, La Tartaruga, 1987, p. 132.
392 CB cita L’italiano (1797) in Sh. Il romanzo più famoso di Radcliffe, campione di vendite negli anni Novanta del Settecento, fu The Mysteries of Udolpho (1794); trad. it. I misteri del castello di Udolfo, Milano, Mondadori, 1998.
393 A EN, 13 settembre 1846. BPM. Bon 189, CBL, I, p. 497.
394 A EN, 29 settembre 1846, CBL, I, p. 500.
395 Lettera di EN a Clement Shorter, 20 ottobre 1895: «Charlotte era una miscelatrice di personaggi, e ne metteva due in uno solo». Brotherton.
396 JE, p. 394. Vedi Gérin, CB, cit., p. 303.
397 A WSW, 28 ottobre 1847, CBL, I, p. 553.
398 JE, p.373.
399 Ivi, p. 374.
400 Ibid.
401 A Charles Bray, 11 giugno 1848. The George Eliot Letters, a cura di G.S. Haight, Oxford, Oxford University Press, 1954, I, p. 268.
402 A WSW, settembre 1848, CBL, II, p. 118.
403 JE, p. 369.
404 Si veda la lettera di CB a un’allieva inglese citata in precedenza, cap. 4.
405 JE, pp. 369-370.
406 Ibid.
407 Ivi, p. 304.
408 Ivi, p. 354.
409 Per queste osservazioni sono in debito con Sally Howgate, per un pregevole saggio su Cime tempestose scritto mentre studiava al Ruskin College, Oxford.
410 Ivi.
411 CB, “Editor’s Preface to the New Edition of WH”, Londra, Smith, Elders and Co., 1850. Appendice alla edizione World’s Classics di Wuthering Heights, p. 366; trad. it. in Cime tempestose, Milano, Mondadori, 2001, pp. XLIII-IV.
412 M.A. Butterfield, The Heatons of Ponden Hall, Stanbury, 1979; Edward Chitham, A Life of Emily Brontë, Oxford, Blackwell, 1987, p. 67; Gérin, A Life of Patrick Branwell Brontë, Londra, Nelson, 1961, p. 43; Brother in Shadow, ricerca di Mary Butterfield, a cura di R.J. Duckett, Bradford Information Service, 1988, pp. 70, 139-145. Quest’ultimo cita Mrs Percival Hayman, The Heatons and the Brontës, dattiloscritto, marzo 1982. Fonte principale è il dattiloscritto “William Shackleton, Four Hundred years of a West Yorkshire Moorland Family”, 1921, e altri scritti negli archivi degli Heaton, Keighley Reference Library.
413 Zoë Teale, tesi opzionale su EB, Oxford Finals, 1990.
414 Byron, Manfred, Atto II, scena 2, vv. 50 e sgg.; trad. it. di Giorgio Manganelli, Torino, Einaudi, 2000, p. 19.
415 Sono in debito con Marni Feld per queste considerazioni.
416 Recensione su «Atlas», citata nella edizione Clarendon di JE, Appendice V, p. 631.
417 «Fraser’s Magazine», dicembre 1847, pp. 686-695, riportato in The Brontës: The Critical Heritage, cit. p. 84. Vedi anche l’edizione Clarendon di JE, Appendice V, p. 630.
418 JE, p. 162, Vedi anche l’immagine che Rochester ha di Jane come un uccello in gabbia che, se liberato, volerebbe «alto come le nuvole».
419 In questo passaggio ho fatto mio il lessico di Julia Kristeva, “Women’s Time”, in The Feminist Reader: Essays in Gender and the Politics of Literary Criticism, a cura di Catherine Belsey e Jane Moor, Londra, Macmillan, 1989, p. 214.
420 Da una recensione a Sh apparsa su «Fraser’s Magazine», dicembre 1849, p. 692, riportata in The Brontës: The Critical Heritage, cit. p. 152. Citato in Kathleen Tillotson, Novels of the Eighteen-Forties, Oxford University Press, 1954, pp. 19-20. Croker fu un critico velenoso, in particolare nei confronti di Keats, durante il periodo Romantico.
421 «Fraser’s Magazine», cit.
422 JE, p. 295.
423 Ivi, p. 533.
424 Ispirata alla vecchia dimora di EN, The Rydings, nei pressi di Birstall, e alla residenza della famiglia Eyre a North Lees, che CB visitò durante il suo soggiorno nel Derbyshire nel 1845. Un’altra possibile fonte di ispirazione è Norton Conyers, dove, secondo la leggenda, una donna folle era stata rinchiusa nella soffitta: si trattava di una vecchia abitazione che Charlotte potrebbe aver visitato quando accompagnò i suoi datori di lavoro, i Sidgwick, a Swarcliffe, nell’Harrogate orientale.
425 Per la lettura della moglie folle come alter ego di Jane, vedi Sandra M. Gilbert e Susan Gubar, The Madwoman in the Attic, New Haven e Londra, Yale University Press, 1979, p. 348: «Jane sente prima la follia di Bertha, la moglie nascosta di Rochrster, nel senso di un suo personale segreto».
426 BL, Add MS 43475, II, p. 466.
427 Ivi, p. 501.
428 JE, p. 296.
429 Ivi, p. 96.
430 Ibid.
431 Tillotson, op. cit., p. 149.
432 JE, p. 348.
433 MT a CB, giugno-24 luglio 1848. Stevens, MT, p. 74.
434 Riportato in un giornale, CB accluse questo articolo senza firma, pubblicato durante il suo soggiorno a Londra nel giugno del 1850, in una lettera a EN (15 luglio 1850). CBL, II, p. 425.
435 CB a WSW, 22 gennaio 1848. BPM. Bon 196. CBL, ii, p. 17. La recensione di Miss Kavanagh comparve sul «Morning Herald».
436 WMT a WSW, 23 ottobre 1847, LFC, II, p. 149.
437 LFC, II, p. 169.
438 The Brontës: The Critical Heritage, cit., pp. 202-208.
439 EGL, 198a: p. 860.
440 «Blackwood’s Magazine», maggio 1855, riportato in The Brontës: The Critical Heritage, cit., pp. 312-313.
441 Richard Davenport-Hines, “Necessary Precautions”, in «Nature», 21 febbraio 1991, p. 661. Per queste considerazioni sono in debito con Siamon Gordon.
442 Citato da CB in una missiva a WSW, 16 agosto 1849, LFC, iii, p. 11.
443 Ho appreso per la prima volta di questa visione nelle lezioni alla Columbia University, alla fine degli anni Sessanta. Deriva da Richard Chase, “The Brontës, or Myth Domesticated”, in Forms of Modern Fiction: Essays Collected in Honor of Joseph Warren Beach, a cura di William Van O’Connor, University of Minneapolis, 1948, pp. 102-119; riportato nella Norton Critical Edition di JE, 1971, p. 467: «Le ferite di Rochester sono, dovrei pensare, una castrazione simbolica».
444 MT a CB, giugno 24 luglio 1848, Berg. Stevens, MT, p. 74.