7. I limiti dell’amicizia

Al suo ritorno, nell’estate del 1849, Charlotte sentì il ticchettio dell’orologio risuonare nella canonica ormai vuota, e dovette realizzare di avere due possibili modi di leggere la propria storia. Doveva forse considerarsi una specie di reliquia di una famiglia dannata, in quanto unica superstite di sei figli e convinta com’era che la sua costituzione e quella delle sorelle fosse stata compromessa dalla Clergy Daughters’ School585? Quell’estate, quando si definì la più «debole e gracile»586 della prole Brontë, stava attirando l’attenzione sulla sua improbabile sopravvivenza o era invece speranzosa di continuare a vivere contro ogni aspettativa? Forse entrambe le cose, ma quanto fece suggerisce che volle dare maggior credito alla seconda possibilità. Questo stato d’animo è cristallizzato nel romanzo che avrebbe scritto di lì a poco: «Mi vidi nello specchio, nel mio vestito da lutto: un’apparizione sbiadita, con gli occhi incavati. Ma mi curai poco di quella pallida vista. L’avvizzimento, ne ero sicura, era perlopiù esteriore: sentivo ancora la vita alle sue fonti»587.

La speranza, disse a George Smith, non fioriva facilmente nel rigido clima di casa sua, ma i boccioli erano spuntati; la «Forza d’animo» la aiutava a superare anche le notti più inquiete, quando doveva attraversare quello che chiamava il «misterioso» e i morti le facevano visita588. La forza d’animo fu ciò a cui si aggrappò quando le lettere da Cornhill le sembrarono indispensabili per annaffiare quei boccioli di speranza.

All’inizio, nell’estate del 1849, riuscì a trasformare la solitudine nell’isolamento del creativo. In quella casa silenziosa, circondata dai ricordi, sarebbe stato facile lasciarsi inghiottire dal dolore, lì dove Anne ed Emily si erano a poco a poco spente; eppure, ad appena qualche giorno dalla morte della sorella più piccola, seppe domare la sofferenza con una straordinaria mole di lavoro. E, pur dovendo sbrigare le faccende domestiche e prendersi cura del padre, ora aveva la libertà: non doveva più assistere le malate né guadagnarsi da vivere controvoglia e, ovviamente, era libera dalle continue gravidanze, dai ritmi di fabbrica o dagli obblighi sociali che esaurivano le risorse anche delle donne più energiche della sua epoca. In un certo senso era più fortunata di Florence Nightingale, ricca, giovane e bella, con una famiglia alle spalle e uno stuolo di pretendenti a farle la corte, ma spinta quasi all’orlo della follia, nei primi anni Cinquanta dell’Ottocento, dal costante contatto con le sorelle, dalle incessanti visite di cortesia e dall’obbligo di partecipare alle feste, tutte attività che la distolsero per anni dal suo autentico interesse589. Charlotte, per quanto sola e priva di dote, disponeva liberamente del proprio tempo: un lusso più che mai necessario. Qualche intrepido avventuriero si spingeva fino a Haworth, ma la remota posizione del villaggio, tanto deprecata da Charlotte, fu anche la sua protezione. La determinazione con cui portò a termine Shirley e la pronta reattività con cui intrecciò nuovi legami tra il 1849 e il 1853 rinforzano l’immagine che aveva presentato in Jane Eyre: quella della sopravvissuta, o della pellegrina che non indugia dinanzi a una nuova fatica.

Segnata dal continuo sforzo per andare avanti, questa fase fu più attiva che mai: visite a Londra, ai Laghi, Edimburgo e Manchester; l’intensa amicizia con George Smith e il suo vigoroso direttore editoriale, James Taylor; la conoscenza di altre donne scrittrici, Harriet Martineau (il cui Deerbrook aveva influenzato Charlotte nel 1839, quando stava lottando per divincolarsi da Angria) ed Elizabeth Gaskell, il cui romanzo di debutto a sfondo industriale, Mary Barton (1848), fu pubblicato prima di Shirley. Charlotte aveva letto il libro mentre le sorelle stavano morendo, e in seguito avrebbe detto alla signora Gaskell: «Ci sono parti di Mary Barton che non leggerò una seconda volta», parti che l’avevano trafitta con «un’emozione troppo acuta»590. Charlotte spedì una copia di Shirley sia a Gaskell che a Martineau, ed entrambe risposero in termini assai favorevoli; Gaskell disse che avrebbe fatto «tesoro» delle opere di Currer Bell per passarle alle figlie. Negli anni successivi, nei lunghi periodi in cui Charlotte rimase in Yorkshire, un gran numero di lettere tenne in vita questi legami.

L’ampliarsi delle sue corrispondenze, nel momento in cui stava diventando una celebrità, rende difficile individuare la traiettoria che l’autrice seguì in questa fase. Fino alla pubblicazione di Shirley, il lavoro intellettuale era stato al centro della sua vita, ma, una volta dato alle stampe il libro, non iniziò un nuovo romanzo per almeno un anno e mezzo. Sapeva attendere con pazienza la vocazione autentica, ed era convinta che ogni seria trasposizione della vita nella pagina scaturisse dall’esperienza personale reale, che non poteva essere forzata.

Disse: «Da quando ho pubblicato Shirley, non ho ancora accumulato esperienze tali per cui io senta il bisogno di tornare a parlare e, finché non l’avrò fatto, spero che Dio mi conceda la grazia di rimanere muta»591.

Ora in molti le scrivevano per avere la sua opinione sui loro libri di scarso valore, o semplicemente per fare la sua conoscenza, spesso adulatori che «letteralmente fraintendono tutto di me»592. Cosa c’era al centro dei suoi pensieri: le nuove amicizie con gli autori, con i quali poteva ad esempio discutere l’articolo “Sull’emancipazione femminile” (pubblicato anonimamente da Harriet Taylor Mill) apparso sulla rivista «Westminster Review»593? Oppure il cupo silenzio della canonica e la nostalgia delle chiacchiere domestiche? Giorno dopo giorno, la routine si ripeteva scandita dalle lancette dell’orologio: colazione con papà alle 9, faccende, cena alle 14 da sola, tè alle 18, preghiere alle 20,30. Poi, quando la domestica si ritirava, alle 21, Charlotte camminava su e giù per la sala da pranzo per un’ora buona, ripensando alle sorelle (nel 1853, quando visitò la canonica, Elizabeth Gaskell sentì Charlotte camminare tutte le sere: «Quel lento, monotono e incessante calpestio, nel quale, ne sono certa, fantasticai di sentire anche i passi dei morti che mi seguivano»594). Papà rimaneva, come sempre, nel suo studio. Quando James Taylor era andato a prendere il manoscritto di Shirley, nel settembre 1849, Charlotte si era scusata per suo padre: non poteva invitare il signor Taylor a fermarsi per la notte come avrebbe voluto595 perché il reverendo non «era in condizioni di offrire all’ospite una gran compagnia». E non si aspettava che avrebbe cambiato abitudini, alla sua età. Lei e Gaskell erano d’accordo nel ritenere che l’articolo “Sull’emancipazione femminile” sbagliasse a rivendicare un potere senza cuore contrapposto al profondo sentimento dell’altruismo. Agli occhi di Charlotte il padre, settantaduenne, era un uomo molto anziano che lei aveva il compito di curare con amorevole premura. «Quando non ci è rimasta che una sola cosa cara, la teniamo in grande considerazione»596, dichiarò. Era sua abitudine prendere il tè insieme al papà; se era presente anche il signor Nicholls, lei si ritirava presto nella sala da pranzo al di là del corridoio. Tra le otto e le nove, il signor Nicholls se ne andava: mentre sedeva ancora sola, sentiva i suoi passi allontanarsi e la porta richiudersi dietro di lui. Dopodiché, l’aspettavano quelle ore serali durante le quali, un tempo, lei e le sorelle erano solite condividere i propri lavori; e poi le notti in bianco, salvo le rare occasioni in cui Ellen le faceva visita e condividevano il letto. Come confidò all’amica, il suo problema non era essere una donna nubile che sarebbe probabilmente rimasta nubile; piuttosto essere una donna sola che sarebbe probabilmente rimasta tale.

L’eccessivo peso di questa solitudine la portò a prendere in considerazione James Taylor. A un certo punto, tra il 1849 e il 1850, divenne chiaro che lui avrebbe potuto farle una proposta di matrimonio. Da quando lei gli aveva inviato la prima parte di Shirley, nel febbraio 1849, egli aveva dato avvio a una corrispondenza, inizialmente per commentare i punti di forza e le debolezze del romanzo, poi per scambiarsi opinioni sui saggi che aveva preso a spedirle. La sua raffinata scelta di volumi dava prova di grande attenzione per il carattere e la sensibilità di Charlotte, che a sua volta scriveva per parlargli dei libri che aveva letto, come The Soul: her Sorrows and her Aspirations (1849) di Francis Newman (fratello del più famoso convertito al cattolicesimo del secolo, John Henry Newman, in seguito cardinale Newman). «Avete letto quest’opera?», chiese Charlotte a James Taylor. «È audace – si presta a fraintendimenti – ma è pura ed elevata»597. Le risposte di Taylor, sincere e asciutte, mostravano una compatibilità intellettuale; la posizione di potere che rivestiva alla Smith, Elder era il risultato della sua rettitudine e autorità. Aveva quaranta uomini sotto di sé, che governava con volontà d’acciaio – “acciaio” era una parola che affiorava spontaneamente sulle labbra di Charlotte ogni volta che pensava a lui.

La loro relazione non era molto diversa da quella tra Jane Eyre e St John Rivers, solo che Taylor non era un Adone: era uno scozzese dai capelli biondo-rossicci che Charlotte, nelle conversazioni private con Ellen, chiamava «il piccolo uomo». C’era rispetto senza attrazione. In una simile situazione, non è raro che il rispetto e gli interessi comuni portino al sorgere dell’affetto. In più occasioni Charlotte mise alla prova il carattere rivelato da Taylor nelle lettere e negli incontri di persona. Quando lui manteneva le distanze, lei si sentiva al sicuro; ma v’era in Taylor una certa invadenza che si manifestò quando s’incontrarono a Londra, nel dicembre 1849, e dalla quale lei si ritrasse d’istinto. Cercava di farselo piacere, ma il suo corpo si irrigidiva e nulla era in grado di ammorbidirla se non «la totale repressione del suo [di Taylor] atteggiamento»598. Temeva che si sarebbe potuto rivelare un uomo del genere di Helstone599: scaltro, dominante – e insensibile nei confronti delle donne. Dopo essere stata a lungo preda della passione per Heger, una passione immaginaria proiettata in tutti i suoi romanzi, ora contemplava la possibilità di un’unione che avesse basi razionali e ovvie ragioni: il conforto dalla solitudine, la sicurezza una volta che suo padre fosse morto e, forse, qualcosa in più. Prendere in considerazione una simile possibilità non era un’aberrazione, anche se può sembrarlo, bensì un’esigenza di quel suo io giudizioso e sollecito che cercava di riportare le passioni entro i limiti della ragione.

L’atteggiamento di Charlotte nei confronti di Taylor era sobrio e civile, disinvolto nelle questioni morali, ma per il resto improntato a una correttezza piuttosto rigida. È impossibile scorgervi la benché minima traccia di propensione. Chi può dire se, onesta com’era, non seppe fingere un’infatuazione che non c’era, o se stava cercando di non esporsi eccessivamente con un uomo dal carattere in parte autoritario? Ma, se Taylor aveva una certa sensibilità, lei gli rese le cose difficili. Non rivelò nemmeno uno spiraglio del suo “carattere domestico” – eppure, dal canto suo, continuava a esaminarlo con circospezione e metterlo alla prova. Quando lui le spedì Life and Correspondence of Thomas Arnold (1844) di Stanley, lei fece notare che, pur essendo un uomo determinato e ambizioso, il dottor Arnold non era stato carente nel versante degli affetti600. Taylor come si sarebbe comportato? Come avrebbe reagito? In coppia avrebbe consentito uno scambio alla pari o avrebbe chiuso le orecchie a qualsiasi suggerimento proveniente dalla compagna? Il buon senso e i sani principi che affioravano nelle lettere di Taylor concimarono i boccioli di speranza. Ma quando lo incontrò di nuovo a Londra, nell’estate del 1850, egli “invase” la sua anima ficcanasando caparbiamente nell’intimità di Charlotte601. Volgere lo sguardo da Taylor al suo capo, George Smith, fu come passare dal freddo acciaio a una soffice pelliccia.

Se Taylor aveva suscitato una combinazione di speranza e rigetto, George Smith liberò in Charlotte un umore leggero e spensierato. Questo esplose subito dopo la sua trionfante visita a Londra, alla fine del 1849, in quanto autrice di un secondo romanzo di successo. Era orgogliosa di essere ormai un «pilastro»602 della Smith, Elder & Co., assurta al rango degli editori di prima grandezza grazie all’enorme successo di Jane Eyre. Attraverso Charlotte, prima Thackeray e poi Elizabeth Gaskell entrarono nella scuderia della casa editrice. Durante il suo primo soggiorno presso gli Smith, al numero 4 di Westbourne Place, l’autrice si ritrovò al centro di mille attenzioni: il fuoco scoppiettante nel caminetto e due candele accese nella sua stanza, e la rassicurante vicinanza della signora Smith quando Charlotte era circondata da gentiluomini, incluso lo stesso George – alto, ben fatto, sicuro di sé603, con il portamento di un fantino provetto e cavaliere «fin nel midollo»604. Inizialmente all’editore era sembrato che Charlotte difettasse di carattere e fascino, ma quando ebbe modo di conoscerla meglio trovò deliziosa la sua intelligenza «sveglia e brillante». «Quando un argomento la stuzzicava», disse, «diventava davvero eloquente»605. In quei casi, guardava l’interlocutore con vivo interesse e gli occhi le si accendevano. Tuttavia, la signora Smith, che vigilava sul «beneamato»606 figlio, fu rassicurata dal fatto che Charlotte fosse troppo timida per rivelarsi un’avventuriera. Era in realtà simile alla sua eroina, Elizabeth Hastings, dotata di intelletto e arguzia sufficienti perché le siano aperte le porte della buona società – che non approva, ma dalla quale è ben felice di ricevere un’illuminata approvazione.

Questo soggiorno dagli Smith fu la prima di una serie di visite a Londra che Charlotte fece tra il novembre 1849 e il gennaio 1853. In questo lasso di tempo si concesse di diventare visibile, almeno in parte, e incontrò alcuni colleghi scrittori e scrittrici, sempre dettando le condizioni delle proprie apparizioni in pubblico. Inviò un biglietto (firmato Currer Bell) per presentarsi a Harriet Martineau, che, a quarantasette anni, era la più acclamata scrittrice dell’epoca, in quel periodo più affermata di Charlotte, di Elizabeth Gaskell o della poetessa Elizabeth Barrett Browning e, in particolare nel 1849, all’apice della notorietà in quanto inflessibile detrattrice della Poor Law, che considerava punitiva, e sostenitrice del progresso delle donne negli ambiti dell’istruzione e del lavoro607. Quando Martineau era pressappoco ventenne, il suo fidanzato era morto e l’azienda di famiglia era fallita. La sua sordità le aveva precluso la professione della governante e così aveva deciso di guadagnarsi da vivere scrivendo. Negli anni Trenta dell’Ottocento si era fatta un nome per una pubblicazione divisa in ventiquattro piccole parti, Illustrations of Political Economy: George Smith ricordava che suo padre gli leggeva quelle “storie” quand’era ragazzino. All’età di trentacinque anni le era stato proposto di dirigere un nuovo periodico di economia, ma il tanto amato fratello James disapprovava, così la signorina Martineau aveva rifiutato l’offerta. Invece aveva scritto Deerbrook. Il 7 novembre 1849, Currer Bell le spedì Shirley accompagnando il volume con un bigliettino in cui dichiarava che Deerbrook aveva «corretto la mia visione della vita».

Il 9 dicembre, Charlotte, nell’abituale tenuta a lutto, si recò da sola in Westbourne Street (dietro l’angolo rispetto a Westbourne Place), dove alloggiava la signorina Martineau, per incontrare questa rispettata e schietta scrittrice. Arrivò quando in salotto era in corso una riunione di famiglia, ma identificò all’istante Harriet Martineau come la donna robusta che reggeva una cornetta acustica. La sua identità, disse alla signorina Martineau, doveva rimanere segreta.

«Cosa pensa onestamente di Jane Eyre?», voleva sapere. Charlotte non si capacitava che i critici avessero accusato il romanzo di “volgarità”.

«Lo considero un libro di prima qualità», disse Martineau, notando che la sua ospite aveva dei bellissimi capelli608, castano scuri e soffici. «Ho subito osservato», andò avanti, «che solo a una mente volgare Jane Eyre può apparire volgare». Davanti a lei c’era la creatura più piccola che avesse mai visto, le sembrava uscita da una fiaba, eppure Charlotte le apparve piena di energia.

Charlotte diventò rossa di gioia e gratitudine. Seduta al fianco della signorina Martineau, le inviò uno sguardo così «tenero e seducente» che quest’ultima ne rimase stupita e commossa. Charlotte era determinata a superare i modi bruschi della collega scrittrice e le loro divergenze d’opinione – in particolare il fatto che Martineau fosse atea – perché era convinta di trovarsi al cospetto di un modello incoraggiante: una donna indipendente che scriveva un libro dopo l’altro con uno scopo ben preciso. L’attrazione che provava per lei non si basava sull’affinità: Harriet Martineau non aveva «nemmeno l’ombra della riservatezza»609, avrebbe in seguito riferito a Mary. Non si aspettava che la signorina Martineau capisse il suo «atteggiamento da quacchera che aspetta la discesa dello spirito»610. La formazione dissenziente e le preoccupazioni pratico-economiche della sua nuova amica avrebbero potuto spingere Charlotte a vedere in lei una stimolante sostituta di Mary, ma non arrivò mai a confidarsi con Harriet Martineau – e in ogni caso, come sarebbe riuscito lo «spirito» a gridare in una cornetta acustica? Furono senza dubbio delle qualità antitetiche ad attrarre Charlotte: la totale assenza di ombre, la determinazione di una donna che impostava la propria vita sulla base di una professionalità priva di ogni frivolezza e la sua capacità di ignorare i sentimenti, che considerava una mera distrazione. Charlotte reputava Harriet Martineau un carattere ostinato611 che si irrigidiva se contraddetto, ma era sicura di avervi scorto anche una ruvida gentilezza che poteva essere toccata dalla pazienza e dalla sopportazione. La signorina Martineau, dal canto suo, fu contenta di trovare in Charlotte una proiezione di se stessa: una forte vocazione, l’assenza di qualsiasi «basso egotismo»612 e l’indifferenza alle lodi. Disse che «la forza morale di Charlotte non era di un filo inferiore alla forza intellettuale manifestata dalle sue opere». Pur essendo una persona molto attenta, inizialmente Martineau non diede molto peso al fatto che le passioni – che lei era arrivata a disprezzare – fossero centrali nella natura e nella scrittura di Charlotte. Il suo sguardo si fermò a contemplare con approvazione quella visitatrice composta, il cui volto assennato lasciava trasparire l’abitudine all’autocontrollo613.

A Londra, Charlotte evitò lo stress delle grandi feste e delle visite tanto amate da Thackeray. Quest’ultimo, che un tempo era stato per lei un modello, la sconcertava sempre più rivelandosi cinico e misogino. Dopo l’uscita del suo Rebecca and Rowena, in coincidenza con il Natale 1849, Charlotte discusse «la nostra causa» con la signora Smith, dichiarando che Thackeray meritava di essere punito «per il suo abuso di Rowena e delle donne in generale»614.

«Le dirò, mia cara Signora, quello che meriterebbe», disse, «prima dovrebbe essere arrestato, e tenuto in prigione per un mese, poi dovrebbe venir giudicato da una giuria di dodici signore [...] e sono convinta che non lo risparmierebbero».

Il padre della signora Smith, nata Elizabeth Murray, era stato un ricco produttore di oggetti in vetro615. Donna «di straordinaria arguzia e capacità intellettuale», come la definì il figlio, non si era persa d’animo quando suo padre prima e suo marito poi avevano perso soldi. Forte, di buona salute e piuttosto alta, la signora Smith era di carnagione scura per essere un’inglese, le sue gote risplendevano di una tinta rubizza e aveva occhi neri e attenti. Seppe accogliere la giovane ospite con la stessa calorosa sollecitudine di suo figlio. Sulle prime Charlotte, che praticamente non aveva avuto una madre e si era dovuta confrontare con l’indifferenza della signora Sigdwick e della signora White, aveva sopportato la prolungata ostilità di Madame Heger ed era stata persino allontanata dalla sua madrina quando Jane Eyre era stato accusato di volgarità, trattò la signora Smith con cauto riserbo. Ma, nel corso delle due visite del novembre-dicembre 1849 e del maggio-giugno 1850, le premurose attenzioni della signora riuscirono a scioglierla. Nei termini del pellegrinaggio, le visite alla signora Smith erano un po’ come le soste di Hopeful presso un ameno ruscello (come le visite di Lucy Snowe alla sua madrina descritte in Villette). Tali soggiorni erano per Charlotte poco più che “soste” e, poiché sapeva che non potevano rappresentare una destinazione, divenne per lei sempre più doloroso, in seguito, riprendere il suo arduo pellegrinaggio. Tuttavia, durante quelle pause nel salubre clima di casa Smith, visse una sorta di fioritura, sostenuta dal portamento deciso e dalla salda mano della signora Smith, che prendeva Charlotte sottobraccio accompagnandola alla scoperta della società londinese. Anche se l’ospite manteneva un atteggiamento di modesta compostezza, le signore della famiglia Smith trovarono Charlotte sconcertante: era attenta al punto da metterle a disagio, come se le stesse studiando per usarle in seguito nei suoi romanzi – cosa che in effetti fece. George Smith notò che, nel successivo libro di Charlotte, alcune delle espressioni tipiche di sua madre erano pronunciate «alla lettera»616 dalla madrina di Lucy Snowe, la signora Bretton, che sorveglia il suo bel figlio. Qualche anno più tardi, nel 1856, quando Elizabeth Gaskell incontrò gli Smith, trovò la signora Smith «esattamente come la signora Bretton. Il signor Smith disse (con una certa circospezione, rivedendosi a sua volta nel personaggio del dottor John [figlio della signora Bretton], immaginai): “Sa, a volte penso che la signorina Brontë aveva in mente mia madre quando ha creato la signora Bretton di Villette”»617.

Prendendo parte ad alcune esclusive cene londinesi, Charlotte si dimostrò irriverente anche nei confronti delle opinioni allora in voga: la sua modestia non velò la sua onestà in merito alla stravagante recitazione di Macready in Otello e Macbeth. «Vuoto nonsenso», disse: un simile istrionismo poteva forse andar bene per delle farse. «Gli attori non hanno capito nulla della tragedia né di Shakespeare, e lo spettacolo è stato un fiasco». Calò il silenzio. La costernazione dei mondani, abituati all’estasi per gli idoli londinesi, incitò Charlotte a dissentire ulteriormente. Ben conoscendo il genio di Emily, aveva una scarsa opinione di Elizabeth Barrett Browning, le cui Poesie (1844) erano così osannate che quando Wordsworth morì, nel 1850, molti la proposero come sua degna erede in veste di poeta laureato. Poiché il padre era un tiranno che aveva vietato alle figlie di sposarsi, nel 1846 Elizabeth era scappata in Italia in compagnia di un altro poeta, Robert Browning. Lì avrebbe scritto i Sonetti dal portoghese (1850) e la sua opera più nota, Aurora Leigh (1857). Il suo unico figlio era nato nel 1849, lo stesso anno in cui Charlotte espresse a Londra la sua opinione sui suoi versi: erano oscuri, verbosi, non meritavano ammirazione. Ancora una volta si creò il silenzio618.

Si fece sentire, dunque, oltre che vedere. Nella sua unica fotografia autenticata, appare posata e nient’affatto ordinaria. Il suo profilo è curato e regolare, i capelli le ricadono ai lati dell’ampia fronte e delle guance per raccogliersi all’altezza del collo. Offre alla camera il lato dove la linea della bocca è ben dritta, il mento tondo, la gola messa in risalto dall’abito: appare decisamente presentabile. È persino attraente nel semplice vestito scuro, a girocollo e abbottonato davanti – dà l’impressione di essere una persona senza pretese, ma sicura delle proprie opinioni.

George, in casa loquace e divertente, era più piacevole come figlio e fratello che come uomo d’affari. In una deliziosa lettera umoristica, Charlotte confortò Smith con quello che era arrivato a chiamare, nel loro linguaggio privato, un «confetto». Questi confetti erano pensati per addolcire la dose di amara «medicina» che Charlotte gli dispensava: in questo caso, la ridicolizzazione dei gusti femminili di George. Immaginò una scena comica in cui, con la massima serietà, lui e i suoi colleghi selezionano cappellini da esportare:

26 dicembre 1849

Mio caro Signore,

il Suo biglietto mi ha ricordato il “ritratto incrociato”; è troppo imprevedibile. Dovrebbe dare piena espressione al carattere che si attribuisce; io ho intenzione di guardare a Lei come “all’uomo d’affari testardo e taccagno”, solo che – ricordi – la Sua condotta dev’essere coerente con l’affermazione contenuta in questi epiteti. Se è “taccagno”, ritragga la mano da Currer Bell, non gli regali più libri; tendiamo a giudicare le persone soprattutto da come si comportano nei nostri confronti, e a derivare le nostre impressioni sulla loro natura principalmente da quello che vediamo [...].

Bisognerebbe studiare la natura umana in tutti i suoi aspetti; bisognerebbe poter osservare un amico, ad esempio, sia a Cornhill che a Westbourne Place; occorrerebbe sentirlo discutere di “sconti” e “percentuali”, oltre che ascoltarlo discorrere davanti al caminetto. Se una fata buona mi offrisse la possibilità di scegliere un dono, le direi: garantiscimi il potere di essere invisibile; ma aggiungerei: concedimi anche la grazia di non abusare mai di un simile privilegio. E non considererei un abuso l’impiego di tale dono per osservare, non vista, le contrattazioni di un gruppo di gentiluomini incaricati di selezionare cappelli per signora da esportare nelle Indie orientali. Lei non conosce questo aneddoto [...]. I cappelli erano stati scelti con cura dai gentiluomini, e in seguito – ispirati dal coscienzioso desiderio di fare le cose per bene – li avevano provati indosso e debitamente giudicati nel loro merito. L’immaginazione non può resistere alla tentazione di ritrarre la scena – sorge davanti ai suoi occhi, e la contempla con sguardo deliziato. Vede un retrobottega stipato di cappelliere, e tre arbitri che conosce assai bene: P... rimane sullo sfondo in attesa di preparare i pacchi. Le opinioni e i gusti differiscono quanto basta per rendere interessanti le discussioni. Un raso color blu genzianella è ritenuto più gradevole dal signor T.y..r; il sensibile occhio del signor W.....m trova particolarmente incantevole la ricca tinta di [...] un cappello vermiglio in velluto, mentre il signor G....e S..th è combattuto tra il più grazioso cappellino in seta stampata e quello più sobrio di paglia bianca con una singola piuma di struzzo [...].

Ovviamente è sbagliato tirare in ballo argomenti così frivoli in una lettera indirizzata a un “testardo e taccagno uomo d’affari”, ma la speranza è che un simile errore sia perdonato se accompagnato dalla promessa che non verrà ripetuto.

Porgendo i miei migliori saluti a Sua Madre e alle Sue Sorelle e augurando a Lei e a Loro un felice Natale, sono, mio caro Signore,

sinceramente vostra.

C. Brontë619

Proprio in questa fase in cui si avvicinò a James Taylor e George Smith, Charlotte cercò di stabilire i limiti dell’amicizia che poteva instaurare con un potenziale marito. Avendo affermato di disprezzare i curati come una specie inferiore, le sembrava che il partner ideale potesse provenire da quel mondo dell’editoria nel quale aveva appena messo piede: qualcuno che fosse in grado di bilanciare i suoi difetti con la considerazione del suo dono per la scrittura. Immagino che Charlotte abbia concentrato le sue mire sul meno desiderabile signor Taylor non solo perché «non gli mancava spirito né buon senso»620, ma anche per tenere a bada la tentazione di sentirsi attratta dal signor Smith. Era convinzione di Charlotte, proiettata nella sua nuova eroina romanzesca, Lucy Snowe, che una donna priva di fascino, di risorse economiche e di giuste relazioni non dovesse posare lo sguardo su uno di quei «ricchi e avvenenti»621 baciati dalla fortuna. Accarezzare l’illusione d’essere amata da un simile uomo mondano e viziato significava mettere in pericolo la propria pace mentale. Tornare ad aspettare disperatamente una lettera, cosa che Charlotte si ritrovò a fare nel febbraio del 1850, voleva dire rischiare di ricadere nella depressione che aveva sperimentato negli anni 1844-45 a causa di Monsieur. Così Charlotte tenne alta la guardia davanti alle galanterie e agli inviti di George Smith, anche se rispondeva alle sue lettere divertenti e pacatamente confidenziali con repliche scritte in egual tono. Questo atteggiamento di risoluta difesa, che era soprattutto una forma di autocontrollo, rende impossibile sapere con esattezza cosa Charlotte provasse per Smith; o, allo stesso modo, cosa egli sentisse per lei. Smith, immagino, rappresentò per Charlotte anche una prova legata alla sua ascesa di autrice: egli era in grado di placare la sua ansia per le apparizioni in pubblico? Lei era in grado di emergere dall’ombra delle sue eroine? Il tatto e la cavalleria di Smith l’avevano già scortata in modo sicuro attraverso un’esposizione pubblica che non avrebbe mai ritenuto possibile nella roccaforte di Haworth. Alla luce di questo fatto, fu forse tentata di fantasticare un altro tipo di relazione pubblica che – l’istinto le diceva – non sarebbe mai stata possibile? Anche se la ragione le suggeriva di non abbandonarsi al desiderio di lettere da Cornhill, lei rimase suscettibile, proprio come Elizabeth Hastings, che vorrebbe dalla società più di una semplice accettazione: vorrebbe un legame affettivo.

Le visite di Charlotte a Londra erano “premi” per il duro lavoro, ma anche prove di un sogno che Smith sembrava incoraggiare, sebbene con ritmo altalenante. Era un giovane uomo con ancora tanta strada da fare davanti a sé e avrebbe ben potuto sposare una delle più acclamate scrittrici dell’epoca. Dalle puntuali lettere di Charlotte affioravano un’attenta capacità di giudicare i volumi che lui pubblicava, calore e integrità, oltre a un giocoso umorismo: Smith seppe riconoscere quanto la scrittrice aveva da offrire. Molti anni dopo la scomparsa di Charlotte, nel dicembre del 1900, poco prima di morire, Smith disse qualcosa che a lei avrebbe senza dubbio fatto piacere: le sue doti personali di donna lo interessavano persino più dei suoi libri. Avendola accettata entusiasticamente come Currer Bell, egli seppe liberare quella parte di Charlotte Brontë che Currer Bell stava a rappresentare; e, per lei, l’idea di colmare il divario tra la donna e lo scrittore non poteva che essere eccitante. Ciò che accomuna Smith a Heger è che entrambi sembrarono offrirle la stessa opportunità che Rochester dà a Jane: la libertà di diventare visibile.

Non molto dotato d’immaginazione622, George Smith provava un’innata simpatia per le persone fantasiose e un sincero rispetto per coloro che inseguivano gli ideali intellettuali piuttosto che il mero benessere economico. L’orgoglio di Smith nel far parte di quello che Leslie Stephen aveva chiamato «il superiore mondo della letteratura»623 lo attrasse verso Charlotte Brontë, che gli rivelò l’ironia del suo “carattere domestico” più che a chiunque altro al di fuori della canonica – ma fino a che punto si spingesse tale attrazione restava da capire a mezzo di giochi e prove. Entrambi oscillarono avanti e indietro nel sondare i limiti dell’amicizia, con Charlotte più o meno convinta che il suo editore in ascesa e di belle speranze fosse destinato a una felicità in cui lei non era compresa. Charlotte traspose il proprio autocontrollo e la propria capacità di prendere le distanze, oltre che la mutevole opinione di George Smith che custodiva in se stessa, nelle riserve di Lucy Snowe nei confronti del cavalleresco Graham Bretton o, com’era chiamato all’estero, dottor John. Un lettore dell’epoca notò che Lucy «a malapena gli concedeva una chance»624. In seguito, nelle sue memorie, George Smith ammise di essere servito «da modello» per la figura romanzesca di Graham Bretton, e ricordò che Charlotte lo aveva confermato alla signora Gaskell.

Un mese dopo il suo primo soggiorno dagli Smith, il 23 gennaio 1850, Charlotte scrisse il primo frammento del romanzo che sarebbe poi diventato Villette625. Da subito si capisce che la narratrice è una donna che non si conosce a fondo. Si ritiene «per natura paziente e ancestrale», serena e dotata di scarsa immaginazione, pur possedendo un vero e proprio dono «per inventar storie». Il suo tentativo di raccontare la propria vita va preso come un “esperimento” – forse un esperimento con quelle inquietudini da “zitella” che avevano ossessionato Charlotte già dai tempi di Il professore: quali sono i loro effetti su una donna costantemente votata alla serenità, all’abnegazione e all’autocontrollo? Nel terzo frammento (non datato), che guarda indietro all’infanzia, una bambina [Paulina] confessa a un compagno, Graham [Bretton], che la narratrice è «una strana tipa – credo una strega». In alcune righe aggiunte in calce alla pagina, è definita «la ragazza più silenziosa e osservatrice mai esistita». Nel frammento finale (ugualmente non datato), Paulina e la narratrice, Lucy Snowe, ormai adulte e residenti all’estero, discutono di Graham, che nel frattempo è al centro dei loro interessi. Speculano su un suo flirt con la signorina Liddell (un nome poi sostituito con quello di Ginevra Fanshawe) e proseguono chiedendosi in che misura Graham sia un uomo leggero e noncurante:

«Lucy», chiese ora, «credi che Graham sia per natura un essere volubile?».

Risposi dicendo che non sapevo se era volubile o no.

«Credo che lo sia», proseguì. «Mi vengono da pensare molte cose su di lui – forse alcune sono immotivate. Credo che nessuno farebbe bene a... a – come si dice? – ad amarlo. L’altro giorno ho trovato in un libro quello che mi ha segretamente colpito per essere il suo fedele ritratto – era la descrizione di un uomo che si prendeva gioco della fiamma che lui stesso aveva acceso e sentiva ardere in sé, un uomo capace di rispondere alla tenerezza con ironia. Ma c’era di più in quel brano, e tutto rimandava a lui. So che lui è così. So che anche lui, se scoprisse e sentisse pienamente di essere amato, sopporterebbe – calmo, passivo, ma non per questo meno compiaciuto – ogni tenera carezza; ma si limiterebbe a sopportarla.

«Come è netta», notai, «l’immagine che ti sei fatta dell’indipendenza di Graham e del suo amor di sé».

«Ah! Ancora ricordo la mia infanzia», disse lei, «quanto spensierato e duro, buono e crudele, quanto caro e impietoso è stato con me...».

«E ora come ti sembra?», domandai. Risposi da sola: «Lo trovi spensierato, buono e caro. La durezza, l’assenza di pietà, la crudeltà, sono tutte svanite».

Mi dispiacque non essere del tutto convinta di quanto avevo detto – eppure pensavo davvero che se c’era a volte un’implacabile leggerezza nell’atteggiamento di lui verso di me – Lucy Snowe – non ve n’era alcuna nei confronti di Paulina – contessa di Bassompierre. Non doveva aver paura – il potente fascino della bellezza e la legittima influenza del rango le offrivano una sicura protezione.

Così mi misi a elencarle nel dettaglio alcuni aspetti del suo carattere – adducendo prove della sua bontà e carità, della sua tenera gratitudine e amabile gentilezza. Io stessa avevo visto con i miei occhi [...].

In che misura queste ambiguità di carattere prendevano ispirazione da George Smith? Nei suoi occhi risplendeva una luce obliqua, a tratti premurosa, a tratti ironica. Aveva un sorriso dolce, un volto che sprizzava salute ed energia e una sicurezza che sfoggiava nel suo modo di camminare e di tenere la testa. Leslie Stephen lo paragonò al capitano di una solida nave, quando accoglieva un nuovo autore a bordo. Tendeva a instaurare relazioni giocose. Gli piaceva chiamare Newby (l’editore di Emily e Anne) “il deserto di Nubia” – perché quella casa editrice non fruttava niente. Quando il cardinale Wiseman fu nominato arcivescovo di Westminster, Charlotte fece a sua volta divertire Smith con battute comiche sul filocattolicesimo di Cornhill. Thackeray faceva sempre la parte del penitente, zoppicò al cospetto di Smith «con ceci nelle scarpe» per il lungo ritardo con cui aveva consegnato all’editore il suo libro di Natale. Un’altra volta, come punizione per la sua pigrizia e la sua gola, fu obbligato a lavorare per un’intera giornata a pane e acqua.

Pur partecipando a tali giochi sinceramente divertita, Charlotte sperava in cuor suo che Smith fosse più serio. La sua ilarità non la rassicurava; era troppo incline alla canzonatura. Ma quando lei si ritrasse, lui fu abbastanza consapevole da cogliere il rimprovero implicito in tale allontanamento. La piacevole schiettezza di Smith, però, la calmava; egli le consigliava di fare come lui e sua madre: coltivare la felicità. La signora Smith non appariva mai minimamente triste o abbattuta626; sapeva convivere serenamente con le ansie. Allo stesso modo, nessuna avversità fece mai vacillare la sicurezza del figlio. Nell’inverno del 1849-50 Charlotte ebbe modo di conoscere il veleno dei critici come Lewes, e trovò in Smith una consolazione troppo rincuorante per non essere bene accetta.

Curiosamente, fu proprio George Smith a suggerire che Cornhill – e dunque, egli stesso – divenisse il soggetto di un romanzo627. Egli vi figurò come un uomo rispettabile, raffinato, principesco, le cui idee e i cui sentimenti si situavano al confine tra l’avanguardia e le convenzioni dell’epoca. Era in grado di superare quel confine? Le cavalleresche ma incostanti attenzioni di George Smith nei confronti di Charlotte sono alla base della stesura di Villette, il romanzo con cui l’autrice, tra il gennaio 1850 e la fine del 1852, esplorò le esigenze sepolte di una donna.

La giocosa esplorazione dei confini dell’amicizia si ripeté sei mesi dopo con la successiva visita di Charlotte agli Smith, che si protrasse dalla fine di maggio alla fine di giugno. Quando George Smith accompagnò Charlotte alla House of Commons, lei si sedette nella galleria delle signore – situata dietro la galleria degli stranieri –, da cui si potevano scorgere solo gli occhi delle donne. Smith le diede istruzioni su come segnalargli con lo sguardo quando iniziava ad annoiarsi628.

A un certo punto Smith sollevò la testa a ispezionare la galleria sopra di lui e a quel bel ragazzo sembrò che tutti gli sguardi femminili stessero lampeggiando in risposta alle sue attenzioni. Per quanto ammirasse i luminosi occhi della signorina Brontë, non fu in grado di riconoscerli tra quelli delle altre.

«Fissai con tanta attenzione ogni paio d’occhi», ricordò Smith, «che temo che più di una signora mi abbia preso per un insolente. Dopo un po’ feci il giro e recuperai la mia ospite».

Scusandosi per il ritardo, disse qualcosa sulla difficoltà nell’uscire dall’aula parlamentare dopo aver visto il suo segnale.

«Io non ho segnalato alcunché», replicò lei. «Non volevo andarmene. Forse ha visto qualche altro cenno dalla galleria».

Charlotte era felice di rifiutare gli inviti di un suo implacabile ammiratore, Sir James Kay-Shuttleworth, in favore della tranquilla ospitalità della signora Smith. E la signora Smith era gratificata dal fatto che Charlotte preferisse il sereno agio borghese della loro nuova casa al numero 76 (in seguito 112) di Gloucester Terrace alle manie di grandezza di Sir James, con la sua magnificenza e le sue nervose attenzioni. La signora Smith prendeva esempio dal figlio – la sua disinvolta gentilezza commosse Charlotte, che da questo momento, prese a scriverle a parte: lettere calorose e scherzose in cui impiegava un tono intimo e domestico, raccontandole, ad esempio, dei calzini da bambino che aveva iniziato a fare ai ferri, ma che rimanevano incompiuti nel fondo di un cassetto; o della sua vana promessa di ricamare un cuscino per gli Smith e del fatto che infine fosse ricorsa, non senza imbarazzo, a uno che le era stato donato da una sua conoscente più brava di lei in simili lavori, Amelia Ringrose.

Nel rispetto del volere di Charlotte, gli Smith non organizzavano mai feste, solo incontri con scrittori selezionati e di suo gradimento. In un faccia a faccia di due ore con Thackeray, il 12 giugno, lei gli parlò dei difetti che riscontrava nella sua opera – probabilmente gli disse che nei suoi romanzi le donne venivano abusate e che la sua fascinazione per gli atteggiamenti aristocratici guastava il suo dono per la scrittura. «Il gigante sedeva di fronte a me. Mi è stato chiesto di esporgli alcune delle sue manchevolezze (letterarie, naturalmente). A uno a uno i difetti mi venivano in mente, a uno a uno li ho espressi [...]. Si è difeso [...] come un gran turco idolatra. In breve, le giustificazioni sono peggiori della colpa stessa»629. Per Charlotte, uno scrittore doveva avere una vocazione. Voleva persuadere Thackeray che era un uomo con una missione, ma lui, con molte ironie, rifiutò tale punto di vista – le parolone da lei spese inutilmente vennero così sgonfiate. Quando incontrò Lewes per la prima volta, gli perdonò una becera recensione di Shirley perché c’era qualcosa nel suo aspetto, forse nella sua bocca sporgente, che le ricordava Emily. Ma quando Lewes disse che entrambi avevano scritto libri «un po’ spinti», lei rispose a questa impertinenza con un fiume di indignazione630. George Smith osservò la scena «con un misto di ammirazione e preoccupazione» mentre vedeva in Charlotte «esplodere il fuoco nascosto al di sotto dell’aspetto mite». L’editore riconobbe che Lewes era capace di dire cose assai volgari con voce pacata e suadente, come se fosse totalmente inconsapevole del peso delle proprie osservazioni631.

Quando George Smith apprese della fissazione infantile di Charlotte per il duca di Wellington, la portò alla Royal Chapel di San Giacomo, dove il duca andava a messa ogni domenica. Smith raccontò in seguito: «Seguimmo il duca fuori dalla cappella e accontentai la signorina Brontë disponendo la nostra camminata in modo che potesse incontrarlo due volte»632.

Gli Smith insistettero affinché Charlotte prolungasse la sua visita e lei rimase una settimana in più. George voleva sfruttare questo tempo anche per completare un regalo che intendeva fare al signor Brontë: un ritratto della sua celebre figlia. Fu così che giovedì 13, sabato 15 e lunedì 24 giugno Charlotte si recò al numero 10 di York Street, vicino Baker Street, per posare davanti all’artista George Richmond. Costui vide una donna bassa «d’aspetto non particolarmente notevole, a parte due occhi straordinariamente brillanti e penetranti»633. Richmond non consentiva ai modelli di vedere i ritratti in corso d’opera. L’ultimo giorno di posa, Charlotte arrivò in compagnia del signor Nicholls (ricordò Richmond) e il quadro fu mostrato a entrambi. (Come mai Charlotte si aggirava per Londra con il signor Nicholls? Nella capitale si sentiva al sicuro dal ridicolo in cui temeva di cadere a Haworth frequentando un curato? Nessun’altra testimonianza, ad eccezione di questo ricordo, prova la loro frequentazione, ma questo dato basta a suggerire la possibilità di uno stretto legame tra Charlotte e Arthur Bell Nicholls. Era implicita una certa intimità nel fatto che l’avesse portato a vedere un ritratto che lei stessa non aveva ancora esaminato634). Per Nicholls la somiglianza era ammirevole, in particolare nella resa dell’ampia fronte di Charlotte (così spaziosa, avrebbe osservato in seguito, che lei spesso cercava di coprirla con i capelli). I suoi lucidi capelli, divisi da una riga in mezzo, sono raffigurati con soffici tratti al di sopra delle orecchie. L’ampiezza della fronte è bilanciata da un collo di cigno che forse deve in parte la sua lunghezza all’estro artistico. Ma al cuore del ritratto c’è il suo sguardo deciso, irradiato da due grandi occhi castani: uno sguardo a un tempo capace di osservare, rivolto al mondo davanti a sé e visionario.

Richmond, in piedi vicino a Charlotte in attesa del suo verdetto, notò che delle lacrime le rigavano le guance. Lei si volse verso il pittore, quasi scusandosi, ed esclamò: «Oh, signor Richmond, è così simile ad Anne!»635. L’artista aveva affinato i tratti del volto così da enfatizzare la somiglianza con le sorelle.

La bellezza interiore che affiora in questo disegno idealizzante oscura qualsiasi traccia di goffaggine, per non parlare della carnagione paonazza o di quell’ordinarietà notata sia dalla stessa Charlotte che dai suoi contemporanei636. Forse il suo aspetto sgraziato dipendeva principalmente dai denti irregolari e dal modo in cui storceva la bocca quando parlava, ma qui nel ritratto è chiusa con garbo: non era una bocca a bocciolo di rosa, tanto amata dai vittoriani, ma la sua linea allungata, con il labbro inferiore leggermente più gonfio e saldo di quello superiore, mostra una certa risolutezza. Nel riconsiderare la presunta “ordinarietà” dell’aspetto di Charlotte Brontë dobbiamo tenere a mente quanto l’immagine della bellezza femminile muti al variare delle mode e delle epoche. In un contesto dato da donne bambolesche in crinoline, con svariate sottogonne, e dai volti privi di tratti decisi, Charlotte Brontë, nei suoi flosci abiti di seta o lana (il signor Brontë non consentiva l’impiego di materiali più alla moda, come il taffetà, per via della sua paura del fuoco637), poteva ben sembrare stravagante: una donna magra ed espressiva non era certo di tendenza. Potremmo paragonare la vita interiore che affiora nel ritratto di Charlotte Brontë eseguito da Richmond con il ritratto, firmato dallo stesso artista, di Elizabeth Gaskell, la cui effigie rimane più superficiale: la sua delicatezza è graziosa ma, a distanza di tempo, la vitalità di Charlotte Brontë è più attraente.

George Smith cercò di convincere Charlotte a unirsi a lui e alla sorella per andare a prendere in Scozia il fratello al termine della scuola. Sulle prime Charlotte rifiutò, rispettando il parere contrario della signora Smith. Ma il figlio aveva la meglio sulla madre: la signora Smith si piegò al volere di lui e pregò Charlotte di accettare. Quest’ultima raccontò a Ellen di intendersi alla perfezione con George638 – in altre parole, la signora Smith non aveva nulla da temere.

In viaggio verso il Nord, Charlotte soggiornò con Ellen a Brookroyd, vicino Leeds, e per qualche ragione prolungò la sua permanenza lì. Smith fu in parte seccato dal fatto che Charlotte non si fosse unita a lui in un tour delle Highlands (forse una concessione di Charlotte all’iniziale contrarietà della signora Smith), ma poi lei lo raggiunse per due giorni, il 4 e il 5 luglio, a Edimburgo. In una serie di lettere, parla di Edimburgo come di un paradiso in terra: la sua storia e le sue bellezze, ammise, erano enfatizzate dalla congeniale compagnia. Quei giorni furono «tra i più felici che io abbia mai vissuto»639 – una dichiarazione senza precedenti da parte di Charlotte Brontë. George Smith si rallegrò scoprendo nella sua compagna di viaggio quella che definì «una certa abilità nel saper leggere le persone»640. Ad accomunarli erano un’acuta capacità di osservare il carattere umano, il gusto per il dettaglio e il piacere di parlare direttamente dell’esperienza vissuta senza tediosi sfoggi nozionistici. Egli ricorreva di rado alle generalizzazioni e non scadeva mai in espressioni banali. Quando parlava di libri, senza mai pretendere di esserne un esperto conoscitore, ciò che diceva era fresco e sintetico, poi piegava la testa da un lato per accogliere l’«accorto»641 parere dell’amica, senza minimamente temere che un simile atteggiamento potesse intaccare la sua virilità. Allo stesso tempo, notò Charlotte, era animato da un sano amor proprio, che si esprimeva al massimo grado nel compiacimento di sua madre: i rari momenti di gioia di quella donna talentuosa lo divertivano e lo gratificavano, e aveva una certa avventatezza nel provocarli e una certa vanità nel rispecchiarcisi (più tardi, in Villette, descrivendo l’effetto del dottor John sulla piatta e ombrosa vita dell’eroina-insegnante, Charlotte avrebbe attinto all’immaginario naturalistico della Bella Addormentata: «Immaginate una radura, sepolta nel cuore d’una foresta segreta; essa giace nell’oscurità e nella nebbia»; una scure apre un varco nel folto della vegetazione: «La brezza la riempie; il sole le dedica i propri sguardi; la radura triste e fredda si trasforma in una profonda coppa di luce»642). In questo interludio, Charlotte continuò la sua vacanza in compagnia di George Smith, arrivando ad Abbotsford (la proprietà vicino Melrose, lungo il fiume Tweed, che il suo amato Walter Scott aveva acquistato nel 1811) e sentendo di vivere «una poesia, breve, luminosa, chiara, vitale come il bagliore di un lampo». Edimburgo fu «la mia vera città romantica»643.

Al termine di questo idillio, lei e Smith viaggiarono sulllo stesso treno diretto a sud, ma Charlotte scese a York. La separazione fu difficile, ancor più in quanto trovò suo padre, al ritorno in canonica, piuttosto agitato: come disse il reverendo, Charlotte era stata oggetto di «alcuni approcci»644 che potevano condurre al matrimonio. La figlia si agitò a sua volta: il suo bisogno di ricevere notizie da George Smith era così impellente, confidò a Ellen, che per proteggere se stessa avrebbe fatto meglio a «chiudere la corrispondenza con un banale pretesto».

Preferì la Scozia ai Laghi, dove si recò controvoglia in agosto, assecondando l’insistenza di suo padre, per unirsi agli Shuttleworth. Di dodici anni maggiore di Charlotte, Sir James Kay-Shuttleworth era uno di quei vittoriani pieni di energia e spirito pratico: aveva iniziato la sua carriera come insegnante per i poveri, era sostenitore del libero accesso alle biblioteche e dell’istruzione statale gratuita; i suoi sforzi in questa direzione culminarono nell’Education Bill del 1870. Era anche un appassionato promotore dell’educazione superiore per le donne ma, come molti riformatori, tra le pareti domestiche era autoritario. Infaticabile, tra l’uno e l’altro dei suoi impegni – era anche un medico interessato alle riforme sanitarie – scrisse pure romanzi, e forse il suo interessamento per Currer Bell dipendeva in parte dal desiderio di essere presentato a un editore645. Nel suo ruolo di uomo dotato di senso pratico, tendeva a fare lunghe tirate sulla «bellezza dell’utilità», e quando sosteneva che gli artisti dovevano «abbassarsi a un livello inferiore» mostrava i denti in raggelanti sorrisi, mentre il suo ospite-prigioniero era obbligato a starlo a sentire rassegnato. In privato, Charlotte disse a George Smith che proprio mentre «Sir James mi metteva in guardia dai difetti degli artisti, la mente della sua ascoltatrice era affollata da vagabondi istinti artistici»646. A Briery Close, in Windermere, dovette nascondere il suo essere «donna-artista»647 per paura che potesse agitare l’egocentrismo del suo ospite. Lui era uno di quegli spiriti potenti, rifletté l’autrice, costituiti da nove parti di senso pratico e una di senso estetico. Attratto dagli artisti, Sir James era frustrato, e dunque suscettibile, per non esserlo a sua volta. Charlotte sospettava che fosse uno di quegli uomini che non perdonano, se non davanti all’umiliazione della persona da cui si sentono offesi. Di fronte a tale rigidità, Charlotte tenne più che mai a bada il suo carattere domestico: si attenne a una cortesia semidisinvolta. Intrappolata nella carrozza del gentiluomo mentre ammiravano laghi e colline, avrebbe desiderato (confessò in seguito alla signorina Wooler) «scivolare fuori senza esser vista, e correr via per conto mio tra le colline e le valli. Istinti erranti e vagabondi mi tormentavano, ma ero obbligata a controllarli, o meglio, a soffocarli, per paura di attirare l’attenzione sulla “leonessa” [...] la donna-artista. Sir James è un uomo che ha molte doti – persino intellettuali – ma non è una persona con la quale si possa desiderare di lasciarsi andare». Tuttavia, in una certa misura, si lasciò andare con un’altra ospite che si trovava con loro in quei giorni: la signora Gaskell.

Elizabeth Cleghorn Gaskell aveva sei anni più di Charlotte, ne aveva appena compiuti quaranta quando si incontrarono e aveva da poco pubblicato, nel 1848, il suo primo romanzo, Mary Barton, che Charlotte aveva letto nel suo anno più difficile, quello in cui tre lutti avevano colpito la sua famiglia mentre lei stava scrivendo Shirley. In realtà, la signora Gaskell aveva scritto il suo libro in circostanze non molto diverse: come tentativo di consolazione per la perdita del suo unico figlio maschio. Entrambi i libri contengono un appello umanitario per una migliore intesa tra operai e datori di lavoro e sono percorsi da una sincera empatia per i bisognosi ai margini della società: se Gaskell si sofferma ad analizzare la condizione dei poveri e dei reietti, Charlotte Brontë esamina l’esistenza delle donne sole. Sebbene Mary Barton avesse trovato un sostenitore in Dickens, nell’estate del 1850 Elizabeth Gaskell era ancora agli inizi della carriera e le sue opere maggiori sarebbero arrivate solo in seguito: Cranford (1853), Nord e Sud (1855), Mogli e figlie (1866); e, non da ultima, la sua celebrata biografia di Charlotte Brontë, edita nel 1857 da George Smith. La maggior parte delle sue opere fu inizialmente pubblicata da Dickens nei periodici da lui diretti, «Household Words» e «All the Year Round», insieme a contributi di Wilkie Collins, Meredith, Coventry Patmore e dello stesso Dickens. Tuttavia, Gaskell e Dickens non andavano molto d’accordo – lei non assecondava sempre il volere di lui. Una volta egli disse: «Se fossi il signor Gaskell, oh cielo come la picchierei!». In realtà la signora Gaskell era la moglie onesta e volenterosa di un sacerdote unitariano, infaticabile nel prendersi cura dei bisognosi della parrocchia del marito. Era pure considerata una donna molto bella.

Se il signor Nicholls notò l’ampiezza della fronte di Charlotte, la signora Gaskell vide sopracciglia sporgenti, alcuni denti mancanti e mani simili ad artigli d’uccello. Anche se la signorina Brontë aveva degli occhi grandi ed espressivi che ti guardavano dritto in faccia, una voce dolce, appena esitante, e opinioni ragionevoli e ben argomentate, la signora Gaskell la trovò «nel complesso ordinaria»648. Allo stesso tempo, la reticenza di Charlotte in merito ai suoi gravi lutti, così come la sua modesta raffinatezza, rassicurarono la signora Gaskell quanto alla presunta volgarità. Elizabeth Gaskell aveva modi regali ma intriganti e non sembrava affatto altera: ciò era dovuto in buona misura al ritmo della sua conversazione. Parlava volentieri dei propri stati emotivi e riportava storie colorite649 sugli altri in un atteggiamento che comunicava la sua spiccata curiosità, ma sapeva essere accattivante: conversava senza fretta o insistenza, instaurando un clima rilassato, ozioso e di giocosa affabilità che induceva alla replica650. Abilmente, tirò fuori da Charlotte la storia della sua vita. Quella «vita di desolazione» raccontata da Gaskell agli amici tratteggiò subito l’immagine di una Charlotte Brontë timida, silenziosa, che era «passata per sofferenze tali da averla privata di ogni scintilla di allegria». Questa fu la prima e assai duratura impressione della signora Gaskell: una pregiatissima, nervosa «povera cosa», capace a malapena di sorridere – quanto di più lontano dall’immagine trasmessaci dalla divertita corrispondenza tra Charlotte e George Smith (che fu nota in tutta la sua ampiezza solo a partire dagli anni Ottanta del Novecento651).

Nella sua biografia di Elizabeth Gaskell, Jenny Uglow osserva che Charlotte era in qualche modo «più dura»652 della sua nuova amica. Sebbene trasmettesse un’impressione di vigore con la sua vitalità, il suo impegno a 360 gradi, il suo colorito salutare e sanguigno e la sua figura alta e in carne, la signora Gaskell tendeva a sfogare la tensione in attacchi di emicrania, nevralgie e vertigini di stanchezza, in parte causate dagli oppiacei. Al contrario, Charlotte (che non assunse mai un granello d’oppio in un periodo in cui era molto diffuso) era stata capace di scrivere la prima parte di Jane Eyre sotto lo stress dell’operazione all’occhio, priva di anestesia, subita da suo padre a Manchester nel 1846 (era stato il signor Brontë a volerla lì con lui), durante le incerte settimane della convalescenza e mentre lei stessa era preda del mal di denti. Eppure, a dispetto degli impressionanti sforzi compiuti in circostanze avverse (potremmo ricordare anche quelle in cui scrisse l’ultimo libro di Shirley), preservava un aspetto dimesso e bambinesco. Enfatizzando quest’immagine vulnerabile, la signora Gaskell fu all’origine della voce secondo cui Charlotte fosse «già contagiata dalla tubercolosi»653, una falsità che si diffuse nei circoli letterari e si dimostrò quanto mai nociva nella misura in cui convinse la signora Smith che la scrittrice di Haworth non fosse una donna da sposare e che suo figlio andasse protetto. Nel corso dell’anno successivo, che si rivelò cruciale per la sua felicità, Charlotte tentò invano di smentire tale voce. «Povera signorina Brontë»654, esclamò anche Emily Winkworth quando sua sorella Catherine, la destinataria della lettera della signora Gaskell, le fece leggere la missiva. Emily fu commossa al punto di dire: «Uno pensa che la sua vita, perlomeno, riesca quasi a farti piacere i suoi libri, e invece è meglio che non ci sia più nessuna signorina Brontë».

La signora Gaskell, abituata a una serena vita domestica, con un marito premuroso, quattro figlie e numerose conoscenze tra i parrocchiani del coniuge, rimase assai colpita dalla miseria della vita di Charlotte: la solitudine, la raffinata povertà, la malattia, le morti e l’aspetto passivo del dovere filiale. La futura biografa fece da subito rientrare il suo soggetto nei parametri sentimentali dell’epoca: la donna vittima, votata al sacrificio di sé e circondata da letti di morte. In Ruth (il romanzo che la signora Gaskell scrisse mentre Charlotte stava scrivendo Villette) parlò dal punto di vista di una donna caduta in disgrazia; quando Charlotte lesse le bozze le chiese perché mai Ruth doveva morire. Questa domanda metteva in discussione la concezione morale a monte del romanzo: Ruth poteva espiare le sue pene solo morendo. In modo simile, la futura biografia scritta dalla signora Gaskell avrebbe riscattato la reputazione di Charlotte, macchiata dall’accusa di “volgarità”, solo attraverso la tristezza del suo tragico destino. Fiutando un’eccessiva apprensione, Charlotte chiese alla signora Gaskell di non compatirla troppo655. Dopotutto, le restava ancora la Verità, oltre a suo padre.

Ma il padre non riuscì a colmare la solitudine che provò al ritorno a Haworth dopo quell’intensa estate. A settembre non volle scrivere all’indirizzo di Cornhill per paura di non ricevere risposte – risposte che desiderava troppo. L’attesa delle lettere portava con sé un sentimento represso, che cresceva come una febbre d’aspettativa quando si avvicinava il momento della consegna della posta, per poi subire un drastico crollo quando non era arrivato nulla. Sembrava che l’arrivo della posta fosse l’unico evento della giornata.

Disse alla signorina Wooler che non intendeva colmare questo vuoto con le visite («le visite indiscriminate portano solo a una perdita di tempo e a una banalizzazione del carattere»656); quello che desiderava erano pochi stretti legami e conversazioni domestiche.

La minima allusione al matrimonio suonava offensiva alle orecchie del padre657. Era convinta che si sarebbe potuta sposare – pensava a James Taylor –, ma finora nessuno degli uomini disposti a sposarla le era sembrato «davvero desiderabile». Con questa confessione fatta a Ellen stava implicitamente ammettendo di non desiderare il signor Taylor. Forse era già consapevole della presenza dietro le quinte del signor Nicholls, ma egli continuava a essere troppo disponibile, troppo familiare, niente più che un’affidabile quercia che si stagliava in un panorama di volgari curati. O forse le parole di Charlotte implicavano l’esistenza di un uomo desiderabile che non l’avrebbe sposata: George Smith, di otto anni più giovane di lei e protetto in egual misura dalla madre e da una prudenza tipicamente scozzese subito notata da Charlotte.

L’autunno del 1850 fu un periodo di «brutti giorni, brutte settimane, brutti mesi»658, come Charlotte scrisse alla signorina Martineau, invidiando la produttività dell’amica. Nei mesi di settembre e ottobre, la solitudine si fece più profonda: revisionando Cime tempestose e Agnes Grey per la casa editrice Smith, Elder piombò in un rinnovato lutto. Nel descrivere le sorelle in una “Nota biografica”, realizzò che la sua amara sofferenza sarebbe sembrata ai lettori solo «debole pathos»659. Il dolore non era comunicabile. Quando lesse In Memoriam di Tennyson, il lungo componimento, allora appena pubblicato, dedicato dal poeta a un amico di gioventù scomparso, Arthur Hallam, disse: «È bellissimo, è triste, è monotono»660. Era scettica rispetto al fatto che il dolore potesse dare origine a un così misurato flusso di parole; Tennyson non avrebbe potuto scrivere a quel modo di un fratello morto. Ma nemmeno sarebbe rimasta imprigionata in una disperata malinconia: preferiva una mente come quella di George Sand, tale da «trarre giovamento dall’esperienza dannosa senza venirne indebolita o troppo scossa»661, così che più a lungo vivi, più cresci.

A tratti provava un rinnovato dolore, a tratti un senso di sollievo per la propria resistenza, e nel mentre rifletteva sui risultati delle sorelle. La sua nota introduttiva ai loro romanzi è singolarmente apologetica e critica, persino competitiva, quasi come se chiedesse al pubblico di dissociare Currer Bell, che conosceva le buone maniere, aveva gusto e sapeva scegliere soggetti appropriati, da Ellis e Acton Bell, che avevano forgiato personaggi deplorevoli come il demoniaco Heathcliff e il marito dipsomane della locataria di Wildfell Hall. Questa “Nota” ha fornito il modello alla signora Gaskell: separa Emily e Anne dalle loro opere, rassicurando il pubblico che entrambe erano signore della massima raffinatezza. Charlotte – prima artefice della leggenda Brontë – interpretò le sorelle per il mondo662 mediando tra la sua famiglia e i futuri lettori. Le sorelle, affermò, non avevano nulla della brutalità dei loro romanzi, scaturiti dalla loro penna come inevitabile conseguenza dell’aver vissuto nell’oscuro e selvaggio Yorkshire. In quello che rimane il suo atteggiamento più affettato, voltò le spalle all’inquietante ritratto ravvicinato di un matrimonio distrutto composto da Anne. Quest’ultima, insisté, era una creatura gentile e delicata a malapena consapevole di quanto aveva fatto. Si voltò indietro per osservare il romanzo di Emily attraverso gli occhi dei primi, scioccati lettori: «Uomini e donne che [...] dalle passioni moderate d’intensità e poco distinte nel genere, sono stati educati sin dalla culla a tenere la massima levigatezza di maniere e un linguaggio castigatissimo, restano perplessi di fronte all’espressione forte e rozza, ai sentimenti manifestati con asprezza, agli odi scatenati e alle passioni travolgenti»663 di Cime tempestose. Tuttavia è possibile che, quando rilesse il romanzo a due anni dalla morte di Emily, in quell’autunno del 1850, avesse incorporato un po’ dell’intransigenza della sorella scomparsa. Tale durezza avrebbe trovato voce in un’eroina sprezzante, che pone la verità prima dell’amabilità – una glaciale eroina che non sarebbe piaciuta agli altri, Charlotte se lo aspettava, e che di fatto nemmeno lei stessa dichiarò mai di amare, eppure era una donna dalle doti nascoste, quanto mai lontana dai contemporanei, e in particolare dall’artificiosità delle sue conoscenti femminili.

Da questo momento in poi, la sua voce fu venata da una nuova severità: l’«indignazione e il disprezzo» per i recensori e il sarcasmo con Lewes per le simpatie della rivista «The Leader» nei confronti del cattolicesimo. Il 1850 fu l’anno della cosiddetta “aggressione papale”, quando la ripartizione delle diocesi in Inghilterra voluta dal papa e la nomina di Wiseman come arcivescovo furono all’origine di feroci sfoghi anticattolici, ai quali Charlotte partecipò animata da un’intolleranza che riservava solo al cattolicesimo – un’intolleranza che forse derivava anche dal suo inconscio timore di essere attratta dalla Chiesa di Roma664. All’apice del suo sarcasmo, si congratulò con Lewes per la sua probabile conversione: «C’è qualcosa di promettente e di toccante nel tono che avete assunto ultimamente – qualcosa che accenderà la fiamma della santa speranza nel cuore del Cardinale Arcivescovo Wiseman quando il suo cappellano gli leggerà le vostre elucubrazioni»665. Continuò insinuando che Wiseman fosse un gesuita ipocrita, e infine augurò a Lewes e Thornton Hunt «una grande scioltezza di lingua alla vostra prima prova nel confessionale».

Nel corso di una rigenerante visita, dal 16 al 23 dicembre, nella residenza della signorina Martineau, The Knoll, ad Ambleside, incontrò Matthew Arnold nella sua tenuta di Fox How, una casa che le sembrò un nido mezzo sepolto da fiori e piante rampicanti. Matthew, ventotto anni, era il figlio maggiore dell’eminente dottor Arnold di Rugby, che durante i suoi anni da preside tra il 1828 e il 1842, aveva trasformato la concezione della scuola pubblica, smorzandone la brutalità in favore della virilità e del cricket. L’anno prima dell’incontro con Charlotte Brontë, Matthew Arnold aveva pubblicato il suo primo volume di poesie; l’anno dopo si sarebbe sposato e sarebbe diventato un ispettore scolastico. È ricordato soprattutto per le opere successive: la poesia Dover Beach (1867) e l’impegno come critico letterario tra il 1860 e il 1880, quando si oppose al “filisteismo” culturale e individuò come “pietre miliari” le alte opere del pensiero e della letteratura. Quando entrava in una stanza aveva un’aria superba, il mento sempre all’insù spiegava perché a Rugby fosse noto come l’«elevato Matt»666. Aveva una presenza imponente, era alto almeno un metro e ottantacinque, stava ben dritto e la sua testa era coronata da una folta chioma.

Gli piaceva essere considerato più giovane della sua età. Se Arnold ebbe un sogghigno al cospetto della signorina Brontë («superati i trenta e ordinaria»667), non fu nulla a paragone dell’opinione sottilmente caustica che lei si formò di lui: «Impressionante e attraente nell’aspetto, i suoi modi deludono, a partire dalla sua apparente frivolezza [...]. Ben presto un’autentica modestia è apparsa sotto la patina di una presunta arroganza, e alcune genuine aspirazioni intellettuali [...] hanno rimpiazzato le pose superficiali»668.

Il noto sgarbo di Arnold nei confronti di Charlotte Brontë, a suo avviso nient’altro che «fame, ribellione e rabbia»669, non l’avrebbe sorpresa. Affilate recensioni le avevano già insegnato che le persone sono spesso pronte a diffamare una donna con una brutalità che generalmente non viene riservata agli uomini. A Dickens fu possibile limitare i pettegolezzi quando abbandonò la donna che era stata a lungo sua moglie per un’attrice diciannovenne, Ellen Ternan670. False voci, al contrario, perseguitarono Charlotte non appena divenne famosa: qualcuno disse che a Londra non era andata a messa e aveva frequentato sale da ballo per tutta la settimana; qualcun altro che era stata respinta da uno, anzi tre curati uno di seguito all’altro. Era consapevole della vendicatività cui si esponeva la «donna-artista» che osava violare il modello di passività e silenzio riservato alle signore.

Con sollievo tornò a godere della compagnia della poco convenzionale Harriet Martineau: era dura, brusca, dispotica, ma anche rinvigorente, un esempio di laboriosità. Si svegliava alle cinque, faceva una passeggiata alla luce delle stelle e alle sette sedeva già al suo tavolo. Trascorrevano i pomeriggi insieme, cenavano alle cinque e discutevano di lavoro con franchezza. In questa tonificante atmosfera, l’ospite ritrovò presto la forma.

Nel gennaio del 1851 George Smith invitò Charlotte ad accompagnarlo in un viaggio lungo il Reno l’estate successiva. La prospettiva provocò in Charlotte una «febbre»671 d’attesa, sebbene temesse che la signora Smith si sarebbe opposta e che Londra avrebbe sparlato. Fu impossibile non rispondere all’«eccitazione» della lettera di Smith: «Non sono fatta di granito», si scusò. Ellen, alla quale mostrava le lettere più interessanti, rilevò «intenzioni concrete» da parte di Smith, sostenute da un’«avvisaglia» di sentimento672.

Charlotte rispose all’amica con la massima sensibilità: «Penso che l’“avvisaglia” sia da attribuire semplicemente a questo: una sorta di affinità naturale e il senso di una certa congenialità. Se non ci fossero le imponenti barriere dell’età, della posizione ecc., ci sarebbe forse abbastanza stima reciproca per rendere possibili le cose che ora appaiono impossibili. Se gli uomini e le donne si sposassero perché si piacciono per via del carattere, dell’aspetto, della conversazione, della natura e così via – e se, in aggiunta a questo, le nostre età fossero meno distanti –, l’opportunità cui alludi avrebbe forse avuto una speranza. Ma sono altre le ragioni che regolano i matrimoni: ragioni di convenienza, relazioni, denaro. Per il momento sono contenta di averlo come amico, e prego Dio affinché mi conceda il buon senso di continuare a vedere esclusivamente in questa luce un ragazzo così giovane, in ascesa e di grandi speranze».

In quell’epoca, Ellen era capricciosamente corteggiata da John, il fratello di Mary. Entrambe avevano bisogno di «saggezza»673, la avvertì Charlotte quando l’amica le fece battute su «Venere e Giove»674 (il nomignolo che Ellen aveva affibbiato a George Smith). Charlotte, rigettando risentita l’allusione “pagana”, ribadì che il suo direttore editoriale, James Taylor, era il pretendente più probabile. Taylor continuava a corteggiarla inviandole libri ma era, ahimé, «poco animato da un veemente ardore».

Il contrasto tra un imprevedibile Giove e un fedele Taylor potrebbe essere visto come il dramma principale attorno a cui si intrecciò una trama secondaria nel febbraio 1851, quando George Smith rifiutò Il professore per la terza volta. Nel complesso, come notò Charlotte, il romanzo era stato rifiutato nove volte. Smith suggerì allora in via eccezionale che avrebbe preso Il professore “in custodia”, anziché pubblicarlo. Pensò forse che tale gesto avrebbe allentato l’ostinato attaccamento di Charlotte per quell’opera.

Lei rifiutò categoricamente l’offerta. «Ah, no!». Lui avrebbe potuto, immaginò, usare le pagine del manoscritto per accendersi i sigari. No, l’avrebbe custodito al sicuro nella sua credenza di Haworth; il suo atteggiamento nei confronti del libro era forse parziale, un po’ come quello di «un genitore intelligente verso un figlio idiota»675.

La sua voce acida ebbe nuove occasioni per esprimersi, in quel mese, quando parlò del bisogno di iniziare un nuovo romanzo. Lungi dall’accantonare Il professore, riplasmò la figura del suo protagonista in una forma ancora più vicina alla fonte d’ispirazione belga, Monsieur. Iniziò poi a tratteggiare un giovane britannico viziato e spiritoso (chiamato Bretton), una figura che avrebbe creato un certo contrasto con il personaggio belga. L’idea guida fu quella di mettere a confronto due potenziali eroi: il leggero Bretton (ispirato a George Smith) e il veemente insegnante, Paul Emanuel (basato su Monsieur Heger). Nel portare avanti questo esperimento, l’autrice rinviò il risultato finale. La struttura della prova le concesse la libertà di seguire le verità emotive nei loro sviluppi.

Il via libera arrivò agli inizi del marzo del 1851, quando George Smith suggerì a Charlotte di usare Cornhill come materiale per un romanzo. Tale proposta era, rispose lei, «estremamente e pericolosamente seducente». Si sentì come il serpente libero di aggirarsi nel giardino dell’Eden. Era già arrivata fin sulla soglia, i suoi luminosi occhi puntati su George Smith, quando egli le diede il suo assenso a un’idea che era in agguato in due dei frammenti che aveva già scritto. I progetti, le idee ancora vaghe e indefinite dell’autrice e dell’editore sembravano sovrapporsi e intrecciarsi in una sorta di gioco comune, un po’ come avveniva nelle loro lettere.

«Non si allarmi»676. Era il serpente a parlare. «Siete tutti al sicuro da Currer Bell – al sicuro dalla sua satira, ancor più dal suo elogio». Ignorando deliberatamente quanto aveva fatto in passato, il serpente affermò che Currer Bell non riusciva a scrivere quando i suoi soggetti sapevano di essere utilizzati come modello. «Quindi, lo ripeto, siete molto al sicuro».

Quelle che Charlotte spedì a George Smith tra il 1850 e il 1851 non erano lettere a un editore: erano giocosi inviti al cambiamento. Privo di un titolo di studio superiore, egli non si sentiva del tutto sicuro del proprio intelletto: questo aspetto nascosto di George Smith fu una delle principali ragioni della sua suscettibilità nei confronti di Charlotte Brontë, che agitò sopra la sua testa una bacchetta magica creativa. Attente, analitiche, le lettere della scrittrice lo trattavano come uno dei suoi personaggi più promettenti – e anche questo potrebbe spiegare come mai egli si sentisse più attratto dalle sue lettere che dalla sua presenza fisica (di persona, Charlotte tendeva alla reticenza, ad eccezione dei suoi rari e incontenibili sprazzi di eloquenza). Le lettere lo invitavano a guardarsi come un uomo dalle generose potenzialità artistiche, in grado di trascendere «l’uomo d’affari ostinato e taccagno» che egli stesso dichiarava di essere. Dopo la loro vacanza in Scozia, Charlotte lo incoraggiò a scrivere una poesia sulle Highlands677; quando Thackeray esaurì la sua pazienza con prolungati ritardi, lei gli suggerì di scrivere un libro sulle vicissitudini dell’«editore animoso». Aspettando le lettere di Smith, Charlotte attendeva di verificare i risultati della propria potenza creatrice (per l’eroina-scrittrice del manoscritto di Villette, una lettera è un mezzo d’espressione migliore rispetto a una debole presenza fisica o a un labbro incerto678). Non potendosi aspettare di conquistare l’editore con l’avvenenza, poteva forse stringerlo a sé con la penna? In un certo senso ripeté con George Smith, quasi contro il proprio volere e nonostante si fosse più volte ripromessa di non farlo, la stessa prova che aveva fatto con un altro uomo sensibile alla scrittura, Monsieur Heger. Quando conobbe Charlotte, Smith non aveva ancora trent’anni, e si stava formando allora. Fu attratto dall’idea che lei si era fatta di lui, e lunghe lettere incentrate attorno a questo tema, molto lontano dagli affari, viaggiavano tra Londra e lo Yorkshire. «Sembrerebbe quasi che lei non si conosca»679, gli scrisse.

Trasportandolo nella pagina del romanzo, Charlotte esplorò il carattere di Smith con maggiore libertà che nelle lettere: nei panni di un medico che lavora all’estero, il dottor John, è osservato attraverso lo sguardo distaccato di un’insegnante apparentemente insignificante, che non ha alcuna possibilità di ottenere le sue attenzioni. Il fatto che lui l’aiuti nei momenti di difficoltà è la testimonianza di una spontanea galanteria. Alla luce di un fanale, lei scorge «un uomo giovane, distinto e di bella presenza; poteva essere un lord, per quanto ne sapevo io: pensai che la natura lo aveva fatto degno d’essere un principe. Il viso era davvero piacevole; sembrava altezzoso ma non arrogante, virile ma non insolente»680. Qui, chiaramente, c’è un potenziale eroe. Ma lo è davvero? Appare vincente su tutto – Lucy nota che il suo sguardo «passava da un viso all’altro un po’ troppo vivacemente, con eccessiva frequenza e rapidità, ma il suo occhio aveva un carattere piacevolissimo [...]. Quanto al sorriso [...] vi era qualcosa che piaceva, ma anche qualcosa che faceva sorgere nella mente le nostre manie e debolezze, tutte le cose che si potevano prestare allo scherno»681. La sua impeccabile cortesia, la sua «bonarietà», hanno una punta di indifferenza. Se le lettere di Charlotte Brontë a George Smith avevano uno scopo didattico, il romanzo fu un vero e proprio collaudo – mise alla prova, allo stesso tempo, la natura di un uomo reale e quella di un potenziale eroe romanzesco.

Da questa interazione tra autrice e editore scaturì un grande romanzo. Non si trattava del lavoro di una vittima. Se fosse stata una vittima, Charlotte Brontë si sarebbe arresa al dolore, alla depressione e allo schema dell’avverso destino familiare; invece che abbandonarsi a una di queste sorti, si diede una scossa e passò all’azione mettendo a frutto le proprie qualità. Tale atteggiamento si rispecchia nella sua eroina, che potrebbe sembrare sventurata e passiva, ma in realtà è forte, severa nei giudizi e in fin dei conti creativa. La verità di questo ritratto, nella misura in cui va inteso come un autoritratto schizzato nei primi anni Cinquanta dell’Ottocento, nel momento in cui l’autrice dovette fronteggiare da sola le difficoltà della vita, è quella di una ribellione contro ciò che il fato le aveva negato: la famiglia e un amore come quello che aveva assaggiato nello scambio epistolare.

Per alcuni il più intenso dei sentimenti, che sia erotico o religioso, richiede mistero, segretezza, intimità e un certo senso dell’ineffabile682. Ciò fu vero per le sorelle Brontë. Non c’è verità che non comprenda silenzi e omissioni – la questione di ciò che non viene detto. Dov’è che l’abbondante flusso di parole di Charlotte Brontë incontra il volo silenzioso dei suoi sentimenti? Il linguaggio ha preso il posto delle passioni che provò? E in che misura persino un autore eccezionalmente trasparente tende a occultare quando mette i sentimenti nero su bianco? Il suo “Lettore” è colui che risponde alla sollecitazione della segretezza, che percepisce la tensione tra il freddo sé sociale e l’ardente io interiore. Senza il segreto non esisterebbe l’arte. Per le donne progressiste del XIX secolo lo scarto tra pubblico e privato fu così grande che la pressione dell’arte (nel senso di verità, presa di parola, esposizione) fu tanto più esplosiva. Non possiamo valutare la vita di Charlotte Brontë senza prendere le misure di questo scarto, quello che lei chiamò «ombra». E la prevalenza dell’ombra – non attenuata nella forma del dolore, ma nella sua pienezza desiderante e sovversiva – fu proprio l’aspetto che rimase sospetto nella sua vita, e pertanto destinato a scomparire con alcuni scritti che vennero distrutti dopo la sua morte. Eppure, sopravvivono i romanzi a parlarci dell’ombra in cui Charlotte Brontë visse, e che lei interpretò per il suo “Lettore”. I vuoti, i non detti, hanno il sapore di suggerimenti; le opere definiscono il loro significato. Se Charlotte fu misera in tanti infelici modi, non fu priva di lavoro e seppe maneggiare la forma che l’arte imprime all’amorfa vita quotidiana. Nel concepire questo romanzo, Charlotte svolse un’indagine sulla definizione del genere maschile e femminile, un lavoro che diede senso alla sua solitudine, alle sue privazioni e alle sue esigenze. Innegabili sofferenze segnarono la sua vita, ma non presero (nei suoi termini) la forma del pathos, bensì quella della verità.

Il dramma reale si consumò alla fine di marzo. La casa editrice Smith, Elder attraversò un periodo di incertezza che ebbe ricadute su Charlotte in due modi. George Smith, che ora spesso tirava avanti con il lavoro fino alle tre del mattino, dovette cancellare il viaggio sul Reno. Inoltre spedì James Taylor in India ad aprire una branca della società che prese il nome di Smith and Taylor. Non era una manovra di ottimistica espansione, ma una misura d’emergenza per salvare l’impresa. Quando all’inizio di aprile Taylor si recò a Haworth per far visita a Charlotte, lei notò che egli non nominò mai il suo datore di lavoro, limitandosi a parlare di “società”. C’era forse qualche tensione tra lui e Smith?

Fu chiaro che James Taylor era arrivato fino a Haworth per farle una proposta di matrimonio prima di salpare alla volta dell’India. A Charlotte quell’uomo piaceva per il suo vigore e la sua mente assennata, ma di persona, ancora una volta, trovò i suoi modi bruschi e irritanti. Per lei fu un’ardua impresa rimanere impassibile: mentre le rivolgeva uno sguardo appassionato683, Charlotte metteva a fuoco, attraverso le lenti degli occhiali, gli inflessibili tratti del suo volto. Ogni volta che lui le si avvicinava – abbastanza perché lei potesse sentire fissi su di sé i suoi occhi – le si «ghiacciava»684 il sangue nelle vene. Non desiderava apparire altezzosa, eppure sentiva il proprio corpo irrigidirsi «con uno strano misto di rabbia e apprensione». Così il signor Taylor se ne andò senza dichiararsi. Anche se Charlotte lo invitò a scriverle dall’India, a Ellen disse chiaramente che non riusciva a vedere in lui un potenziale marito:

Suonerei dura se dovessi confessare, persino a te, l’opinione che mi sono fatta di lui. Cara Nell, ho cercato qualche tratto del gentiluomo – qualcosa, intendo, del genuino gentiluomo. Sai bene che posso sorvolare su alcune raffinatezze, e quanto all’aspetto esteriore, mi conosco troppo bene per sentire di poter essere esigente su quel punto. Non sono riuscita a scorgere un baluginio, un fugace sentore di buone maniere. È difficile da dire, ma è così. Anche a livello intellettuale: sebbene sveglio, è di seconda categoria, in ogni aspetto. Non fa piacere dire certe cose, ma credo sia meglio essere onesti. Se lo dovessi sposare, il mio cuore soffrirebbe di dolore e umiliazione [...]. No, se il signor Taylor è l’unico marito che il destino mi offre, meglio ch’io rimanga sola per sempre.

Porgi i miei cari saluti a tutti, cara Nell.

La tua amica di mezz’età,

C. Brontë.

Fu sconcertante apprendere che a suo padre il signor Taylor era invece molto piaciuto. Sono state suggerite molte possibili spiegazioni per questo apprezzamento; una di queste è che, dal punto di vista del signor Brontë, qualcuno che sarebbe scomparso dall’altra parte del globo per cinque anni era il pretendente ideale. Un’altra potrebbe essere che Taylor piacque davvero al signor Brontë perché entrambi erano uomini del genere di Helstone.

Papà diventava impaziente quando Charlotte rimuginava chiedendosi se il signor Taylor era un “gentiluomo”. Lei lo riteneva privo di tatto e forse insensibile. Per il signor Brontë, il valore della salda rettitudine rendeva la questione del tatto irrilevante. Ma l’istinto portò Charlotte a togliersi dalla testa il pensiero del signor Taylor – l’unico inconveniente fu che si ritrovò in una solitudine ancor più cupa.

Due settimane dopo, Charlotte ricevette un invito dagli Smith. Sebbene fosse contro le sue regole recarsi di nuovo a Londra senza prima essersi portata sufficientemente avanti con la scrittura, disse mestamente alla signora Smith che di colpo sentiva «un gran desiderio di scendere dai miei trampoli»685. Non era fatta di granito686, avrebbe confessato qualche giorno dopo a George. Qui, le date lasciano intuire sottili tensioni che non potevano essere confessate esplicitamente. Giugno fu il periodo che gli Smith proposero per la visita, e Charlotte fu subito d’accordo. A rimanere implicito era il fatto che così non avrebbe incontrato il signor Taylor, la cui partenza per l’India era prevista per metà maggio. Charlotte aveva detto agli Smith che la visita di Taylor a Haworth era stata per lei un grande piacere. Una menzogna così deliberata era insolita. Si trattava di una provocazione? E la data proposta da Smith stava a dire che lui non incoraggiava la coppia?

Il signor Taylor scrisse in seguito per sapere se l’avrebbe rivista a Londra. La decisione di Charlotte di arrivare verso la fine di maggio, poco dopo la partenza di Taylor (20 maggio), era un modo per dire al pretendente che non intendeva incontrarlo.

Attorno ai preparativi di Charlotte per questa visita a Londra ci fu una certa concitazione che portò il padre, i domestici e la signora Nussey a ritenere che la signorina Brontë fosse prossima al fidanzamento – sebbene lei negasse con enfasi. Chiese a Ellen di cercarle a Leeds una mantella di pizzo, a condizione che non fosse troppo cara, e si comprò una mantiglia bianca, delle nuove sottovesti e una cuffia con fodera rosa. Le sarebbe piaciuto potersi permettere della «graziosa seta color pastello» a cinque sterline al metro, ma dovette accontentarsi della solita seta nera a tre sterline.

Tra un acquisto e l’altro, fece sapere alla signora Smith di non avere «alcun malanno»687. Verosimilmente stava negando le false voci sul suo conto; di sicuro stava rassicurando la madre di George Smith circa il fatto che lei non era, come le sorelle, spacciata a causa di una malattia. Ma non stava forse anche suggerendo di non essere meno “sposabile”, per ragioni di salute, della signorina Smith, la cui cagionevolezza richiedeva costanti attenzioni?

In questa fase, l’attrazione per George Smith fu intensificata dal fatto che lui si spinse verso qualcosa di più che una semplice amicizia. Le sue lettere misero alla prova la riservatezza di Charlotte. Era disposta ad ammettere di essere felice di vederlo?

No, replicò con scherzosa cautela il 12 maggio, non «felice», solo «lieta».

Nell’euforia dell’attesa, egli rispose con una lettera in cui trapelava un’aspettativa così sovreccitata che Charlotte fu timorosa di mostrarla a Ellen, non volendo che l’amica fraintendesse quella che le aveva fino a quel momento descritto come una «temporanea»688 crescita dei sentimenti.

Ci fu sempre questo elemento di cautela nella relazione con Smith, persino ora che sembravano sul punto di sconfinare verso qualcosa di più che un’amicizia. «Non oso affermare di essere felice – o di vedere davanti a me prospettive di felicità per il futuro»689, disse a Ellen. Con questa onestà da pellegrina (che non abbandonò mai Charlotte in rapporto ai sentimenti) si soffermava ad analizzare nel dettaglio le parole di Smith, spesso con il supporto di Ellen. Il fatto che una volta Charlotte abbia descritto Ellen nei termini di una donna coscienziosa che per qualche motivo le era congeniale ha portato alla supposizione che Ellen fosse mediocre. Sebbene Ellen non avesse le capacità critiche che Charlotte trovò a Cornhill, condivideva con l’amica qualcosa di persino più prezioso: la capacità di analizzare il carattere. Anche le sue osservazioni sui Brontë furono immancabilmente intelligenti e sensibili. Emily, a cui Ellen piaceva, non avrebbe mai tollerato la mediocrità – Charlotte disse una volta a Ellen che Emily la stimava forse come nessun’altra persona al di fuori della canonica690. Charlotte non si sarebbe scomodata a inviare le sofisticate lettere che riceveva da Cornhill (sia quelle dell’editore sia quelle del suo braccio destro) a Ellen, se quest’ultima non le fosse stata d’aiuto nel sottile compito della “lettura dell’anima”. Solo a Ellen poteva confidare di trovare Taylor di «seconda categoria». Si rammentavano a vicenda di lasciarsi guidare dalla saggezza nella scelta dell’uomo giusto da sposare. Questo complesso tema fu al centro di molte delle loro lettere: la scelta sbagliata, osservarono, era in molti casi all’origine dell’infelicità coniugale. Il modo in cui le donne “leggono” gli uomini (e viceversa, come hanno ampiamente dimostrato Jane Austen e George Eliot) è spesso affrettato. Charlotte ed Ellen, due donne sui trentacinque anni, rifiutavano l’illusione che il matrimonio fosse necessariamente la più desiderabile delle condizioni per il loro sesso. Condividevano un certo scetticismo verso “l’amore eterno”, l’obbligo di far mostra della felicità domestica (inframezzato da un disperato piagnucolio) da loro osservato, ad esempio, in Amelia Ringrose, che aveva ceduto al fascino per l’altro fratello inaffidabile di Mary, Joe. Il dongiovanni, il tiranno e il folle andavano evitati a tutti i costi.

«John Taylor è uno sciocco»691, Charlotte mise in guardia Ellen dal pretendente che la stava corteggiando, mentre lei stessa era interiormente in subbuglio per via dell’imminente visita a Londra. Aveva da tempo fastidi allo stomaco e si preoccupò per il fatto che il suo aspetto non fosse al meglio.

Il 28 maggio salì sull’espresso per Londra dalla stazione di Leeds. Quando alle dieci di sera arrivò a Euston Square, George Smith e sua madre erano lì ad attenderla.

Lui era cambiato, notò subito. Era più maturo, più serio, più autoritario692. La madre e le sorelle, le sembrò, ora si piegavano a ogni suo desiderio.

Il quarto giorno dal suo arrivo, il 1° giugno 1851, lo segnò con una «pietra bianca». Non sappiamo cosa accadde per renderla «davvero felice»693, ma il suo umore era in qualche modo associato a un sermone che aveva ascoltato quel pomeriggio da un protestante in trasferta a Londra, D’Aubigny. Il suono della lingua francese si era mescolato alla felicità, riesumando i sentimenti che aveva provato per Monsieur. Fu «metà dolce, metà triste, e stranamente suggestivo ascoltare ancora una volta il suono del francese»694.

Anni dopo, intorno al 1870, Ellen disse a un biografo dei Brontë, Sir Wemyss Reid, che George Smith si era proposto a Charlotte. Dubito che questo sia avvenuto in modo esplicito, poiché Smith non era uomo da venir meno alla parola data. È più probabile che egli abbia ulteriormente intensificato il calore delle lettere che aveva spedito a Charlotte nell’attesa di vederla, e che dunque, nell’arco di tempo di una giornata, a lei sembrò che quella crescita dei sentimenti non fosse poi così “temporanea”.

Poi, d’un tratto, le speranze svanirono.

Anche in questo caso è impossibile sapere cosa sia accaduto esattamente tra il 7 e il 10 giugno, a parte il fatto che Smith si immerse nel proprio lavoro e ne fu così assorbito che Charlotte a malapena lo incrociò in casa, al civico 76 di Gloucester Terrace. Una possibilità è che la situazione già critica della casa editrice avesse subito un peggioramento. Charlotte potrebbe aver interpretato gli impegni lavorativi di Smith come un dietrofront rispetto al cammino che lei rappresentava: con un’impresa instabile da dirigere e la responsabilità per una grande famiglia di dipendenti, da quel momento sarebbe dovuto essere più pragmatico.

Comunque siano andate le cose, fu a questo punto che Charlotte decise che il suo legame con George Smith non aveva futuro al di fuori dei limiti dell’editoria e dell’amicizia; e fu sempre in questo momento, credo, che strinse nel pugno lo scorpione che l’aveva punta. Si sarebbe comportata in modo impeccabile, garantendo una tacita solidarietà per le difficoltà che George Smith stava attraversando.

La reazione nei confronti della madre di George fu piuttosto diversa. Dopo questa visita, Charlotte disse che le sarebbe piaciuto poter pensare alla cortesia della signora Smith come già le era accaduto di fare in passato. Così come Madame Heger, agli occhi di Charlotte, era stata un’avversaria dei suoi innocenti sentimenti per Monsieur; anche in questo caso identificò il nemico in un’altra donna. Concluse che la signora Smith, in fin dei conti, non poteva essere vinta: per quanto benevola e ospitale, avrebbe sempre esercitato una notevole influenza sul figlio, incoraggiandolo a intraprendere un cammino prudente. In un certo senso, il dramma nascosto di questa visita a Londra fu una battaglia per George Smith: il suo destino era quello di diventare un uomo dalle elevate possibilità intellettuali – che Charlotte avrebbe voluto stimolare e nutrire – o un mondano gentiluomo? Andando alla ricerca delle esperienze che le furono d’ispirazione per le opere creative, ritroviamo l’idea dello sviluppo di George Smith anche al centro di Villette: un simile uomo pubblico poteva essere riscattato in quanto eroe romanzesco?

Guardandosi indietro in età avanzata, George Smith ricordò sua madre come «indomita». In termini simili la descrisse anche Leslie Stephen: «sanguigna» e «scaltra». Educò un figlio che fu accolto nella società maschile dell’epoca come un uomo virile e deciso – così veniva perlopiù definito –, stranamente generoso con Thackeray e George Eliot (due autori che esigevano in ogni caso un trattamento speciale), sicuro di sé e vivace, un comandante in grado di tenere i nervi sotto controllo. Smith disse inoltre che il legame con sua madre era «più tenero e intimo del normale. Condividevo con lei ogni interesse e ogni progetto»695. La signora Smith aveva l’abitudine di recarsi quasi ogni mattina nella stanza del figlio per una breve chiacchierata. Lui non aveva segreti per lei: «Sono pochissimi i casi in cui una madre e un figlio raggiungono un simile livello di confidenza».

Inevitabilmente, dunque, mamma vinse. Ciò appare in modo chiaro dal tono dell’immancabile lettera di cortesia che Charlotte scrisse alla signora Smith dopo essere ripartita da Londra. Il suo tono con George, invece, rimase invariato. Lo vide, nella migliore delle luci, come un figlio devoto. Nelle memorie che scrisse verso la fine della propria vita, Smith ricordò che una volta, nel corso di una conversazione a Cambridge, Sir James Stephen (il nonno di Virginia Woolf) dichiarò di non aver mai incontrato una donna perfettamente giusta e imparziale, e Smith osservò che Sir James non aveva conosciuto Charlotte Brontë696. Smith andò avanti riportando che Charlotte era severa nel giudicare il carattere, ma non le azioni. «In genere, ritengo, era troppo buona nell’interpretare le azioni di un amico»697.

Tra il 7 e il 10 giugno l’apatia e il mal di testa si impossessarono di Charlotte e si fecero sempre più violenti, fino a renderla spossata e malata698. Disse a Ellen che doveva dimenticare i bei momenti perché ormai era chiaro che non erano il preludio di un futuro roseo: indulgere in quei ricordi avrebbe solo «peggiorato la solitudine»699. Il piacere, disse, «non andava ritenuto più affidabile del raggio di sole di una giornata estiva. Trascorro la gran parte delle notti in una desolata tristezza».

Londra fu, ancora una volta, «Babilonia»700. Pur ammirando le conferenze pubbliche tenute da Thackeray sugli umoristi del XVIII secolo, fu colpita dalla sua disponibilità a cambiare la data di una conferenza per far sì che alcune signore non dovessero rinunciare alle corse all’ippodromo di Ascot. Thackeray salutò a voce alta Charlotte come «Jane Eyre» nel corso della sua seconda conferenza, su Congreve e Addison, all’Almack’s Assembly Rooms di St James. In seguito a tale presentazione, Charlotte, ben lungi dall’essere invisibile, dovette farsi strada tra due stuoli di ammiratori, con la mano che le tremava mentre si aggrappava al braccio della signora Smith – tremava, probabilmente, di rabbia e indignazione, a giudicare da come reagì il mattino seguente, quando Thackeray la fece chiamare per vederla. Si fiondò su di lui, che rimase interdetto davanti al camino701.

«Se lei fosse venuto dalle mie parti, in Yorkshire, cosa avrebbe pensato di me se io l’avessi presentata a mio padre, davanti a una composita compagnia di sconosciuti, come il “signor Warrington”?».

«No, mia cara, lei intende “Arthur Pendennis”».

«No, non intendo Arthur Pendennis!», replicò feroce. «Intendo il signor Warrington, e il signor Warrington è un gentiluomo che non si sarebbe comportato come lei ha fatto ieri con me». Entrando nella stanza, il signor Smith ascoltò le esplosive parole di Charlotte come granate lanciate contro una fortezza.

Thackeray concluse che non potevano essere amici. «Il fuoco e la furia che ardono in quella piccola donna, la collera che infiamma il suo cuore non fanno per me»702, disse in privato. Smith notò che Thackeray non aveva la prontezza di spirito necessaria per il botta e risposta e non era molto a suo agio in compagnia di quelle che venivano chiamate donne «intelligenti» – donne che lo scrittore percepiva come critiche, e con le quali conversare richiedeva uno sforzo mentale. Per questa ragione, Charlotte non gli piaceva. A Thackeray piacevano le donne dolci, adoranti, che lo rassicuravano. Nei suoi faccia a faccia con Charlotte, si rifiutò di essere schietto e diretto in merito alla scrittura; piuttosto buttò le conversazioni in barzelletta prendendosi gioco della loro comune attività, come se se ne vergognasse. Per Charlotte era seccante non venire presa sul serio.

Il 7 giugno (la data in cui iniziarono i disturbi di Charlotte) fu catturata e scioccata dalla recitazione di Rachel (nei panni di Adrienne in Adrienne Lecouvreur di Scribe): «C’era la sua anima in quello che faceva», scrisse ad Amelia Taylor, «una strana anima [...]. Lei e Thackeray sono gli unici due esseri che mi stregano nella grande Londra – e l’uno è venduto alle grandi signore, e l’altra, temo, a Belzebù»703. Quando vide nuovamente Rachel, il 21 giugno (nel ruolo di Camilla nella tragedia di Corneille Horace) ebbe una «esperienza meravigliosa, terribile, come se la terra si fosse spaccata profondamente sotto i miei piedi»704. Charlotte temeva di vedere rispecchiata nell’attrice una parte di sé: la tentazione di esporre le crude emozioni – la ribellione, la follia, la dura opposizione. Vide un’attrice, una donna simile a «Lucia»705, che esibiva il proprio talento sul palcoscenico, che si avvicinava al pubblico rivelandogli senza paura, bensì con palese euforia, la tempesta, la rabbia, il fuoco – tutto lo spettro dei sentimenti repressi. Charlotte analizzò l’ambivalenza di questo gesto più volte, sia nelle lettere che in Villette, dove dimostra, attraverso la figura di un’attrice chiamata Vashti, che una simile esposizione può suscitare un ottuso disprezzo. Era convinta che rivelarsi in pubblico fosse degradante, quando non era «glorioso»706. Quella della degradazione fu una paura che non l’abbandonò mai. «C’è qualcosa di divino nel pensiero che il genio si preservi dal degrado», aveva scritto a Williams, «se solo fosse vero: ma Savage ci dice che per lui non lo è stato; Sheridan conferma questa confessione, e Byron la sigilla offrendone una terribile prova»707. Queste osservazioni scaturivano dall’implacabile onestà di Charlotte. Temeva i desideri anarchici, associati a Branwell, come una malefica trasgressione. In che misura la creatività era associata all’abbandono? Quanto avrebbe osato lasciarsi andare?

Eppure un altro filo della vita di Charlotte si annodò in quel 7 giugno: quel giorno, scrivendo la terza lettera al padre, mandò per la prima volta i propri saluti al signor Arthur Bell Nicholls. Da questo momento in poi divenne sua abitudine includerlo nei saluti inviati alla cerchia domestica ogni volta che era lontana da casa.

Per tutto il mese di giugno, il morale basso e la cattiva salute continuarono ad avvelenare molti momenti che sarebbero stati altrimenti piacevoli. Non fu molto impressionata, ad esempio, dalla Grande Esposizione: il Palazzo di Cristallo era un misto tra un bazar e il palazzo dei genii. Poi, durante gli ultimi giorni del suo soggiorno, sembrò riprendersi.

Il 25 giugno George Smith prese un giorno libero per accompagnarla a Richmond e insieme organizzarono una bravata. Presentandosi come il signore e la signorina Fraser (fratello e sorella), si fecero visitare da un frenologo allora molto in voga, il signor Browne. Subito dopo la partenza di Charlotte da Londra, Smith le inviò la “Stima frenologica dei talenti e delle disposizioni di una signora”, datata 29 giugno, accompagnata dalla stima relativa al signor Fraser. Il signor Browne aveva visto che la “signorina Fraser” era una donna talentuosa e dalla spiccata sensibilità, ma il ritratto stilato dal medico difettava di «ombra», disse Charlotte a George Smith. Gli chiese dunque di aggiungere ombra «a piene mani»708.

Charlotte lasciò Londra il 27 giugno, determinata a moderare il suo attaccamento per Cornhill709 per evitarsi il dispiacere di non essere amata. Decise di informare Smith che non avrebbe aspettato lettere per tre mesi, con l’intenzione di estendere tale astinenza a sei mesi710. Questa mossa suonava come una ripetizione dei suoi accordi con Monsieur, pertanto si ricordò di evitare la misantropia che spesso si accompagnava alle fasi di sconforto sentimentale711. La vita sembrava ora in piena assonanza con il lavoro immaginativo: quando riceve un’inattesa lettera di Graham, Lucy, pur cercando di mantenere un precario controllo, prova «un moto di gioia che giunse caldo al cuore e si propagò velocemente per tutte le vene. Una volta tanto una speranza si era avverata»712. Una celere lettera di George Smith suscitò una sorpresa simile raggiungendo Charlotte a Manchester, dove si era trattenuta per una sosta di due giorni per spezzare il viaggio fino a Haworth e fare visita alla signora Gaskell nella sua accogliente e spaziosa casa, pervasa dal profumo dei fiori del suo giardino, al numero 42 di Plymouth Grove. Le lettere di Smith a Charlotte Brontë sono andate perse, ma questa particolare lettera potrebbe essere riprodotta in Villette, laddove Graham scrive a Lucy dopo che la ragazza ha trascorso diverse settimane in casa sua: «Mi aveva scritto con una buona disposizione d’animo, soffermandosi con viva soddisfazione su scene che si erano svolte davanti ai nostri occhi, su luoghi che avevamo visitato insieme, su conversazioni che avevamo fatto, su tutti i piccoli argomenti, insomma, delle mie poche settimane di felicità. Ma il nocciolo della gioia era – convinzione elargitami generosamente dal suo linguaggio cordiale – che la lettera era stata vergata non soltanto per accontentare me, ma per soddisfare se stesso»713. Ancora una volta, con la sua tipica affabilità, George Smith, seguendo l’esempio di Charlotte, la sottoponeva a una prova nella reciproca esplorazione del carattere. Come in passato, lei non poté fare a meno di rispondere.

Il 2 luglio, Charlotte scrisse per dire che l’opinione del frenologo sul signor “Alexander Fraser” era in accordo con la sua: «Volevo un ritratto, e ora ne ho uno molto simile a quello custodito nella mia testa [...]. È una sorta di miracolo, come, come, come la vita stessa [...]. Sono contenta di averlo, lo volevo»714. Ne fece una copia715, sperando ancora di redimere Smith e poter estirpare dal suo carattere quegli aspetti che lei non approvava. Il suo consiglio al signor Smith era quello di non sprecare le potenzialità intellettuali che anche Browne aveva scorto in lui: «Stia attento anche solo all’ombra del cedimento»716. Assunse di nuovo il tono corroborante di Lucy Snowe; disse, ironica, che in futuro avrebbe somministrato i suoi “confetti” con severità717: non era stata «del tutto contenta» di ricevere la sua prima lettera; ora poteva dirgli candidamente che si sarebbe meritato uno schiaffo («un’ostile manifestazione manuale»), anche se i colpi che infliggeva lui erano ben peggiori. Lui mandò giù la medicina, riconobbe Charlotte, «con grande garbo»718, così da confermare l’opinione del frenologo, secondo cui il signor Fraser era del tutto privo di arroganza.

Il tono scherzoso di Charlotte è rassicurante, non corrosivo, e venato di un umorismo tipicamente inglese. Nulla sembrerebbe più lontano dal fervore delle lettere scritte a Monsieur in francese. Con George Smith, l’uso della lingua madre le permette di svelare una schiettezza faceta, sottile, non del tutto trasparente, bensì velata da sfumature e implicazioni che sembrano coprire la confessione con la commedia del gioco verbale. Un simile candore approfondisce la relazione attraverso il reciproco divertimento, senza comportare un’esposizione o una pressione eccessiva. Così Charlotte rispondeva alle canzonature di Smith, che nella conversazione non di rado amava prendersi gioco del suo interlocutore. Ma la linda compostezza con cui lo faceva spuntava i suoi strali, rendendolo inoffensivo: lei vide in lui «un tocco di Mefistofele senza il demoniaco»719.

Nonostante questo gioco, Charlotte aveva un messaggio velato per George Smith, che formulò chiaramente persino prima di lasciare Manchester per proseguire la scrittura di Villette: se voleva che lei procedesse con il lavoro, lui doveva garantirle qualcosa – non il matrimonio, ma le attenzioni di un’amicizia speciale, un’amicizia, insisté, che fosse affidabile e regolare. È questa la proposta tremendamente seria celata da quella che non sembra altro che una scherzosa fantasia, ovvero che Smith le avrebbe offerto una stanza tutta per lei a Cornhill, dove Charlotte avrebbe lavorato dall’alba al tramonto, rinfrancata dall’unico ma certo piacere di cenare da sola con lui tutte le sere, un rituale al quale «prenderemmo parte nel più raffinato spirito di cordialità e fraternità». Questo messaggio riappare nel romanzo, quando Lucy immagina che Graham preservi un posticino per lei sotto gli abbaini (che ricordano gli abbaini nell’ufficio di George Smith a Cornhill) dove avrebbe potuto essere «intrattenuta» quando lo avesse voluto. Non era la bella stanza in cui alloggiava i suoi amici maschi, né lo splendido padiglione in cui il suo banchetto nuziale era allestito, eppure lei si sarebbe accontentata se egli le avesse riservato «uno stanzino» speciale. Anche Lucy teneva in serbo un posto per lui, «un posto di cui non presi mai le misure... penso che somigliasse alla tenda di Peri-Banou. Durante tutta la mia vita l’ho portata con me, ripiegata nel palmo della mano: ma, liberata da quella stretta e da quella costrizione [come la mano che nasconde la puntura dello scorpione in Shirley], chissà se la sua innata capacità di espandersi non sarebbe riuscita a farla ingrandire fino alle dimensioni di un tempio...»720.

Mentre sua madre era fuori in villeggiatura a Hastings, George Smith prese l’iniziativa dando avvio a una nuova raffica di lettere, che stavolta fecero la spola tra Londra e Haworth più veloci che mai. È stato notato che questo fitto scambio coincise con l’ininterrotta stesura del primo libro di Villette e con un deciso miglioramento della salute di Charlotte721. Nonostante temesse la propria ossessione per le lettere, cedette al calore di lui: «Ora mi aspetterò una lettera ogni tanto, non posso dirle “non mi scriva mai” senza alterare falsamente il mio desiderio e senza fargli una violenza alla quale rifiuta di sottostare»722.

Mentre era ancora immersa nella fucina di Villette, nella tarda estate del 1851, ancora una volta George Smith le diede chiari segnali di predilezione. Tale corrispondenza le dava un vitale conforto e Charlotte potrebbe ancora una volta avervi fatto riferimento scrivendo, in Villette, che le lettere di Graham a Lucy contenevano tre o quattro righe di chiusura un po’ tenere, «toccate ma non sottomesse dal sentimento»723. Mi sono chiesta se Charlotte si sia ispirata a una propria pratica quando racconta che Lucy stila due lettere: una, ardente, che non spedisce; l’altra è il tipo di lettera che potrebbe inviare una signora. Il più grande dono di George Smith fu quello di farla sentire autorizzata a esprimersi: egli seppe tirar fuori la sua voce. Il tono confidenziale e disinvolto della loro corrispondenza raggiunge forse un vertice nella spontanea replica di Charlotte a quella che sembrerebbe esser stata un franca nota di Smith:

Mio caro Signore,

la gente dice che è sbagliato parlare o agire nell’impeto del momento o impulsivamente, ma per una volta farò così. La sua nota di stamattina è così simile a lei, e – devo aggiungere – alla sua parte migliore. Migliore perché più individuale, quanto mai lontana dai sentimenti convenzionali, ordinari, delle persone che raramente dubitano di se stesse [...]. Ma quanto è fuori strada! Quanto si sbaglia! No, in realtà, la sua lettera non mi ha indispettita – come avrebbe potuto? E non dovete cercare una colpa in ciò che mi piace – perché la lettera mi è piaciuta – né credermi una persona così misera di mente o così lunatica da voler scorgere un’offesa in ciò che è geniale, simile alla vita e pervaso da uno spirito amabile [...].

Sono tentata dal dire qualcosa in più su questo argomento, qualcosa di esplicativo e metafisico che tracci una sorta di distinzione. Lei ha usato le parole “leggerezza e impertinente licenziosità”. Mi consenta di dirle che non deve mai ricorrere a tali parole perché (mi sembra) la sua natura non ha nulla a che vedere con queste qualità – niente di niente. Non credo che lei possa esser altro – eccetto forse con le persone che possiedono un’eccessiva sfacciataggine e durezza – che gentile e premuroso. È sempre così con Currer Bell, e sempre lo è stato, e questa è la ragione principale per cui lui prova nei suoi confronti una profonda amicizia. Deve tenere un’altra condotta con le persone d’un altro genere – del tipo del signor Lewes, ad esempio. Lei non è come il signor Lewes, sbaglio? Se lei fosse anche in un solo atomo simile al signor Lewes, non mi fiderei mai più del mio istinto, perché ho sentito quello che egli era sin dalla prima lettera che mi ha scritto – e non ho più avuto il desiderio di sentirlo o di scrivergli. Lei mi sembra qualcosa di molto diverso: non duro, non insolente, non volgare, non uno di cui diffidare – tutto il contrario [...].

Non faccia caso ai miei umori ecc., vado avanti, continuo a privarmi della manna di un’occasionale lettera da Cornhill e vorrei avere la forza d’animo di rinunciare a questo piacere, e mi disprezzo perché non possiedo una tale forza [...].724

Sapeva che questa corrispondenza poteva anche essere un semplice segno della benevolenza dell’editore, che amava riproporre i pensieri e i motti di spirito che avevano condiviso. Scrivere era per Smith un gesto elegante, e forse lo faceva per sentirsi gratificato – non per rendere felice lei. Qualche giorno dopo, il 22 settembre, Charlotte gli disse di essere «molto felice». «Posso fare a meno di augurarle ogni bene dovendo a Lei, in modo diretto o indiretto, la gran parte dei momenti felici di cui ora godo?»725. Smith la invitò nuovamente a Londra, ma lei rifiutò.

«No, se non ci fosse nessun’altra obiezione (e ce ne sono molte), ci sarebbe il dolore di doversi dire un ultimo addio, scambiarsi una stretta di mano priva di speranza, ma non per questo meno intensa o più facile da dimenticare. Non mi piace. Non posso sopportare che un simile momento si ripeta di frequente. Non mi faccia di nuovo questa proposta. Venire a Londra è solo un palliativo gravido di conseguenze».

È possibile che non ci siano state altre lettere di esplorazione dei confini. Da settembre in poi, a giudicare dalle repliche di Charlotte, le lettere di Smith si concentrarono più che altro sul lavoro: l’assurdo, impubblicabile romanzo che la signorina Martineau aveva scritto per Smith, Elder e le vicissitudini della società in India. Charlotte rifiutò un nuovo invito da parte degli Smith per Natale. Nel frattempo, attraversò una nuova fase di depressione a ridosso dell’equinozio d’autunno, una stagione che la tediava sempre, come se gli elementi naturali, in lotta tra loro, riflettessero un conflitto tra anima e corpo. Il 30 ottobre parlò di tregua da un «doloroso turbamento mentale [...]. La vita è una battaglia»726.

George Smith tentò Charlotte non solo in ragione della sua cavalleria di stampo tradizionale, ma perché sembrò, a tratti, offrirle la possibilità di emergere dalla vita ritirata. Sarebbe riuscita a entrare a pieno titolo nella vita pubblica, cavalcando il proprio successo? Voltare le spalle a questa opportunità con una stretta di manoalla stazione di Euston, mentre per l’ennesima volta ripartiva per tornare nell’ombra, era ancor più doloroso che non scorgere affatto la luce. Come la dama di Shalott727, non poteva sopportare di vedere di persona l’amato cavaliere che giungeva al galoppo nella turrita Camelot. Era meglio rimanere sulla soglia tra la vita e l’arte; molto meglio era stringere in mano una lettera, un pezzetto di solida gioia, di quel nutrimento tanto desiderato dalla sua fame di contatti umani: «Il pasto selvatico e saporito del cacciatore, carne[...]. fresca, sana e nutriente»728.

Indubbiamente George Smith ammirò Charlotte Brontë per la sua arte e la sua eloquenza, ma nessuno, a quanto sembra, è in grado di stabilire se abbia provato più di una forte simpatia nei suoi confronti. Molti erano gli ostacoli lungo la sua strada: sua madre, gli obblighi familiari e, stando alla lettura della sua indole fatta da Charlotte, un carattere un po’ troppo volubile, troppo compiaciuto e troppo a proprio agio con le convenzioni dell’epoca. Molti decenni dopo, quando aveva ormai settantaquattro anni, George Smith confessò alla signora Humphry Ward729 che si era sentito più attratto da Charlotte quando lei era a Haworth che quando era a Londra – in altre parole, erano state le sue lettere, piuttosto che la sua presenza fisica, ad approfondire il loro legame. A quanto disse, non era mai stato innamorato di lei, sebbene sua madre si fosse «allarmata». Virginia Woolf, il cui padre era stato amico di Smith e suo collaboratore per l’edizione del «Cornhill» e del Dictionary of National Biography, ricordò730 che «il vecchio George Smith si pavoneggiò» quando la madre della scrittrice gli disse: «Sono sicura che Charlotte fosse innamorata di lei, signor Smith». Non è possibile sapere esattamente come Charlotte arrivò a convincersi che non ci fosse un futuro per il loro legame, ma il fatto che avesse deciso di negarsi “il piacere” delle lettere dell’editore suggerisce quanto fortemente le desiderasse.

L’estate sfumò nell’autunno, l’autunno nell’inverno, e lei si ritrovò ancora una volta ad aspettare la posta, scivolando nella conseguente depressione. Questa condizione fu trasposta nel disincantato resoconto della relazione tra Lucy Snowe e Graham Bretton in Villette, il libro che Charlotte, nella seconda metà del 1851, stava scrivendo a ritmo serrato. Con la riservatezza che le è tipica, Lucy riconosce le irresistibili attrattive del gentleman inglese. Deve anche riconoscergli «un’amicizia, col suo calmo conforto e la sua modesta speranza» che le dà sollievo quando la vita le sembra spenta, e le lettere, che costituiscono il suo «tesoro».

Le lettere spedite da Charlotte riflettono un interlocutore molto più interessante e attraente di Graham Bretton, che è semplicemente un vacuo belloccio. Nella trasformazione da uomo reale a eroe romanzesco, Graham è diventato più simile a un idealtipo che a George Smith. I repentini mutamenti di Graham sono vicini ai capricci di William Percy nella novella “Henry Hastings”. Percy, indaffarato con le sue discussioni di gabinetto e con gli impegni del suo ambiente tumultuoso, è capace di una «anomalia del gusto» che lo scalda come un «piccolo e lenitivo divertimento»731. Simili anomalie di gusto possono impossessarsi di lui con molta tenacia, ma possono anche rivelarsi, appunto, nient’altro che capricci. In “Il matrimonio di Mr. Gilfil” (1857), George Eliot osservò la stessa tipologia umana nella figura del capitano Wybrow732: un giovane uomo di «calme passioni». È un figlio obbediente perché non ha alcuna inclinazione propria capace di trascinarlo. Inglese mansueto, di buona famiglia, è visto come agli antipodi rispetto all’esuberante e impetuosa figlia adottata dai suoi genitori, l’italiana Caterina, e la sua massima aspirazione è quella di sposare una donna di pari rango e dal cospicuo patrimonio. Questo genere di uomini, come riconobbero sia Currer Bell che George Eliot, era particolarmente pericoloso per le donne sensibili – una Elizabeth Hastings, una Lucy Snowe, un’attrice come Caterina. Nel settembre 1851, Charlotte ricordò a Smith il patto che gli aveva proposto due mesi prima: «Deve riservare un pezzettino di se stesso – fosse anche l’ultima falange del suo dito mignolo – per lui [Currer Bell], e non lasciare mai che nessuno, gentiluomo o gentildonna [...] si impossessi di quel pezzettino o vi metta mano». Gli stava chiedendo di assicurarle che né sua madre né un’eventuale futura moglie si sarebbero mai intromesse nella loro relazione; se Smith avesse garantito questo, lui [Currer Bell] non avrebbe domandato niente di più – e l’uso del pronome maschile sottolineava che la sua richiesta non aveva alcuna implicazione sessuale. Come con Monsieur, al quale aveva implorato “un po’” d’interesse, una “briciola”, anche in questo caso chiese a Smith un “pezzettino” di sé: non un amore, non delle visite, solo una regolare corrispondenza che le desse la forza per andare avanti.

Nello stesso periodo in cui Charlotte introdusse il principesco Graham nel primo volume del suo romanzo, scrisse a Smith intense lettere capaci di riscaldarlo, tanto che a volte egli rispondeva nella stessa vena. Altre volte lui si negava, mentre Charlotte aspettava impaziente – troppo impaziente – una risposta. Allentava il contatto facilmente, dimentico, perché, sebbene fosse gentile e premuroso, non aveva il senso del dovere dei Brontë. Perciò si allontanava, di certo anche incoraggiato dalla sua indomita madre.

Era la vita a ispirare la letteratura o la letteratura a dar forma alla vita? George Smith cercò di attirarla a sé ancora una volta, invitandola a tornare a Londra a settembre e a dicembre? Charlotte rifiutò perché lo reputava più inaffidabile di quanto fosse in realtà? O forse, realisticamente, a motivare il suo rifiuto fu la volontà di non alimentare più vane speranze? Potrebbe anche aver concluso che il principale interesse di Smith nei suoi confronti era quello dell’editore per un autore di successo. L’interesse di Smith per Charlotte era tale che egli contemplò la possibilità di affrontare un viaggio fino a Haworth nel pieno dell’inverno, quando alla fine del gennaio 1852 arrivò la notizia che lei era gravemente malata. Sfortunatamente, proprio in quel periodo, Charlotte era andata con Ellen a Brookroyd per cercare di rimettersi in salute.

Il medico le aveva diagnosticato un problema al fegato. Winifred Gérin suppone che fosse itterizia, ma le informazioni a disposizione sono vaghe e sappiamo che il trattamento al mercurio provocò una violenta reazione – era stata la cura, più che la malattia, a portare Charlotte a un passo dalla morte. Charlotte, in una lettera a George Smith di cui ci è giunta solo la conclusione, parlò all’editore della depressione associata alla malattia: Currer Bell, disse, non stava più scrivendo; piuttosto ingoiava farmaci «allo scopo di liberarsi da una febbriciattola nervosa, che dopo averlo infastidito con costanti minacce, in ultimo ha stabilito una sorta di parziale tirannia sul suo umore, il suo sonno e il suo appetito, per cui non ha potuto fare altro che ricorrere al parere dei medici [...]. Frattanto, penna, inchiostro e carta sono proibiti come se fossero tre dei sette peccati capitali»733. Charlotte vergò probabilmente questa lettera nel dicembre del 1851, poco dopo aver scritto la scena del collasso di Lucy al termine del primo libro di Villette. La connessione tra la malattia fisica e quella mentale suggerita nel brano prende spunto dai ricordi del deperimento di Charlotte a Bruxelles, nell’estate del 1843, e da questo nuovo malessere: «La mia mente ha sofferto un po’ troppo e ora si sta ammalando. Cosa devo fare? Come potrò mantenermi sana? [...] Finalmente, dopo un giorno e una notte di depressione particolarmente angosciante, mi ammalai e fui costretta a restare a letto [...]. Il sonno mi abbandonò del tutto»734.

Continua descrivendo una vera e propria «visitazione dall’aldilà» in cui le pare che i morti tanto amati da lei in vita siano indifferenti nei suoi confronti. Nel corso di quest’incubo, «la mia anima rimase terrorizzata da un indescrivibile senso di disperazione per il futuro. Non c’era alcun motivo per cui io dovessi sforzarmi di guarire o desiderare di vivere [...]. Quella sera, come mai prima, si rafforzò dentro di me la convinzione che il Fato fosse di pietra e la speranza un falso idolo, cieco, senza sangue nelle vene e col cuore di granito. Sentii anche che la prova a cui Dio mi stava sottoponendo era giunta al culmine, e che ora dovevo allontanarla con le mie stesse mani».

Nelle lettere di Charlotte troviamo un resoconto semplificato della stessa esperienza: «Ho passato un tale inverno che, vissuto una volta, non dimenticherò mai»735, scrisse a William Smith Williams. A Laetitia Wheelwright, una sua compagna di scuola di Bruxelles, raccontò la malattia in questi termini: «Vi sono stati alcuni giorni e alcune notti di tempesta durante i quali ho desiderato sostegno e compagnia più di quanto le parole possano dire. Giacqui una notte dopo l’altra, senza sonno, ben sveglia, debole e incapace di far nulla. Sedetti in poltrona giorno dopo giorno [...]. Non dimenticherò mai quel periodo»736. Disse che il collasso era dovuto all’aver scritto un libro nel più totale isolamento (mentre aveva condiviso con le sorelle la scrittura di Jane Eyre e di due terzi di Shirley). Ciò che non poté dire, se non attraverso la pagina romanzesca, fu che tale solitudine si era combinata con lo scoramento quando le vivaci lettere di Smith, che le erano arrivate in rapida successione tra luglio e settembre, avevano iniziato progressivamente a scemare e quando Taylor, dopo avergliene spedite due da Bombay (datate 17 settembre e 2 ottobre), smise del tutto di scriverle. La posta diventò la quotidiana conferma delle speranze tradite. Quando la signora Smith la invitò di nuovo a Londra, dopo che il figlio aveva iniziato a preoccuparsi per lo stato di salute di Charlotte, lei rispose significativamente che laddove non c’era «alcun rimedio disponibile» per la solitudine, doveva sopportarne le conseguenze: la pausa temporanea, la breve distrazione non le erano di alcun aiuto. Se George Smith non aveva recepito il messaggio tra luglio e settembre, non poté non coglierlo ora.

Per quattro mesi737, nel corso dell’inverno del 1851-52, Charlotte non toccò carta e penna. Poi, il 29 marzo 1852, si diede una scossa copiando il primo libro di Villette. Nel periodo in cui era stata incapace di scrivere aveva letto La storia di Henry Esmond, di cui Smith le aveva inviato il manoscritto. Le sembrò che Thackeray fosse «ingiusto verso le donne, assolutamente ingiusto»738. Criticò anche la «stupidità» della narratrice di Dickens in Casa desolata: «Nel personaggio della signorina Esther Summerson è ritratta una natura amabile, ma con tratti caricaturali, non realistici»739. Forse la percezione del fallimento dei più eminenti tra i contemporanei nel fornire un’immagine veritiera delle donne le diede l’impulso a proseguire la sua opera affrontando il secondo libro, la difficile parte del romanzo che prende spunto dal rapporto con gli Smith e dal recente dramma delle lettere. Quando Lucy torna alle sue occupazioni dopo il collasso, decide di domare il suo «insano» desiderio di lettere: «Pazza l’ingenuità di chi scambiasse uno specchio d’acqua piovana, contenente nel suo incavo un unico sorso, per una sorgente perenne»740. Guardandosi indietro, comprende meglio la sua ossessione, nel suo duplice aspetto. Prima di tutto, la nuda brama: «Credo che gli animali tenuti in gabbia, e così malnutriti da esser sempre sul punto di morire di fame, attendano il cibo come io attendevo una lettera. Oh! – per parlare in sincerità abbandonando quel tono di calma simulata che, mantenuto a lungo, esaurisce ogni sopportazione della natura umana – [...] soffrii [...] strane prove interiori, miserabili defezioni della Speranza, intollerabili invasioni della Disperazione. A volte quest’ultima mi si avvicinava talmente che il suo respiro mi attraversava da parte a parte. Lo sentivo penetrarmi fino in fondo come un soffio e un sospiro funesto, arrestando il moto del mio cuore, o proseguire soltanto sotto il peso di un’oppressione indicibile. La lettera, la lettera beneamata, non voleva più arrivare ed era l’unica dolcezza della vita in cui io potessi sperare»741.

L’altro, più sottile aspetto della sua ossessione per le lettere aveva a che fare con il linguaggio. Di persona, in quanto signora, sarebbe stato sconveniente esprimersi («il dolore, la privazione, la miseria lasciano la loro impronta nel tuo linguaggio»742), ma la lettera, scritta nell’ombra, svincolata dalla presenza corporea, offriva un mezzo più pieno («quando la presenza fisica è insignificante... di sicuro non può esserci errore nel fare del linguaggio scritto un migliore mezzo di espressione rispetto al labbro incerto»). La ragione mette ancora in guardia sui rischi di una piena esposizione, persino rimanendo in quella zona grigia tra la presenza corporea e lo pseudonimo autoriale. Charlotte Brontë imparò sulla propria pelle che non poteva usare la voce evoluta di Currer Bell nella sua vita privata di donna – in pratica, non poteva ricorrere alla sua principale risorsa. Attraverso la sua eroina espone il problema:

«Ma se io sento, potrò mai esprimermi?».

«Mai!», dichiarò la Ragione.

Gemetti sotto la sua amara severità. Mai, mai, oh, dura parola! [...]. La ragione è forse nel giusto; eppure non c’è da sorprendersi che qualche volta siamo contenti di sfidarla [...]. Ogni tanto infrangiamo, ed è bene, le sue catene, nonostante la terribile vendetta che ci attende.

Qui, parlando attraverso il romanzo, Charlotte allo stesso tempo si accusa e si difende, e alla fine si consola. La paura avrebbe potuto annientare la sua voce, se non fosse stato per quella «forza più gentile» che custodisce il suo segreto giurandole fedeltà, che non affiora alle labbra ma dimora nel «tempio» dell’interiorità: questa divinità le offre la terra promessa del futuro. Nel frattempo, però, una donna muta deve continuare a farsi strada nella landa selvaggia del presente, scacciando via l’impulso all’idolatria. In nessun altro luogo Charlotte Brontë, Currer Bell e la forza-ombra di cui si parla nel romanzo convergono più pienamente che in questa promessa rinviata.

Prendendo ancora una volta in mano la penna, in quella primavera del 1852, e guardando indietro all’«inverno interiore», Charlotte Brontë fu in grado di comprendere meglio l’impresa precaria della propria sopravvivenza attraverso la metafora delle stagioni di Lucy Snowe. Nel migliore dei casi, la creatura solitaria si iberna, si conserva «nel ghiaccio» in vista della buona stagione. Ma il rischio è che il gelo le entri nel cuore, specialmente nella «fase centrale» di questo terribile vuoto.

Il secondo libro del romanzo, oltre a passare al setaccio l’ossessione di Charlotte, ritorna su altri inquietanti episodi dell’anno precedente: il viaggio sul Reno cancellato; la pietra bianca con cui aveva segnato uno dei giorni trascorsi a Londra; l’interruzione della corrispondenza con Taylor dall’India. Quest’ultimo fatto divenne la copertura per un plausibile senso di abbandono che poté esprimere pienamente solo nelle pagine di Villette. In questo periodo buio, durante il quale la depressione la costringeva a intervalli a mettere da parte la scrittura, stilò un ritratto dell’instabilità e della mutevolezza dei sentimenti di Graham per Lucy:

Quel buon fiume, sulle cui rive mi ero soffermata, dalle cui onde erano cadute sulle mie labbra alcune gocce vivificanti, volgeva altrove il suo corso: lasciava la mia piccola capanna e il mio campicello abbandonati e aridi come la sabbia, riversando molto lontano la ricchezza delle sue acque. Il mutamento era giusto, equo, naturale; non si poteva dire nemmeno una parola di protesta; ma io amavo il mio Reno, il mio Nilo; avevo quasi adorato il mio Gange, e mi addolorava che quella grande marea dovesse diventarci estranea, svanendo come un falso miraggio [...].

Ma subito mi dissi: «La Speranza che sto piangendo [...] non è morta fin quando non è giunta davvero la sua ora; dopo una così lenta agonia, la morte dovrebbe riuscire bene accetta».743

Fu a questo punto che Currer Bell si trovò davanti a una prova che dovette «allontanare con le sue stesse mani». Diversamente dalla dama di Shalott, la sua arte non andò in frantumi quando vide il suo amato cavaliere lanciato al galoppo verso una vita in cui lei non era inclusa, con la fronte ampia e chiara baciata dal sole mentre cantava lieto il suo: «Tirra, lirra». La sua arte era abbastanza forte per guardare alla realtà dei fatti: il cavaliere non era destinato alla dama solitaria e appartata. Alla fine del secondo libro del romanzo, la narratrice-eroina non si abbandona alla tipica disperazione del caso; agisce in modo deciso, persino drastico. Seppellisce le sue lettere – si separa da esse, così come i vivi devono staccarsi dai morti se vogliono sopravvivere. Seppellisce il suo «tesoro», che è anche il suo «dolore». E con questo gesto, la voce della scrittrice trova la forza per andare avanti. Nel terzo libro, è capace di guardare a Graham come a un sepolto «sentimento passeggero»; può infatti ricordare senza timori la gioia che le ispirava la sua grazia. Mentre cammina e si guarda indietro, si chiede se quel sentimento sia del tutto morto:

Dov’era andata a finire quella strana amicizia unilaterale che era per metà di marmo e per metà di vita? Vera da un lato e dall’altro forse soltanto un gioco?

Quel sentimento era morto? Non lo so; ma era sepolto. Qualche volta pensavo che la sua tomba non fosse tranquilla; vedevo stranamente in sogno la terra agitata [...].

Avevo avuto troppa fretta?744

La domanda ricorre ogni volta che Lucy entra casualmente in contatto con il dottor John: i suoi sguardi gentili, la sua calda mano, il gradevole tono della sua voce quando pronuncia il nome di lei. «Ma imparai col tempo che questa bontà, questa cordialità [...] non mi appartenevano in alcun modo; facevano parte di lui, erano il miele del suo carattere». Era il dolce frutto di cui, in un momento di estrema necessità, si era cibata – ma ora doveva andare oltre: «Buonanotte dottor John, sei buono, sei bellissimo, ma non sei mio. Buonanotte, che Dio ti benedica»745.

Nel manoscritto, Charlotte Brontë scrisse: «Non è morto ancora; no, ad oggi ancora non è morto»746. Sta qui la possibile spiegazione per i ripetuti rifiuti che oppose agli inviti degli Smith: evitare l’intenso desiderio che sorgeva in lei ogni volta che ripartiva da Londra.

Nella fase della revisione, Charlotte tagliò747 (letteralmente, con le forbici) una gran parte del materiale relativo a Graham Bretton. I passaggi più pesantemente ritoccati sono quello in cui viene descritta la reazione di Lucy quando torna al lavoro dopo il soggiorno dai Bretton, quello in cui commenta la gentilezza e le imperfezioni di Graham una volta ricevuta la sua lettera e quello in cui realizza che non ci saranno più altre lettere748. Graham sfuma sullo sfondo quando Lucy inizia a provare dei sentimenti per un altro uomo, il professore belga Paul Emanuel, il più fedele ritratto di Constantin Heger che Charlotte ci abbia lasciato.

Charlotte ripeté più volte che non desiderava annunciare la pubblicazione di Villette fino a quando non avesse consegnato il manoscritto all’editore: aveva sempre resistito alle proposte di pubblicare le sue opere a puntate, e in ugual modo si opponeva alle pressioni affinché terminasse in breve tempo il suo romanzo. Ciononostante, lavorò con una certa fretta749 (come mostra il manoscritto del terzo libro) nella tarda estate e nell’autunno del 1852. Il 26 ottobre750 spedì i primi due libri del romanzo. George Smith colse e apprezzò il motto di spirito rivoltogli nel secondo libro, quando Graham Bretton vince a una lotteria un copricapo femminile, «una specie di leggerissimo turbante azzurro e argento, con una piuma di lato, simile a una lucente e candida nuvola»751. Una sera, quando si appisola in salotto, la madre glielo calza in testa. Le reazioni incoraggianti spronarono Charlotte, e dopo tre settimane segnate da difficili decisioni in merito ai capitoli finali – i cui titoli furono aggiunti solo alla fine, spesso a matita – il 20 novembre spedì anche il terzo libro.

Seguì un silenzio senza precedenti da parte di George Smith. Probabilmente stava metabolizzando le critiche rivolte al galante Graham/dottor John e l’inattesa preferenza accordata da Lucy a uno straniero fiero e poco attraente. Il libro conteneva un messaggio esplicito per George Smith, nella misura in cui l’improvviso cambio di opinione di Lucy era il risultato immediato delle esperienze della narratrice: «Lettore, se nel corso di quest’opera troverai che la mia opinione sul dottor John subisca delle modifiche, perdona l’apparente contraddizione. Riferisco i miei sentimenti così com’erano nel momento in cui li provavo; descrivo il modo in cui vedevo il suo carattere così come mi appariva mentre lo stavo scoprendo»752. Ciò che scopre è che il suo primo eroe non può essere salvato dal convenzionalismo tipico dell’uomo di mondo: rimarrà schiavo di ciò che la Moda, il Benessere e il Gusto decretano. Comprende inoltre che gli uomini del suo genere non cercano una moglie animata da un fuoco interiore, prediligono la grazia esteriore. E così Currer Bell lo relega a un ruolo minore: una prevedibile storia romantica con un bellissimo angelo. Quando Paul Emanuel prende la mano di Lucy, lei pensa: «La sua amicizia non era davvero un beneficio incerto, ondeggiante, una speranza fredda, lontana, un sentimento così fragile da non sopportare il peso di un dito»753. George Smith era troppo accorto per non cogliere l’allusione di Charlotte alla vecchia preghiera di riservarle un pezzettino del suo dito, e troppo scaltro per non accorgersi della satira contenuta nelle frasi apparentemente benevole rivolte all’eroe decaduto. L’editore impedì a Williams di leggere l’ultimo libro del romanzo754.

Con apprensione, il 1° dicembre Charlotte scrisse a Smith per sapere cosa ne pensasse: «Temo, poiché non risponde, che il terzo libro l’abbia in qualche modo delusa. Ma sarebbe meglio, tuttavia, parlarne apertamente, se questo è il caso. Preferirei conoscere il peggio subito, piuttosto che esser tenuta sulle spine a lungo»755.

Ancora silenzio.

Poi arrivò un assegno con una magra cifra: 500 sterline, mentre Charlotte e il padre se ne aspettavano 700756. La somma va paragonata alle 1.200 sterline che Smith pagò all’epoca per La storia di Henry Esmond e le 10.000 che avrebbe offerto in seguito per l’ultimo, pregiato romanzo di George Eliot, Romola. Poiché l’assegno era arrivato senza una lettera d’accompagnamento, Charlotte si decise a partire per Londra «per capire cos’era successo, e cosa aveva ridotto il mio editore al mutismo»757. Solo allora la lettera arrivò. Smith trovava singolare l’avvicendamento di eroe cui si assisteva nell’ultimo libro.

Charlotte era d’accordo: «Non è piacevole, e probabilmente sarà accolto di cattivo grado dal lettore così come è stato, per così dire, obbligatorio per l’autore»758. Tali parole spingevano l’editore a riconoscere il proprio fallimento nell’incarnare l’eroe di Charlotte. In un romanzo rosa, fece notare lei, Lucy sarebbe rimasta fedele a «un eroe di prima grandezza» che sarebbe stato «sommamente devoto», ma la «vita reale» si opponeva a una simile idealizzazione.

Chiese inoltre, con un certo sarcasmo, se anche lui riteneva che la bellissima, angelica moglie destinata a Graham fosse irrimediabilmente priva di sostanza: unirsi a lei sarebbe stato come accoppiarsi a una «nuvola»759.

La replica di Smith fu poco decifrabile. Tale lettera, come tante altre, è andata persa, ma a giudicare da quanto Charlotte riportò a Ellen, egli sembrava sentirsi in obbligo di giustificare le proprie azioni e i propri sentimenti, eppure era incapace di farlo: «Continua a fare mistero delle sue “ragioni”; qualcosa del terzo libro non gli è andato giù e gli rimane confusamente in gola»760. Egli riteneva che la moglie di Graham fosse «una stramba, affascinante gattina», ma, mise le mani avanti, a lui «non piaceva».

Furono queste le sue ultime parole: si rifiutò di rispondere a ulteriori domande. Forse Charlotte disse a se stessa che i loro giochi erano finiti, ma le confessioni rivolte a Smith attraverso il testo del romanzo, e le provocazioni con cui lo avrebbe sollecitato in seguito, avrebbero garantito la prosecuzione del dramma.

585 CB in conversazione con EG, riportato da EG a Catherine Wink­worth, 25 agosto 1850, LFC, iii, p. 143.

586 Vedi il cap. 6. A WSW, 4 giugno 1849, CBL, ii, p. 216; trad. it. in Lettere, Milano, SE, 2002, p. 145.

587 V, p. 62.

588 A GS, 22 settembre 1851, CBL, II, p. 700.

589 Vedi Cassandra, scritto nel 1852, drasticamente rivisto e stampato privatamente nel 1859, appendice a Ray Strachey, The Cause: A Short History of the Women’s Movement in Great Britain, 1928; nuova edizione Londra, Virago, 1979, pp. 395-418.

590 CB a EG, 26 settembre 1850, CBL, II, p. 476.

591 Riportato nel necrologio di HM per CB, «Daily News», aprile 1855.

592 A EN, 12 aprile 1850, CBL, II, p. 384.

593 In «Westminster Review» (1851), da alcuni ritenuto scritto da John Stuart Mill e discusso nella lettera di CB a EG, 20 settembre 1851, CBL, ii, pp. 695-696. Il saggio è riedito in John Stuart Mill e Harriet Taylor Mill, Essays on Sex Equality, a cura di Alice S. Rossi, University of Chicago Press, 1970; trad. it in J.S. Mill, H. Taylor, Sull’eguaglianza ed emancipazione femminile, Torino, Einaudi, 2001.

594 EG a un’amica, settembre 1853, LFC, iv, p. 93.

595 CB a WSW, 24 agosto 1849, CBL, ii, pp. 239-240; trad. it. in Lettere, cit., p. 149.

596 A Laetitia Wheelwright, 12 gennaio 1851, CBL, ii, p. 552.

597 CB a JT, 19 dicembre 1849, CBL, ii, p. 314.

598 CB a EN, 9 aprile 1851, CBL, ii, p. 600.

599 A EN, 5? dicembre 1849, CBL, ii, p. 299.

600 A JT, 6 novembre 1850, CBL, ii, pp. 495-496.

601 A EN, 5? dicembre 1849, CBL, ii, p. 299.

602 A EN, 19 dicembre 1849, CBL, ii, p. 311.

603 In base ai ricordi di Sydney Lee (secondo curatore del Dictionary of National Biography, voluto da GS), in GS: A Memoir.

604 Dichiarato da Leslie Stephen (primo curatore del Dictionary of National Biography), ivi.

605 Ivi, p. 96.

606 A EN, 19 dicembre 1849, CBL, ii, p. 311.

607 Per le informazioni sul rapporto tra CB e HM, CBL, ii, p. 304; EG a Ann Shaen, 20? dicembre 1849, EGL, 60:96; e HM, Autobiography, ii, 1877; riedita da Londra, Virago, 1983, pp. 323-328.

608 HM, necrologio per CB, «Daily News», aprile 1855.

609 MT a EN, 19 aprile – 10 maggio 1856, Berg. Stevens, MT, p. 126.

610 CB a GS, non datata, LFC, iii, p. 292.

611 CB alla signorina Wooler, 27 gennaio 1853, CBL, iii, p. 111.

612 HM, necrologio per CB, «Daily News», aprile 1855.

613 Ivi.

614 CB alla signora Smith, 9 gennaio 1850, CBL, ii, p. 327.

615 Le informazioni sulla vita della signora Smith provengono da GSR, I, cap. 1.

616 GS: A Memoir, p. 103.

617 EG a EN, 9 luglio 1856, LFC, iv, p. 201.

618 Le opinioni di CB su Macready ed Elizabeth Barrett Browning sono riportate in una lettera alla signorina Wooler, 14 febbraio 1850, CBL, ii, p. 344.

619 CB a GS. BPM. S-G. 31. CBL, ii, p. 318.

620 A EN, 14 settembre 1850, CBL, ii, p. 469.

621 Vedi la lettera di CB a GS, 3 novembre 1852, CBL, Iii, p. 78. Gérin nota la somiglianza di Willie Weightman e GS nel loro essere di bell’aspetto e viziati, CB, p. 169. Da Othello, 2. ii, p. 68.

622 Sydney Lee in GS: A Memoir.

623 Ivi.

624 Catherine Winkworth a Emily Shaen, 23 marzo 1853, LFC, iv, p. 53.

625 PM. Bon pp. 124-1, 124-2, 125-2, 125-3. Vedi l’edizione di V di Clarendon, Appendice I, pp. 753-764.

626 GSR, I, cap. 1.

627 CB a GS, 11 marzo 1851, CBL, ii, p. 582.

628 Ricordi di GS relativi a CB in GS: A Memoir.

629 Copia di una lettera a EN nell’archivio John Murray. CBL, ii, p. 414; trad. it. in Lettere, cit. 155.

630 Cfr. GS: A Memoir.

631 GSR, I, cap. 13.

632 Ivi, cap. 7.

633 Lettera di John Richmond, figlio di George Richmond, a R[eginald] Smith, genero di GS, 30 dicembre 1909, in cui ricorda le parole di suo padre su CB. BPM. S-G. p. 102. Il ritratto è stato infine donato alla National Portrait Gallery da ABN.

634 Devo questa osservazione ad Allegra Huston di Weidenfeld & Nicolson.

635 Richmond raccontò quest’episodio a GS, GSR, i, cap. 7. Spesso viene erroneamente riportato che CB paragonasse il suo aspetto a quello di EB.

636 GHL, ad esempio, parlò di CB come «una piccola, ordinaria [...] vecchia domestica». Riportato da J. W. Cross, George Eliot’s Life, Edimburgo, Blackwood, 1885, I, p. 307.

637 Sono grata a Audrey W. Hall per i dettagli sull’abbigliamento dell’epoca.

638 A EN, 21 giugno 1850, CBL, ii, p. 419.

639 Lettera a WSW, 20 luglio 1850, CBL, ii, p. 427.

640 GSR, I, cap. 5.

641 EG riutilizza in una lettera a GS (giugno 1855) l’aggettivo che lui aveva impiegato per primo, concordando che si tratti della parola perfetta per descrivere i pareri di CB. EGL, p. 349.

642 V, p. 333. Rebecca Fraser, Charlotte Brontë, Londra, Methuen, 1988, p. 377, opera la giusta connessione tra la vacanza a Edimburgo e questo passaggio di V.

643 A WSW, 20 luglio 1850, CBL, ii, p. 428. L’ultima è una citazione dal poema Marmion di Scott.

644 CB a EN, 15 luglio 1850, CBL, ii, p. 425.

645 EG a GS, 5 aprile 1860, EGL, 462: p. 611.

646 CB a GS, tardo agosto 1850, CBL, ii, p. 454.

647 CB alla signorina Wooler, 27 settembre 1850, CBL, ii, p. 477.

648 EG a Catherine Winkworth, 25 agosto 1850, e a Tottie Fox, agosto 1850, LFC, iii, pp. 140-147.

649 Un ritratto dettagliato e ammirevole di EG si può trovare in Jenny Uglow, Elizabeth Gaskell: Habit of Stories, Londra Faber, 1993, pp. 237 sgg.

650 Commenti di Susanna Winkworth, amica di EG, riportati in A.B. Hopkins, Elizabeth Gaskell: Her Life and Work, Londra, John Lehmann, 1952, p. 312.

651 Nel 1967 Gérin fece astute osservazioni sul ruolo di GS nella vita di CB. Vent’anni dopo, la reale entità di questa corrispondenza fu mostrata da Rebecca Fraser, la prima biografa a utilizzare i documenti S-G.

652 Uglow, op. cit., p. 266.

653 EG a Catherine Winkworth, 25 agosto 1850, CBL, ii, pp. 446-449.

654 Emily Winkworth a Catherine Winkworth, 30 agosto 1850, LFC, iii, p. 151.

655 BPM. BS 71.7, 17 novembre 1849, CBL, ii, p. 288. In “Charlotte Brontë and Currer Bell”, Rebecca Fraser nota l’eccessiva compassione di EG, Brontë/Gaskell Societies Joint Conference Papers, 1990.

656 CB alla signorina Wooler, 27 settembre 1850, CBL, ii, p. 477.

657 A EN, 14 settembre 1850, CBL, ii, p. 468.

658 A HM, ottobre? 1850, CBL, ii, p. 481.

659 A WSW, 19 novembre 1850, CBL, ii, p. 513.

660 A EG, 27 agosto 1850, CBL, ii, p. 457; trad. it. in Lettere, cit., p. 157.

661 CB parlando di George Sand in una lettera a GHL, 17 ottobre 1850, BL. Add. Ms 39763; trad. it. in Lettere, cit., p. 159.

662 Efficace affermazione di Juliet Gardiner nella sua introduzione a The World Within: the Brontës ar Haworth: A Life in Letters. Diaries and Writings, Londra, Collins & Brown, 1992 p. 11.

663 CB, “Biographical Notice”. CBL, ii, Appendix; trad it. in Emily Brontë, Cime tempestose, Torino, Einaudi, 1992, p. XIII.

664 Un’idea di EG cancellata dal manoscritto di Life (MS f. 241): «I forti sentimenti contro la religione cattolica romana furono considerati come odio nei confronti dei cattolici romani, eppure immagino che parte di questo antagonismo scaturisse dal fatto che era consapevole della sua suscettibilità». Citato da Angus Easson, BST 16: 84, p. 282.

665 CB a GHL, 23 novembre 1850, CBL, ii, p. 517.

666 GSR, I, cap. 15.

667 Lettera di Matthew Arnold alla signorina Wightman, 21 dicembre 1850, Letters of Matthew Arnold 1848-88, I, a cura di George W. E. Russell, Londra, Macmillan, 1895, p. 15.

668 A JT, 15 gennaio 1851, CBL, ii, p. 554.

669 Lettera di Matthew Arnold alla signorina Forster, 14 aprile 1853, Letters of Matthew Arnold, cit., ripubblicata in The Brontës: The Critical Heritage, a cura di Miriam Allot, Londra, Routledge, 1974, p. 201.

670 Vedi Phyllis Rose, Parallel Lives: Five Victorian Marriages, Harmondsworth, Penguin, 1985, pp. 143-192; e Claire Tomalin, The Invisible Woman: Ellen Ternan and Charles Dickens, Harmondsworth, Viking, 1990.

671 A EN, 20 gennaio 1851, CBL, ii, p. 557.

672 Ibid.

673 CBL, ii, p. 558.

674 CB a EN, 30 gennaio 1851, CBL, ii, p. 567.

675 CB a GS, 5 febbraio 1851, CBL, ii, 572.

676 CB a GS, 11 marzo 1851, CBL, ii, p. 582.

677 CB a GS, 5 agosto 1850, CBL, ii, p. 437.

678 BL. Add MS 43481 b. 12, p. 283. CB ha corretto «lettera» con «linguaggio scritto» in V, p. 304.

679 CB a GS, 7 gennaio 1851, CBL, ii, p. 546.

680 V, pp. 93-94.

681 V, p. 135.

682 Ho attinto a un meraviglioso articolo di Stuart Hampshire, “What the Jameses Knew”, «New York Review of Books», 10 ottobre 1991.

683 A EN, 5 aprile 1851, CBL, ii, p. 600.

684 A EN, 9 aprile 1851, ibid.

685 CB alla signora Smith, 17 aprile 1851, CBL, ii, p. 604.

686 CB a GS, 19 aprile 1851, CBL, ii, pp. 606-607.

687 Ibid. Vedi anche CB alla signora Smith, 17 aprile 1851, CBL, ii, p. 604.

688 A EN, 22 maggio 1851, BPM. Bon 236. CBL, ii, p. 621.

689 CB a EN, 12 aprile 1851. BPM. Bon 325 CBL, ii, p. 602.

690 CB a EN, 27 novembre 1848, CBL, ii, p. 146. Questa lettera fu scritta mentre EB era prossima alla morte.

691 CB a EN, 10 maggio 1851, CBL, ii, p. 612.

692 CB a EN, 2 giugno 1851, CBL, ii, p. 628.

693 Ibid.

694 Ibid.

695 GSR, I, cap. 1.

696 GS: A Memoir, p. 102.

697 Ibid.

698 A EN, 11 giugno 1851, CBL, ii, pp. 625-626.

699 Ibid.

700 CB a PB, 14 giugno 1851, CBL, ii, p. 636.

701 Episodio ricordato da GS, vedi GS: A Memoir, e GSR.

702 11 giugno 1851, Brotherton. CBL, ii, p. 634.

703 A Mary Holmes, 25 febbraio 1852, a cura di Ray, Letters and Private Papers of WMT, iii, p. 12.

704 CB a EN, 24 giugno 1851, CBL, ii, p. 648.

705 Alla fine di Il professore. Vedi supra capitolo 4.

706 A WSW, 19 dicembre 1849, CBL, ii, p. 312.

707 A WSW, 1° maggio 1848, CBL, ii, p. 59.

708 CB a GS, 8 luglio 1851, CBL, ii, p. 663.

709 Vedi la lettera di CB a WSW, 21 luglio 1851, CBL, ii, pp. 667-668.

710 A GS, 8 luglio 1851, CBL, ii, p. 663.

711 CB a WSW, 21 luglio 1851, CBL, ii, p. 667.

712 V, p. 316.

713 . V, p. 323.

714 CB a GS, 2 luglio 1851, CBL, ii, p. 656.

715 Ibid.

716 A GS, 8 luglio 1851, CBL, ii, p. 663.

717 A GS, 4 agosto 1851, CBL, ii, p. 675.

718 A GS, 9 agosto 1851, CBL, ii, p. 680.

719 A GS, non datata, CBL, ii, p. 684.

720 V, p. 587.

721 Winifred Gérin, Charlotte Brontë: the Evolution of Genius, Oxford University Press, 1967, p. 495.

722 . CB a GS, 8 luglio 1851, CBL, ii, p. 663.

723 V, p. 333.

724 CB a GS, 15 settembre 1851, CBL, ii, pp. 690-691.

725 CB a GS, 22 settembre 1851, CBL, ii, p. 699.

726 CB a EN, 6-7? novembre 1851, CBL, ii, p. 711.

727 Nel celebre poema di Tennyson (1832, rivisto nel 1842), The Poems of Tennyson, a cura di Christopher Ricks, Londra, Longmans, 1969; New York, Norton, 1972.

728 Questo si ispira alla reazione di Lucy quando riceve una lettera inattesa da Graham Bretton in V, p. 316.

729 Lettera dell’8 agosto 1898 citata da Gérin, 197, CB, cit., p. 436.

730 A Lady Cecil, 25 luglio 1932, The Letters of Virginia Woolf, a cura di Nigel Nicolson e Joanne Trautmann, Londra, Hogarth; New York, Harcourt, 1979, p. 80. VW ammise che l’episodio era avvenuto «un milione di anni fa» e che la sua memoria era inaffidabile.

731 In Five Novelettes, a cura di Winifred Gérin, Londra Folio Press, p. 241; trad. it. in Henry Hastings, Calvano, Albus, 2009, p. 115.

732 “Mr Gilfil’s Love-Story”, in Scenes of Clerical Life (1857; ripubblicato da Harmondsworth, Penguin, 1989, a cura di David Lodge, p. 164). George Eliot disse al suo editore, Blackwood, che in Scenes of Clerical Life si era cimentata con cose che in seguito non sarebbe più stata in grado di affrontare.

733 CB a GS, non datata, BPM. S-G.92. CBL, II, p. 731.

734 V, pp. 215-216.

735 A WSW, 18 luglio 1852, CBL, III, p. 59.

736 A Laetitia Wheelwright, 12 aprile 1852, Life, p. 474; trad. it. in Elizabeth Gaskell, La vita di Charlotte Brontë, Milano, La Tartaruga, 1987, p. 463.

737 CB alla signorina Miss Wooler, 12 marzo 1852, Allbut Bequest, Fitzwilliam Museum, Cambridge. CBL, III, pp. 28-29.

738 A GS, 14 febbraio 1852, CBL, III, p. 18.

739 A GS, 11 Mar. 1852, CBL, III, p. 27.

740 V, p. 303.

741 Ivi, p. 304.

742 Ivi, p. 383.

743 Ivi, p. 468.

744 Ibid.

745 Smith Bequest, BL: la bella copia di CB, Add. MSS 43480-2.

746 Ivi, pp. 351-352.

747 Ibid. Margaret Smith nota, nella sua “Textual Introduction” a V (p. xxx), che di quaranta di tali tagli, più di venti hanno a che vedere con Graham Bretton.

748 Dettagli ricavati dall’introduzione di Margaret Smith a V, p. xxxii.

749 Ibid.

750 La data è citata in una lettera a WSW che accompagna il manoscritto. Bodleian Library MS. Eng. letters e. 30. CBL, iii, p. 72.

751 V, p. 295.

752 Ivi, p. 258.

753 Ivi, p. 524.

754 CB a EN, 9 dicembre 1852, CBL, iii, p. 91.

755 CB a GS. BPM. S-G.77. CBL, iii, p. 87.

756 CB alla signorina Wooler, 7 dicembre 1852, CBL, iii, p. 89.

757 CB a GS, 6 dicembre 1852, CBL, iii, p. 88.

758 Ibid.

759 Raccontato da CB a EN, 9 dicembre 1852, CBL, iii, p. 91.

760 Ibid.