6. Camminare invisibile
«È una scrittura femminile, ma a chi appartiene?»445. Una settimana dopo la pubblicazione di Jane Eyre, avvenuta il 16 ottobre 1847, Thackeray si interrogava sull’identità di Currer Bell. E come lui, tutti coloro che avevano letto il romanzo.
All’inizio del 1848, Jane Eyre aveva raggiunto lo Yorkshire. Charlotte, sicura della sua copertura, sentì per caso il commento di un chierico del luogo446.
«Perché», esclamava l’uomo, «hanno ripreso la scuola di Cowan Bridge, e il signor Carus Wilson, dico io! E la signorina Anna Evans [la signorina Temple di Jane Eyre]»447. I ritratti sono fedeli, e Carus Wilson «meritava quella punizione».
Charlotte raccontò l’accaduto a William Smith Williams, il suo contatto alla casa editrice Smith, Elder. «Non ha riconosciuto Currer Bell», disse compiaciuta, «che autore sarebbe senza il vantaggio di poter camminare invisibile per le strade?».
Ora che Jane Eyre circolava vicino casa, Emily e Anne insistettero perché Charlotte rivelasse al padre la propria identità di autrice. Tre mesi dopo la pubblicazione, lei si avventurò a disturbarlo nel suo studio.
«Papà, ho scritto un libro».
«Ah sì, cara?», rispose lui continuando a leggere.
«Papà, però voglio che tu lo veda».
«Non ho tempo di leggere un manoscritto».
«Ma è stampato».
«Spero che non ti sia impegnata in qualche spesa inopportuna».
«Credo che ci guadagnerò dei soldi. Posso leggerti alcune recensioni?»448.
Le lesse al padre, poi gli chiese, ancora una volta, se volesse vedere il libro.
Lui rispose che poteva lasciarlo nello studio, ci avrebbe pensato.
Quello stesso giorno inviò alle figlie un insolito invito per il tè, e verso la fine del pasto disse: «Bambine, Charlotte ha scritto un libro – e credo sia migliore di quanto mi aspettassi».
Perché si aspettava così poco? Non aveva consapevolezza del talento delle figlie? Non osarono parlargli dei romanzi, poco apprezzati, di Emily e Anne, pubblicati due mesi dopo quello di Charlotte. Forse non seppe nulla delle loro pubblicazioni fino all’autunno del 1850, quando Sir William Smith Williams propose una nuova edizione di Cime tempestose e di Agnes Grey a cura di Charlotte: per lei fu l’occasione per dare al padre la notizia che in famiglia c’erano altre scrittrici. Questa indifferenza per le doti intellettuali delle figlie è il retroscena domestico in cui Charlotte concepì la figura del reverendo Helstone, un formidabile detrattore delle donne in Shirley, il suo successivo romanzo, che solleva la questione femminile.
Ai suoi editori rimaneva sconosciuta. Entrare finalmente a far parte della vita della metropoli era stato a lungo il suo sogno449, eppure lo rinviò. Rifiutò di presenziare a un adattamento teatrale di Jane Eyre portato in scena nel febbraio del 1848: «Non è nelle mie facoltà», rispose. Mentre la sua fama cresceva e Jane Eyre vedeva una seconda e poi una terza edizione, disse a mo’ di scusa che ancora le restava tanto lavoro da fare prima di potersi concedere un magnifico «premio» come una visita a Londra.
Sapeva bene che l’ingresso in società l’avrebbe distolta dall’occupazione principale della sua vita: scrivere. Il suo era un approccio pragmatico, non un gesto di solitudine romantica. Smaniosa, come aveva ammesso di essere, del fermento della vita pubblica nel mondo al di là delle brughiere, perseverò nel suo isolamento; in parte perché aveva intenzione di iniziare un nuovo romanzo, in parte perché l’esposizione rappresentava una sfida per la quale non si sentiva ancora pronta. Nel frattempo, strinse il legame con i suoi editori attraverso una fitta corrispondenza. Ogni lettera dava prova del suo carattere, del suo gusto, dei suoi valori: prese una posizione critica nei confronti dei moti rivoluzionari del 1848 in Francia; espresse ammirazione per le qualità della sopportazione e del duro lavoro e apprezzamento per La fiera della vanità (che giunse in quel momento all’ultima uscita), per Pittori moderni di Ruskin e per le lettere del saggista Charles Lamb (1775-1834). Era sempre più costernata per i crescenti disturbi di Branwell, perciò rimase colpita dalla scelta di Lamb di vivere con una sorella che soffriva di periodiche crisi di follia. Non esitò a ignorare i biglietti di meri «scrivani», come George Henry Lewes. In questo modo, prima di esporre all’inevitabile giudizio pubblico la sua bocca un po’ storta e la sua scarna figura, decise lei in che termini farsi conoscere. Per un po’ tenne in vita l’incorporeo Currer Bell, che adoperava la sua voce maschile con sicurezza e confidenza, tanto che disse: «Ce ne vuole per abbattermi»450.
Solo all’inizio del luglio 1848 Charlotte, accompagnata da Anne, si avventurò a Londra. Soggiornarono alla Chapter Coffee House in Paternoster Row, una pensione rivestita di pannelli di legno e dai bassi soffitti che nel XVIII secolo era stata un luogo di ritrovo per Samuel Johnson, Thomas Chatterton e Oliver Goldsmith, e poi la base di accademici e prelati di passaggio a Londra. Anche il signor Brontë aveva soggiornato lì trent’anni prima, ma il luogo non era considerato adatto a delle signore451. Qui, nel febbraio 1842, Charlotte (accompagnata dal padre, Emily, Mary e Joe Taylor) aveva atteso la nave postale diretta in Belgio. Al primo piano, in una misera stanza spersa nel labirinto di corridoi, aveva udito a mezzanotte i rintocchi della grande campana della chiesa di St Paul, «carichi di flemma e forza colossale! Dalla piccola stretta finestra di quella camera vidi per la prima volta la cupola balenare, attraverso la foschia di Londra»452. In quei tre giorni erano saliti sulla cupola e avevano contemplato la distesa della città, il fiume, i ponti, le chiese, e Charlotte aveva ammirato quanti più dipinti possibile prima di salpare dal molo del Ponte di Londra453. Di nuovo nella capitale, sei anni e mezzo dopo, in una mattina d’estate del 1848, Charlotte e Anne fecero la loro celebre quanto inaspettata visita alla Smith, Elder & Co.
La prima preoccupazione fu quella di fare chiarezza sulle loro identità. Nel giugno del 1848 Anne aveva pubblicato Il segreto della signora in nero, un romanzo in cui – nonostante il tentativo di dissuasione di Charlotte – aveva tracciato un eloquente ritratto dell’alcolismo e della perdita di senno del fratello. Come disse Charlotte: «Era stata a lungo costretta ad assistere, a distanza ravvicinata, ai terribili effetti dello spreco di talento e dell’abuso delle proprie facoltà [...] Quello che vide si depositò in profondità nella sua mente [...]. Credeva fosse suo dovere riprodurne ogni dettaglio [...]. Doveva essere onesta, non doveva edulcorare, ammorbidire o nascondere»454. Il romanzo racconta la vita di un uomo con simili problemi e di sua moglie, le cui segrete sofferenze sono esacerbate da leggi che non le garantiscono alcun diritto, nemmeno quello sul proprio figlio. Quando incontriamo Helen Huntingdon, lei ha appena lasciato il marito e vive, calma e determinata, sotto mentite spoglie a Wildfell Hall: gli orrori del suo matrimonio vengono raccontati in un lungo flashback attraverso il diario che presta a Gilbert Markham, il quale diventa suo amico, si innamora di lei e alla fine, dopo la morte del marito, la sposa. Il dettagliato resoconto di quanto provato da una donna di sani principi morali costretta a convivere con un uomo diabolico e la contestazione della debole posizione legale delle donne sposate (un problema di cui il parlamento non si sarebbe occupato fino agli anni Cinquanta dell’Ottocento) assicurarono al romanzo un immediato succès de scandale, nonostante – o forse grazie a – critiche molto severe. Divenne il libro più richiesto dopo Jane Eyre.
Proprio quando tutto lasciava pensare che sarebbe diventato un bestseller, lo spregiudicato signor Newby, editore di Ellis e Acton Bell, dichiarò pubblicamente che Acton era l’autore di Jane Eyre, e cercò di vendere Il segreto della signora in nero all’azienda americana Harper Brothers spacciandolo per il nuovo romanzo di Currer Bell. In altre parole, stava sostenendo che i tre Bell scrittori fossero in realtà un’unica persona. George Smith, che aspettava da Currer Bell la consegna di una nuova opera, gli scrisse per sapere se fosse o meno l’autore di Il segreto.
Indignate per l’inganno di Newby, Charlotte e Anne avevano camminato per quattro miglia sotto una tempesta, superato file di casette di pietra sovrastate da fabbriche, fino a raggiungere la stazione di Keighley. Da lì, avevano poi «turbinato» fino a Londra col treno notturno in partenza da Leeds. Arrivarono alla Chapter Coffee House (non sapevano dove altro andare) alle otto del mattino circa, si lavarono, fecero colazione e uscirono per andare a rivelare la loro identità «con dentro una strana eccitazione»455. Erano determinate a smascherare Newby una volta per tutte con una prova tangibile e inconfutabile. Ellis Bell aveva preferito rimanere a Haworth, così furono due Bell, non tre, a presentarsi con i loro abiti cuciti a mano e il volto pallido e affaticato al numero 65 di Cornhill, la sede della casa editrice.
Al momento del loro arrivo, George Murray Smith era preso da una corrispondenza con l’India. Si mostrò sorpreso dalla visita di due signore che non avevano voluto dire i loro nomi. Come avrebbe potuto mettere in relazione l’impeto di Jane Eyre e i monolitici giudizi delle lettere di Bell con quella trentaduenne timorosa e minuta, piuttosto insolita nel suo stile fuori moda, che osservava attraverso le lenti degli occhiali l’uomo alto e raffinato uscito dal suo ufficio per saperne di più?
«Ha chiesto di vedermi, signora?», domandò educatamente.
«Lei è il signor Smith?».
«Sì, sono io».
Senza aggiungere altro, gli porse la lettera che lui stesso aveva scritto a Currer Bell. L’uomo la guardò, poi guardò lei, poi di nuovo la lettera, poi ancora lei.
«Dove l’ha presa?», le chiese bruscamente.
«All’ufficio postale. Era indirizzata a me». Charlotte scoppiò improvvisamente a ridere di fronte all’espressione confusa dell’uomo. Era il suo momento. «Siamo tre sorelle», esclamò, dimenticando, mentre compiva il salto nella sfera pubblica, che Ellis Bell aveva rifiutato di prendere parte a quella rivelazione456.
In tutta fretta, il signor Smith chiamò William Smith Williams457, un uomo mite e un po’ curvo di quarantasette anni, che strinse a lungo la mano delle Brontë senza proferire parola. Comprese meglio del suo datore di lavoro il loro desiderio di segretezza. Il signor Smith, concitato, faceva già piani: «Dovete permettermi di presentarvi a mia madre e alle mie sorelle. Quanto vi fermate a Londra? Dovete sfruttare al meglio il vostro tempo in città. Stasera non potete non andare all’opera italiana, e dovete vedere la mostra [alla Royal Academy]. Il signor Thackeray sarebbe felice di incontrarvi. Se il signor Lewes sapesse che “Currer Bell” è in città! Gli andrebbe tenuta a freno la lingua. Li inviterò entrambi a cena a casa mia».
Charlotte lo interruppe, dicendo con aria grave che lei e sua sorella avevano la ferma intenzione di preservare il proprio anonimato: «Ci siamo rivelate soltanto al mio editore. Per il resto del mondo dobbiamo restare “gentiluomini”, come è stato finora».
Il signor Smith sulle prime non si arrese a questo cauto piano. Propose di portarle in incognito a un party letterario, le avrebbe presentate come «cugine venute dalla provincia».
In seguito Charlotte raccontò a Mary che il desiderio di vedere dal vivo alcuni dei personaggi di cui parlava l’editore «si accese con forza dentro di me – ma quando scoprii, facendo ulteriori domande, che il signor Smith non poteva spingersi a invitare uomini del calibro di Thackeray con così poco preavviso e senza dargli un indizio di chi avrebbero incontrato, rifiutai anche questo – ebbi la sensazione che sarebbe finito con una sorta di nostra messa in mostra – qualcosa che ho sempre voluto evitare».
La rapida fama conquistata da Currer Bell, le speculazioni sull’identità dello scrittore, la segretezza, il rinvio della visita a Londra, le modeste signore di campagna che apparivano dal nulla e chiedevano del capo senza nemmeno spiegare cosa volessero: erano tutti ingredienti teatrali. Eppure, il loro debutto in pubblico coesisteva con una scena che rimase in ombra. In privato, Charlotte e Anne non rivelarono affatto se stesse.
Mostrarono soltanto la loro immagine pubblica, l’immagine a lungo provata delle governanti: Charlotte, ritrosa e guardinga; Anne, quieta e silenziosa. In questo senso, rimasero oscure quanto prima. Il resoconto di questo incontro, che ha appassionato i lettori per oltre un secolo e mezzo, è dato solo da ciò che George Smith ebbe modo di vedere, affiancato dalla versione comica offerta da Charlotte (in una lettera a Mary) di ciò che egli vide .
George Smith aveva una carnagione olivastra, basette scure e curate e occhi ugualmente scuri e sinceri, rapidi nel passare da un volto all’altro, ma piacevolmente allegri. Era un uomo energico e loquace – l’unico a parlare quando le sorelle Brontë si sedettero di fronte a lui. Quello che lui stesso definiva «uno spirito malizioso» lo aveva portato, da ragazzo, a entrare nella Row Society della Blackheath School, dove il suo obiettivo era stato quello di provocare quanti più disordini e liti gli fosse possibile. Era stato espulso dalla scuola ed era entrato abbastanza presto nella casa editrice di proprietà del padre. Lì, sebbene sicuro delle proprie capacità di uomo d’affari, era roso da un tormento: l’intima convinzione che «sarebbe potuto diventare uno studioso», rafforzata in seguito, nel corso della vita, dai profondi legami di amicizia che strinse con numerosi scrittori. Nei due volumi della sua biografia, Recollections of a Long and Busy Life, torna su queste relazioni descrivendole come i «tratti più felici e caratteristici della mia esperienza professionale»458. Soffriva di un’«insicurezza costituzionale» di fronte a uomini di mondo come Thackeray, ma era tutt’altro che timido con le autrici donne, che, incerte per via della loro posizione pubblica, gli lasciavano corda per i suoi entusiasti incoraggiamenti.
Il padre di George Smith era stato uno scozzese integerrimo – troppo poco attento alle cose materiali, lascia intendere il figlio, per avere successo negli affari. Dopo un periodo con John Murray, nel 1816 George Smith padre mise in piedi un’attività di rivendita di libri e articoli di cancelleria. Il suo socio, il signor Elder, che si lanciò nell’editoria nel 1819, era discontinuo nei suoi sforzi e dotato di scarso giudizio: non appena aveva successo con un libro si metteva a pubblicare qualunque cosa gli venisse proposta, strategia che ovviamente dava luogo a una marea di disastri; poi, per un po’, non pubblicava più nulla. Il giovane George era smanioso di dedicarsi all’editoria e, prima di compiere vent’anni, persuase il padre a dargli 1.500 sterline per vedere di cosa sarebbe stato capace. Poco dopo, nel 1844, il padre si ammalò (morì nel 1846) e il signor Elder si ritirò dalla società. Quindi, appena ventenne, George Smith si ritrovò a capo dell’azienda, con madre, fratelli e sorelle a carico. Si dedicò al lavoro con zelo, sostenuto dalle costolette di montone e dal tè verde sorbito a intervalli regolari, ma soprattutto da una madre devota, che lo aveva viziato quanto bastava per fare di lui una persona felice e sicura di sé. Da giovane era stato assai gracile, e tuttora non poteva dirsi un uomo vigoroso – ansimava di frequente –, ma, determinato a diventare forte, si era iscritto a un corso di equitazione che, a sua detta, sortiva l’effetto desiderato. Era tipico del suo ottimismo e della sua indole vedere un problema da subito in termini di possibili soluzioni, e metterle in pratica all’istante, attendendone il risultato. Se incappava in valutazioni errate, se le lasciava alle spalle con una certa indifferenza, senza rimuginarci o colpevolizzarsi troppo. In questo modo non rischiava di sprecare energie, ma non appariva mai molto motivato – trovava sempre il tempo per una cena o un ballo, ed era deliziato dallo spirito umoristico che animava il Museum Club, dove imparò a superare la timidezza ed esercitò la sua attitudine all’aneddoto. Dunque, un uomo gioviale, socievole, garbato, mai avventato – una persona capace di sconfiggere le avversità con un sorriso.
L’azienda che aveva ereditato aveva pubblicato un annuario all’epoca in gran voga intitolato «Friendship’s Offering», l’Illustrations of the Zoology of South Africa di Sir Andrew Smith, i volumi di Leigh Hunt, e il Diario di un naturalista giramondo di Darwin (1839). Uno dei primi successi di George Smith fu la pubblicazione di Pittori moderni di Ruskin (il primo volume uscì nel 1843, il secondo nel 1846); un altro fu Astronomical Observations made at the Cape of Good Hope (1846) di Sir John Herschel. In questa fase, l’azienda aveva interessi finanziari e gestiva esportazioni a Calcutta, la principale piazza dove aveva operato un altro socio, Patrick Stewart, il quale nel tempo si era indebitamente appropriato di circa 30.000 sterline. A George Smith occorsero sette o otto anni di dure battaglie legali per riuscire a salvare la società; ma più in là Charlotte lo avrebbe descritto in Villette (lui non ebbe alcuna difficoltà a riconoscersi) come una sorta di valoroso combattente – un campione attraente con una pronunciata fossetta sul mento che, agli occhi di lei, era il massimo del fascino maschile.
Aveva solo ventiquattro anni quando incontrò Charlotte Brontë, ma già mostrava la capacità di giudizio e il senso pratico che l’avrebbero reso l’editore di spicco dell’era vittoriana: Thackeray, Hawthorne, Elizabeth Gaskell, Matthew Arnold, Ruskin, George Eliot e Browning furono tra i suoi autori. Nel 1860 fondò inoltre la più avanzata delle riviste letterarie, «The Cornhill», inizialmente diretta da Thackeray, in seguito da Leslie Stephen, che pubblicò Hardy e Henry James. Infine, nel 1882, avviò la pubblicazione del Dictionary of National Biography, di cui Leslie Stephen fu primo curatore.
Diede prova di precoce fiuto accettando, senza alcuna esitazione, di pubblicare Jane Eyre, l’opera di un autore sconosciuto, e assumendo un lettore raffinato come William Smith Williams, il solo a scorgere le potenzialità del manoscritto di Il professore. Williams aveva svolto il suo apprendistato presso gli editori di Coleridge e Keats, Taylor and Hessey (era stato proprio Williams ad accompagnare Keats al porto quando aveva lasciato l’Inghilterra nel 1820). Ormai sulla mezza età, Williams, che manteneva un famiglia numerosa – e, a detta di Charlotte, piuttosto cupa – si era ridotto a lavorare come contabile alla Hullmandel and Walter, l’azienda di litografie che aveva stampato le illustrazioni del Beagle di Darwin. Nella contabilità il signor Williams era una frana, ma Smith vide in lui un uomo dal gusto solido (recensiva, soprattutto opere teatrali, per lo «Spectator», l’«Athenaeum» e altri settimanali), sprecato in un lavoro per cui non era tagliato. Smith ebbe l’intuizione di selezionarlo come consulente letterario per la sua casa editrice. Williams mantenne quel posto per trent’anni.
La forza di Smith, come disse egli stesso459, era la capacità di valutare le persone, unita al talento per le decisioni rapide. Possedeva anche il dono di saper ascoltare e di avere la risata facile.
Ma quanto a donne, l’editore era un uomo decisamente vittoriano: aveva un debole per le dolci bambole con i cappelli piumati460. All’inizio fu colpito dalla desolata mancanza di fascino femminile di Charlotte; non poteva immaginare che lei non se ne curasse affatto. La testa sembrava troppo grande rispetto al corpo; aveva begli occhi ma la bocca e l’incarnato rendevano il suo volto nel complesso poco grazioso. Notò che aveva «piedi piccoli e ben fatti» e «la vita troppo sottile», intendendo dire che il busto era allacciato troppo stretto, o almeno così pensava. Agli occhi di George Smith, quella donna appariva pietosa461. Fu questa figura a palesarsi a Cornhill e, a sei miglia di distanza, al numero 4 di Westbourne Place, nella sala da pranzo degli Smith, oltre che all’elegante rappresentazione di Il barbiere di Siviglia: una creatura bizzarra, minuta, in un vestito a collo alto dall’aria campagnola – «clownesca»462, disse Charlotte a Mary –, che saliva il tappeto rosso della scala dell’Opera accanto a Eliza e Sarah Smith e al loro «distinto, affascinante» fratello maggiore, in completo da sera e guanti bianchi, mentre le donne di città, nei loro splendidi abiti scollati («come noi non ne avremo mai», commentò Charlotte), guardavano le Brontë con garbato senso di superiorità indugiando sulla soglia del palchetto. Era una scena degna di Elizabeth Hastings, che rimane trionfalmente in ombra nello scintillio della società.
«Ho sorriso dentro», confidò Charlotte a Mary, «mi sentivo piacevolmente emozionata». Il giorno dopo fu nuovamente e segretamente divertita quando il signor Smith le andò a prendere con sua madre, donna raffinata e di bell’aspetto, per portarle a cena a casa sua. Né la signora Smith né le sue figlie sapevano chi fossero le due ospiti e, come disse Charlotte, «la loro strana perplessità sarebbe stata ridicola se qualcuno avesse avuto il coraggio di ridere. Venir condotte in una zona della città nelle cui oscure strade, dissero, non si erano mai avventurate, e giungere a un vecchia locanda, cupa e dall’aria strana, per far salire nella loro elegante carrozza una coppia di donne di campagna dall’aspetto bizzarro e vedere il loro raffinato e affascinante fratello e figlio trattare con ossequioso riguardo queste insignificanti zitelle deve averle lasciate profondamente interdette».
Come ulteriore copertura, Charlotte insistette che venisse adoperato un nuovo pseudonimo: George Smith avrebbe dovuto presentare lei e Anne come «le signorine Brown». La protezione era garantita da un’impenetrabile insignificanza e da una muta modestia. Tale immagine si rivelò del tutto convincente, sia per la loro epoca che per la successiva leggenda. In breve, la donna visibile e l’invisibile autore diventarono, da quel momento, due entità distinte. La passione e il vigore che erano proprie dell’autore, ma inaccettabili in una donna, furono velate dalla menzogna.
Chiuse nell’anonimato, in soggezione per l’eleganza dell’appartamento degli Smith e della cena domenicale, le due sorelle si sentirono goffe e a disagio. Nessuna di loro riuscì a mangiare, ed entrambe furono sollevate quando la serata giunse al termine. Cenare a Londra si era rivelato di una noia mortale, concluse Charlotte.
In questo senso, Charlotte rafforzò il suo mascheramento assumendo una posizione antimetropoli che risaliva agli anni Trenta dell’Ottocento. Questa posizione diffusa trovava origine nelle Sacre Scritture. Londra era «Babilonia» o «Ninive»463, un luogo di scintillante superficialità, di contaminazione, di inautenticità, al quale Charlotte non avrebbe concesso nulla, davvero nulla, del suo autentico io. Caroline Vernon, nell’omonima novella scritta da Charlotte, mostra un «salutare sdegno»464 per la società e la attraversa coltivando il segreto senso di superiorità di coloro che sono cresciuti in un ambiente protetto, che spesso «sanno [...] che sarebbe uno svilimento [...] offrire la propria reale natura e i propri autentici sentimenti anche solo a una rapida occhiata dei convenuti casualmente riuniti a un ballo». Per molti anni, l’unica conoscenza che Charlotte aeva avuto della società era stata quella di un’istitutrice, alla mercé dello snobismo di provincia. Alcuni dei momenti per lei più penosi avevano avuto luogo nei salotti pieni di volti sconosciuti: «In certi momenti, il mio istinto animale era quello di svanire gradualmente fino a scivolare via, e quando non potevo sopportare oltre quel senso di [...] solitudine, mi muovevo furtiva, così felice di trovare un angolo dove poter essere davvero sola»465. In questi angoli aveva concluso che la società «capovolgeva»466 la natura. Per i mondani, la menzogna era verità, la verità menzogna. In tutti i gruppi, in qualsiasi circolo, scientifico, politico o religioso, le persone erano costrette a «mutare la verità in affettazione. Vivendo all’interno di una cerchia, credo, gli individui devono in qualche misura scrivere, parlare e pensare in funzione di tale ristretto gruppo. È una necessità tanto essenziale quanto fastidiosa»467. Per Charlotte, la propria voce era tanto più potente quanto più si teneva distante dalle mode del momento, per questo era arrivata a Londra preparata a proteggersi dalle influenze esterne.
«Ellis [...] si allontanerebbe presto, disgustato dallo spettacolo»468, disse Charlotte. «Non penso che si rispecchi nel credo secondo cui “l’oggetto di studio dell’umanità è l’uomo”469 – almeno non l’uomo artificiale che popola le città». In rapporto alla metropoli, lei e sua sorella Emily – riteneva Charlotte – avevano preso «strade diverse». Nonostante condividesse il «disgusto» di Emily e tenesse in alta considerazione l’autosufficienza propria del genio, sebbene non fosse disponibile a concedere nulla di sé alla grande città, desiderava qualcosa da essa: l’arte, i teatri, il dibattito pubblico. L’incontro con le persone sofisticate era una prova da sostenere per avere materiale di cui scrivere. Voleva guardare in faccia il Lettore con il quale si sentiva in profonda intimità, vedere di persona gli eventi del suo tempo. Invidiava gli scrittori di città, Dickens e Thackeray, la facilità con cui avevano accesso alla “condizione inglese”. Lasciandosi alle spalle le questioni personali e assolute di Jane Eyre, imboccò la strada dell’impegno nelle grandi questioni pubbliche del secolo: le rivolte industriali e la questione femminile. Il costante rifiuto di Emily di confrontarsi con l’arena pubblica parve a Charlotte «più coraggioso che concreto». Per tenere la sorella al passo con i discorsi e i gusti dell’epoca, riportò da Londra una copia dell’ultima opera di Tennyson, La principessa (1847). La reazione di Emily ci è sconosciuta, ma quando più tardi Charlotte disse alla signora Gaskell di non essere particolarmente interessata a Tennyson, potrebbe aver ripreso l’opinione della sorella.
Per Charlotte la celebrità – a quanto riferito da Mary – era un «passaporto per la società delle persone intelligenti»470. Ora gli uomini intelligenti scrivevano a Currer Bell. E lei era determinata a imparare da loro, e su tutti dal suo beniamino, Thackeray (1811-1863), che aveva iniziato a farsi un nome come scrittore nel corso degli anni Quaranta dell’Ottocento. Alla fine degli anni Trenta era stato, tra mille difficoltà, giornalista e studente d’arte a Londra e Parigi. Agli inizi del decennio successivo aveva scritto con gli pseudonimi di Michael Angelo Titmarsh e George Savage FitzBoodle – FitzBoodle era il “curatore” di Le memorie di Barry Lyndon (1844). Nel 1847 il suo romanzo più importante, La fiera della vanità, iniziò a essere pubblicato in puntate mensili, con illustrazioni dello stesso autore. Nel biennio 1848-50 seguirono Pendennis e una serie di libri natalizi. Thackeray spese parole calorose per Jane Eyre: «Le scene d’amore mi hanno fatto piangere»471, con buona sorpresa del suo domestico, John, che lo trovò in lacrime entrando nella stanza con i carboni per la stufa. Thackeray affermò che da tempo non leggeva un romanzo inglese così bello. Quando Charlotte si permise di dedicare proprio a lui la seconda edizione, Thackeray scrisse in risposta che si trattava del più grande omaggio che avesse mai ricevuto nella sua vita. Sulle prime, ebbe la delicatezza di non fare riferimenti all’imbarazzo che la cosa gli creava; più in là si prese la briga di spiegare la situazione472: sua moglie, Isabella, soffriva di patologie mentali dal 1940, in seguito al parto, ed era stata rinchiusa in un ospizio. La dedica fu all’origine della diceria secondo cui il romanzo di Currer Bell era in realtà opera dell’istitutrice delle due figlie di Thackeray. Ma, a dire il vero, Thackeray aveva ben altri problemi a cui pensare: dal 1841 era sempre più legato sentimentalmente a Jane Brookfield, la moglie di un suo vecchio amico del periodo di Cambridge. Per Charlotte, tuttavia, contava solo il desiderio di imparare da Thackeray, così come da ogni altro maître: l’irrefrenabile, urgente necessità di continuare a crescere.
Charlotte aveva invidiato la «tranquillità»473 della conclusione di La fiera della vanità. In ciò si manifestava ancora una volta il desiderio di tenere a freno la propria irruenza. Annotò che La fiera della vanità scorreva verso un finale che rimaneva «tranquillo come una riflessione, tranquillo come un ricordo». Il genio di Thackeray era al «servizio» del suo padrone – non divagava in fantasiose svolte narrative ispirate da un estro selvaggio. Charlotte aveva scritto queste parole dopo che un recensore, Lewes, aveva criticato il suo romanzo definendolo un «melodramma»474. Sensibile a tale indicazione, aveva deciso di votarsi, nel romanzo successivo, al realismo sociale. Al centro della storia ci sarebbero state le rivolte operaie nel nord dell’Inghilterra. Il suo primo progetto, un libro chiamato John Henry475, era un tentativo di rielaborare la scena iniziale di Il professore adottando lo stile più distaccato di La fiera della vanità. Quest’opera incompiuta si apre con un lungo litigio tra due sposini, un arrogante costruttore e la moglie svampita. Nessuno dei due, ci viene detto da una satirica voce narrante, riuscirà a guadagnarsi un briciolo della nostra simpatia. Si stanno incamminando nella vita coniugale con un ben assortito desiderio di ricchezza e potere. Tali mire sono silenziosamente sfidate dall’arrivo di un fratello povero e migliore, come Crimsworth, ovvero il John Henry del titolo.
Arrivata al terzo capitolo, Charlotte mise da parte John Henry. Il progetto di fondere Il professore con Thackeray fu uno di quei fallimentari tentativi – avrebbe detto più in là – per cui era passata ogni volta prima di arrivare a un nuovo romanzo. Il litigio degli Helstone (questo il nome della giovane coppia) è abbastanza credibile, ma troppo prevedibile. A sopravvivere, di John Henry, è la svolta verso la verità documentaria: «Ti sta davanti qualcosa di assai concreto, di freddo e solido. E di così poco romantico come un lunedì mattina»476. Se fosse riuscita a controllare la propria fantasia, come ammoniva Lewes, si sarebbe lasciata alle spalle, finalmente e una volta per tutte, le crisi e gli eccessi di Branwell, il suo doppio.
Dal 1846 in poi le comunicazioni tra lei e Branwell si erano praticamente interrotte. Quando gli si rivolgeva, lui sembrava spesso non prestarle ascolto e non si scomodava a risponderle477. Così per Charlotte era diventato quasi intollerabile trovarsi nella stessa stanza con il fratello. Quando la salute di Branwell peggiorò, lei continuò a mostrare scarsa compassione, al contrario di Emily. Laddove Charlotte vedeva «una vita di perversione», Emily (agli occhi della sorella) vedeva «la pecorella smarrita»478. Le somiglianze tra Charlotte e Branwell479 – la figura snella, la fronte ampia, superba480, la suscettibilità alle passioni proibite, oltre al duraturo legame immaginativo che li aveva uniti – rendevano la scrittrice ancora più ansiosa di distinguersi da lui. Dinanzi a lei, giorno dopo giorno, c’era un esempio dell’«inadeguatezza del solo genio a condurre alla reale grandezza senza l’ausilio della religione e dei principi»481.
Il 1848, l’anno dei moti rivoluzionari in Europa, fu anche l’anno in cui l’atteggiamento di Charlotte si fece più radicale. «Spesso desidero dire qualcosa sulla questione della condizione femminile», riferì a William Smith Williams, «ma è un tema sul quale sono state pronunciate così tante ipocrisie che si prova una sorta di repulsione ad affrontarlo»482.
Mary, l’unica altra persona per la quale Currer Bell non era invisibile, la esortò, come sempre, del resto, verso la svolta radicale: «Il mondo è stato così buono con te che non hai niente da recriminare di fronte alle sue assurdità?[...] Ti farò una bella ramanzina non appena ci vedremo»483.
Allo stesso tempo, Charlotte risentì dell’impatto delle critiche sul suo repertorio tematico «piuttosto scarno»484. George Henry Lewes aveva scritto: «Lei ha quasi tutto ciò che pretendiamo da un romanziere: la comprensione del personaggio e la capacità di delinearne le caratteristiche; la suggestività, la passione e la conoscenza del vivere»485. Lewes sembrò cogliere il talento di Charlotte nel creare una storia d’amore a partire da esperienze reali. Ma le successive lettere indirizzate a Currer Bell furono più pungenti. Tutti i maggiori romanzieri inglesi del tempo, Thackeray, Dickens, e più tardi George Eliot, avevano riconosciuto la stoffa di Charlotte, eppure in questa corrispondenza dovette difendersi dalla voce dell’establishment critico, o almeno così le sembrò. Botta e risposta, Lewes e Charlotte Brontë discussero del romanzo ideale proprio nella fase in cui la seria critica romanzesca iniziava a vedere la luce, proposta da trimestrali e mensili di cui Lewes era il recensore di punta, come il «Fraser’s Magazine» in un primo momento e, più tardi, la «Westminster Review» e il settimanale «Leader». Laddove Lewes aveva il vantaggio della visibilità – una sicurezza pubblica impensabile per una “signora” –, Charlotte Brontë aveva quello di essere una riconosciuta professionista.
Nel 1848, il primo Lewes appariva leggermente differente dal solidale “marito” di George Eliot, che in seguito avrebbe scritto una pregevole Vita di Goethe (1855) e si sarebbe dedicato con interesse alla fisiologia e alla psicologia: nella fase iniziale della sua carriera diede prova di talenti incredibilmente variegati quale drammaturgo comico, attore e saggista, oltre a scrivere una celebre storia della filosofia e un romanzo ispirato a Goethe intitolato Ranthorpe (1847). Lui e sua moglie, Agnes Jervis, erano seguaci della concezione dell’amore libero propugnata da Shelley (un anno più tardi, Lewes avrebbe accettato la decisione della consorte di scegliere il migliore amico di suo marito, Thornton Hunt, come amante). Lewes era anche solito cimentarsi nei violenti duelli verbali tanto amati, agli albori dell’epoca vittoriana, dai membri del Museum Club, dove gli uomini s’intrattenevano a vicenda con aneddoti sulle personalità pubbliche. Qui il critico sfoggiò le sue capacità attoriali, dando prova di saper imitare dialetti e gesti con un’accuratezza che lo rese molto popolare. Era spesso paternalistico con le donne (come quando dichiarò che le migliori scrittrici erano «seconde solo ai migliori uomini della loro epoca»486) e, avendo indovinato che Currer Bell era una donna, decise di mettersi nella posizione di primo consigliere. La incitò così a mettere da parte la veemenza in favore di uno studio distaccato dei comportamenti, sul modello di Jane Austen.
Quando l’immaginazione «è eloquente e parla rapidamente e urge alle nostre orecchie», chiese Charlotte, «non dobbiamo trascrivere ciò che ci detta?»487. Indicandole come modello (impropriamente) i «miti occhi» di Jane Austen, Lewes consigliò a Currer Bell di «rifinire di più e mitigare le tinte»488.
Inizialmente, Charlotte reagì con una cautela quasi apprensiva. Il consiglio di Lewes non era molto diverso da quello che le aveva dato Southey, ormai più di dieci anni prima. Fino a che punto quell’indicazione l’aveva portata a scrivere un romanzo freddo «come un lunedì mattina»? Quando lesse Orgoglio e pregiudizio, Charlotte pensò che il libro avesse bisogno di un po’ di «aria fresca», natura, poesia. Quando terminò la lettura di Emma, concluse che «le Passioni sono del tutto sconosciute» alla signorina Austen – «ciò che palpita rapido e furioso, seppur nascosto, ciò in cui scorre il sangue, l’invisibile sede della vita»489. Riconosceva alla signorina Austen «un chiaro senso comune e una sottile sagacia. Se non si trova ispirazione nella sua pagina, non vi si troverà nemmeno verbosità»490. Ma le preferiva George Sand, in particolare Consuelo (1842), per il suo «intuito». Di Sand ammirava anche le Lettere di un viaggiatore, «tipiche del carattere di questa autrice»491. Si identificava con una mente in grado di mettere in parole anche la tragedia e tramutare la sofferenza in un’arte capace di innalzarsi nonostante i colpi subiti, così che «più lunga sarà la sua vita, più crescerà la sua maturità». Il ritratto che Charlotte offre di George Sand è in pratica un autoritratto. La sua insistenza sull’«Io» e la sua opposizione492 a Jane Austen devono essere poste nel giusto contesto. Lewes era ricorso a un modello di moderazione per contrastare la voce appassionata di Charlotte Brontë, di fatto il suo pregio distintivo. Era il tipico caso di lettore-maestro che conosce un’unica strada che conduca all’eccellenza. Jane Austen era l’erede della moderazione augustea; Charlotte Brontë delle tradizioni romantiche e gotiche. Ponendo Jane Austen in contrapposizione a Charlotte, per così dire, Lewes si stava basando su categorie superate del criticismo, senza vedere la comune convergenza delle due autrici verso ciò che delle vite rimane celato. Charlotte non comprese i lavori più sfumati di Jane Austen, come Ragione e sentimento, Mansfield Park e Persuasione, ma se avesse colto le grida soffocate di Marianne nel momento in cui la sua passione viene repressa, se avesse letto ciò che rimane non detto nel silenzio di Fanny Price o nei remoti recessi emotivi di Anne Elliot, se avesse sentito Anne Elliot parlare di «gioia priva di senso» in Persuasione, se fosse stata testimone del suo sacrificio al decoro con la pena nell’anima, avrebbe potuto riconoscere un terreno comune. Sarebbe toccato a Virginia Woolf riaccostare le due scrittrici, nel 1909, quando osservò che le romanziere del XIX secolo «svelarono il segreto che la materia preziosa di cui sono fatti i libri risiede in un solo luogo: nei salotti e nelle cucine dove vivono le donne»493.
Nella lettera successiva, Lewes metteva in guardia dal «sentimento», dall’eloquenza e dall’«entusiasmo della poesia». Non c’è modo di sapere fino a che punto il tentativo di oggettività e distacco in Shirley sia stato influenzato da simili critiche, che si sovrapposero alla latente paura nutrita da Charlotte di incappare nelle stranezze di Branwell. Il crescente fervore delle risposte di Charlotte a Lewes, sia scritte che formulate tacitamente, fa capire quanto in profondità le osservazioni del critico avessero colpito la sua arte; quanto difficile fosse, in pratica, opporsi a tali convinzioni. Nelle sue repliche non cedette terreno: Charlotte rivendicò la concezione della poesia come «dono divino»494. Replicò definendo il sentimento così come lei lo comprendeva: «sentimento» significava «profonda sensibilità» per la propria specie. E lei l’avrebbe avuta. Allo stesso tempo, si spinse a giudicare Lewes (sicura che lui non l’avrebbe riconosciuta in quanto donna). Ranthorpe, gli scrisse, da uomo a uomo, non era pienamente riuscito. Currer Bell avrebbe atteso il suo successivo romanzo per verificare fino a che punto Lewes stesso si sarebbe attenuto ai propri principi e avrebbe messo in pratica le proprie teorie495.
Nei mesi successivi Charlotte inviò repliche taglienti a Lewes, mentre lottava con le sue critiche: «Fino a qui ha dato prova di una capacità di giudizio efficace e precisa», gli disse velatamente, «ma io penso che sia limitata [...]. Riesce ad arrivare fino a un certo punto, signor Lewes, ma non oltre. Sia scettico quanto vuole su qualunque cosa si trovi al di là di un certo limite intellettuale; il mistero non le sarà mai svelato, perché lei non oltrepasserà mai quel limite»496.
All’origine di tale giudizio vi fu la pubblicazione da parte della Smith, Elder del nuovo libro di Lewes, Rose, Blanche, and Violet, nell’aprile del 1848. Il romanzo è incentrato sulle tre adorabili figlie di Swynfen Jervis, la più adorabile delle quali era diventata la moglie di Lewes. Il libro non era niente di più che uno scadente melodramma. Charlotte disprezzava le citazioni da autori greci, latini, francesi e tedeschi, erudizione esibita per impressionare il lettore medio. «Tutta la vostra cultura, le vostre letture, la vostra sagacia, la vostra perseveranza non possono condurvi oltre una linea priva di visione – oltre un confine insuperabile quanto invisibile», continuò Charlotte. Non avrebbe voluto dare libero corso a un simile fiume di parole, ma (confidò a Williams) era ciò che pensava davvero, sia di Lewes che di «molti altri che si sono fatti un buon nome nel mondo».
La sua agitazione era comprensibile, se percepiva che Lewes stesse solo fingendo di essere suo amico. Charlotte sentì chiaramente che in ballo c’era la sua arte, poiché Lewes desiderava porre fine alla sua audacia. Era consapevole, inoltre, del pericolo che avrebbe corso negandogli il ruolo di maestro: «Mi piego alla vostra ira, che ho innescato»497. Ovviamente, Lewes la massacrò nella successiva recensione, sostenendo ora che il vigore «ultravirile» di Jane Eyre «spesso sfocia nella volgarità – ed è di certo agli antipodi della “femminilità”»498. Le donne, sosteneva Lewes, potevano anche scrivere buoni romanzi, ma erano istruite solo parzialmente e, in ogni caso, la cura dei figli restava la loro principale occupazione. Lewes fu scusato in considerazione del fatto che, quando scrisse queste parole, la moglie stava dando alla luce il primo dei quattro figli che avrebbe avuto dal suo migliore amico; ma perché prendersela con Currer Bell? Charlotte non si aspettava una così «brutale» pubblicità499.
Quando Charlotte Brontë scrisse i suoi primi due romanzi, tenendosi al riparo dall’attenzione pubblica, sapeva che nessuna esistenza era troppo marginale per poter fornire materia artistica. Ma cambiò posizione quando si dedicò a Shirley, all’inizio del 1848: parlò con una certa invidia dell’accesso alla vita pubblica di cui godevano gli uomini. Informandosi sui moti del 1848, stava cercando di allinearsi ai principali scrittori del momento che si occupavano della situazione politica in Inghilterra. Decise di lavorare a un romanzo storico ambientato nel 1811-12, il periodo in cui i luddisti500, presumibilmente sotto la guida del “generale Ludd”, un operaio tessile del Nottinghamshire, avevano cercato di opporsi alla meccanicizzazione della produzione distruggendo i macchinari. Le agitazioni si erano diffuse colpendo i lanifici del West Riding dello Yorkshire, l’area di Gomersal e Birstall che Charlotte aveva avuto modo di conoscere personalmente facendo visita alle famiglie Nussey e Taylor, in particolare la fabbrica di Hunsworth Mill, a Cleckheaton, dove i Taylor producevano divise per l’esercito e dove Mary, per un periodo, aveva vissuto coi suoi due fratelli, John e Joe (in un cottage sul retro dello stabilimento). È qui che Charlotte aveva detto addio a Mary nel febbraio del 1845. Sin dall’infanzia la storia della regione le era familiare grazie ai ricordi del padre, che era stato per alcuni anni curato nella parrocchia di St Peter a Hartshead, cittadina situata proprio al centro del distretto industriale. Le rivolte degli operai erano un sottoprodotto delle guerre napoleoniche e dell’embargo commerciale con il continente che aveva colpito la produzione di lana dello Yorkshire proprio nel momento in cui le macchine venivano introdotte negli stabilimenti, generando disoccupazione. Per due anni lo Yorkshire sembrò sull’orlo della rivoluzione, come racconta Shirley: «La miseria genera l’odio: chi soffriva la miseria odiava le macchine che, a suo avviso, gli toglievano il pane; odiava gli stabilimenti che le ospitavano, odiava i proprietari di quegli stabilimenti»501. Nelle campagne si sentiva dire dappertutto che i rivoltosi erano in marcia per distruggere le macchine, e ogni uomo (incluso il signor Brontë) teneva la pistola a portata di mano.
Il titolo originale del romanzo era Hollow’s Mill502: nella narrazione di Charlotte, l’assalto dei lavoratori allo stabilimento (ispirato agli assalti dei luddisti al Rawfolds’ Mill, vicino a Hartshead, come riportati nel «Leeds Mercury» del 18 aprile 1812) è raccontato dalla prospettiva di due donne che si tengono nascoste a distanza di sicurezza dall’azione, e questa diventa poi la prospettiva dell’intero romanzo.
«Dei dettagli, delle situazioni che non afferro, e che non posso indagare in prima persona, non me ne voglio interessare per nulla al mondo: non vorrei fare una confusione ancor più ridicola di quella creata dalla signora Trollope nel suo Factory Boy. Non solo, non parlerò di nessun sentimento in qualsiasi ambito, pubblico o privato, ch’io non abbia sperimentato in prima persona»503. Così, in principio, scrisse Charlotte. Mise in relazione le palesi ingiustizie inflitte alla classe operaia con quelle, invisibili, subite dalle donne. «Le leggi di questo mondo non ci sono mai venute incontro – mai!», esclama la moglie sfruttata, la signora Pryor, nell’intimità della stanza da letto di sua figlia. «Avevano potere di proteggermi quanto ne può avere un giunco appassito. Ed erano impotenti a frenare lui [il malvagio consorte] quanto può esserlo il balbettio di un idiota»504.
Shirley è un romanzo rivoluzionario. Mette in discussione il potere che gli uomini esercitano sulle donne e sui lavoratori. Il proprietario dello stabilimento, Robert Moore, è un uomo implacabile, ma non un novello Bounderby505: non è per testardaggine che ha perso il contatto con i suoi operai, ma in parte perché è mezzo straniero e in parte perché lui stesso, per sopravvivere, combatte le leggi locali, in particolare i controversi Orders in Council che mettono la guerra al di sopra delle esigenze della popolazione e del commercio. L’autrice tratta Robert Moore con fredda oggettività: è un uomo sgradevole e duro, ma non disumano o irrecuperabile. Ciononostante, il personaggio di Robert rimane rigido e noioso, forse il risultato dell’eccessivo scrupolo dell’autrice nel dare ascolto ai consigli di colleghi e amici.
Degni di maggior nota sono gli ecclesiastici di periferia, in particolare il rettore misogino, il signor Helstone. A detta di Ellen, il personaggio era una sintesi del signor Brontë506 e di un suo stimato conoscente, il signor Roberson di Liversedge, sacerdote dall’aria marziale che, come Helstone, si era schierato con tenacia contro i rivoltosi. Se il fratello di Helstone, James, aveva abusato della moglie (che in seguito lo lascia, prendendo il nome di copertura di signora Pryor), Helstone stesso aveva esasperato la propria in modo più subdolo – ma, occorre dirlo, non intenzionalmente: trascurandola. La donna si era spenta molto presto. Nel momento in cui si svolge il romanzo, il rettore è custode della figlia di suo fratello, Caroline, a cui riserva lo stesso trattamento inflitto alla moglie. Ad accomunarlo al signor Brontë sono l’intelligenza e il carattere energico e galante con le donne nelle occasioni pubbliche, ma introverso tra le mura domestiche. Non è intenzionalmente scortese, ma una cattiva opinione delle donne fa la guardia a un carattere emotivamente fragile, una debolezza di cui l’uomo è inconsapevole.
Peggio del rettore sono i curati, che, dotati di una minore autorità, rappresentano una caricatura degli eccessi del potere: vanità, aria di superiorità, snobismo. Dietro le palpebre sempre un po’ abbassate, certe donne si accorgono di tutto. Sono quelle che Charlotte Brontë chiama «lettrici di anime». Il punto è che chi dovrebbe ufficialmente leggere le anime non è all’altezza del compito. Mentre i sacerdoti fanno la predica nei loro interminabili sermoni, due donne siedono fuori e parlano con un operaio, il quale le avvisa dell’imminenza di una rivolta.
Quando Charlotte inviò ai suoi editori una bozza del primo libro, questi non apprezzarono l’attacco al clero; quando il romanzo fu pubblicato, i recensori furono dello stesso avviso e gli uomini di chiesa, come Charles Kingsley, si sentirono offesi. La presenza dei curati può apparire gratuita in una storia incentrata sulle rivolte nelle fabbriche. Ma, nella misura in cui Shirley affronta il tema degli abusi di potere nella sfera domestica, la figura del curato è indicativa. Inefficienti quali emissari del Signore, disprezzati dalle donne intelligenti, che li trovano noiosi, e odiati dai poveri che essi trascurano, i curati danno prova di noncuranza (quando parlano soltanto di se stessi), cattive maniere (quando trangugiano il tè) e vigliaccheria (quando scappano su per le scale spaventati da un cane, Tartar, ispirato al temibile cane di Emily, Keeper). Charlotte disse ai suoi editori che non avrebbe eliminato quei personaggi «perché, come ho già detto in precedenza per i capitoli su Lowood in Jane Eyre, è tutto vero. I curati e i loro atti sono soltanto fotografati dal vivo»507. La satira di Charlotte traeva spunto da un’inattesa visita per il tè che tre curati, nel giugno del 1845, avevano fatto in canonica, e che la scrittrice aveva raccontato in una lettera a Ellen: i tre avevano iniziato «a glorificare se stessi e a insultare i dissidenti con un atteggiamento tale che persi l’equilibrio del mio temperamento e pronunciai alcune frasi taglienti e rapide che li lasciarono istupiditi – anche Papà era profondamente interdetto – ma non me ne pento». All’epoca, i prelati più giovani erano per la maggior parte puseiti che avevano abbracciato i principi della Chiesa Alta dell’Oxford Movement, ma non mostravano di essere più illuminati nei confronti delle donne del vecchio clero dello Yorkshire, rappresentato dal fosco reverendo Helstone. Nella figura del volgare e insensibile signor Malone, i lettori locali riconobbero subito James William Smith, curato del signor Brontë dal 1842 al 1845, poi curato a Keighley fino al 1846; nel presuntuoso ma implorante signor Donne identificarono Joseph Brett Grant, curato del signor Brontë tra il 1844 e il 1845, poi occupante della limitrofa parrocchia di Oxenhope; e nei panni dell’affabile signor Sweeting ritrovarono James Chesterton Bradley, curato di Oakworth (vicino a Haworth) dal 1845 al 1847, poi curato nella chiesa di All Saint, a Paddington. In seguito, divenne un gioco chiamarli con i nomi dei personaggi di Shirley. Quando il signor Nicholls lesse, seduto da solo, delle loro buffonate, rise così forte, battendo le mani e pestando i piedi, che la signora Brown, moglie del sagrestano, pensò fosse impazzito508 – un momento decisamente gratificante per Charlotte.
Shirley conserva i due fratelli dell’iniziale John Henry: il duro industriale e il povero studioso. Caroline Helstone è segretamente innamorata dell’industriale Robert Moore, proprietario dello stabilimento. In lei si combinano elementi di Anne Brontë e della stessa Charlotte: di Anne ha il riserbo e la rettitudine, oltre al precario stato di salute, di entrambe è l’ardente desiderio di nuove esperienze, mentre la passione repressa di Charlotte si tramuta nel muto desiderio nutrito da Caroline per un uomo troppo preso dal suo stabilimento in rivolta per dedicarle più di una fugace attenzione. Caroline, come Charlotte, mette in discussione il destino delle donne sole e relegate nelle periferie che non trovano una valvola di sfogo per le loro energie. Fortunatamente per Caroline, si palesa un nuovo modello femminile nelle fattezze di un’impavida giovane donna di nome Shirley, ricalcata sul modello di Emily Brontë. Per Shirley, il legame affettivo più forte è quello che la stringe alla sua intelligente governante, ora collega, la signora Pryor, che si rivela essere la madre di Caroline. Charlotte aveva disapprovato Il segreto della signora in nero, ma riprese da quel romanzo l’avvincente storia della moglie abusata, anche se con meno dettagli scioccanti rispetto all’opera di Anne. Come Helen Huntingdon, la signora Pryor è una moglie in fuga, che si mantiene da sola e vive sotto falso nome. Per lungo tempo, Caroline non conoscerà la vera identità della signora Pryor, ma trarrà beneficio dal suo sostegno così come dall’amicizia con Shirley.
Intanto, Louis Moore, il povero fratello studioso di Robert, entra in scena diventando l’insegnante di francese di Shirley. Quest’ultima se ne innamora, e gli rivela la vera e misconosciuta natura femminile in un devoir, così come Charlotte aveva fatto con Monsieur – sebbene Shirley sia più riluttante a cedere anche un solo millimetro della propria orgogliosa libertà. Le due giovani donne, che sanno cosa significa vivere nella soggezione, simpatizzano con i lavoratori in rivolta in un modo inconcepibile per il duro industriale e per il reverendo Helstone, un tory di ferro.
Durante l’estate del 1848, Charlotte scrisse il primo libro del romanzo, in cui emerge la vulnerabilità di Caroline rispetto agli uomini insensibili – curati, custodi e proprietari di stabilimenti –, ma anche il vuoto delle sue giornate di inattività e l’involontaria immedesimazione con le donne sole della parrocchia. Nel ritrarre Caroline come pallida e magra, Charlotte si ispirò probabilmente alla sorella Anne Brontë, le cui precarie condizioni di salute avevano iniziato a preoccuparla sin dalla fine del 1846: «La povera Anne ha sofferto molto per la sua asma [...]. Per due notti, la scorsa settimana, era davvero un tormento sentirla tossire e vedere quanta fatica facesse a respirare [...] l’ha sopportato come sempre, senza un lamento [...] è eroica nella sua sopportazione»509. Ancora una volta, Charlotte dovette preoccuparsi per la salute di Anne nell’autunno del 1847, quando la sorella si accasciò sul tavolo mentre scriveva Il segreto: «È veramente difficile per noi riuscire a farle fare due passi o convincerla a chiacchierare»510. Tale senso di responsabilità nel prendersi cura della sorella si prolungò fino a quando il romanzo di Anne non venne pubblicato, nel giugno del 1848: il risultato finale era un lavoro più sostanziale e radicale rispetto ad Agnes Grey, ambizioso, a suo modo, quanto Jane Eyre e Cime tempestose.
Nel settembre del 1848 Charlotte terminò la bella copia del primo libro di Shirley511. Il contrasto tra l’ambiziosa dissipazione di Branwell e l’ambiziosa diligenza delle sorelle non poteva esserle sfuggito. Francis Grundy, collega di Branwell dei tempi della ferrovia, descrive così l’incontro con l’amico in un’osteria di Haworth: «La porta si aprì adagio e comparve una testa. Una massa di capelli rossi, scarmigliati e mal tagliati, che fluttuavano selvaggi attorno alla fronte ampia e scarna: le guance gialle e incavate, la bocca cascante, le sottili labbra pallide non tremanti, ma percorse da un fremito, gli occhi infossati, un momento piccoli e spenti, quello successivo accesi dalla luce della follia». Una volta che Branwell si fu riscaldato con un bicchiere di brandy, «sembrò spaventato – spaventato da se stesso»512.
Grundy incontrò anche il signor Brontë, che parlò del figlio con affetto, ma senza speranza. Il signor Brontë faceva dormire Branwell nella propria stanza da letto, nonostante le minacce del figlio che uno dei due non sarebbe arrivato vivo al mattino seguente. Nel consunto manuale di Medicina domestica513, il signor Brontë prese diversi appunti alla voce “Malattia o squilibrio mentale”: «Il delirium tremens è anche provocato da intossicazione. Il paziente si sente perseguitato. Al venir meno dell’intossicazione, in genere, questa forma di follia diminuisce».
Dopo un prolungato declino, Branwell morì il 24 settembre 1848, gridando contro il sagrestano di suo padre e suo amico, John Brown: «Nella mia vita non ho fatto nulla di grande né di buono»514. Aveva trentuno anni. Alla sua morte, Charlotte disse di non aver pianto per il senso di lutto, ma per «la scomparsa di un talento, d’una promessa, il precoce consumarsi di chi sarebbe potuto diventare una luce vivida e chiara»515.
In altri commenti sulla morte di Branwell si sente vibrare la gelosia di Charlotte per la preferenza accordata dal padre al fratello: «Il mio povero babbo, ovviamente, stimava di più il suo unico figlio maschio delle sue figlie e, per quanto avesse a lungo sofferto a causa sua, ha pianto la sua perdita come Davide quella di Assalonne – figlio mio, figlio mio – e, dapprima, rifiutava ogni conforto»516. Il signor Brontë non apparve in seguito ugualmente disperato per la morte delle sue figlie, a prescindere da cosa avesse realmente provato. È curioso che tra i tanti appunti presi in Medicina domestica, accanto alle varie cure contro l’indigestione e la cataratta, oltre che alle voci “Incubo” e “Follia”, non abbia praticamente annotato nulla in corrispondenza della malattia che causò la morte di quattro delle sue figlie: «Consunzione». Era Branwell la persona da cui si aspettava il successo, Branwell che era andato incontro alla morte senza conoscere i traguardi raggiunti dalle sorelle al posto suo. Il loro «sventurato fratello», disse Charlotte, «non ha mai saputo quello che le sue sorelle avevano fatto in campo letterario. Non è mai stato messo al corrente delle nostre pubblicazioni. Non potevamo raccontargli i nostri sforzi per paura di causargli un colpo troppo grande, di farlo sentire in colpa per il tempo che lui sprecava e le qualità che non faceva fruttare». Parlò di dolore, ma nel suo tono trapelava anche un certo senso di trionfo. Era un commento rivolto, mentalmente, al padre, che adesso doveva dipendere dalle risorse e dalla fama di una figlia alla quale aveva guardato solo in funzione della sua devozione ai doveri familiari.
Ora, però, la forza di Charlotte stava per essere sottoposta a una prova ben più dura. Alla fine di ottobre, iniziò a preoccuparsi per il peggioramento delle condizioni di salute di entrambe le sorelle. Più tardi scrisse: «Mia sorella Emily iniziò a peggiorare [...]. Precipitava rapidamente. Aveva fretta di lasciarci. Eppure, se fisicamente stava morendo, mentalmente diventava più forte di quanto non fosse mai stata. Giorno dopo giorno, vedendo con quale spirito affrontava la sofferenza, l’ho osservata con un’angoscia piena di sorpresa e amore. Non ho mai visto nessuno come lei; ma a dire il vero, non l’ho mai vista come gli altri in nulla»517.
La morte di Emily arrivò rapida tra metà ottobre e metà dicembre del 1848. Charlotte non poteva accettare, o comprendere, la forza di uno spirito inesorabile con la carne. Emily si rifiutava di riposare: si ritirava la notte alla solita ora, alle dieci, e ogni mattino, puntuale alle sette, riappariva al piano di sotto, fino al giorno della sua morte; pur avendo una tosse violenta con forti dolori e il battito accelerato, sebbene ansimasse a ogni sforzo, non volle riconoscere la malattia. Se Charlotte le chiedeva come si sentiva, lei non rispondeva. Si rifiutava di incontrare i «velenosi dottori»518. Charlotte dovette assistere al «conflitto dello spirito stranamente vigoroso con la fragile fibra: conflitto implacabile che, visto una volta, non può essere scordato»519.
In seguito all’inattesa e rapida morte di Emily, il 19 dicembre del 1848, Charlotte si svegliò nel cuore della notte, sconvolta per l’«atroce» perdita e ritrovandosi in un’«esistenza vuota», una delle prove più dure del suo pellegrinaggio:
Sempre più stanca, abbandonata e mesta
come continuerò quest’ardua ascesa,
che sempre più mi logora e mi pesa?520
«Strappata» era la parola che ripeteva più spesso, e la perdita di Emily sembrò paralizzarla. Si chiedeva perché la sorella fosse stata «strappata nel pieno del nostro affetto, perché sia stata sradicata nei suoi anni migliori, quando già si vedevano le promesse delle sue doti, perché la sua esistenza ora non sia che un campo di grano calpestato, un albero carico di frutti tagliato alla radice»521.
Il padre le ripeteva quasi di continuo: «Charlotte, devi resistere, non ce la farei se mi mancassi tu».
Emily venne sepolta il 22 dicembre nella cripta della chiesa di San Michele, dove riposavano sua madre e Branwell. All’età di trent’anni, la consunzione l’aveva devastata: la bara misurava in lunghezza quanto lei, quasi un metro e settanta, ma era larga poco più di quaranta centimetri – la più stretta che il falegname locale avesse mai realizzato per un adulto522.
Con la consunzione di Anne in stadio avanzato e priva dell’aiuto del padre, terrorizzato dalle camere degli ammalati523, Charlotte si chiese se sarebbe ancora riuscita a essere Currer Bell. Per i primi cinque mesi del 1849 si sentì come se stesse attraversando un abisso a bordo di una minuscola zattera524: non era in grado di guardarsi alle spalle, né di guardare avanti. «Il mio spirito letterario è cancellato per il momento»525, scrisse ai suoi editori. «Tentare di scrivere è più che inutile, dacché “Ellis Bell” non è più qui per leggere»526.
Dopo la fiera corsa di Emily incontro alla morte, Charlotte dovette assistere al lento ma inesorabile declino di Anne, tra il gennaio e il maggio del 1849. La morte di Emily sembrò svuotare Anne: le loro vite emotive erano sempre state pienamente intrecciate. Il fatto che Emily avesse creduto in una destinazione dopo la morte – il potere dell’anima di raggiungere i vivi – potrebbe aver suggestionato e trascinato Anne a tal punto che per Charlotte fu impossibile arrestare il suo declino. Si sentiva incapace di mitigare «le notti insonni e di dolore, e i giorni di depressione e malinconia che nulla poteva alleviare»527 della sorella. Nei suoi ultimi giorni, Anne sembrò rianimata e contenta visitando la cattedrale di York, una vista che le trasmise un incontenibile senso di onnipotenza528, e viaggiando fino a Scarborough lungo la costa dello Yorkshire, dove, come da suo desiderio, Charlotte ed Ellen la portarono a vedere per l’ultima volta il mare. Nel pomeriggio di domenica 27 maggio, dopo una breve passeggiata vicino alla spiaggia, da una sedia a dondolo posta davanti alla finestra poté osservare uno stupendo tramonto. Le navi lontane rilucevano come oro agli ultimi raggi del sole, ricordò Ellen, e il viso di Anne si fece luminoso mentre ammirava la scena. Era la realizzazione del disegno che aveva fatto all’età di diciannove anni, quello in cui una donna guarda il mare e proietta il suo sguardo verso un luminoso orizzonte? Lì, in un alloggio a ridosso della spiaggia, Anne morì il giorno seguente, calma e serena; le sue ultime parole furono per la sorella, nel tentativo di trattenere le sue lacrime: «Fatti coraggio, Charlotte, coraggio»529.
In seguito, Charlotte tornò sugli ultimi nove mesi: «Se un anno fa un profeta mi avesse messo in guardia su come sarei stata nel giugno 1849 – quanto svuotata e addolorata –, se avesse previsto l’autunno, l’inverno, la primavera di malattia e sofferenza che ho attraversato, avrei pensato: “Tutto ciò non può essere sopportato”. È finita. Branwell, Emily, Anne sono svaniti come sogni – scomparsi, come Maria ed Elizabeth vent’anni fa. Uno a uno, ho chiuso le loro gelide palpebre. Li ho visti seppellire uno a uno e, fin qui, Dio mi ha sostenuto. Lo ringrazio dal profondo del cuore»530.
Non fu solo la fede a darle sostegno. Nonostante il timore che Currer Bell sarebbe morto insieme alle sorelle, Charlotte riuscì a continuare a scrivere – perfino a condividere con loro il suo lavoro, quando possibile. Nel secondo libro di Shirley, scritto dopo la morte di Emily e con il pensiero della sorella sempre vivo in testa, Shirley incarna, dopo Jane Eyre, un nuovo modello di donna – un modello, però, talmente precursore dell’attuale femminismo da risultare poco credibile calato nel contesto degli anni 1811-12. La protagonista del romanzo rappresenta una possibilità teorica: ciò che una donna potrebbe essere disponendo di indipendenza, autosufficienza economica e forza intellettuale. Charlotte Brontë immaginò un nuovo potere femminile, pari a quello degli uomini, nella figura di una giovane donna sicura di sé, che eredita una proprietà e che, in quanto membro dell’aristocrazia terriera, viene rispettata da tutti. Godendo di una straordinaria libertà e autonomia, Shirley è abituata a pensare con la propria testa.
Shirley è una donna autentica che sfata le consolidate illusioni maschili, perfino quelle degli uomini più acuti, inclusi, a quanto pare, molti scrittori:
Se gli uomini potessero vederci come realmente siamo, sarebbero alquanto sorpresi. Ma anche il più intelligente, il più perspicace tra loro, spesso si illude, riguardo alle donne [...]. Non le vedono nella loro vera luce, le fraintendono, sia nel bene che nel male. Per gli uomini la donna buona è una strana cosa: metà bambola e metà angelo; la donna malvagia è quasi sempre una specie di demonio. E li senti estasiati, in adorazione dell’eroina creata dalla loro stessa fantasia in un romanzo, in un dramma o in un poema [...] la immaginano bella, perfetta, divina! Può darsi, ma è artificiale [...] come la rosa del mio cappello. Se dicessi tutto quello che penso, se esprimessi la mia vera opinione su certi splendidi personaggi femminili che figurano in opere di grande qualità, cosa mi accadrebbe? Sarei morta e sepolta in mezz’ora sotto un cumulo di pietre! Le pietre della vendetta!531
A differenza delle donne del suo tempo, Shirley dice ciò che pensa, e parla ancor più liberamente quando è sola con la sua nuova amica, Caroline. Il loro rimanere fuori dalla chiesa, dove l’intera comunità è riunita in preghiera, è uno spontaneo atto di sfida verso le elaborate costruzioni della retorica autoritaria, verso i curati che «martelleranno sulle loro ben preparate orazioni». La santità della Natura è decisamente più invitante: «La Natura è ora giunta alla preghiera della sera; è inginocchiata davanti a queste rosse colline». In questo frangente, Shirley comprende ciò che Emily aveva sperimentato nei suoi momenti mistici: il coraggio di combattere con una forza onnipotente, quella servita per sopportare mille anni di sottomissione, si sente una donna-titano la cui veste di aria azzurra «si stende fin sul bordo della brughiera», i cui occhi sono pieni di adorazione mentre, inginocchiata, «essa parla faccia a faccia con Dio». Solo la Natura è «la possente e mistica genitrice delle visioni di Shirley»532.
Shirley riscrive le Sacre Scritture. “La prima donna saccente” è la sua parabola di Eva, figlia della Natura che, nella sua innocenza, incontra e si unisce al Genio per divenire Divinità Donna533. Il suo modo di comunicare si oppone al linguaggio artificioso lontano dai segni della Natura: «Fu come se il silenzio parlasse. Non aveva un linguaggio, una parola [...] ma solo una vibrazione». Eva parla del suo Genio come di una forma di comunicazione elusiva e indefinibile: «L’oscuro accenno, il flebile sussurro che mi ha ossessionato fin dall’infanzia». Si chiede se la fiamma che custodisce dentro di sé sarebbe bruciata non vista, mentre la sua vita pulsava così vivida e precisa, se tale fuoco sarebbe arso inosservato «anche se il turbamento si agitava dentro di lei e senza posa asseriva l’esserci di un’energia interna, conferita da un Dio, per cui quella forza vitale chiedeva con insistenza di essere praticata?»534. In seguito si racconta come il matrimonio della Donna e del Genio venga macchiato dal Padre della Menzogna, che instilla il veleno nelle passioni. Alla fine, la Donna-Genio muore, e la parabola sembrerebbe una profetica riproposizione della fine di Emily: «Il Genio ancora teneva a sé la sposa morente, la sostenne nell’agonia del trapasso, la portò in trionfo dentro il suo Regno [...]. Alla fine [...] la coronò con la corona dell’immortalità». Shirley fa esperienza della «vita geniale»535, come era accaduto alle giovani sorelle Brontë. La possibilità puramente teorica e il vissuto delle sorelle Brontë, il profetico protofemminismo di Charlotte e la natura visionaria di Emily si incontrano nella figura di Shirley. La sua parabola fornisce un modello alle parabole femministe che Olive Schreiner, con il titolo di Sogni, pubblicò nel 1891: ristampate venti volte in Inghilterra, tradotte in otto paesi, vendettero ottantamila copie. Uno dei Sogni, nei primi anni del XX secolo, fu letto ad alta voce da Lady Constance Lytton alle suffragette in sciopero della fame nella prigione di Holloway.
Anche di questo si nutre la polemica sollevata dal romanzo, che, in quanto genere, si è sempre fuso con altri generi letterari. Si potrebbe dire che, con Shirley, Charlotte Brontë abbia esteso, facendola progredire, la forma del romanzo polemico che indaga la condizione femminile inaugurata da Mary Wollstonecraft con Mary (1788) e The Wrongs of Woman (1798). In questi scritti la verità arriva più diretta, nella misura in cui molti elementi sono tratti dalla vita dell’autrice. La verità è meglio dell’arte536, disse Charlotte Brontë nel bel mezzo della scrittura del secondo libro. La forma del romanzo-saggio fedele alla verità venne ripresa da Olive Schreiner in Storia di una fattoria africana (1883) e da Virginia Woolf in I Pargiters (1932) e Gli anni (1937). In Gli anni, Eleanor, una vittoriana scrupolosa, pensa: «Quando saremo liberi? Quando potremo vivere avventurosamente, completamente, non come storpi in una grotta? [...] percepiva non soltanto un nuovo spazio temporale, ma nuovi poteri, qualcosa di sconosciuto dentro di sé»537.
Piena di risorse, Shirley offre il suo sostegno a Caroline, che incarna l’altro volto della femminilità: non l’energia attiva che attende una valvola di sfogo, ma la diffidenza carica di condizionamenti e l’assenza di aspettative che conducono alla perdita di speranza e all’apatia. Quella tra Shirley e Caroline è una versione, idealizzata e distorta, della relazione tra Emily e Anne. La verità si fonde a una buona dose di finzione. Shirley, come Emily, è una donna con occhio di falco che conosce solo la propria legge; ma l’eroina del romanzo, a differenza di Emily, sa come comportarsi in società. Parla molto, mentre Emily quasi non proferiva parola. Tuttavia, è la profondità del legame che si può instaurare tra due donne a interessare Charlotte, che sottolinea la generosità con cui Shirley (in modo assai diverso dagli agenti del potere pubblico) conferisce parte della propria autorità alla fragile Caroline. Purtroppo, però, il personaggio di Shirley rimane irreale. Forse il ritratto idealizzato di Shirley è il frutto della battaglia di Charlotte – in parte una battaglia postuma – con una sorella che rifiutava la sua guida, rifiutava l’intimità, e spesso si rifiutava persino di parlare. Soprattutto Shirley non convince laddove l’autrice la incatena al matrimonio con il suo insegnante di francese: è come se Charlotte stesse infine prendendo il controllo su Emily attraverso la protagonista del romanzo, un controllo postumo, imponendo all’indomita Shirley il proprio stampo538.
La sofferenza di Caroline è in parte ispirata ad Anne, nella fase in cui le sue condizioni di salute precipitarono, nel 1848-49, e in parte alla depressione in cui era sprofondata la stessa Charlotte negli anni 1944-45. Ma, a differenza di Anne e di Charlotte, determinate e pragmatiche, Caroline appare piuttosto impotente, e in questo richiama in una certa misura Ellen Nussey e la sua buona educazione. Caroline rappresenta tutte le donne costrette a sprecare le proprie energie perché relegate dalla società, in base alla legge e al costume, in posizioni deboli e prive di potere. Costretto a ristagnare, l’amore inconfessato di Caroline per Robert Moore marcisce. L’amore, dice Caroline a Shirley, «brucia tutta la nostra forza»539. Il potenziale esplosivo del libro non risiede principalmente nel vero e proprio assalto allo stabilimento, nelle finestre rotte, nelle lotte e nei feriti: è piuttosto il risultato di una distruttiva forza emotiva che, non potendo essere espressa, fermenta. In modo impercettibile distorce lo stato di salute e la natura della società. Caroline osserva che quest’ultima «proibisce l’espressione» di quelle sofferenze che non sa curare prontamente, e dal suo punto di vista di donna debole, assoggettata a un tirannico custode che la tiene demoralizzata, dipendente, inattiva, esamina l’atrofia del suo sesso, confinato nella sterile rispettabilità e nella silenziosa sopportazione. Il costume vieta inoltre a una donna di dichiarare il proprio amore, così Caroline è costretta a stringere nel pugno lo scorpione che la punge mentre assume la sua consueta postura, leggermente piegata da un lato. Seduta accanto a Robert Moore, è protetta da «una specie di schermo al suo sguardo: e così, mentre l’ombra della sera si addensava via via intorno a lei, Caroline ebbe tempo non di sembrare, ma di essere realmente, padrona delle emozioni che erano insorte dentro di lei»540.
Le rivolte pubbliche e quelle private sono dunque legate tra loro. Ci viene mostrata una società che sostiene le opinioni espresse a gran voce – quelle dei padroni, del rettore, degli inutili curati –, mentre nega la parola alla governante istruita, la signora Pryor, o al precettore, Louis Moore, le cui capacità «sembravano murate dentro di lui, e mute nella loro prigione»541. Shirley e Louis sono spinti l’uno verso l’altra da una società che si ritira sospettosa davanti a ogni forma d’espressione ancora sconosciuta, come quando Shirley canta con drammatica passione: «Le signorine Simpson e le signorine Nunnely la guardavano come quattro miti pollastrelle potrebbero guardare un airone bianco, un ibis o un qualsiasi altro volatile strano. Perché aveva cantato a quel modo? Esse non cantavano mai così! Era poi davvero decoroso cantare con una tale espressione, una tale originalità [...] che una collegiale mai avrebbe avuto? Decisamente no! Era certo una cosa strana, una cosa insolita. Ciò che è strano deve essere errato; ciò che è insolito deve essere indecoroso. Così Shirley fu giudicata»542.
Le donne sono più dure nei confronti del proprio genere. Una madre dalle vedute ristrette, la signora Yorke, non prenderà parte alla protesta della figlia dodicenne, Rose, che sembra già destinata a diventare una donna risoluta – un fedele ritratto di Mary Taylor così com’era all’epoca in cui Charlotte l’aveva conosciuta. Rose543 rivendica una vita che non sia simile a una lenta morte, come quella di Caroline nel Briarfield Rectory, ma una vita di viaggi ed esplorazione. Il ritratto di Rose appare ancor più autentico se accostato a una lettera che Mary scrisse dalla Nuova Zelanda, in cui dava prova di un vigore inconcepibile per una donna della classe media nell’Inghilterra vittoriana: «E come fatichiamo! Sollevo, trasporto e apro scatoloni come se fossimo carpentieri al lavoro, ci sediamo nel mezzo della confusione quando siamo stanche per poi accorgersi che è già tardo pomeriggio e ci siamo dimenticate di cenare!». Lei e sua cugina, Ellen Taylor, non smettevano «di lavorare finché non era ora di andare a dormire, portavamo a letto con noi un nuovo numero di D[avid] Copperfield ma alla seconda pagina eravamo già crollate»544. Non sappiamo se Mary avesse letto Mary Wollstonecraft, ma il suo modo di agire sembra una reazione alla vita inattiva delle donne descritte in Rivendicazione dei diritti della donna (1792): «Quante donne sprecano così la loro vita, in preda alla scontentezza, donne che avrebbero potuto diventare medici, amministrare proprietà, gestire negozi e reggersi sulle proprie gambe, sostenute dalla loro laboriosità, invece di chinare il capo sopraffatte dalla rugiada della sensibilità»545.
Mary non era d’accordo con l’opinione contenuta in Shirley secondo cui solo alcune donne avrebbero bisogno di lavorare: «Sembrerebbe quasi che per te solo certe donne possano concedersi il lusso di questa vitale necessità – a patto che rinuncino al matrimonio e non si rendano troppo sgradevoli all’altro sesso. Sei una vigliacca e una traditrice»546.
Mary era troppo ideologica, o forse troppo dura, per comprendere la compassione che Charlotte nutriva per Caroline. Mary provava solo disprezzo per le donne deboli: «Forse non sono peggiori di altre donne ma, se non vengono mai invitate a prendere posizione o ad agire per sé, col tempo perdono il loro acume, com’è naturale»547. Sfidando la madre, la piccola Rose prefigura Mary: «“Non li affiderò a voi [i miei talenti], per vederli trasformati in una pila di calzerotti di lana! Non li metterò tra la biancheria, schiacciati tra due lenzuola e men che meno, madre”, a questo punto si alzò in piedi, “men che meno nella terrina delle patate fredde, messa là, sullo scaffale della dispensa, accanto al pane, al burro, ai pasticcini”». Per la signora Yorke, le «sagge decisioni» e l’«audacia» conducono solo a un «farneticare e declamare». Rose risponde nel tono misurato di chi possiede un fine assoluto: «Io lo esprimo e lo lascio stare: sta a voi, madre, ascoltarlo o meno».
«Che pezzo di perfezione hai fatto di me!»548, scrisse Mary a Charlotte quando, nell’agosto del 1850, le arrivò la copia di Shirley che l’amica le aveva inviato e che aveva percorso un lungo viaggio passando per Costantinopoli. «Che strana sensazione leggerlo e risentire tutti i nostri discorsi. Era da cinque anni che non rivedevo in modo così vivido la sala e il salone affrescato [della Red House, casa di Mary]». Nella stessa lettera, Ellen Taylor racconta a Charlotte dello stupore che loro due avevano suscitato in quanto donne sole che avevano aperto un proprio negozio: «Alcuni pensano che non concluderemo nulla, o che ci stancheremo presto, e tutti ridono di noi. Prima di andarmene da casa, in genere avevo paura di venire derisa, ma ormai quasi non mi fa più effetto».
Nei capitoli-saggio di Shirley, Charlotte Brontë prese spunto dalle problematiche della propria vita. Cosa avrebbero dovuto fare le donne se non potevano sposarsi né sopportare la posizione dell’istitutrice?549. L’inattività avrebbe svuotato o inasprito il carattere, o forse «la vecchia zitella»550, come nel caso della signorina Ainsley, avrebbe dato un senso alla propria esistenza prestando aiuto al prossimo? Charlotte guarda con scetticismo a questa alternativa attraverso gli occhi di Caroline. Quest’ultima, nel tentativo di emulare la signorina Ainsley e di impiegare il proprio tempo libero facendo la carità, rimane segnata e quasi rischia di morire.
Così come Cary deve attraversare la «valle dell’ombra della morte», Charlotte attinse all’agonia delle sorelle. I due capitoli sulla malattia, all’inizio del terzo libro, sono stati scritti subito dopo la scomparsa di Anne, mentre Charlotte si trovava ancora con Ellen sulla costa dello Yorkshire. Tradusse in parole il lutto, e leggendo il romanzo si ha l’impressione che pensasse più alle sue sorelle che alla sua eroina. Con immediato impeto, prima ancora di tornare a Haworth, prese in mano la penna per raccontare la debilitante malattia di Caroline e i tremendi effetti dell’abbandono di sé. Sulle prime, il fuoco della narrazione è tutto nella stanza della malata, la mano priva di forze posata sul petto, la sete inestinguibile, il combattimento con Dio di chi le fa assistenza durante la notte, le suppliche davanti alla fronte madida di sudore – negate all’alba dal volto mutato della malata: il colorito e la rigidità del marmo e gli occhi vitrei – «quell’aspetto indescrivibile e tremendo» – di quando la morte si avvicina.
Non sempre vince colui che tenta questo divino combattimento. Notte dopo notte, il nero sudore dell’agonia può zampillare su quella povera fronte, e colui che assiste invano supplica con quella voce senza suono che spira dall’anima nel colloquio con l’Invisibile. «Risparmia l’oggetto del mio amore», implora, «guarisci la vita della mia vita! Non strappare da me quel lungo affetto che c’intreccia con la mia natura tutta! Dio dei cieli, chinati su di noi [...] ascoltaci [...] sii clemente!» E, dopo la lunga lotta e il lungo pianto, può anche sorgere il sole.551
Questo passaggio è stato scritto nel pieno del tormento per la morte di Anne, ma nel romanzo Caroline si riprende (quando la madre le rivela la sua identità) e sposa l’uomo che ama, mentre Shirley e Louis Moore trovano l’una nell’altro un improbabile compagno di vita.
Reduce da tutto ciò, Charlotte fece ritorno alla vuota canonica, dove il ticchettio dell’orologio di suo nonno risuonava ora come non mai nella tromba delle scale. Avvolta da quel silenzio si chiese: «Gli spiriti possono comunicare con i viventi attraverso un mezzo qualsiasi? I morti possono visitare coloro che hanno lasciato? Possono venire attraverso gli elementi [...]. Cosa sono tutte queste influenze atmosferiche che giocano sui nostri nervi come sulle corde di uno strumento [...]? Dov’è l’altro mondo? In che cosa consiste l’altra vita?»552.
Charlotte sembra rispondere alle sue stesse domande in una lettera a William Smith Williams: «La fede sussurra che [Ellis e Acton Bell] non sono in quelle tombe a cui si volge l’immaginazione – le anime senzienti, pensanti, ispirate sono oltre questa Terra, in una regione più gloriosa. Io credo siano benedette»553. Al fianco del padre rimase solo lei, «la più debole e gracile, la meno promettente dei suoi sei figli»554.
Che vita le restava da vivere? Quando giunse all’ultimo capitolo di Shirley si ritrovò a pensare a un altro curato: l’affidabile e sempre presente signor Nicholls.
La satira sui curati contenuta in Shirley potrebbe non essere indipendente dal fatto che costoro erano gli unici scapoli con cui le sorelle Brontë avevano contatti. Era certo piuttosto seccante che la maggior parte di loro fosse inaccettabile. Willie Weightman era stato un’eccezione: l’unico curato con cui tutte si erano intrattenute di buon grado. Quando la stesura di Shirley fu ultimata, Charlotte pensò che Arthur Bell Nicholls potesse rappresentare un’altra eccezione. A fare una breve apparizione nell’ultimo capitolo è infatti un curato irlandese appena arrivato, di nome Macarthey. Abbandonando la precedente vena satirica nel tentativo di dare una lucidata all’immagine dei curati – consapevole che il lettore si aspetta un lieto fine –, Charlotte posa con sollievo lo sguardo su Macarthey, che è degno di «verità»:
Sono felice di poter dire che questo gentiluomo [...] si dimostrò – sia detto secondo verità – mite, modesto e scrupoloso [...] lavorò con assidua fede; nella sua parrocchia le scuole, sia quella quotidiana sia quella domenicale, fiorirono come alberi di alloro. Essendo umano, aveva anche lui i suoi difetti, ma erano per così dire... costanti e adatti alla sua persona, dei difetti clericali, insomma, che molti avrebbero definito virtù. L’essere invitato a prendere un tè con un dissidente, ad esempio, lo sconvolgeva per una settimana buona; lo spettacolo di un quacchero con il cappello in testa anche in chiesa o il pensiero di una creatura non battezzata, eppur sepolta con riti cristiani, provocava uno strano disordine nell’economia fisica e mentale del reverendo Macarthey. Altrimenti egli era un essere equilibrato, razionale, diligente e caritatevole.555
Questo ritratto, con il suo seducente candore, fu un bouquet che Nicholls non si lasciò sfuggire. Nel gennaio del 1850, fu deliziato nel leggere a voce alta al signor Brontë le scene in cui comparivano i curati e, come raccontò Charlotte, «provava un senso di trionfo quando appariva il suo personaggio»556. Era da sempre un’abitudine dell’autrice quella di inviare un messaggio velato a specifiche persone attraverso la scrittura: al signor Heger attraverso i devoirs, al signor Nicholls alla fine di Shirley, più tardi a George Smith in Villette. A loro disse attraverso il mezzo della fiction quello che non poteva dire per via diretta. E ci sono prove sufficienti per suggerire che tutti, in un modo o nell’altro, risposero a questi messaggi. Nonostante il signor Brontë e la signora Gaskell avessero avuto l’impressione che fosse stato il signor Nicholls a fare le prime, sorprendenti avances alla fine del 1852, senza il benché minimo incoraggiamento, potrebbe essere stata Charlotte a compiere il passo iniziale, ancora prima della comparsa di Macarthey in Shirley nella tarda estate del 1849. In un capitolo precedente, scritto all’incirca nell’inverno del 1848-49, Shirley valuta se è meglio abbandonare l’idea del matrimonio o dedicarsi alla ricerca del giusto marito. L’uomo che definisce in questo brano potrebbe rispecchiare il signor Nicholls, ed è in linea con il ritratto che ne fece poi nella figura di Macarthey: «Molto meglio osservare se lui è gentile con gli animali, i bambini, i poveri. Se è buono con noi, attento, saggio; se non adula le donne, ma è paziente con loro; se sembra a proprio agio alla loro presenza e gradisce la loro compagnia [...]. Osserviamo se è giusto, se dice sempre la verità, se è coscienzioso»557.
Attraverso il suo romanzo, Charlotte inviò calorosi segnali al signor Nicholls in un periodo in cui, nell’arco di sei mesi, aveva perso due sorelle. Dipinge Macarthey come un uomo premuroso e gentile, in una fase in cui lei stessa aveva un gran bisogno di premure, una volta tornata da Scarborough nella canonica ormai vuota, nelle sere solitarie trascorse in sala da pranzo, con suo padre che ancora rimaneva murato nello studio. Forse iniziò a provare qualcosa per il signor Nicholls nel momento in cui sentì di poter condividere con lui il lutto (anche il padre del signor Nicholls era morto nel 1849). Si accorse di essergli grata per le molte occasioni in cui le aveva offerto sostegno senza mai essere invadente, come quando aveva portato a spasso i cani, Keeper e Flossy, mentre le sorelle stavano morendo, per il modo in cui aveva partecipato al suo dolore nel celebrare le esequie di Emily alla fine del 1848 e per aver tenuto Flossy tra le braccia impedendo che corresse dietro al carro su cui Anne aveva lasciato la canonica nel suo ultimo viaggio, nel maggio 1849. Nicholls potrebbe essersi offerto di occuparsi del signor Brontë quando vide Charlotte esitare all’idea di partire per Scarborough con la sorella malata. Anche se il signor Brontë si oppose quando Charlotte gli menzionò questa possibilità, ciò lascia quanto meno ipotizzare che lei si fidasse del signor Nicholls. È vero, ai suoi occhi rimaneva un uomo limitato: il curato «brontolava un po’»558 per l’ironia di Charlotte nei confronti dei fedeli seguaci dell’Alta Chiesa, quale lui era. L’autrice aveva deriso «gli attuali successori degli apostoli, seguaci del dottor Pusey», che si erano sottoposti a un’istantanea «rigenerazione battesimale nel bagnetto della stanza dei bambini» indossando «la doppia gala arricciata all’italiana» delle loro cuffiette di tulle, e che adesso sfoggiavano la loro bianca cotta da «lassù», dal pulpito, per la costernazione dei vecchi vicari di campagna. Il signor Nicholls non ne fu divertito. Rigidamente indottrinato, con lui Charlotte non avrebbe mai potuto instaurare un rapporto fantasioso simile a quello che aveva intrattenuto, e ormai perso, con le sorelle. Ma a colpirla fu la sua bontà d’animo.
Era grata per l’affettuosa gentilezza dimostratale dal padre e dalle due domestiche, Tabby e Martha Brown, ma le sue notti rimasero insonni, mentre ripensava ai morti. Di giorno, le preghiere le scivolavano via dalle labbra: altre due sorelle erano morte in rapida successione – quanto grande e misericordioso è il Potere nell’alto dei cieli. Nelle lettere scritte ai suoi corrispondenti parlò di rassegnata accettazione; di notte, doveva fare i conti con un’incontenibile «ribellione». La sua vera salvezza era il lavoro: l’impegno richiestole dall’ultimo libro di Shirley. Scrivere, si disse, significa «dare alla tua anima una naturale liberazione»559.
Il romanzo rivela l’esistenza di una forza segreta, e questa le fornì una base per la sopravvivenza. Per quanto tranquillo e mite possa apparire uno scrittore, questi custodisce in sé uno «spirito violento» che disprezza il pathos. «Mentre gli estranei stimano forse che la sua esistenza sia un inverno polare, mai rallegrato dal sole», egli mantiene il suo bagliore creativo. «Il vero poeta non è da compiangere; è tipo da ridere sotto i baffi quando sulle di lui disgrazie geme un qualche scriteriato simpatizzante»560. In questo brano, scritto prima della scomparsa di Emily e Anne, Charlotte fa riferimento al loro condiviso atteggiamento di sfida nei confronti delle opinioni avverse. Certo, lei aveva dovuto lottare molto meno rispetto alle autrici di Cime tempestose e Il segreto della signora in nero, due libri che furono fraintesi e suscitarono aperta ostilità. Ellis e Acton l’avevano affrontata in silenzio561. Ellis mostrò un sorriso tra il divertito e lo sprezzante ascoltando l’opinione della «North American Review», che definiva il romanzo caparbio e brutale. Acton, mentre cuciva, aveva lasciato cadere qui e là una parola di moderato divertimento nel sentire il fosco ritratto che si faceva del suo carattere. Non si può sapere con certezza fino a che punto l’opinione pubblica le ferisse, ma Charlotte era capace di riservare ai critici una «vigorosa derisione» e un «disprezzo spietato»562. Per lei, il vero poeta era così feroce da meritare «lui» la colpa, altro che comprensione. Il tono che usa è euforico, per nulla apologetico. Per un attimo, dunque, lasciò affiorare in superficie il suo carattere domestico: aspro, diretto, formidabile nel dispensare giudizi e sentenze. Il potere di cui disponeva la divertiva, invisibile com’era. Riteneva che il vero scrittore fosse in grado di correre ai ripari dai dispiaceri mondani, rifiutando il mondo prima ancora che il mondo rifiutasse lui. La natura è la sua unica amica.
Questa convinzione, mutuata da Emily, aiuta a comprendere quanto Charlotte avesse preso dalla sorella, del cui genio non aveva mai dubitato, nemmeno per un attimo, nonostante l’opinione pubblica avesse guardato con orrore agli elementi più crudi di Cime tempestose. Quando Shirley fa il suo ingresso nel romanzo di Charlotte, appena prima o appena dopo la morte di Emily, da subito si presenta evocando un paesaggio identico a quelli tanto amati da Emily: «Una sconfinata distesa di alta erica», un cielo livido in un giorno di tempesta «senza veder altro che pecore selvatiche e udir altro che grida di uccelli selvatici»563. Il giorno in cui Emily si stava spegnendo, Charlotte aveva cercato invano nella brughiera un ramoscello di erica. In seguito, difese Emily contro il gusto contemporaneo per la scrittura ampollosa e ricca di dettagli: «Dato che i poemi di Ellis sono brevi e astratti, i critici li ritengono relativamente insignificanti e insipidi. Si sbagliano»564. Emily era sublime e al di fuori di ogni genere o categoria. Con lei, Charlotte perse il modello di un carattere senza paure che aveva, in una certa misura, contribuito a formare il suo. «Penso che una certa durezza nel suo carattere forte e peculiare abbia come unico effetto quello di attaccarmi a lei ancor di più»565, disse poco prima della sua morte, e due anni dopo aggiunse: «Più forte di un uomo, più semplice di un bambino, la sua natura era unica». Da questo momento in poi Charlotte avrebbe portato il vessillo dell’incrollabile forza della sorella.
Il piano di Charlotte era stato quello di unirsi a Emily, in quanto autrici le cui voci «veritiere» avrebbero aiutato la società, che fosse pronta o meno, ostile o no. Ma la missione di Emily era stata quella di fondersi allo spirito divino che la visitava la notte, trasportato dal glorioso vento che spazzava via il mondo, l’essenza stessa del rombo della tempesta:
Un principio di vita intenso
perduto alla mortalità.566
Emily non c’era più, e Shirley arrivò a prenderne il posto: una creatura libera. Charlotte aveva lavorato con impeto al secondo libro di Shirley, la sua grafia appare frastagliata e frettolosa, diversa dalla mano ferma e posata dei primi manoscritti567. Fu a questo punto che iniziò a usare le forbici, come se cancellare i passaggi mal riusciti non fosse abbastanza: doveva eliminarli. Il secondo libro venne completato in coincidenza con la morte di Anne, alla fine di maggio. La fine di Anne, rassegnata, cristiana, non la rese inquieta quanto quella rapida e severa di Emily. «Ho lasciato che Anne se ne andasse a Dio, ho sentito che Egli aveva dei diritti su di lei. Della morte di Emily non riuscivo a darmi ragione. Volevo tenerla con me e la voglio ancora adesso». Aveva perduto la persona con cui divideva in segreto i propri pensieri, ma Shirley aveva attinto abbastanza da lei per poter andare avanti da sola.
Con un’incredibile determinazione, intralciata – o forse fortificata? – dai momenti notturni di ribellione al proprio destino, Currer Bell tornò a vivere. In meno di tre mesi, tra giugno e la fine di agosto del 1849, venne terminato il terzo libro di Shirley. «Il fatto è che il lavoro è il mio miglior compagno», disse il 26 luglio a William Smith Williams, «d’ora in poi non mi aspetto altro conforto terreno se non quello che può darmi un’occupazione congeniale»568. Quando Charlotte arrivò infine a completare il romanzo, realizzò che Currer Bell era più in forze che mai, perché quel personaggio era diventato il suo unico interesse nella vita: «La perdita di ciò che ci è più vicino e più caro al mondo produce un effetto sul nostro carattere», scrisse ancora a William Smith Williams il 21 settembre, «cerchiamo ciò che è rimasto a darci sostegno e, quando lo troviamo, ci attacchiamo a esso con una presa tenace. La facoltà dell’immaginazione mi ha tirato su quando stavo affondando, tre mesi fa; da allora il suo costante esercizio ha tenuto la mia testa sopra il livello dell’acqua: il suo risultato ora mi rallegra»569.
Per quando ebbe terminato Shirley, Charlotte Brontë non camminava più del tutto invisibile al mondo. Nel gennaio 1848 aveva rivelato al padre di essere una scrittrice. Nel maggio dello stesso anno, Ellen diede voce a dei sospetti e li diffuse. Charlotte non mentì apertamente, ma di fronte ai sospetti di tradimento di Ellen rifiutò con furia la pubblica esposizione: «Non ho concesso a nessuno il diritto di affermare, o suggerire, nel modo più assoluto, che io stia “pubblicando” – (stupidaggini!). Chiunque lo sostenga – se qualcuno lo ha fatto, cosa di cui dubito – non è mio amico. Anche se mi venissero attribuiti venti libri, non ammetterei di averne scritto nemmeno uno. Detesto sommamente l’idea [...]. La più nera oscurità è infinitamente preferibile alla volgare notorietà; e tale notorietà io non la cerco né mai l’avrò»570. Poi, nel luglio del 1848, l’identità dei Bell era stata rivelata all’editore londinese di Charlotte, ed era stato difficile contenere il suo iniziale, entusiastico trasporto.
Ora, più di un anno dopo, un pacco di bozze spedito dalla Smith, Elder venne aperto durante il trasporto – da qualche impiccione a Keighley, sospettò Charlotte. Quando nell’ottobre del 1849 fece visita a Ellen, non poté non accorgersi della nuova deferenza che le riservava la vecchia compagna di scuola – né delle teste chine con cui gli uomini di chiesa evitavano il suo sguardo. Il suo ultimo romanzo, ambientato nello Yorkshire e popolato da personaggi così facilmente riconoscibili – i curati e la famiglia Yorke –, portò a inevitabili speculazioni. Il sagrestano di Haworth, John Brown, sentì parlare di Charlotte a Halifax; il fratello di Mary, George, la sentì nominare a Bradford. Eppure, la scrittrice non riusciva a pentirsi di una sola riga scritta.
Alla fine di novembre ritornò a «Babilonia» (come ancora chiamava Londra). Questa volta, a un mese dalla pubblicazione di Shirley, non poté più nascondersi dietro l’anonima facciata della “signorina Brown”, anche se il suo editore fece il possibile per tutelare il suo riserbo. Quando Thackeray fu ospite a cena, il 3 dicembre, Smith ebbe l’accortezza di non forzare una presentazione. Lei vide un uomo straordinariamente alto, brutto (pensò), con uno strano volto schiacciato, severo e ironico nell’espressione, ma capace di gentilezza. Prima che scendessero per la cena, mentre a Charlotte era concesso di appartarsi nell’ombra, vide Thackeray osservarla attraverso le lenti degli occhiali. Poco dopo, lui le andò incontro a passo lento e disse: «Diamoci una stretta di mano»571. Sulle prime sembrò non ci fosse bisogno di nomi o pseudonimi: solo questo semplice gesto di riconoscimento. Ma dopo la cena e i sigari, quando i gentiluomini raggiunsero le signore in salotto, Thackeray fece un passettino verso Charlotte citando il passaggio di Jane Eyre sul «profumo rivelatore» del sigaro del signor Rochester. Thackeray non aveva affatto il senso della reticenza572: quando conversava confidenzialmente con amici e conoscenti, non si soffermava mai a valutare ciò che era il caso o meno di dire. Non volendo essere idolatrata, Charlotte custodì il proprio segreto con muta raffinatezza. Non giocò mai a calarsi nei panni della celebrità: il suo era un altro ruolo.
Il suo piano era quello di tenere distinte la fiera scrittrice e la signora di buona famiglia. Il suo grigio contegno, la sua tremante timidezza, erano vitali per la sopravvivenza in società. Ciò la metteva sempre a rischio di esposizione; era vulnerabile perché la scrittrice poteva tradire la signora – che doveva mostrare un’evidente vulnerabilità, per rafforzare la pretesa di essere signorile.
Allo stesso tempo, era decisa a raccogliere materiale: doveva osservare e assimilare ogni cosa. Fremeva, a detta di Thackeray, ma invece di chinare la testa sollevò gli occhi per giudicare da sé: «Nuova nel mondo londinese, lei vi entrò con lo spirito indipendente e indomabile che le era proprio, e valutò i contemporanei, spiandone soprattutto l’arroganza o l’ostentazione, con una straordinaria acutezza»573. Aveva occhi luminosi capaci di accendersi di curiosità. La figlia più grande di Thackeray, Anne, ricordò come Charlotte sedesse guardando suo padre «con occhi ardenti di interesse, che di tanto in tanto si accendevano, illuminandosi, quando gli rispondeva. Riesco ancora a vederla: sporta sul tavolo, non toccò cibo e rimase attentamente in ascolto di ciò che lui diceva mentre era alle prese col suo piatto»574. Thackeray non le piacque del tutto: sebbene apprezzasse la sua semplicità, la sua tendenza all’adulazione e la sua eccessiva accondiscendenza nei confronti delle signore altolocate indicavano una debolezza – «non detestabile»575. Non si sentì intimorita dai sette critici di punta invitati alla cena né dallo «spaccone»576 signor Forster, e nemmeno dalle smorfie del signor Chorley. Analizzò il signor Chorley a mo’ di campione del suo genere, «incerta se, una volta esplorati i più remoti recessi del suo carattere, il risultato sia totale disprezzo e avversione o se per qualche sua dote latente ci si senta pronti a perdonargli i limiti palesi. Si sarebbe ben disposti a scusargli le sgradevoli fattezze, la voce bizzarra, perfino la profonda vanità e l’affettazione, se tali difetti s’accompagnassero a un talento vivo e a una qualche scintilla di autentica bontà. Se a contare in una persona sono le conoscenze, l’eleganza e un’affettata filantropia, Chorley è una creatura ammirevole».
Per capire il tipo di donna che Charlotte stava portando alla luce, non possiamo fermarci ai suoi aspetti patetici. Dobbiamo osservare la messa in scena di una timida femminilità, per la quale l’acrobazia verbale dell’accondiscenza nei confronti di Southey era stata un brillante giro di prova, dobbiamo tenere conto del carattere eversivo della sua scelta dell’anonimato e della vita ritirata e dobbiamo ascoltare i commenti degli intellettuali londinesi che non furono in grado di portarla allo scoperto. Il suo silenzio, infatti, tracciava un’incolmabile lacuna tra la scrittrice e la donna. Come avrebbe potuto la modaiola Londra ricondurre l’impetuosa voce che aveva udito in Jane Eyre e Shirley a questo tremante topolino? Alla lunga, Charlotte si sentì fuori posto in casa degli Smith. La signora Smith e le figlie la trovarono un’ospite difficile, silenziosa e assorta in se stessa. Si tenne ben lontana dal suo carattere domestico: la cancellazione di sé era pensata per annullare, in pubblico, la donna passionale e smorzare il volume della sua voce.
Quando l’apparizione pubblica si faceva inevitabile, Charlotte era allenata a evitare l’immagine della “signorina sfrontata”: ogni gesto, ogni movimento o espressione del volto affermava il contrario. Non riuscì a prevenire, perciò, l’immagine opposta – ugualmente rozza e semplificata, eppure prontamente suggerita da uomini di mondo come Lewes e Thackeray: la triste zitella, affamata di sesso, che avrebbe smesso di rompersi la testa con la scrittura se fosse riuscita a trovare un “Tomkins” qualunque col quale accoppiarsi. Thackeray giunse a questa rapida conclusione, nonostante ammirasse sinceramente le capacità intellettuali di Charlotte, proprio come fecero uomini meno brillanti, ma si trattava di un grossolano equivoco. Nella sua vita, Charlotte avrebbe rifiutato quattro offerte di matrimonio: quella del reverendo Nussey, nel marzo 1939; quella dell’impulsivo ospite irlandese, il signor Bryce, nell’agosto dello stesso anno, e due che sarebbero arrivate in seguito. Per tutto il tempo, era stata decisamente armata contro il seduttore che possedeva «l’arte di impressionare le signore con qualcosa di apparentemente involontario nel suo sguardo e nei suoi modi – lasciando credere che gli importi qualcosa di loro, mentre le sue parole e azioni sono del tutto noncuranti, disattente e per lui stesso mai compromettenti. Solo gli uomini che hanno visto molto della vita e del mondo, e perciò sono diventati in una certa misura indifferenti all’attrazione femminile, possiedono tale arte»577. Nessuna donna mondana sarebbe potuta essere più accorta. Ma Charlotte sapeva comprendere, allo stesso tempo, la suscettibilità del suo genere. Conosceva l’alienazione causata dal vuoto che incombeva nella vita delle donne. Obbligate all’inattività, le donne erano facili prede di un’eccitazione illusoria: «Mentre le loro menti sono perlopiù inoccupate, le loro emozioni sono come nuove, e di conseguenza fresche e appassionate [...]. Vorrei solo poter infondere nell’anima dell’oppressa un po’ della calma forza dell’orgoglio – della confortante consapevolezza della propria superiorità»578.
In qualche modo eredi dell’opinione di Thackeray, le femministe del XX secolo criticarono il bisogno di un maestro espresso da Charlotte. Ma la loro è una posizione riduttiva che non ha saputo riconoscere le distinzioni operate dalla scrittrice: il fatto che Shirley ceda all’attrazione per il suo precettore, Louis Moore, potrà forse non rispondere al nostro gusto, ma se non altro l’eroina sta scegliendo un’autorità intelligente e spirituale contro il potere materiale, la brutalità e il mero status dei suoi altri spasimanti. E non possiamo non tenere conto della sagace risposta che Charlotte diede a un’amica che aveva dichiarato di volere un marito dotato di grande forza di volontà, anche se despota: «Se suo marito ha una forte determinazione, deve anche avere una forte sensibilità, un cuore gentile, una nozione estremamente corretta di giustizia. Perché un uomo con un cervello debole, freddo negli affetti e dotato di forte volontà è solo un nemico ingestibile: non puoi mai essere sicura di avere presa su di lui, non puoi guidarlo nel modo giusto. Un marito che si comporta come un despota in ogni circostanza è una maledizione»579. In privato, con Ellen, mostrò la propria forza; in pubblico, il suo comportamento non recava traccia della sua capacità di giudizio e della sua superiorità. Eppure, sotto quella nervosa reticenza, quelle doti erano lì.
Durante quel soggiorno a Londra del dicembre 1849 e quello successivo, sei mesi più tardi, il momento più difficile fu quando Thackeray, che disprezzava le messinscene di ogni sorta, sfidò pubblicamente lo scarto tra la scrittrice e la donna580. Fu apparentemente un gesto crudele. Eppure era stata lei, in fondo, ad averla preparata. Thackeray smascherò il suo bluff rifiutandosi di stare al suo gioco. Il 12 giugno del 1850, a una festa in suo onore nella residenza dello scrittore al numero 13 di Young Street, Kensington, Charlotte venne esposta al pubblico. Tra gli ospiti c’era un’autrice di nome Catherine Crowe, i Carlyle e una poetessa, Adelaide Anne Procter581, che era in contatto con i Sidgwick di Stonegappe. Tutti gli sguardi erano puntati su di lei – specialmente quando Thackeray la chiamò «Currer Bell»582 mentre scendeva per cena a braccetto con lei, che arrivava a stento al gomito dell’uomo. Indignata, Charlotte rafforzò ancor di più la propria copertura.
«Credo che ci siano dei libri pubblicati a nome di Currer Bell», rispose, «ma la persona a cui vi rivolgete è la signorina Brontë – e non vedo alcuna connessione tra i due». Così, con una reazione tanto pronta quanto spietata e divertita, sconfisse Thackeray in casa sua.
Da sola, rovinò la festa. George Smith ricordò il modo in cui aveva spiazzato le donne di società583.
«Spero che Londra le piaccia», le disse l’amica speciale di Thackeray, la signorina Brookfield, nel tentativo di attaccare bottone.
«Mi piace e non mi piace», tagliò corto Charlotte.
Lasciando cadere qualsiasi domanda e rifiutandosi di dare avvio alle brillanti conversazioni che tutti si aspettavano, l’ospite d’onore abbandonò il salotto e si ritirò nell’angolo più scuro dello studio con la governante, la signorina Truelock. Non avrebbe parlato con nessun altro, nemmeno con Jane Carlyle. La stanza si fece più buia quando una lampada iniziò a emettere fumo. Calò il silenzio e l’imbarazzo prese il sopravvento. Anne Thackeray vide suo padre sparire dalla porta principale con un dito alle labbra. Scappato dalla sua stessa festa, si rifugiò nella sicurezza del suo club584. L’insistente ricerca dell’invisibilità da parte di Charlotte, che si era appartata con la governante quando ci si aspettava che interpretasse il ruolo della celebrità, parve a George Smith un’irritata reazione dovuta al fatto che egli stesse rivolgendo le sue attenzioni all’attraente signorina Procter – non sapeva che la signorina era inoltre in rapporti con i vecchi datori di lavoro di Charlotte.
Per il mondano editore, Charlotte Brontë si era dimostrata socialmente inetta rifugiandosi nell’isolamento. Ma il suo era anche un atto di ribellione: la rivendicazione dell’anonimato.
445 W.M. Thackeray a WSW, 23 ottobre 1847, in LFC, II, p. 149.
446 CB a WSW, 4 gennaio 1848, CBL, II, pp. 3-4.
447 La signorina Evans, come la signorina Temple, lasciò la scuola per sposarsi. Divenne la moglie del reverendo James Connor di Oswestry il 6 luglio del 1826. Più tardi, nel 1857, testimoniò in favore della Clergy Daughters’ School in occasione di una causa. Per la vicenda della signorina Evans, vedi Winifred Gérin, Charlotte Brontë: The Evolution of Genius, Oxford University Press, 1967, Additional Notes, p. 592.
448 CB riporta questa scena e i relativi dettagli in una conversazione con EG, quando entrambe si trovano ospiti al Kay-Shuttleworths. EG lo racconta a Catherine Winkworth (25 agosto 1850), LFC, III, p. 144. Spesso si ritiene che le espressioni sorprese di PB siano «più che credibili» (come scritto appunto in Elizabeth Gaskell, Life; trad. it. La vita di Charlotte Brontë, Milano, La Tartaruga, 1987.), ma qui EG parla di una versione leggermente differente da parte di Charlotte immediatamente dopo averla ascoltata.
449 “Henry Hastings”, in Five Novelettes, a cura di Winifred Gérin, Londra, Folio Press, 1971; trad. it. Henry Hastings, Caivano, Albus, 2009.
450 A WSW, 4 gennaio 1848, CBL, II, p. 3.
451 È l’opinione della signora Smith, la madre di GS.
452 CB ne parla in Il professore, p. 82.
453 CB ne parla in Villette, p. 76.
454 CB, “Biographical Notice” (1850).
455 Lettera a MT, 4 settembre 1848. Si tratta dell’unica lettera sopravvissuta di CB a MT. La versione contenuta in LFC è molto imprecisa. Cfr. Joan Stevens, Mary Taylor Friend of Charlotte Brontë: Letters From New Zeland and elsewhere, Oxford University Press and Auckland University Press, 1972, appendice E. Cfr. anche CBL, II, pp. 111-115.
456 Il ricordo di George Smith di questo primo incontro differisce da quello di CB. Pur basandomi su entrambe, considero più affidabile la versione di CB, perché è stata scritta subito dopo i fatti, mentre quella di Smith è stata pubblicata oltre cinquant’anni dopo, nel dicembre del 1900.
457 Per le informazioni su WSW, cfr. Gérin, CB, p. 362.
458 GSR, I, cap. 6.
459 Ivi, cap. 5.
460 Vedi il modo in cui CB prese in giro GS (BPM. S-G 31), citato quasi integralmente sotto, cap. 7.
461 Per le impressioni di GS su CB vedi «Cornhill Magazine», dicembre 1900, pp. 783-784, riportato in George Smith: A Memoir With Some Pages of Autobiography, Londra, 1902. Quest’ultimo venne stampato per una circolazione privata dopo la scomparse di GS. Una copia si trova al Brontë Parsonage Museum (la copia appartenuta a Henry James). Ulteriori dettagli si posso trovare in GSR.
462 CB a MT, 4 settembre 1848; cfr Stevens, MT, Appendice E. CBL, II, pp. 111-115.
463 CB a EN. Nella lettera si congratula con lei per non essere tornata “guastata” da una visita a Londra, 19 giugno 1834, CBL, I, p. 128.
464 “Caroline Vernon”, in Five Novelettes, cit., p. 320.
465 31 luglio 1848, CBL, II, p. 95.
466 A EN, gennaio 1847, CBL, I, p. 511.
467 A WSW, 26 aprile 1848, BL. Add MS 39763. CBL, II, p. 55.
468 CB a WSW, 15 febbraio 1848, CBL, II, p. 28.
469 Alexander Pope, Saggio sulla critica, 1711.
470 MT alla signora Gaskell, 18 giugno 1856. LFC, I, p. 276
471 WMT alla signora Gaskell, 28 ottobre 1847. Berg. LFC, II, p. 150.
472 In una nota per CB allegata ad una lettera a WSW, Letters and Private Papers of William Makepeace Thackeray, a cura di Gordon N. Ray, Oxford, Oxford University Press and Harvard University Press, 1945, II, pp. 340-341.
473 Le considerazioni di CB su WMT sono in due lettere a WSW, 28 ottobre 1847 e 29 marzo 1848, CBL, I, p. 553, ii, p. 45.
474 CB a GHL, 6 novembre 1847. BL. Add MS 39763. CBL, I, p. 559. (le lettere di GHL a CB sono scomparse e probabilmente sono andate distrutte).
475 Appendice D all’edizione Clarendon di Sh, pp. 805-835. Si tratta di due capitoli e dell’inizio di un terzo.
476 Sh, p. 3.
477 CB a EN, 3 marzo 1846, LFC, iii, pp. 83-84.
478 Era questo il titolo assegnato da CB nel 1850, molto dopo la morte di PBB, a una poesia di EB, E.W. a A.G.A. ( Anne, Charlotte, Emily Brontë, trad. it. in Poesie, Milano, Mondadori, p. 718), datata 11 marzo 1844, quando PBB era ancora precettore a Thorp Green. Di sicuro interesse è l’opinione che CB si fece sui rapporti tra EB e PBB a partire dai Gondal Poems. Su una vita di perversione era il titolo a matita posto da CB sul manoscritto. The Complete Poems, a cura di Janet Gezari, Harmondsworth, Penguin, 1992, pp. 157-158. Vedi anche la nota di Juliet Barker in The Brontës: Selected Poems, Londra, Dent, 1985, p. 127.
479 Sulla somiglianza fisica tra CB e PBB: annotazione di un amico di PBB, George Searle Phillips, in LFC, II, p. 257.
480 CB definì nobile la fronte di PBB mentre lo osservava sul letto di morte. CB a WSW, 6 ottobre 1848, CBL, II, p. 124.
481 Ibid.
482 A WSW, 12 maggio 1848, CBL, II, p. 66.
483 MT a CB dopo aver letto JE, 24 luglio 1848, CBL, II, p. 87.
484 CB a GHL, 12 gennaio 1848. BL. Add MS 39763. CBL, II, p. 9.
485 Citato in Rosemary Ashton, G.H. Lewes: A Life, Oxford, Clarendon Press, 1991, p. 67.
486 GHL, recensione a Sh, in «Edinburgh Review», gennaio 1850, pp. 153-173. Cfr. The Brontës: The Critical Heritage, a cura di Miriam Allot, Londra Routledge, 1974, p. 162.
487 CB a GHL, 6 novembre 1847. BL. Add. MS 39763. CBL, I, p. 559.
488 A GHL, 12 gennaio 1848, BL. Add. MS 39763. CBL, II, p. 10. (È CB a citare a Lewes le sue stesse parole).
489 CB a WSW, 12 aprile 1850, CBL, II, p. 383.
490 CBL, II, p. 14.
491 CB a GHL, 17 ottobre 1850. BL. CBL, II, p. 485.
492 CB a GHL, 12 gennaio 1848. BL. Add MS 39763. CBL, II, p. 10.
493 “Memoirs of a Novelist” (1909), in The Complete Shorter Fiction of Virginia Woolf, a cura di Susan Dick, New York, Harcourt, 1985, p. 75.
494 CB a GHL, 18 gennaio 1848. BL: Add MS 39763, LFC, II, pp. 180-181.
495 CB a GHL, 12 giugno 1848. CBL, ii, p. 10; vedi anche p. 45; trad. it. in Lettere, Milano, SE, 2002, p. 105.
496 Le seguenti contestazioni a GHL sono tratte da due lettere a WSW di fine aprile-inizio maggio 1848. CBL, II, pp. 54-55, pp. 57-59.
497 18 gennaio 1848, CBL, II, p. 14.
498 Recensione a Sh, cit. p. 163.
499 Margaret Smith, “The Letters of CB”.
500 Vedi Juliet Gardiner, The World Within: The Brontës at Haworth: A Life in Letters, Diaries and Writings, Londra, Collin & Brown, 1992, p. 133.
501 Sh, p. 32.
502 Vedi CB a WSW, 21 agosto 1849, CBL, II, p. 237.
503 CB a WSW, 28 gennaio 1848, Berg. CBL, II, p. 23.
504 Sh, p. 417.
505 Il signor Bounderby (in Tempi difficili di Dickens) è il tronfio e ignaro proprietario di uno stabilimento che dichiara, quando i suoi operai lamentano di essere sfruttati, che vogliono mangiare con le posate d’oro.
506 EN a Clement Shorter, 20 ottobre 1895. Ellen Nussey Papers, Brotherton.
507 CB a WSW, circa 10 febbraio 1849, CBL, II, p. 181. Altre fonti a proposito dei curati sono fornite da Herbert Rosengarten nelle note esplicative a Shirley, p. 648.
508 CB a EN, 28 gennaio 1850, CBL, II, p. 337
509 CB a EN, 13 dicembre 1846, CBL, I, p. 507; trad. it. in Lettere, cit., p. 96.
510 CB a EN, 7 ottobre 1847, CBL, I, p. 547.
511 La data riportata alla fine del primo volume è «settembre 1848».
512 LFC, II, p. 258.
513 BPM. Bon, p. 38.
514 Gardiner, op. cit., p. 130.
515 A WSW, 2 ottobre 1848, CBL, II, p. 122; trad. it. in Lettere, cit., p. 115.
516 Ibid.
517 CB, “Biographical Notice”.
518 CB a EN, 10 dicembre 1848, CBL, II, p. 152.
519 CB a WSW, 25 dicembre 1848, CBL, II, p. 159; trad. it. in Lettere, cit., p. 130.
520 In morte di Emily Jane Brontë, CBP, p. 241; trad it. in Poesie, cit., p. 417.
521 CB a WSW, 25 dicembre 1848, CBL, II, p. 159; trad. it. in Lettere, cit., pp. 130-131.
522 Gardiner, op. cit., p. 129.
523 CB lo disse a EG, EG a Catherine Winkworth (25 agosto 1850), LFC, III, p. 144.
524 CB a WSW, 15 gennaio 1849, CBL, II, p. 168.
525 Ibid.
526 CB a WSW, 16 aprile 1849, CBL, II, p. 203.
527 CB a WSW, 5 aprile 1849, CBL, II, p. 196.
528 EN fornì a EG una descrizione degli ultimi giorni di AB per Vita di CB. LFC, II, p. 336; trad. it. in Lettere, cit., pp. 141-144.
529 Ibid.
530 A WSW, 13 giugno 1849, CBL, II, p. 220.
531 Sh, p. 338.
532 Ivi, cap. VII, pp. 309-310.
533 Ivi, cap. IV; trad it. p. 473, “La prima donna saccente” [l’espressione «Woman God», qui resa con “Divinità Donna”, è omessa nella traduzione italiana di Shirley adottata, N.d.T.]. Shirley scrive questa parabola nello spirito di un devoir francese. CB la traduce in inglese su richiesta dei suoi editori. Come nel caso delle sue lettere a CH, per lei dev’essere stato liberatorio esprimere i pensieri più reconditi in una lingua straniera.
534 Sh, cap. IV, trad. it. pp. 470-474.
535 Ivi, cap. XXII, “Due vite”, p. 373.
536 CB a WSW, 5 aprile 1849, CBL, II, p. 197.
537 Virginia Woolf, Gli anni, Roma, Newton Compton, 1994, p. 232.
538 Per queste osservazioni sono in debito con Lucasta Miller, conversazione del maggio-giugno 1993.
539 Sh, II, cap. iii; trad. it. p. 253.
540 Sh, II, cap. ii; trad. it. pp. 237-238.
541 Sh, iii, cap. iii; trad. it. p. 438.
542 Sh, iii, cap. viii; trad. it. p. 530.
543 Sh, ii, cap. viii; trad. it. p. 385.
544 MT a EN, 11 marzo 1851. Berg. Stevens, MT, p. 104. Trascrizione dell’originale.
545 Mary Wollstonecraft, Sui diritti delle donne, Milano, Bur, 2008, p. 16.
546 MT a CB, aprile 1850, BPM. Stevens, MT, p. 94.
547 MT a EN, 11 marzo 1851, Berg. Stevens, MT, p. 104.
548 MT a CB, 13 agosto 1850, Berg. LFC, iii, p. 135.
549 Vedi Appendice C (a cura di Margaret Smith) dell’edizione Clarendon di Shirley: “A Word to the «Quarterly»”. Si tratta della prefazione che CB intendeva anteporre al romanzo, in cui rifletteva sull’insostenibile posizione dell’istitutrice inglese, come confermato delle citazioni riportate nella recensione critica di Jane Eyre scritta da Elizabeth Rigby e apparsa sulla «Quarterly». La signorina Rigby rivendicava implicitamente la propria superiorità esprimendo la sua preoccupazione unicamente per le esigenze delle classi superiori.
550 Sh, I, cap. X (“Old Maids”); trad. it. “Le vecchie zitelle”, p. 165.
551 Ivi, iii, cap. II; trad. it. p. 424.
552 . Ivi, iii, cap. I; trad. it. pp. 408-409.
553 . A WSW, 19 novembre 1849, CBL, ii, p. 291.
554 A WSW, 4 giugno 1849, CBL, ii, p. 216; trad. it in Lettere, cit., p. 145.
555 Sh, iii, cap. xiv (“The winding up”); trad. it. (“La conclusione”), p. 622.
556 . A EN, 28 gennaio 1850, LFC, iii, p. 71.
557 Sh, ii, cap. I; trad. it. p. 208.
558 ABN si lamentò quando lesse la scena di apertura di Shirley (trad. it. p. 4) dalla quale sono prese le seguenti citazioni. CB a EG, 26 aprile 1854, John Rylands University Library, Manchester.
559 Sh, iii, cap. iii; trad. it. p. 448.
560 Sh, I, cap. iv, trad. it. p. 51.
561 CB a WSW, 22 novembre 1848, LFC, ii, p. 287. Accadeva nel periodo in cui EB era prossima alla morte e AB ammalata; trad. it. in Lettere, cit., pp. 121-122.
562 Sh, I, cap. iv; trad. it. p. 51.
563 vi, ii, cap. iv; trad. it. p. 202.
564 CB a WSW, 16 novembre 1848, CBL, II, p. 140. CB scrive dopo aver letto la recensione contenuta in «The Spectator» relativa alla ristampa da parte della Smith, Elder delle Poesie dei Bell.
565 CB a WSW, 2 novembre 1848, CBL, II, p. 133.
566 Poesia 123, Aye, there it is, datata 6 luglio 1841, The Complete Poems, cit., p. 131, a cura di Gezari, trad. it. in Poesie, cit. p. 657.
567 George Smith Memorial Bequest, BL. Add MS 43477-9.
568 CB a WSW, 26 luglio 1849, CBL, II, p. 232.
569 CB a WSW, 21 settembre 1849, CBL, II, pp. 260-261.
570 A EN, 3 maggio 1848, CBL, II, p. 62.
571 CB a PB, 5 dicembre 1849, CBL, II, p. 301.
572 GSR, I, cap. 10.
573 “The Last Sketch”, che accompagna la sua introduzione a “Emma”, «Cornhill», n. 1, 1860.
574 “Chapters From Some Memories”, 1894, citato in Gérin, Anne Thackeray Ritchie: A Biography, Oxford University Press, 1981, pp. 49-51. Anne aveva tredici anni all’epoca. CBL, II, Appendix, pp. 745-756.
575 CB confida le sue impressioni sul carattere di WMT a GS, ricevendo da lui in regalo un ritratto di Thackeray, 26 febbraio 1853, CBL, III, p. 128.
576 CB a Laetitia Wheelwright, 17 dicembre 1849, e CB a WSW, 19 dicembre 1849, CBL, II, p. 309, p. 313.
577 A EN, 31 luglio 1845, BPM. Gr E:7. CBL, I, p. 412.
578 A EN, 26 agosto 1846, CBL, I, p. 494.
579 A EN, 29 giugno 1847, CBL, I, p. 532.
580 GSR, I, cap. 10.
581 Ringrazio per questi dettagli Audrey W. Hall.
582 Charles e Frances Brookfield, Mrs Brookfield and her Circle, Londra, Pitman and Sons, 1905, p. 305.
583 GS: A memoir, p. 98.
584 Gérin, Anne Thackeray Ritchie, cit., pp. 49-51.