9. Matrimonio
Per Charlotte il destino – o la Provvidenza853, come disse lei – fu a portata di mano nella persona di Arthur Bell Nicholls. Diversamente dal professore di Bruxelles, il signor Nicholls era un uomo robusto, stabile e dotato di senso pratico, poco incline all’attività intellettuale. Ma era onesto e aveva sentimenti saldi, due qualità della massima importanza per Charlotte.
Il signor Nicholls era abbastanza informato su quanto avveniva in canonica per sapere quando Charlotte ebbe terminato Villette. Era il momento che aveva tanto atteso, e la stessa Charlotte non era del tutto ignara delle sue intenzioni854: da tempo aveva notato i suoi sguardi, la sua timidezza febbrile, le sue minacce di lasciare il paese. Forse, più che vederlo con gli occhi, lo aveva intuito: in qualche angolo della coscienza, aveva sentito che Nicholls desiderava le sue attenzioni. Così, quand’egli bussò alla porta della sala da pranzo, tra le otto e le nove di un lunedì sera del dicembre 1852, le balenò in mente «come un lampo»855 quello che stava per accadere.
Non si aspettava, tuttavia, l’irresistibile forza dei suoi sentimenti: quell’uomo alto, dall’aspetto statuario, tremava da capo a piedi. L’aveva immaginato mite e riservato; ora gli appariva in una nuova luce: perseverante, determinato e incurante del fatto che l’intera Haworth assistesse alla sua impresa – e criticasse la sua presunzione.
Nell’anno in cui resistette al signor Nicholls, dal dicembre 1852 al dicembre 1853 Charlotte si dedicò al suo destino di scrittrice. Dall’aprile al luglio 1853, iniziò più volte un’opera chiamata The Story of Willie Ellin856. Verso la fine dell’anno, a novembre, cominciò a scrivere un romanzo più promettente, Emma857. Ma, terminata quest’ultima immersione nella scrittura, non avrebbe mai più impugnato la penna, se non per vergare lettere – persino quelle, alla fine, sottoposte al vaglio del signor Nicholls. Ovviamente, Charlotte ebbe seri dubbi in merito allo sposare un uomo dai gusti a lei così poco congeniali858. È noto che tali perplessità furono spazzate via, dopo le nozze, dalla crescente tenerezza che provò per il suo «caro ragazzo»859; eppure una questione resta poco chiara. I motivi della sua felicità domestica sono semplici – il sollievo dalla solitudine, il calore umano, la fedeltà assoluta; a rimanere oscuro è il precedente periodo di dibattito interiore, scandito dai continui rifiuti opposti al signor Nicholls nella primavera del 1853 e dal persistere dei suoi dubbi e del suo bisogno di privacy anche durante il fidanzamento, durato dall’aprile al giugno 1854. Come cambiò Charlotte Brontë in quel periodo in cui si preparava a una radicale trasformazione della propria vita? Per le donne vittoriane era normale pensare al matrimonio come al principale scopo dell’esistenza, così come per i padri lo era opporsi ai pretendenti poveri; Charlotte – muovendo dalle posizioni canoniche secondo traiettorie tutte sue – rimase necessariamente muta.
Doveva mostrarsi «del tutto passiva»860, confidò a Ellen, augurandosi che la feroce indignazione di suo padre si placasse e che il suo pretendente, fin troppo apertamente imbronciato, tornasse sui propri passi. La palese disperazione del signor Nicholls la addolorava861, così come l’insofferenza mostrata dal padre al solo pensiero che qualcuno vedesse in lei una moglie. Quando la figlia gli aveva detto della proposta del signor Nicholls, le vene del collo del signor Brontë si erano «inturgidite»862 e gli occhi gli si erano iniettati di sangue per la rabbia. Temendo per la sua salute, Charlotte si era affrettata ad assicurargli che avrebbe rifiutato il signor Nicholls l’indomani stesso. Il signor Brontë aveva poi rinforzato tale rifiuto con un biglietto scritto di suo pugno, che a Charlotte era sembrato «crudele»863. Se Ellen avesse potuto vedere suo padre così indurito, avrebbe «conosciuto qualcosa di lui»864.
Quando la notizia di tali eventi raggiunse Mary in Nuova Zelanda, l’amica esplose dalla rabbia per il sacrificio compiuto da Charlotte in nome di quel «vecchio egoista».
Ottant’anni dopo, leggendo queste lettere, Virginia Woolf portò alla luce le paure delle figlie e l’ira del genitore che «impedisce la libertà nella casa paterna». Uomini come il signor Brontë, il signor Barrett e, presumibilmente, anche il padre della scrittrice, Leslie Stephen, erano ancora convinti che fosse innaturale e poco femminile opporsi alla volontà paterna: oltre alla legge, avevano la “natura” dalla loro parte. «Con queste protezioni, il Rev. Patrick Brontë poté tranquillamente infliggere un “dolore acuto” alla figlia Charlotte per parecchi mesi e rubare parecchi mesi alla sua breve felicità matrimoniale senza incorrere nella disapprovazione della società in cui esercitava la professione di ministro della Chiesa anglicana; mentre, se avesse maltrattato un cane o rubato un orologio, quella stessa società lo avrebbe spretato e ripudiato»865.
Che strada prese Charlotte in questa fase così tesa e concitata, quali questioni la assillarono e come si riconciliò, infine, con un amante così diverso da quelli concepiti per le sue eroine?
All’inizio del 1852 morì in Nuova Zelanda Ellen Taylor, cugina e amica di Mary. Quest’ultima, in seguito al lutto, scrisse a Charlotte di un altro tipo di paura: ormai sola, sentiva di poter diventare «una donna rigida, severa ed egoista»866. Tale preoccupazione toccava Charlotte nel vivo: «Sempre più spesso temo lo stesso per me»867, confessò. In quello stesso periodo, nel marzo 1852, aveva appena superato un esaurimento nervoso che l’aveva lasciata segnata. Alla fine di quell’anno, avvisò il signor Smith che l’avrebbe trovata diversa, nell’aspetto fisico, rispetto all’ultima volta che l’aveva vista a Londra, diciotto mesi prima. Probabilmente i capelli, che negli anni Quaranta dell’Ottocento incorniciavano il suo volto, erano ora tirati indietro, in un’acconciatura che metteva in evidenza le lievi asprezze868 notate anche da Gaskell, oltre a conferirle l’aria risoluta di una donna che aveva navigato tra marosi e iceberg.
In seguito a una profonda crisi, quando seppellisce la speranza insieme alle lettere ricevute da Graham Bretton, Lucy Snowe non si arrende. Poiché nel suo accampamento invernale mancano cibo e foraggio, deve combattere una nuova battaglia campale contro la fortuna: «In tal caso, pensai all’eventualità che, essendo troppo povera per perdere, Dio mi avrebbe forse destinato alla vittoria. Ma quale strada era aperta, quale piano attuabile?»869.
Durante la terza visita agli Smith, nell’estate 1851, i boccioli di speranza erano stati stroncati dal gelo: di conseguenza, Charlotte potrebbe aver spontaneamente rivolto le sue attenzioni al signor Nicholls, cui aveva indirizzato un inusuale saluto nella lettera del 7 giugno, inaugurando una consuetudine che avrebbe mantenuto per tutto il mese. Tale gesto potrebbe aver incoraggiato il curato ad autoinvitarsi per un tè in canonica il 27 luglio, prima di partire per un viaggio in Irlanda. In quell’occasione, apparì «buono, mite, pacioso»870 agli occhi di Charlotte, che riferì tali impressioni a Ellen in una lettera. Ma per una volta si era sbagliata – almeno in due aspetti. Buono lo era, ma nelle questioni amorose era anche testardo e combattivo. Respinto, reagì inviando al signor Brontë una lettera di dimissioni. Si murò nella sua stanza, in sagrestia, rifiutandosi di mangiare e di parlare con il suo premuroso ministro (rimase palesemente imbronciato persino durante una visita formale da parte di un disorientato vescovo871), senza vergognarsi del fatto che tutta Haworth vociasse sulla sua condizione.
Più giovane di Charlotte di quasi due anni, Arthur Bell Nicholls era nato a County Antrim, in Irlanda, il 6 gennaio 1818. All’età di sette anni era stato adottato872 da suo zio, il dottor Alan Bell, preside della Royal High School di Banagher. Lo zio e la zia erano uniti in un matrimonio eccezionalmente felice, e il ragazzo era entrato a far parte di una famiglia amorevole e di vedute liberali, che risiedeva nella Cuba House, una casa in stile palladiano, della fine del XVII secolo posta sulla sommità di un piccolo poggio e dipinta di bianco, dagli arredi essenziali ma eleganti. Arthur ricostruì la genealogia della famiglia Bell a partire dal momento in cui si era stabilita in Irlanda, all’epoca della Gloriosa Rivoluzione del 1690. Più volte la genealogia fa riferimento a Sir Michael Bell, colonnello di fanteria e governatore di Athlone, che arrivò in Irlanda al seguito di Guglielmo III e fu fatto cavaliere nella battaglia del Boyne (le origini dei Bell, esponenti della classe media, erano superiori a quelle del contadino Brunty, il cui sdegno di fronte alla proposta del giovane curato era motivato soprattutto dalla sua rapida ascesa sociale). Nel 1844 Nicholls si laureò in teologia con onori di seconda classe al Trinity College di Dublino, e all’età di ventisette anni arrivò a Haworth – era il maggio del 1845. L’irlandese era un uomo forte, aveva una folta barba, un naso lungo e diritto e begli occhi. Tra i libri che aveva portato con sé873 non c’erano romanzi (anche se in seguito avrebbe comprato un volume delle poesie di Cowper); tra le sue letture figuravano i Practical Sermons del reverendo G.W. Woodhouse (seconda edizione, 1841), The Churchman’s Companion (1845) e A Discourse on Church Government di John Potter (settima edizione, 1845). Il 5 giugno fu fatto vicario del signor Brontë dal vicario di Bradford, William Scorseby, e poco più di un anno dopo, il 30 settembre 1846, fu ordinato sacerdote da Charles Thomas, vescovo di Ripon. Si dimostrò coscienzioso e moderatamente preoccupato per le condizioni di vita degli abitanti del villaggio. In chiesa leggeva bene e aveva una bella voce, osservò Charlotte, che però non condivideva le sue inflessibili posizioni dissentiste. In seguito, la signora Gaskell, moglie di un ministro unitariano, lo definì «bigotto»874, e pure Charlotte temette che, una volta sposati, la sua adesione alla teologia dell’Alta Chiesa avrebbe ostacolato alcune amicizie e frequentazioni875. La sua rigidità può essere vista come un segno di ristrettezza mentale; senza dubbio aveva un carattere testardo e sosteneva le sue nette opinioni con la forza del temperamento.
L’anno dopo l’arrivo del signor Nicholls a Haworth, Ellen venne a sapere del suo interesse per Charlotte, all’epoca trentenne. Sei anni più tardi, quando Nicholls si propose, Charlotte si stupì che Ellen, in genere assai intuitiva («troppo, ho pensato talvolta»876), non avesse notato alcun segnale dell’interessamento del curato. Nel 1846, quando aveva smentito la voce riportata da Ellen, Charlotte aveva rafforzato il suo diniego dichiarando di sentirsi indegna d’essere amata: dire in giro che lei, un’ordinaria «zitella», si era infatuata del giovane curato l’avrebbe resa lo zimbello del vicinato. La sua non era semplice diffidenza o timidezza, ma una vergogna per il proprio corpo dettata dalle norme dell’epoca. In pubblico, la consapevolezza dei propri difetti fisici – e la pietà con cui la contemplavano uomini come Smith e Thackeray – la faceva sussultare. Nell’aprile 1853, a Manchester, mentre era in visita da Elizabeth Gaskell, confidò all’amica di essere mortificata poiché si sentiva guardata come «qualcosa che suscita quasi repulsione», e si disse timorosa di amare pienamente perché «non era mai stata capace di ispirare il tipo di amore che sentiva in sé»877. Aveva espresso tale timore anche in Jane Eyre, in uno scambio di battute in seguito cancellato dal manoscritto. Quando Rochester ammette di provocare la gelosia di Jane riversando le sue attenzioni sulla signorina Ingram, Jane confessa:
«[...] per essere a mia volta schietta, c’è una questione che non solo allora, ma ancora oggi mi scotta: paragonata a lei, quanto all’aspetto fisico, io sono una nullità».
«Non tanto per stazza e peso. Ma andrà bene, almeno io scuserò ogni mancanza»878.
A quanto pareva, persino l’amante più affettuoso non poteva essere troppo rassicurante su questo punto. Charlotte era convinta che, dopo una prima occhiata, gli sconosciuti non tornassero a posare lo sguardo su di lei. La signora Gaskell smentì, ma un simile timore suggerisce che Charlotte si vedesse particolarmente brutta. In Villette, Charlotte dà ancora una volta sfogo a quest’ansia nella scena in cui Lucy e Paul Emanuel si confessano il loro amore:
«Ah! Non sono piacevole a guardarsi [...]».
Non potei trattenermi dal dirlo; le parole mi vennero spontanee alle labbra; non ricordo attimo della mia vita in cui non abbia provato l’ossessionante timore di sentire quanto fossero grandi le mie manchevolezze fisiche [...]. Era una debolezza dare tanta importanza a un’opinione sul mio aspetto esteriore? Temo di sì [...] avevo una grande paura di dispiacere».879
C’è una continuità tra la risoluta ragazzina di dodici anni convinta che non si sarebbe mai sposata e la giovane donna ventiseienne che, in uno schizzo spedito a Ellen da Bruxelles, si era caricaturalmente ritratta880 come informe, bruttina e sola, mentre dalla sponda opposta della Manica saluta con la mano una formosa e femminile Ellen, affiancata da un uomo (probabilmente il signor Vincent, il suo spasimante dell’epoca). Tale continuità si ritrova anche nella donna di trentasei anni sofferente al cospetto di un padre incapace di vederla nel ruolo di moglie. Nell’inverno del 1852-53 il signor Brontë umiliò Nicholls, colpevole di essersi proposto come marito di Charlotte, senza rendersi conto che, così facendo, suscitava in sua figlia una profonda simpatia per quell’uomo oltraggiato, proprio come lei – perché Charlotte sapeva fin troppo bene cosa significasse sentire in sé una forte passione e venir considerato agli occhi del mondo inadeguato a esprimerla. Le ribolliva il sangue ascoltando gli impietosi epiteti («vile ciarlatano») con cui suo padre apostrofava Nicholls. Il signor Brontë si augurò «che ogni donna lo eviti, a meno che non cerchi la propria rovina»881. Non possiamo stabilire in che misura la distaccata simpatia di Charlotte per Nicholls si approfondì quando ella venne a sapere, con sua grande sorpresa, che quell’uomo comune e rispettabile l’amava disperatamente. Ritengo tuttavia che una simile rivelazione abbia avuto un certo effetto su una donna che si considerava indegna di essere amata. Dovette provare una cauta gratitudine, pur non reputandolo l’uomo ideale – gratitudine che, infatti, Charlotte espresse più volte nel corso del fidanzamento, tra la primavera e l’estate del 1854.
Nel 1846 Charlotte aveva fugato i sospetti di Ellen non solo in ragione dell’impietosa immagine che aveva di sé, ma forse anche a causa del disprezzo con cui Emily trattava il signor Nicholls882. Emily non aveva tempo per chi non stimolava la sua immaginazione, ed era capace di rimanere immersa nei propri pensieri davanti al curato, senza preoccuparsi di rivolgergli la parola. Dai primi anni Quaranta dell’Ottocento, Emily esercitò una forte influenza su Charlotte, che si era attaccata a quel «genio» della sorella dopo che il legame d’acciaio con Branwell era venuto meno883. Dopo la morte di Emily, Charlotte si prese cura di Anne notte e giorno, e poi si tuffò a capofitto nella scrittura, incoraggiata dalla crescente amicizia con il suo editore. Per tutto il tempo in cui fu alle prese con le fluttuazioni dell’ambigua relazione con Smith, l’esaurimento nervoso e la scrittura di Villette, il signor Nicholls rimase alla periferia della sua coscienza. Charlotte era però consapevole della costante presenza del curato: egli era solito portare a spasso i cani della canonica o starsene ad ammirare il ritratto che le aveva fatto Richmond. In qualche occasione devono aver riso insieme, perché all’inizio del giugno 1852, mentre stava recuperando le forze a Filey, sulla costa dello Yorkshire, Charlotte inviò al signor Nicholls un divertito messaggio:
Domenica pomeriggio sono andata in una chiesa che mi piacerebbe far vedere al signor Nicholls [...].
A un’estremità c’è una piccola galleria per i coristi, e quando costoro si sono alzati in piedi per iniziare i loro canti, hanno girato le spalle ai fedeli raccolti; in risposta, i fedeli hanno voltato le loro spalle al pulpito e al parroco. L’effetto di tale manovra è stato così ridicolo che sono riuscita a malapena a trattenere le risate; se il signor Nicholls fosse stato lì, avrebbe senza dubbio riso a gran voce.884
Si tratta, forse, dell’unica nota spensierata scritta da Charlotte nel corso della sua lunga depressione. Continuò a essere consapevole dell’ammirazione del signor Nicholls, ma non gli riservò alcuna seria attenzione finché lui non ne fece richiesta con la sua teatrale proposta, seguita dallo sciopero della fame, dal muto tremore che lo scosse quando Charlotte, il 15 maggio, appena tornata dalle visite alla signora Gaskell e a Ellen, cercò di prendere da lui la comunione (la sofferenza del curato era così evidente che la scrittrice poté udire in chiesa i sospiri e i singhiozzi di alcuni fedeli) e dalla scena d’addio del 26 maggio, quando lei lo trovò in lacrime, disperato, davanti alla porta che dava sul giardino – con un’angoscia degna di Cime tempestose. Egli non riuscì a catturarla fino a che non rivelò i propri sentimenti a tutti i Brontë. E se non aveva la loro mentalità, possedeva una propria fierezza che si manifestava sotto forma di tenacia. Prima ancora di rendersi conto di essere interessata al curato, Charlotte aveva fatto notare a Ellen che egli era un uomo con poche passioni885, ma che scorrevano impetuose in lui in rivoli sotterranei.
Soggiornando in casa Smith mentre Villette era in stampa, verso la metà del gennaio 1853, Charlotte ebbe modo di notare che un carico di lavoro «davvero spaventoso»886 aveva lasciato i suoi segni nell’aspetto dell’editore. La sua carnagione, il suo volto, persino i suoi lineamenti apparivano alterati. Eppure trovò la sua mente più lucida e i suoi modi più affabili che mai. Al contrario, il temperamento di James Taylor si era guastato con il clima indiano. Charlotte aveva sentito dire a Cornhill che vivere con lui era diventato difficile.
Una volta tornata a Haworth, George Smith le spedì un ritratto di Thackeray che Charlotte appese in sala da pranzo, vicino a quello del duca di Wellington e al ritratto fattole da Richmond – entrambi precedenti regali dell’editore. Il 26 febbraio gli scrisse: «Mi domando se colui che mi ha fatto questi doni li vedrà mai alle pareti dove sono ora appesi; mi piace immaginare che un giorno possa accadere»887.
La primavera successiva, quando iniziarono a essere pubblicate le prime recensioni, Charlotte fu costantemente in contatto con Cornhill. Tra le molte critiche favorevoli, quella di un certo “Mr Fraser” era particolarmente importante. Charlotte disse all’editore: «Sono costretta ad ammettere, tuttavia, che tale gentiluomo ha limitato le sue opinioni favorevoli ai primi due libri, condannando implicitamente il terzo con la severità di un ostinato silenzio»888. Il signor Fraser, immaginò, era tra le persone che ritenevano più accettabile che Paul Emanuel annegasse piuttosto che incappare nel destino di gran lunga peggiore di convolare a nozze «con quella... persona... quel... quell’individuo – Lucy Snowe»889. L’immediato successo di Villette diede un nuovo impulso alla corrispondenza tra l’autrice e l’editore, che commentavano l’impatto del libro misurando le reazioni del pubblico. George Henry Lewes scrisse una recensione inaspettatamente «generosa», sebbene poco profonda890 agli occhi di Charlotte. Si faceva un gran parlare del finale aperto di Villette, con fervore ci si interrogava sul destino di Lucy Snowe, e la questione, per le lettrici, verteva sul marito: Paul Emanuel sarebbe tornato? Currer Bell fu esortato a dare una risposta definitiva da lettrici come Lady Harriet St Clair (moglie dell’ambasciatore tedesco, il conte Münster). La replica di Charlotte a Lady Harriet fu «formulata in modo da lasciare la questione sostanzialmente inalterata»891. Si disse che una donna, la quale aveva precedentemente deciso di non sposarsi se non avesse trovato l’equivalente del signor Knightley (l’eroe di Emma di Jane Austen), aveva ora messo da parte quel modello ideale sostituendolo con il professor Emanuel892. Charlotte si prese gioco delle reazioni suscitate dal manoscritto a Cornhill, alludendo al disappunto di George Smith: «Vede quanto le signore amano questo piccolo uomo, che a lei non piace affatto»893.
Molti criticarono il fatto che l’interesse di Lucy fosse passato da un uomo all’altro, anche se ciò era avvenuto perché Graham si era dimostrato inaffidabile, e vi scorsero una conferma della volgarità di Currer Bell.
«Le mie rispettabili donne non sono così pronte a innamorarsi di due uomini allo stesso tempo», scrisse Thackeray alla signora Carmichael Smyth il 28 marzo 1853. «È un libro molesto, quel Villette», continuò il 4 aprile scrivendo alla signora Procter. «Quanto è intelligente! E quanto non mi piace la sua eroina». Trovava il soggetto «volgare»; l’autrice, disse a Lucy Baxter, sarebbe «appassita in una virginale vecchiaia senza alcuna possibilità di soddisfare il suo bruciante desiderio»894. Anche Matthew Arnold si scagliò contro il fuoco della passione: «È letteralmente uno dei libri più sgradevoli che io abbia mai letto – e aver conosciuto [Charlotte Brontë] lo rende ancor più sgradevole. Lei è in pieno ciò che Margaret Fuller [femminista del New England] era solo in parte: tutto fumo e niente arrosto»895. Ma ciò che davvero dispiacque a Charlotte fu l’inatteso tradimento di una donna che considerava sua amica. Si sentì devastata quando Harriet Martineau l’attaccò, prima in una lettera896, poi in un articolo apparso sul «Daily News»897, per il modo in cui Lucy passava da un uomo all’altro e per la descrizione di un’ossessione amorosa che (sosteneva Martineau) non rifletteva la condizione della maggioranza delle donne: «C’è un’assenza di introspezione, un’incoscienza, un’immobilità nella vita delle donne di cui non troviamo alcuna traccia in questo libro» (l’obiettivo, in questo caso, era unire gli “interessi” pubblici delle femministe come Martineau agli “interessi” domestici delle donne più miti, in modo da allontanare il fenomeno meno chiaro e più passionale che emergeva in Villette).
Charlotte evidenziò in rosso i passaggi più offensivi della lettera, che in un primo momento la lasciò senza parole. Poi scrisse:
Mia cara signorina Martineau,
[...] protesto contro questo passaggio, e se fossi portata in giudizio davanti a tutti i critici d’Inghilterra con una simile accusa risponderei “non colpevole”.
So cos’è l’amore per come io lo intendo; e se un uomo o una donna dovesse vergognarsi di provare un siffatto amore, allora non ci sarebbe niente di giusto, nobile, leale, veritiero e altruista in questa terra, per come io intendo la rettitudine, la nobiltà, la lealtà, la verità e il disinteresse.
Sinceramente vostra
C.B.
Essere in disaccordo con voi mi procura un acuto dolore.898
Questo fu l’unico caso in cui Charlotte mise fine a un’amicizia. Confidò a George Smith che lei e Harriet Martineau non attribuivano lo stesso significato alle parole899. Arrivò alla conclusione che incontrare la signorina Martineau sarebbe stato «molto pericoloso e poco raccomandabile»900. Non fu tanto la sua opinione avversa a addolorare Charlotte quanto il senso di tradimento: il loro sodalizio era iniziato proprio quando la signorina Martineau le aveva assicurato che Jane Eyre non era affatto un libro volgare. Il dolore causatole da questa recensione fu acuito dall’attenzione che (insieme ad altre simili) riscosse nella cerchia delle sue conoscenze. Alcuni amici le mandarono dei biglietti di cordoglio quando il critico letterario del «Guardian» rifiutò persino di fare la conoscenza di Jane e di Lucy, ritenendole donne lontane dalla sua idea di signorilità. Il 29 marzo Charlotte scrisse alla sua casa editrice in cerca di alleati:
Le recensioni favorevoli passano sotto silenzio, senza che nessuno si azzardi a commentarle, nemmeno sussurrando, mentre quelle negative vengono senza eccezione lette, discusse e passate rapidamente di mano in mano [...]. Dal canto mio, posso solo prendere atto di questo fatto significativo. Sono in debito con i miei editori per tutte le buone recensioni che Villette ha riscosso. Le cattive le devo ai miei amici. Tale considerazione mi strappa un sorriso. I miei amici sono molto, molto buoni. Ringrazio alcuni di loro per il disturbo che si sono presi nel volermi illuminare.901
Sorprende che Charlotte abbia quasi gradito l’accesa reazione del periodico «Christian Remembrancer». L’autrice dell’articolo, Anne Mozley, che aveva definito Jane Eyre un «libro pericoloso», assicurava che con Villette Currer Bell dava prova di essere più maturo di quando «si era presentato al mondo per la prima volta – triste, volgare e lamentoso». Ma, come Harriet Martineau, anche Mozley trovava che il modello femminile presentato dal romanzo fosse inaccettabile:
Vogliamo una donna del focolare; e i personaggi [di Currer Bell] sono privi dell’elemento femminile, fanno violenza alla modesta compostezza, disprezzano il timore dettato dalla vergogna, sono autonomi, incuranti del decoro; la sola ragione, la mera opinione personale di ciò che è giusto o sbagliato, discreto o imprudente, li guida dettando loro la condotta e i comportamenti – l’assicurazione fornita dallo scrupolo e dal costume è fatta a pezzi e calpestata.902
Questa recensione era in accordo con quella velenosa di Jane Eyre che Elizabeth Rigby (ormai Lady Eastlake) aveva firmato nel 1848 per la «Quarterly Review»: all’epoca, tale critica aveva molto amareggiato Charlotte, la quale aveva definito le due riviste «i pesanti Golia della stampa periodica»903. Ma ora, molto più forte e sicura di sé, si divertì a prendere in esame il tracotante filisteo (era infatti convinta che fosse stato un uomo a redigere l’articolo del «Christian Remembrancer»). In una lettera a William Smith Williams si raffigurò il suo avversario come un alto ecclesiastico che odiava il liberalismo religioso di Currer Bell ma che, pur lottando strenuamente per resistervi, non riusciva a trattenere l’impulso di continuare a leggere:
Ringhia, eppure continua a leggere. Ormai il libro lo ha catturato; increspa le labbra, scopre i denti, vorrebbe di buon grado lanciare l’anatema, scomunicare l’autore, ma continua a leggere, sì – e leggendo è in parte costretto a sentire e a trovare piacere in ciò che è insinuato nella sua ostile natura d’acciaio. Nemmeno può [...] nascondere del tutto questo involontario diletto; fa del suo meglio, parla ancora con la voce grossa e severa, cerca di esser pungente, affonda le sue stilettate, scova i punti deboli, ma sempre sperando di colpire nel segno. E l’autore lo legge con grande compostezza, e poggia la recensione soddisfatto e grato sentendo che, quando un nemico è così agitato, non ha scritto invano.904
Questa è una performance temeraria: un Currer Bell nel pieno delle forze che si gode la battaglia dando prova dell’autocontrollo di un David in lotta contro un potere molto più grande di lui. Mettendo da parte la sofferenza causatale dalla signorina Martineau, in genere Charlotte amava confrontarsi con i lettori, esaminare le loro reazioni al suo lavoro. Rispondendo a una lettrice, tale Lucy Holland (forse una zia della signora Gaskell905), confessa che «il profondo e segreto desiderio di essere qualcosa di più che un individuo in cerca del successo personale» era per lei più importante «di tutti gli elogi rivolti all’intelletto [...]. Mentre scrivevo mi sosteneva la speranza che, se molti dei più giovani e fortunati forse si allontaneranno disgustati da queste pagine piuttosto tristi, altri – che hanno sperimentato quelle che lei chiama le “impietose prove della vita” – potrebbero ascoltarvi una voce né dura né priva di empatia»906.
Nel maggio 1853, lavorando a una nuova storia, s’interessò come mai prima alle «impietose prove della vita», spostando la sua attenzione dalle prove perlopiù invisibili di una donna sola a quelle sotto gli occhi di tutti di un bambino privo di protezione – un soggetto molto più dickensiano. Nel caso di una vittima in età infantile, il legame che si crea tra autore e lettore è immediato e forte. Grazie anche alle recensioni e alle lettere, nella prima metà del 1853 Currer Bell si avvicinò al suo pubblico. Fu un periodo di recupero delle forze e di ottimismo, durante il quale Charlotte si sentì più coinvolta dalle reazioni dei lettori che dagli sguardi «di fuoco»907 che Arthur Bell Nicholls le lanciava quando lei si ritirava al piano di sopra voltandogli le spalle – come Martha Brown, la domestica della canonica (e figlia dell’affittuario di Nicholls) riportò alla sua padrona con un senso di offesa che dava prova di grande fedeltà.
Dopo aver consegnato al signor Brontë la sua lettera di dimissioni, il signor Nicholls gli chiese di respingerla. Il signor Brontë disse che lo avrebbe fatto solo se lui avesse promesso di non avvicinarsi mai più a Charlotte. Poiché non poteva prometterlo, Nicholls lasciò doverosamente Haworth per una curazia a Kirk-Smeaton, sempre in Yorkshire, vicino Pontefract. Fu quando non trovò Charlotte passando per l’ultima volta in canonica a dirle addio che si mise a gemere davanti al cancello, dove lei lo avrebbe trovato più tardi. Per l’ennesima volta, egli la implorò di dargli una speranza. Charlotte non poteva farlo e provò per lui una pietà «inesprimibile»908. La sua partenza fu un sollievo. Charlotte considerò l’episodio concluso e tornò ai suoi piani per un nuovo romanzo, The Story of Willie Ellin.
Il soggetto del libro non era del tutto nuovo, bensì un tentativo di far rivivere le storie che aveva condiviso con Branwell. È interessante notare che il suo legame con Branwell continuava a riverberarsi persino allora, tredici anni – e tre successi – dopo l’Addio ad Angria. Ancora una volta, nella primavera del 1853, dopo averlo già trattato negli scritti giovanili e in Il professore, tornò al vecchio tema dello scontro tra due fratelli. Chiaramente, era ancora scottata per il fatto che Il professore non fosse stato pubblicato. Invece di sottoporlo di nuovo al vaglio di Smith – lo avrebbe fatto in seguito – decise di mettere in una nuova forma i materiali del libro. Era un atto di fedeltà nei confronti delle sue creazioni passate, potremmo dire, o la prova di una certa testardaggine? Non perse mai la sua fiducia in quel romanzo. Nel libro, la tirannica persecuzione di William da parte dell’industriale Edward Crimsworth si rifaceva al rapporto tra Edward e William Percy, i due fratelli che comparivano negli scritti giovanili del 1833-34. Ora lo schema veniva ulteriormente riproposto nel progetto di una nuova storia, in cui un industriale di nome Edward trattava con brutale violenza il piccolo fratellastro, William Ellin. Il tema della crudeltà sociale traeva spunto dal dibattito sullo stato dell’Inghilterra che aveva chiamato in causa molte delle menti più illuminate dell’epoca: Disraeli, che aveva parlato di «due nazioni», quella dei ricchi e quella dei poveri, Carlyle, che aveva contribuito alla riflessione con il suo Cartismo, Friedrich Engels, che aveva scritto La situazione della classe operaia in Inghilterra, e Henry Mayhew, i cui influenti articoli su London Labour and the London Poor erano stati raccolti nel 1851-52. Ad eccezione di Cartismo, non abbiamo alcuna prova che Charlotte avesse letto queste opere, ma ad ogni modo esse facevano parte della coscienza pubblica dell’epoca e trovavano eco in ciò che accadeva attorno a lei, nel Nord industriale del paese. Fu questo contesto a plasmare lo sguardo benevolo nei confronti delle proteste civili che troviamo in Shirley e la simpatia provata dall’autrice per un piccolo orfano abbandonato dalla legge e in balia di sadiche vessazioni. Un anno più tardi, Dickens avrebbe pubblicato a puntate Tempi difficili, il suo romanzo di critica sociale ambientato in una città industriale, e Gaskell avrebbe dato alle stampe Nord e Sud. Willie Ellin era più vicino al gusto del macabro di Dickens che al realismo industriale di Gaskell: come il primo, Charlotte narra gli abusi nei loro grotteschi dettagli. In tutta l’opera di Dickens non ci sono brani tanto sinistri e violenti quanto quelli in cui Edward Ellin infligge le sue fustigazioni con cieco potere; ma entrambi, sia Dickens che Charlotte, hanno svolto un’indagine diagnostica degli stati mentali perversi su cui si basa il sistema sociale. Edward Ellin è posseduto da un punitivo istinto di dominazione che lo rende simile al signor Brocklehurst e al signor Murdstone, e sembra inoltre presagire due personaggi di Tempi difficili: Gradgrind, l’insegnante trincerato in se stesso, e Bounderby, l’industriale arrivista che continua a ripetere che quello che gli operai vogliono davvero è «poter mangiare servendosi di un cucchiaio d’oro».
Forse Charlotte aveva già in mente un romanzo di critica sociale all’epoca della sua ultima visita a Londra, dal 5 gennaio al 2 febbraio 1853, quando lasciò di stucco la signora Smith recandosi in visita all’ospedale di Foundling e alle prigioni di Pentonville e Newgate. A Newgate una ragazza dall’espressione sconsolata catturò la sua attenzione – aveva ucciso il figlio illegittimo. George Smith evocò in seguito la scena raccontando che «la signorina Brontë camminò verso di lei, le prese la mano e iniziò a parlarle. Fu, ovviamente, presto interrotta dalla guardia carceraria: “Ai visitatori non è consentito parlare con i prigionieri”»909.
The Story of Willie Ellin è composto da cinque frammenti in cui l’autrice fa parlare voci diverse: quella della vecchia governante, la signora Widdup, una sorta di Nelly Dean (la domestica-narratrice di Cime tempestose), quella della vittima, Willie, terrorizzato, implorante, rassegnato, e, piuttosto sorprendentemente, quella di uno spirito disincarnato e senza tempo: la voce della magione Ellin Hall – è l’anima di un luogo a prendere la parola, non una persona. Quest’ultima non fu una voce semplice da mettere a punto, ma forse abbiamo un’idea del motivo che spinse Charlotte a cimentarsi con questa prova: dopo un romanzo intensamente autobiografico come Villette, associato per giunta alla depressione, un certo distacco poteva esserle di sollievo. I palesi tormenti di Willie, per quanto toccanti, erano opportunamente distanti dalla sofferenza interiore causata dalle passioni messe a tacere. Fu una svolta verso il mondo esterno, lontano da sé, verso una sfera pubblica solcata da poteri e privilegi, popolata da carnefici e vittime. Va detto che in questi frammenti preliminari il tema è tutto; i personaggi sono esili quanto quelli dei melodrammi di Angria. C’è ovviamente un’enorme differenza tra la prosa sovraccarica di quegli scritti giovanili e la professionalità della scrittura di Charlotte Brontë del 1853, ma l’autrice era effettivamente tornata alle emozioni primordiali: tirannia, paura e – alla fine dell’ultimo frammento – la dolce consolazione che arriva a Willie, dopo tante sofferenze, nella forma di una bellissima diciassettenne, un angelo del focolare che sembra ricalcato da una rivista femminile.
Un frammento suggerisce lo sviluppo della trama: il crudele fratellastro sta per perdere la tenuta di Ellin Hall, ma quando muore (prematuramente), Willie farà valere i suoi diritti, recupererà la casa dei suoi antenati ritornandovi a notte fonda, senza essere annunciato, avvolto dalle tenebre del suo solitario e tormentato passato. Il suo cuore è così nero che tutto ciò che desidera è cancellare dalla memoria i misfatti del fratello.
Sembrerebbe che Charlotte abbia interrotto la scrittura di Willie Ellin a giugno, a causa di un periodo di malattia. In seguito si sarebbe aspettata, come aveva fatto in passato in casi simili, di riprendere la storia da capo dopo una sorta di “falso inizio”. Nel nuovo romanzo che cominciò a novembre, Emma, William Ellin ritorna in panni diversi: è un distaccato spettatore, con il piglio di un detective amatoriale, che assiste allo svolgersi di un giallo in una scuola femminile. In questo romanzo Matilda Fitzgibbon, agghindata come una bambola con fusciacca, vestito trapuntato e cappello piumato, appare sulle prime una studentessa quanto mai desiderabile agli occhi della direttrice scolastica, la signorina Fetherhed910, impressionata inoltre dalla carrozza del padre, dal suo indirizzo, che è quello di un gentiluomo di campagna, e dalla sua liberalità nel dare l’assenso a ogni complemento scolastico nella formazione della figlia. Matilda, distaccata e impassibile, viene deliberatamente coccolata dalla signorina Fetherhed, ma per questo emarginata dalle sue compagne di scuola. Tale distanza è accentuata da una sua fragilità interiore, facilmente fraintesa per sprezzante orgoglio. Poco prima di Natale, tuttavia, quando si avvicina il termine delle lezioni, il signor Fitzgibbon non risponde a una lettera in cui la direttrice gli domandava quali fossero le sue intenzioni per le vacanze. Si scopre così che il papà di Matilda aveva dato un indirizzo fasullo. Indagando, William Ellin scopre inoltre che il suo nome altisonante è apparentemente inesistente. Chi è, allora, la ragazza?
Qui siamo senza dubbio nel territorio di Charlotte Brontë: ci troviamo, ancora una volta, al confine con una regione sconosciuta. La creatura che la abita non è più un ragazzo privo di protezione e fisicamente maltrattato, ma una ragazza sola e mentalmente tormentata. Gli abiti eleganti di “Matilda Fitzgibbon”, in realtà, hanno sempre fatto a pugni con il suo pallore. Prima ancora di sospettare un inganno, la signorina Fetherhed inizia a provare una certa insofferenza nei confronti della rigida ragazzina e continua a vezzeggiarla solo «per principio». Sarà il signor Ellin a svelare il mistero che affiora dal volto della bambina: una vita segreta, che si palesa anche nel sonnambulismo, che la porta ad aggirarsi per la scuola in camicia da notte, bianca come un lenzuolo e con le mani tese in avanti. Un’altra volta viene ritrovata congelata su un pianerottolo, con gli occhi semichiusi in seguito a un attacco di «convulsioni» dal quale riesce a riprendersi solo a fatica. Quando la signorina Fetherhed, nella scena finale, le pone la fatale domanda: «Chi sei tu?», la ragazza impallidisce ancora di più. Tutto quello che riesce a emettere è un suono di pura sofferenza, una «mezza esclamazione» e un grido lanciato cadendo a terra. Il signor Ellin «raccolse dal suolo ciò che vi era caduto». Negli ultimi paragrafi prima che il manoscritto si interrompa bruscamente, William Ellin si fa avanti con una nuova autorevolezza: ammonisce la signorina Fetherhed facendole notare che il mistero circa la natura della ragazza deve avere la precedenza sull’enigma della sua identità sociale: «È una natura molto diversa dalla sua. È impossibile che le piaccia – ma lasciatela in pace».
“Cosa” è una parola cruciale in quest’opera. “Cosa” è al centro della scena. Cos’è la ragazza nel profondo della sua natura? Ecco la vera questione, il vero mistero, che ovviamente non può essere svelato in una scuola femminile dove tutte le preoccupazioni ruotano attorno alla domanda “chi sei tu?”, che presuppone una risposta in termini di status sociale. Per la signorina Fetherhed il “chi” è semplice: un’allieva è chi è suo padre – e se suo padre non esiste, la sua identità, la sua stessa esistenza viene messa in discussione. Non sorprende che questa ragazza appaia pallida, inanimata, congelata e, infine, “paralizzata”. Scossa da tale domanda perentoria, non riesce a parlare.
Sebbene Emma, come Willie Ellin, tragga ispirazione da temi già toccati negli anni Trenta dell’Ottocento – in particolare il binomio della scuola elegante e del padre malvivente, che troviamo anche in Ashworth –, Charlotte Brontë è qui più lontana che mai dai suoi scritti giovanili e sferza con una feroce critica i suoi vecchi idoli, quei languidi figurini da cui era stata ammaliata nel corso della sua prolungata adolescenza. Con Emma, per quanto opera frammentaria, Charlotte stava apertamente sfidando la facciata femminile – quel «prodotto altamente artificiale». La ragazza è più un emblema che un personaggio: come Willie Ellin, è un emblema della sua epoca. Charlotte stava entrando in una nuova e più ambiziosa fase della sua carriera, forse era determinata a portare alla luce il significato allegorico dell’essere socialmente indifeso: la ragazza abbandonata. Emma contiene la possibilità di un’arte capace, allo stesso tempo, di riprodurre ed erodere l’allegoria allo scopo di definire un’immagine alternativa della femminilità. È la stessa arte che troviamo in Clarissa, Mansfield Park e La lettera scarlatta. Charlotte Brontë aveva letto, appena bambina, Il viaggio del pellegrino, e aveva sempre concepito la propria vita come un pellegrinaggio in cui era chiamata a portare un fardello: il suo rapporto con l’allegoria derivava principalmente da questi due fattori. Quell’allegoria latente era stata ridefinita dalle imperfezioni, dalle prove e dai trionfi di Jane Eyre; ora, con la misteriosa protagonista di Emma, l’erosione dell’allegoria è ancora più radicale. All’inizio della storia, l’autrice presenta un’immagine dotata di un significato immediatamente riconoscibile (la bambola viziata), ma poi la fa esplodere e cambiare di senso attraverso i metodi empirici del romanzo, fino a che i lettori non arrivano a mettere a fuoco l’immagine autentica dell’epoca. Ellin, in quanto investigatore, indirizza la nostra attenzione. Senza di lui e senza il corrispettivo sforzo del lettore, la vera identità della ragazza può emergere solo velata dall’oscurità della notte, in una strana «convulsione», come un peso morto caduto a terra in un pianerottolo buio. L’autenticità è in lotta con l’onnipresente artificio, e la protagonista rimane bloccata in una sorta di depressione o malinconia. Autenticità e artificio si erano affrontati a viso aperto nel palchetto d’opera di “Henry Hastings”, nel dormitorio scolastico di Ashworth e nel salotto della signora Reed. In Emma convergono in una giovane ragazza: un volto pallido si sovrappone a una cascata di riccioli, una vita interiore a un’immagine superficiale. Se Charlotte Brontë fosse vissuta abbastanza da completare l’opera, la ragazza misteriosa sarebbe potuta diventare un’emblema della donna. Solo più di un decennio dopo, Mill avrebbe parlato di un artificio così difficile da scardinare da rendere quasi impossibile lo svelamento dell’autentica natura femminile.
Le esponenti del genere femminile erano abituate a pensarsi come “ragazze”, “donne” o attraverso quella categoria vittoriana di “signora” che era sempre stata al centro delle attenzioni di Charlotte. Emma sfida le categorie date. Ripropone la questione sollevata dall’enigmatica Lucy Snowe, alla quale già veniva chiesto: «Chi sei tu?». La promessa della donna che «si sta elevando» e l’inquietante manifestazione notturna della ragazza misteriosa indirizzano la nostra attenzione verso la vita interiore. Attraverso “Matilda”, Charlotte Brontë prova l’esistenza di un modo di essere diverso dal modello della quiete angelica. Qui una rigida facciata – la ragazza, la schiena ben dritta e le mani infilate nel manicotto, marcia avanti e indietro nel campo giochi della scuola – è giustapposta a un tumulto interiore il cui unico indizio esterno è dato dal volto pallido con gli occhi cerchiati dalle occhiaie. La medicina vittoriana presupponeva che un aspetto sano fosse il naturale corrispettivo di una mente femminile equilibrata, entrambi sottoposti a un rigido controllo; ma qui ci troviamo davanti a una radicale antitesi tra mente e corpo. I disturbi mentali della ragazzina indicano un’esistenza scissa: un io inaccessibile, all’ombra di una facciata ben costruita.
Due persone trovano “Matilda” interessante. La prima è la narratrice, una vedova intelligente, sui quarant’anni, presso la quale, alla fine, la ragazza troverà una sorta di rifugio. L’altro è il signor Ellin, con il suo atteggiamento indagatore. Sarà lui, l’estraneo, l’unico in grado di leggere il volto della ragazza e risolverne l’enigma. Questa versione adulta di Ellin (del quale si dice che sembra più vecchio della sua età) si rivela in continuità con il bambino Willie Ellin: il personaggio confessa infatti – suscitando la sorpresa dei presenti – di essere stato un tempo un operaio. Come “Matilda”, non ha alcun legame visibile, ma è accettato dalla società poiché è un uomo indipendente e benestante. In virtù del suo status esercita la sua autorità sulla signorina Fetherhed quando si fa avanti per proteggere la ragazza. Mi sono chiesta per quale ragione Charlotte Brontë abbia deciso di cancellare nel manoscritto la drammatica scena conclusiva dell’ultimo frammento911: forse perché, dopo averla raccolta da terra, Ellin adagia la ragazza sul suo letto.
Ellin potrebbe rivelarsi un personaggio più importante di quanto sembri all’inizio del romanzo. Agli occhi dei suoi vicini più acuti, egli stesso appare come un enigma, un uomo dal passato oscuro, “mutevole”, che, in quanto ex operaio, ha una storia duplice e deve aver vissuto in entrambe le “nazioni”, quella dei poveri e quella dei ricchi. I suoi misteri trovano un parallelo in quelli della ragazza senza identità, e alla fine le loro storie si riveleranno intrecciate.
Nel periodo in cui stava terminando Villette, Charlotte scrisse a George Smith: «Non riesco a scrivere libri su cose alla moda e non serve sperare»912. Intendeva, apologeticamente, che non poteva competere con Elizabeth Gaskell, Charles Kingsley o Disraeli, ma le sue autocritiche, come le sue pose mansuete o patetiche, non vanno prese troppo sul serio. È indubbio che il suo cosiddetto romanzo industriale, Shirley, sia quello più debole nel panorama della sua produzione, e che il tentativo di affrontare la questione degli abusi fisici compiuto con Willie Ellin rimanga privo di carattere, ma nelle sue opere più ambiziose, e in modo particolare in Emma, prese di petto un tema di grande attualità: la questione femminile. L’aspetto più affascinante del suo modo di trattare tale questione è il suo guardare oltre le immediate conquiste politiche, puntando ai traguardi di lungo termine relativi all’istruzione, alla sfera delle emozioni e al riconoscimento del contributo dato alla civilizzazione da parte di un genere femminile pienamente emancipato. In nessun altro luogo della sua opera questi temi sono affrontati in modo più acuto che nel suggestivo incipit di Emma.
Al principio dell’estate del 1853 due eventi diedero avvio a quell’oscuro mutamento che portò, nel breve giro di un anno, al sorgere della compiacente signora Nicholls dalle ceneri dell’ambizioso Currer Bell.
Dopo la sua partenza da Haworth, il signor Nicholls scrisse con insistenza. In un primo momento, Charlotte non rispose – ma il signor Nicholls non sembrava disposto a dimenticarla. Le lettere, va ricordato, esercitavano una peculiare presa su Charlotte: era capace di aspettare la posta così come altre persone desideravano il sostentamento materiale. Il signor Nicholls non poteva saperlo, ma la sua distanza da Haworth aiutò la sua causa, in quanto Charlotte fu probabilmente più incline a rispondere alle sue lettere di quanto sarebbe stata disposta a vederlo di persona. L’impatto fisico con la fredda volontà di James Taylor, ad esempio, le aveva gelato il sangue nelle vene. Ma una volta lontana da lui, aveva apprezzato le sue lettere ancora di più. Arthur Bell Nicholls era un uomo assai diverso, meno intellettuale e più fisico. È probabile che il suo temperamento testardo e facilmente infiammabile divertisse Charlotte, così come il carattere di Rochester divertiva Jane – certo, vi erano delle potenzialità di conflitto, ma non tali da non poter essere spianate da una donna dotata di un imperterrito senso dell’umorismo. A differenza di quelle di Monsieur, le lettere di Nicholls non facevano sfoggio di vaste conoscenze, né erano accese da una giocosa scintilla come quelle di George Smith, ma erano intense. Mettevano a nudo lo spettacolo di un sentimento non corrisposto: qualcosa in cui Charlotte poteva rispecchiarsi. Era capace di provare simpatia, persino di ammirare un simile tumulto di emozioni, una così spericolata esposizione al ridicolo – unita com’era a dei saldi principi. Forse Nicholls le appariva positivamente in contrasto con Graham Bretton, il quale non aveva «nessuna passione tirannica»913 a intralciarlo lungo la sua strada. In gioventù, Charlotte aveva provato e condiviso dei sentimenti anarchici, ma in seguito era riuscita a contenerli; ora, nel 1853, li riscopriva nella figura – per quanto possa apparire strano – del ligio reverendo Nicholls. Era un prelato modello che aveva mandato in frantumi la facciata dell’educazione, e le sue lettere trasparenti e audaci non la infastidivano, a differenza della mascolinità d’acciaio e degli sguardi insistenti. Non costituivano forse anche una ventata d’aria fresca rispetto a tutto il suo contegno signorile – al remissivo dichiarare che Dio ci assegna un fardello da portare?
Nel corso dell’estate del 1853, pur continuando a resistere alle avance del signor Nicholls, Charlotte potrebbe aver contemplato per la prima volta l’idea del matrimonio. Per afferrare questo sfuggente cambiamento di opinione, è utile prestare attenzione alle date delle lettere. Il 9 luglio del 1853, scrivendo alla signora Gaskell, un’autrice che era anche una donna sposata e una madre di famiglia, Charlotte si sofferma su una questione che doveva apparirle cruciale se stava anche solo lontanamente pensando alla possibilità del matrimonio. Sono portata a ritenere, anche sulla base di un’insolita sottolineatura, che la seguente domanda non fosse puramente retorica:
Mi viene da pensare a una cosa: le [...] riesce facile, quando si siede a scrivere, isolarsi da tutti quei legami, dalle dolci associazioni che suggeriscono, per sentirsi se stessa in quanto donna [...]? Non risponda alla domanda; non è pensata per trovare risposta.914
A disturbarla era chiaramente la solitudine: il matrimonio rappresentava la soluzione più facile ai problemi della donna sola, ma avrebbe anche messo fine alla vitale intimità della scrittrice? Come riusciva la signora Gaskell, si chiese, con un marito, quattro figlie e i numerosi impegni parrocchiali, a proteggersi dai costanti strattoni dell’opinione altrui, in modo da non mettere alcun filtro tra sé e la «dura Verità», che poteva contemplare solo nella «sua anima segreta dallo sguardo lucido»? Per la signora Gaskell, l’opera d’arte costituiva un rifugio dalle «lillipuziane frecciatine quotidiane delle occupazioni insignificanti», ma non sminuì la difficoltà di decidere «dove e quando fare in modo che una serie di doveri lasci il posto ad altri»915. In seguito, George Smith avrebbe colto il suo dividersi tra varie attività raffigurandola in un grazioso biglietto di San Valentino916 come una mungitrice che porta in spalla i secchi del latte mentre, da sotto un’ampia gonna, tira fuori il suo ultimo manoscritto per consegnarlo nelle mani dell’editore (con una folta barba, nel 1864, e inchinato ai suoi piedi con espressione supplicante). La relazione seducente e affezionata che Smith instaurò con Gaskell nel corso del tempo ci aiuta a mettere in prospettiva le sue lettere a Charlotte, che aveva una conoscenza assai limitata degli uomini di mondo, e fu dunque indotta, in qualche modo, a dare un peso eccessivo all’abituale calore dell’editore nei confronti delle autrici donne.
Non sappiamo con esattezza quando iniziò la corrispondenza tra Charlotte e il signor Nicholls. Un punto di svolta, tuttavia, può essere dedotto da un commento di Charlotte: il signor Nicholls era passato da una rabbia imbronciata nei confronti del signor Brontë a disarmanti parole di considerazione nei suoi confronti – si era infatti persino offerto di prendersi cura del reverendo per il resto della sua vita. Charlotte conosceva il signor Nicholls abbastanza bene da riporre fiducia in tale promessa: «Le sue non sono mere chiacchiere», disse, «non è un fanfarone, né un venditore di professione»917. È probabile che quest’offerta abbia aperto al signor Nicholls le porte del cuore di Charlotte, e i due continuarono a scriversi nella seconda metà del 1853. La sola commiserazione non era bastata a farle cambiare idea: per i primi sei mesi del 1853, espresse più volte pietà nei confronti del signor Nicholls, ma resistette cocciuta alle sue proposte. Forse fu proprio nel momento in cui le fece quest’ulteriore offerta che Charlotte iniziò a guardare al signor Nicholls come al proprio destino – un uomo che la Provvidenza le aveva inviato per prendersi cura del padre. Accettarlo, disse a se stessa (e in seguito anche agli altri), era quanto di meglio poteva fare per suo padre. E, dopotutto, il signor Nicholls era un uomo che l’aveva amata «per molti anni»918 avendola conosciuta nel suo “carattere domestico”: non era affatto interessato alla sua celebrità. Tempo prima, quando a Keighley aveva sentito dire che Charlotte era Currer Bell, era andato da lei «freddo e colmo di disapprovazione»919 per chiederle se tale voce dicesse il vero.
Nel corrispondere con il signor Nicholls senza che il padre avesse dato il suo assenso o ne fosse a conoscenza, Charlotte, sebbene avesse ben trentasette anni, stava infrangendo le regole di comportamento che impedivano alle figlie di commettere follie. Lei stessa era scontenta di questo sotterfugio, ma per alcuni mesi non osò dire nulla al reverendo. Quando lo fece, fu «un compito assai duro e faticoso»920. In aprile, Charlotte aveva ancora dei dubbi in merito al signor Nicholls, che avrebbe di lì a poco lasciato Haworth e a cui il signor Brontë continuava a non rivolgere la parola. A Ellen disse: «Non mi consentirebbe di muovere un solo passo contro il volere di papà, per quanto quel volere sia mescolato con i più rancorosi e irragionevoli pregiudizi»921. Un mese più tardi, disse ancora a Ellen che papà rimaneva «irremovibile sulla questione» e che lei non osava pronunciare il nome di Nicholls in sua presenza. «Aspettarsi la sua compassione o un suo cedimento sarebbe come cercare linfa nella legna da ardere»922.
È ormai d’uso comune riabilitare la figura del reverendo Brontë, nonostante il diffamante ritratto che ne ha tracciato la signora Gaskell. Oggi si è soliti dire che il signor Brontë aveva le sue innocue eccentricità – più che prevedibili nel padre di figli tanto originali. Ma così si sottovaluta la testimonianza immediata fornitaci da Elizabeth Gaskell del suo primo incontro con il reverendo, avvenuto durante la sua visita in canonica del settembre 1853: fu intimorita da quest’uomo alto, impavido, di bell’aspetto, dai capelli ben spazzolati. Notò lo sguardo severo che posava su Charlotte e lo sentì rivolgersi a lei con tono imperioso923. Sebbene trattasse gli ospiti con una cortesia di vecchio stampo, da dietro gli occhiali gelava con lo sguardo la figlia, che non aveva rifiutato un’offerta di matrimonio con la prontezza e l’irrevocabilità che lui avrebbe desiderato. Schernì le due donne per essersi rifiutate di ricevere in visita un forestiero di passaggio: erano, disse «due orgogliose sfacciatelle»924. La signora Gaskell non fu l’unica donna dotata di giudizio a trovarsi a disagio con il signor Brontë; Mary ed Ellen, che lo avevano conosciuto tempo addietro, tra loro parlavano di lui come di un tiranno925. «Non posso pensare senza diventare livida di rabbia al sacrificio compiuto da Charlotte in nome di quel vecchio egoista»926, confidò Mary a Ellen nel 1856. «Il perfido, vecchio signor Brontë»927, disse Ellen quando nel 1876 le chiesero di ricordarlo. Ovviamente non era perfido. È probabile che fosse apprensivo nei confronti dell’unica figlia rimasta in vita e desiderasse proteggerla dai rischi del parto. Ma fu Charlotte a individuare un motivo più disonorevole, e lo confidò alle sue amiche.
Per la prima volta nella sua vita, Charlotte assunse un atteggiamento di rivolta nei confronti del padre, spinta dalla sensazione sempre più netta che egli si ostinasse a opporsi al signor Nicholls per una mera ragione di ambizione928. Il benessere materiale era un motivo che lei disprezzava. In tono piatto, disse che suo padre era «ingiusto»929. Questa sobria razionalità avrebbe dettato tutte le sue azioni successive, fino al ritorno dalla luna di miele – in seguito alla quale avrebbe cambiato ancora una volta tono, adottandone uno dolce e tenero nei confronti del marito.
In questo oscuro periodo sopraggiunse un altro evento decisivo: il fidanzamento di George Smith. In una lettera spedita il 12 giugno 1853, Charlotte gli parlò di una «febbriciattola» accompagnata da un acuto mal di testa che la infastidiva ogni giorno, e che per un certo periodo era sembrata resistere a qualsiasi rimedio. Disse a Smith che le aveva quasi «impedito di dedicarsi a qualsivoglia occupazione»930. Questo era esattamente ciò che la signora Smith temeva di più: il coinvolgimento di suo figlio in una relazione con una donna maggiore d’età e in cattiva salute.
George Smith incontrò la futura moglie a un ballo a Clapham Common nell’aprile 1853. Con la celerità emblematica della sicurezza di sé di cui si vantava, capì al primo sguardo di aver trovato la donna da sposare. Non lo disse subito a Charlotte, ma quest’ultima, con sensibilità al limite del soprannaturale, percepì in lui un certo disagio che attribuì all’eccessivo lavoro. È comunque plausibile che la prolungata preoccupazione per le sorti dell’azienda abbia giocato un qualche ruolo nella decisione di fidanzarsi, a novembre, con Elizabeth Blakeway, figlia di un mercante di vino di Bedford Street, a Londra, e nipote di Edward Blakeway di Broseley Hall, in Shropshire. Quando la signora Gaskell la incontrò, nel 1856, vide in lei una «graziosa Paulina». In altre parole, Charlotte era stata profetica in Villette, dopotutto. Anche le previsioni fatte in una lettera sottilmente – oh, quanto sottilmente – ironica indirizzata a George Smith si erano rivelate corrette, laddove gli aveva assicurato che una moglie come Paulina avrebbe fatto la felicità del dottor John: «Lucy non deve sposare il dottor John: lui è troppo giovane, bello, brillante e gioviale; è un avvenente riccetto baciato dalla Natura e dalla Fortuna, e deve ottenere un premio nella lotteria della vita. Sua moglie deve essere giovane, ricca, bella. Deve renderlo molto felice, infatti»931. George, come il dottor John, avrebbe potuto avere al suo fianco una donna geniale capace di renderlo un uomo migliore, ma era troppo leale nei confronti della sua famiglia, e forse troppo convenzionale per non convolare a nozze con la tipica moglie vittoriana. I due volumi di Ricordi di George Smith non la citano mai in quanto donna dotata di proprie qualità; al di là delle assicurazioni di Smith circa la loro felicità domestica, un rigido decoro pubblico la lascia priva di volto e di personalità. Come Paulina Home, Elizabeth Blakeway aveva le giuste conoscenze ed era presumibilmente benestante, dato che George Smith (disse la signora Smith nel periodo del loro fidanzamento932) poteva ora permettersi di allentare un po’ il ritmo di lavoro. Elizabeth si interessò in qualche misura alle attività della casa editrice, tanto che suo marito le lasciò per volontà testamentaria la cura del Dictionary of National Biography933.
Tra il luglio e il novembre 1853, Charlotte ebbe contatti stranamente rari con Cornhill. In quel periodo, sebbene corrispondesse regolarmente con il signor Nicholls, aveva ancora in testa George Smith. A metà novembre programmò di recarsi a Londra per un non meglio precisato “affare”, ma decise di trovare alloggio in una locanda piuttosto che stare dagli Smith. Poi, il 21 novembre, scrisse alla signora Smith. Dopo un insolito silenzio, Charlotte aveva da poco ricevuto un biglietto di George nel quale aveva percepito «una buona dose di disagio e di agitazione mentale». Si era chiesta se ciò avesse a che fare con un lutto in famiglia.
«Cosa lo angustia?», chiese diretta alla signora Smith. «È preoccupata per lui o pensa che starà presto meglio? Sta per compiere un passo importante nella sua vita – come alcune delle sue espressioni lascerebbero intuire –, si tratta di una svolta che gli porterà felicità e benessere?»934.
Per qualche ragione, la bozza della replica della signora Smith è sopravvissuta negli archivi della Smith, Elder – forse George l’aveva esaminata? Era un tentativo di comunicare il fidanzamento del figlio nel linguaggio più affettato e contorto possibile: la madre faceva ricorso a elaborate forme di cortesia per prendere le distanze dalla destinataria della lettera.
Se la lettera spedita dalla signora Smith fu in qualche misura simile alla bozza, la reazione di Charlotte appare comprensibile. Il 24 novembre, con un baule già preparato, annullò il suo viaggio a Londra. Dieci giorni dopo aver iniziato la stesura di Emma, il 6 dicembre, scrisse a William Smith Williams facendogli capire che, non per suo volere, i suoi legami con la casa editrice dovevano allentarsi, e rischiavano persino di essere repentinamente troncati. Era una mossa curiosa alla luce della promettente scrittura di Emma, un romanzo che le avrebbe sicuramente garantito la prosecuzione dei rapporti con la Smith, Elder. Ma Charlotte l’aveva detto chiaramente a George Smith durante la lavorazione di Villette: non pretendeva da lui l’intera mano – il matrimonio – ma la sua produttività dipendeva dalla disponibilità dell’editore a darle almeno un pezzettino di dito. Charlotte, che era ancora intensamente attaccata all’editore e impulsiva nel reagire, potrebbe aver preso il silenzio di George Smith, protrattosi per tutta la fase precedente al fidanzamento, come un segno definitivo del suo disinteresse verso di lei, ed essersi convinta che il matrimonio avrebbe messo fine al loro legame. Scrisse al signor Williams:
Non si disturbi a mettermi da parte o a spedirmi altri libri. Queste cortesie dovranno terminare prima o poi, e preferisco rinunciarvi subito che assistere al loro logoramento.
Credetemi, sinceramente vostra,
C. Brontë935
Questo tono gelido lascia capire che Charlotte fosse emotivamente più coinvolta di quanto volesse mostrare. Quattro giorni dopo, vergò un lapidario quanto formale biglietto di congratulazioni da spedire a George Smith936. Fu come se la muta evasività dell’editore e l’artificiosa cortesia della madre l’avessero confinata in un linguaggio morto, che non usò in nessun’altra circostanza: parole corrette, meccaniche. Fu inoltre in questo momento che abbandonò la fluente narrazione del suo nuovo romanzo.
Si volse così a contemplare la prospettiva solitaria della donna nubile ma nient’affatto flemmatica, che anzi ha «ricevuto dalla natura sentimenti di somma raffinatezza. Tali sentimenti, quando vengono tenuti sotto chiave, a volte danneggiano la mente e il carattere»937.
Poco dopo, Charlotte iniziò ad ammorbidirsi con il signor Nicholls. La sequenza di eventi suggerisce che questa evoluzione sia avvenuta quasi per ripicca. Ritrattò il suo rifiuto della proposta del curato, tuttavia senza impegnarsi in alcun modo. Nel gennaio 1854 Nicholls andò a stare per dieci giorni a Oxenhope dal signor Grant (quello che Charlotte aveva caricaturalmente ritratto come il supponente signor Donne in Shirley), e da lì poté percorrere a piedi il sentiero fino a Haworth per vedere Charlotte e darle occasione di conoscerlo meglio. Lei insistette per avere il consenso del padre alle visite del signor Nicholls.
«Padre, non sono una ragazzina, e nemmeno una giovane donna, per di più non sono mai stata una bellezza. Ora sono persino brutta. Quando lei morrà, riceverò 300 sterline, che si sommeranno a quel poco che sono riuscita a guadagnare da sola: pensa che ci siano molti uomini disposti a servire sette anni per me?»938.
«Ma potresti arrivare a sposare un curato?», chiese il signor Brontë.
Charlotte, orgogliosa quanto il padre, espose la sua posizione con implacabile realismo: «Sì, dovrò sposare un curato, se mai mi sposerò. Non un curato qualsiasi, ma il suo curato; non semplicemente il suo curato, ma una persona che dovrà vivere in questa casa insieme a lei, perché io non posso lasciarla».
Il signor Brontë si alzò in piedi affermando in tono solenne: «Mai. Non ci sarà mai un altro uomo in questa casa». E, con questo, uscì dalla stanza.
Per una settimana non parlò alla figlia. Charlotte non aveva ancora deciso cosa dire al signor Nicholls e si sentì lacerata tra il peso di quella decisione e la preoccupazione per l’imperterrita opposizione del padre. Alla fine, Tabby domandò al signor Brontë: «Intende forse uccidere sua figlia?». La domestica disse schiettamente che la colpa era del signor Nicholls, che non aveva abbastanza «soldi».
A quel punto il reverendo Brontë si decise a ricevere il signor Nicholls, anche se con fredda ostilità, mentre da quel momento in poi il giovane curato si comportò con ammirevole pazienza. Se Charlotte vedeva un uomo in prova, Ellen vedeva la “tentazione”. La vita affettiva di Charlotte, riteneva Ellen, era fuori controllo. Tra febbraio e i primi di marzo, Ellen si sentì trascurata, e, per la prima e unica volta, si registrò una frattura nella loro lunga amicizia. Anche in questa fase le date dicono più delle parole. L’11 febbraio 1854, George Smith sposò Elizabeth Blakeway. Nel marzo 1854, Charlotte si fidanzò con Arthur Bell Nicholls – nelle lettere che vanno dalla fine di marzo all’inizio di aprile, ne parlò a Ellen come di un fait accompli. Lo annunciò anche a George Smith, ma in modo intenzionalmente indiretto (per contraccambiare l’obliquità dell’editore?), con una lettera legata a questioni di lavoro in cui richiedeva che tutti i soldi che le spettavano venissero trasferiti «ad altro nome»939 (come prescriveva la legge in seguito al matrimonio). Smith, a sua volta, scrisse per farle le congratulazioni – anche in questo caso si trattava di un biglietto formale, come se il gioco della signorina e del signor Fraser tra loro non fosse mai esistito. Quando, due anni dopo, la signora Gaskell incontrò il signor Smith, egli era nel frattempo diventato padre di una bambina, e la scrittrice lo trovò davvero un bell’uomo, anche se molto appesantito.
Nell’oscuro, spigoloso passaggio dell’inverno 1853-54, le lettere di Charlotte a Ellen, abitualmente schiette e confidenziali, non menzionarono né il signor Smith né il signor Nicholls: gli sconvolgimenti interiori l’avevano in qualche modo distanziata dall’amica940. Per Ellen, il signor Nicholls era «troppo ottuso per stare con un essere come Charlotte»941, che peraltro, fino ad allora, l’aveva sempre denigrato.
Ellen parlò a Mary di «contraddizione».
«Dici cose senza senso», Mary rimbeccò Ellen, «come potrebbe contraddire se stessa sposandosi? Perché per una volta pensa al proprio piacere? Se questa è per lei davvero una cosa tanto nuova, avrebbe dovuto iniziare a farlo da tempo. Chiederle di rinunciare alla sua scelta in una questione così importante è davvero una pretesa esagerata e ignobile e se lei è da condannare per qualcosa, è per esser stata finora così cedevole da far sentire le sue amiche autorizzate a una richiesta tanto insolente»942. Ma né la triste ingiunzione di Ellen a «resistere fino alla fine» né il ribelle «piacere» menzionato da Mary erano al centro del dibattito interiore che occupava Charlotte.
Il modo in cui Charlotte aveva un tempo motivato l’amore nei confronti di Ellen potrebbe aiutarci a far luce sul successivo attaccamento per il signor Nicholls. Entrambi erano affetti ben radicati e cresciuti lentamente nel tempo, assai poco intellettuali. Charlotte era più incline ad ammirare le persone buone che quelle brillanti. Quando Ellen parlava di letteratura, Charlotte cercava di tapparsi le orecchie – confidò al signor Williams – «ma è buona, è vera, è fedele e io l’amo»943.
In questo stadio della decisione, Charlotte stava valutando il peso degli «affetti naturali» contro quello dell’aspirazione artistica. Il 3 febbraio disse a un poeta, Sidney Dobell, che il vero genio non è l’uomo senza pietà che adora l’intelletto come «un Moloch» al quale offre in sacrificio gli affetti naturali944. Era convinta che l’autentico grande artista non fosse altro che uno “strumento”. Tale visione andava di pari passo al suo sentirsi sempre più nelle mani della Provvidenza, quella Provvidenza che aveva portato Arthur Bell Nicholls nella sua vita.
La decisione di Charlotte fu graduale – dovuta alla crescente consapevolezza del fatto che la solitudine domestica alla lunga diventava insostenibile – o la questione si presentò con improvvisa urgenza quando percepì che la speciale amicizia con George Smith era giunta al capolinea? Per indugiare ancora un po’ tra i nudi fatti di questo nebuloso frangente, dovremmo chiederci cosa, verso la fine del 1853, tenesse Charlotte ancora attaccata a quell’amicizia. La risposta è semplice: le parole. Da Monsieur Heger aveva desiderato uno stimolante scambio di parole, non l’adulterio; la stessa cosa desiderava da George Smith, non il matrimonio. Con le parole Charlotte si trovava nel suo elemento; le lettere, potremmo dire, erano per lei forma d’espressione privilegiata quanto i romanzi. Un simile desiderio di parole, così intenso che la sua mancata soddisfazione era causa di esaurimento, potrebbe apparire strano, quasi una fisima del suo genio. Eppure, a distanza di tempo, potrebbe apparirci meno eccentrico. Parlando dell’immaginazione delle scrittrici, Virginia Woolf la descrisse intenta a esplorare i «luoghi oscuri dove sonnecchiano i pesci più grossi», ma poi la vide bloccarsi all’improvviso per aver «pensato a qualcosa, qualcosa a proposito del corpo e delle passioni di cui per una donna era inappropriato parlare [...]. La consapevolezza di quel che gli uomini avrebbero detto di una donna che dice la verità sulle sue passioni l’aveva risvegliata dal suo stato di incoscienza di artista. Ora non poteva più scrivere»945.
In quanto artista, Charlotte Brontë aveva raggiunto alcune verità sulla passione attraverso le figure di Frances Henri, Jane Eyre e Lucy Snowe – e di conseguenza aveva suscitato l’immediata ostilità di uomini come Thackeray, Arnold e Lewes. Immune da tale reazione automatica, Constantin Heger le aveva dato l’impressione di stimolare la sua ricerca, ma poi ne aveva preso le distanze quando si era sentito direttamente chiamato in causa. Gli piaceva giocare con le emozioni finché era lui a dettare le regole, ma si tirò subito indietro quando Charlotte, con pressanti lettere, gli sfilò di mano la bacchetta del direttore d’orchestra. Con George Smith, passò dal gioco con le emozioni a un gioco più leggero e scanzonato. Il loro rapporto aveva stabilito una reciproca libertà nient’affatto convenzionale, ma stavolta Charlotte era stata più cauta nel dirigere i giochi. Aveva, però, delle segrete esigenze – una “stanza” immaginaria nella sua casa editrice, o la punta di un suo dito – che l’editore non poteva soddisfare. Arthur Bell Nicholls fu l’unico uomo che si offrì senza riserve. Immagino che il modo in cui la riverì, la sua continua devozione – e forse anche il suo essere semplice e poco intellettuale – sollevarono Charlotte dalla costante paura di non piacere. Per la prima volta era il suo corrispondente ad aspettare le lettere, non lei.
Lasciò sei lettere senza risposta prima di scrivere al signor Nicholls pregandolo di calmarsi e di dimenticarla. Nicholls replicò a stretto giro di posta dicendole che le sue lettere gli erano state così di conforto che ora non poteva più farne a meno. Non ci restano testimonianze, dato che egli probabilmente distrusse la sua corrispondenza con Charlotte, ma il modo in cui parlò pubblicamente in difesa della moglie946 dopo la sua morte dimostra che non era uno sciocco: sapeva argomentare con chiarezza. Nella seconda metà del 1853, il curato continuò a scriverle ed è probabile che Charlotte si sia sentita confortata dalla sollecitudine di quest’uomo che attendeva con trepidazione le sue risposte. Le parole, dunque, le parole infiammate giocarono un ruolo chiave nel cambiamento di Charlotte. Ma a giocare la sua parte fu anche l’io non visto. Se Monsieur aveva riconosciuto il suo talento, se George Smith e James Taylor avevano portato alla luce il volto pubblico della celebrità, Arthur Bell Nicholls si era scoperto innamorato del suo “carattere domestico”. Non le era affine dal punto di vista intellettuale, a differenza di altri uomini da cui si sentiva attratta, e il suo dogmatismo da seguace di Pusey la demoralizzava, ma era lui l’unico a poterla liberare dalla paura che aveva confessato a Mary: il gelo della signorina Snowe e di Matilda, il pressoché ineluttabile artificio della facciata femminile. La poteva liberare, in breve, dall’invisibilità.
Il fidanzamento e il matrimonio stabiliscono delle posizioni: cosa pensano e provano le donne quando passano per quei rituali con cui danno pubblico assenso a un ordine che non è stato stabilito da loro? Charlotte, alla fine, vi trovò più appagamento di quanto avesse osato sperare. Ma la sua intransigente onestà ci autorizza a sbirciare attraverso il velo, a seguirla in ogni piccolo dubbio o perplessità, a osservarla soppesare la perdita di tempo, spazio e autonomia, e mettere in discussione gli effetti del matrimonio sulle donne.
Almeno fino agli ultimi decenni del XX secolo, il cambiamento fondamentale richiesto alle donne dal matrimonio era l’abbandono del lavoro. Quando Frances Henri decide di sposare il professore, i due discutono tale questione. Il suo desiderio di continuare a insegnare è così poco convenzionale che Frances sa di avanzare una richiesta speciale, ed è chiaro che il professore è un uomo fuori dal comune nell’incoraggiare la vocazione della moglie. Ma persino in questo caso il matrimonio può coesistere con il lavoro femminile solo attraverso una trasformazione quotidiana, cui Frances si sottopone ogni sera abbandonando la sua personalità attiva e pensante per assumere quella di una compiacente moglie vittoriana.
Nel 1846, Charlotte aveva riflettuto a lungo su tutto ciò; ora doveva mettere la teoria in pratica. Come trovare il punto di mediazione tra le sue abitudini ormai consolidate di scrittrice professionista e il suo nuovo ruolo di moglie? Si spiega così l’esitante domanda che aveva posto l’estate precedente alla signora Gaskell, un possibile modello. Arthur (come ormai lo chiamava) avrebbe appoggiato il suo lavoro o l’avrebbe ostacolato?
A George Smith scrisse: «Le mie aspettative [...] sono molto misurate – assai diverse, se posso dire, dalle sue prima che si sposasse [...]. Nel corso di quest’anno, Cornhill e Londra si sono molto allontanate da me; i legami e gli scambi si sono fatti deboli e sporadici [...]. Tutto sommato, credo che sia giusto così»947. È come se la sua carriera fosse dipesa dal legame personale con l’editore, e Smith forse lo aveva compreso: non a caso per un po’ le aveva inviato a raffica lettere e inviti a Londra, e aveva persino pensato di mettersi in viaggio fino a Haworth quando, nel gennaio 1852, Charlotte aveva smesso di scrivere. Il matrimonio di Smith diede un decisivo impulso al suo, e questo mise fine alla scrittura – tutto ciò l’aveva previsto nel momento stesso in cui la signora Smith l’aveva informata del fidanzamento del figlio.
Alla signora Gaskell disse: «Non posso negare di aver dovuto combattere con me stessa; persino adesso non sono sicura di aver ancora conquistato certi avamposti interiori [...]. A volte sento di poter quasi piangere, perché so di non soddisfare a pieno il naturale orgoglio di mio padre con questo importante atto della mia vita»948.
A Ellen confidò le perplessità, le paure e il dispiacere che provava per il fatto di non poter condividere pienamente i propri pensieri con Arthur. Quasi tutto ciò che Charlotte disse nel corso dei tre mesi di fidanzamento, dall’aprile al giugno 1854, suggerisce la presenza di un assillante dubbio, compensato dall’indiscutibile bontà di Arthur e dal certo beneficio futuro che egli avrebbe arrecato a suo padre.
In maggio si recò per la terza e ultima volta in visita a casa della signora Gaskell, a Plymouth Grove, Manchester. Lì, in camera da letto, in compagnia di sole donne, espresse più liberamente i propri dubbi sul matrimonio, inizialmente a tu per tu con un’amica di famiglia dei Gaskell, la signorina Catherine Winkworth, futura traduttrice di inni tedeschi949, e poi a tre, con la signora Gaskell che s’inseriva nella conversazione a singhiozzo, entrando e uscendo dalla stanza mentre girovagava per casa alle prese con le faccende domestiche.
«Katie», disse Charlotte, «mi è costato un bel po’ arrivare fin qui».
«Dovrai occuparti delle sue cose invece che delle tue, è questo che intendi?».
«Sì, immagino che sarà così».
La signorina Winkworth, che aveva solo ventisei anni, cercò di confortarla: «Ma siete stati vicini così a lungo che conosci molto bene le sue occupazioni. Lui è molto devoto ai suoi impegni, non è vero? E tu potrai, vorrai aiutarlo in questo?».
Charlotte la rassicurò dicendole che era abituata a simili compiti, ed era compiaciuta del fatto che la parrocchia si rallegrasse per il ritorno del suo futuro marito. Ma quei compiti, continuò, «non sono tutto, e non posso nascondere a me stessa che lui non è un intellettuale. Ci sono molti luoghi in cui lui non potrà seguirmi a livello intellettuale».
La signorina Winkworth disse che l’affetto duraturo e il senso pratico erano più importanti delle doti intellettuali. Charlotte ammise la validità di tale posizione. «Eppure», disse onestamente mentre la signora Gaskell entrava, «un carattere del genere sarà molto meno interessante e divertente di uno più mutevole e impulsivo; potrebbe essere una noia!».
«Puoi ben dirlo», confermò la signora Gaskell.
La signorina Winkworth non sembrava convinta. La casa, disse, non è un luogo adatto alle tempeste e ai turbamenti emotivi; dovrebbe essere il rifugio sicuro che la sorte ci riserva. Inoltre, aggiunse con aria pensosa, un marito fedele ha il vantaggio di lasciare all’immaginazione della moglie il campo abbastanza libero per intrattenersi con il sogno di un uomo diverso – «che potrebbe essere un gran sollievo, a volte».
«Oh Katie, se fossi stata io a fare una dichiarazione tanto perversa», esclamò la signora Gaskell.
«Oh Katie», si unì Charlotte, «non mi sarei mai aspettata di sentire un discorso simile da te!».
«Non siete d’accordo?».
«C’è del vero in ciò che dici», garantì Charlotte, «tanto che credo che nemmeno io sarei mai riuscita a esprimerlo con un simile candore». Stava forse pensando alla propria concezione dell’«amore», quella parola enfatica che aveva urlato alla sorda signorina Martineau, una parola che non aveva mai utilizzato in relazione al signor Nicholls? «C’è un pericolo», disse alle due donne: la libertà mentale a cui invita un matrimonio solido e privo di sorprese potrebbe persino «condurre troppo lontano»950.
Il suo timore del matrimonio è più palpabile in una lettera scritta il 12 giugno, meno di tre settimane prima di sposarsi. Arthur aveva insistito per tornare in visita, ancora una volta, mentre lei si sarebbe aspettata di avere del tempo per sé. Fu una provocazione.
«Scrissi subito per dirgli che non poteva assolutamente fermarsi per un’intera settimana e protestai seriamente. Mi dispiaceva mettere alla prova la pazienza di papà, inoltre speravo che sarebbe rimasto lontano fino a luglio», si lamentò con Ellen. «Vorrei che tu fossi qui»951.
Con Ellen la sua vita di scrittrice non era minacciata. Con Arthur, stava perdendo gli ultimi brandelli di intimità. Le visite non davano prova di alcuna consapevolezza delle esigenze dell’intelletto. Previde che una parte di sé – il suo sé «crescente» – non avrebbe trovato posto in quel matrimonio. Eppure il signor Nicholls amava la sua vivacità, il suo umorismo, la sua grande fronte, i suoi occhi brillanti e il suo impeto. Quell’uomo piuttosto rigido, severo, era anche molto affettuoso. Immagino che, essendo stato allevato da una zia amorevole, fosse più espansivo dei Brontë, cresciuti con zia Branwell e tenuti a una certa distanza dal padre. In un’altra occasione, quando Charlotte aveva cercato di convincerlo a rimanere a Kirk-Smeaton, il curato aveva dichiarato di sentirsi morire952. Allarmata, lei gli aveva detto di venire. Ma Charlotte era abbastanza pratica di morenti per sapere, appena lo vide arrivare, che era sano come un pesce – tanto che rimase in vita fino al secolo successivo. Nel tardo maggio 1854 stava solo morendo di desiderio. Lei si stupì di quanto gli uomini fossero deboli.
«Le persone che stanno davvero per morire non fanno ottanta chilometri per venirtelo a dire», disse in privato a Ellen.
Si sposarono giovedì 29 giugno, prima di colazione; era un mattino un po’ velato953. Charlotte, che a detta dei presenti sembrava un bucaneve954 in mussolina bianca ricamata con cuffia bianca adornata da foglie verdi, fu data in sposa dalla signorina Wooler. All’ultimo momento, il signor Brontë si era rifiutato di prendere parte al matrimonio. Gli unici altri ospiti furono la fedele Ellen, il reverendo Sowden di Hebden Bridge, che sposò la coppia, e Tabby e Martha. La coppia trascorse la notte delle nozze in una confortevole locanda di Conway, in Galles; prima di ritirarsi, Charlotte scrisse un breve biglietto a Ellen, memore di ciò che suo padre aveva indelicatamente detto all’amica, ovvero che il matrimonio avrebbe mutato la loro amicizia (per una volta, Charlotte si era girata verso il padre con un raggelante sguardo indignato)955. Scrivere un biglietto a Ellen in quel momento fu un gesto di grande premura – doveva essere consapevole che l’amica si sentisse un po’ a lutto. Lo firmò con il suo nuovo nome: C.B. Nicholls.
Trascorsero qualche giorno, dal 30 giugno al 3 luglio, a Bangor, sulla costa settentrionale del Galles; le successive sei settimane le passarono in Irlanda, prima a Banagher con la famiglia Bell, poi visitando Killarney, Glengariff, Tarbert, Tralee e Cork. A Dublino incontrarono i cugini dello sposo: Joseph Bell, che studiava al Trinity College, suo fratello Alan e la cugina preferita di Arthur, Mary Anne Bell, una fascinosa ventiquattrenne con occhi e capelli scuri e un’andatura zoppicante dovuta a una caduta da cavallo. Charlotte rimase positivamente impressionata da questa ragazza dai modi gentili e accoglienti, dalla zia di Arthur, che si prese sapientemente cura del suo raffreddore, e dall’aria educata degli uomini della famiglia Bell. La Cuba House sembrava la dimora di un gentiluomo di campagna: le stanze erano ampie e ariose, la sala da pranzo e il salotto finemente arredati – anche se i corridoi erano spogli e la stanza da letto in cui alloggiava la coppia, al piano terra, sarebbe parsa piuttosto cupa se non fosse stato per un fuoco di torba sempre crepitante nel vecchio e ampio caminetto. Il raffinato contesto familiare di Arthur, immerso in un ordine e in una quiete tipicamente “inglesi”, fu in qualche modo una sorpresa per la moglie, colpita inoltre dal fatto che egli era stato sempre troppo signorile per vantarsene. Quanto fu piacevole sentir tessere le lodi di Arthur da ogni parte, e sentirsi dire da alcuni domestici della famiglia che era fortunatissima ad avere al suo fianco «uno dei migliori gentiluomini del luogo» – tutt’altra cosa, a dire il vero, rispetto alla delusione del “naturale orgoglio” di suo padre e alla misera posizione di curato dello Yorkshire che guadagnava appena cento sterline l’anno. «Il mio caro marito [...] nel suo paese mi appare in una nuova luce», scrisse. Nelle sue lettere dichiarò che egli si prendeva teneramente cura di lei riservandole la massima attenzione, eppure aveva avuto la sensibilità di lasciarla sola con il mare selvaggio dell’ovest. Iniziò finalmente a essere sicura di aver preso «quella che sembra una scelta giusta»956.
Trascorsi pochi mesi dalle nozze, disse a Ellen che il tempo per se stessa si era volatilizzato: «Non riesco a spiegarmi come sia possibile ch’io ora sembri sempre di fretta. Il fatto è che ogniqualvolta Arthur è lì con me, mi devo dedicare a occupazioni in cui io lo possa coinvolgere, o che quantomeno non mi distraggano troppo da lui»957. Se il signor Nicholls aveva una preferenza rispetto a una particolare scelta (ad esempio, se desiderava cancellare una visita a Ellen con la scusa di un raffreddore), «non protesto e mi ci adatto». Non era il pianto di una scrittrice frustrata; parlava con tolleranza, umorismo persino, e molto affetto per il suo esigente marito. Appare straordinario, alla luce dell’incontenibile desiderio di scrivere che l’aveva animata da The Young Man, composto a undici anni, a Emma, scritto all’età di trentasette, che abbia potuto abbandonare senza un lamento quella che era stata la principale attività della sua vita. Eppure così fece, alla fine, e senza dare il minimo segno di insofferenza. Alcuni dignitari dell’epoca scelsero la risposta semplice: dà un uomo a una donna e questa smetterà di compiere innaturali sforzi intellettuali. La signora Gaskell vide il matrimonio come una soluzione alle «lacrime» – Dio asciuga le lacrime, disse. Scrivendo nel 1857, coronò il matrimonio con un’immagine vittoriana di dolce quiete: «Da questo momento in poi le sacre porte del focolare domestico si chiudono sulla sua vita matrimoniale [...]. Pensavamo alle lievi asprezze del suo carattere e a come si sarebbero tramutate di una piena e calma soavità in quella calma e soleggiata pace domestica»958. Nel 1860, in una lettera a George Smith, anche Ellen schizzò una simile immagine sentimentale della Charlotte sposata. Quest’accumulo di cliché faceva parte della battaglia in corso per il possesso della memoria di Charlotte: «Se solo gli amici di Charlotte appartenenti al mondo letterario l’avessero potuta vedere come io la vidi [...]. Sembrava circondata da un alone di felicità, era pervasa da una santa quiete [...] nessun imprevisto avrebbe potuto turbare la sua santa pace»959.
Ovviamente, non potremo mai sapere con esattezza come Charlotte riuscì ad adattarsi al matrimonio in modo tanto straordinario, ma abbiamo a disposizione una sua dichiarazione da cui si ricava che la cosa non fu del tutto semplice. Al loro ritorno in canonica, nell’agosto del 1854, emerse la realtà quotidiana del matrimonio: era chiaro che Arthur dava per scontato che la vita della moglie si sarebbe adeguata alla sua.
«Credo che quelle donne sposate che, sconsideratamente, spingono le loro conoscenze a maritarsi siano degne di biasimo», scrisse a Ellen in tono grave. «Ti assicuro, Nell, diventare moglie è per una donna una cosa solenne e strana e pericolosa. La sorte dell’uomo è molto, molto diversa»960.
Non si tratta di parole ribelli, eppure esprimono, in tono sobrio, la misura del cambiamento richiesto dal matrimonio. Si potrebbe sostenere che Charlotte sperimentò appena nove mesi di nozze e che, se fosse vissuta più a lungo, sarebbe tornata a scrivere. Ma i figli le avrebbero preso ancora più tempo – quel poco che non le veniva assorbito da Arthur. Egli non pensò a un’organizzazione domestica che le lasciasse un po’ di libertà. Non gli venne mai in mente che sarebbe stata contenta di avere del tempo tutto per sé, e in questo non fu affatto fuori dal comune. Charlotte scoprì ben presto che «la donna sposata può considerare “sua” solo una piccola porzione di ogni giorno»961. Quando raccontò a Ellen del modo in cui il matrimonio la allontanava da se stessa, stava parlando di un istituto che non aveva il potere di modificare. Era una di quelle istanze a cui aveva fatto riferimento in una lettera alla signora Gaskell sulla posizione della donna: mali profondamente radicati nelle fondamenta dell’ordine sociale che «nessun nostro sforzo potrebbe smuovere»962. Stando così le cose, ebbe la maturità di cogliere il meglio a disposizione. Molto tempo prima aveva oltrepassato il confine tra l’intimità e la solitudine, e, dal momento in cui Smith si era sposato, sapeva di non poter continuare lungo quella strada.
Il successo o il fallimento di un matrimonio ha a che vedere, com’è noto, con l’intimità. Non si tratta necessariamente della piena intimità sessuale – ci sono, ovviamente, molte altre forme di intimità (come quella di Harold Nicolson e Vita Sackville-West) che possono determinare la riuscita di un matrimonio. Ma tutto nella scrittura di Charlotte lascia intendere che alternative del genere non l’avrebbero soddisfatta. Jane Eyre si unisce completamente a suo marito diventando «ossa delle sue ossa e carne della sua carne»963. L’uomo davvero desiderabile, Monsieur Paul, insiste sull’esistenza della “passione”: è una parola che la signorina Snowe, puritana inglese, deve apprendere e imparare a conoscere. Rochester è circondato dal fuoco, Paul Emanuel lascia una scia di fumo acre. Durante il giorno, in epoca vittoriana, il corpo della donna era fasciato in quel genere di busti che la costringevano a stare seduta in posizione eretta – in simili abiti non poteva rilassarsi. Al pensionato Heger, le ragazze trovavano sconveniente il modo in cui il vestito di Emily cadeva lento sulla sua figura il suo rifiuto di infilarsi nelle innaturali impalcature in cui le altre donne costringevano i loro corpi era considerato assurdo. Più di una volta Currer Bell ha sottolineato che per le sue eroine romanzesche l’amore implicava la straordinaria libertà di muoversi a piacimento. Con Paul Emanuel, Lucy non era asphyxiée: sbadigliava, quando ne sentiva il bisogno, e rilassava le membra964. Le donne di Brontë desiderano essere naturali, ma temono di essere giudicate poco femminili se abbandonano il decoro. Frances, da otto anni felicemente sposata con il professore, è ancora molto attenta a non imporgli nemmeno una carezza inattesa o non richiesta – e quando, in un’occasione, prende l’iniziativa, suo marito è colpito dall’improvvisa apparizione di una natura che non ha mai scorto prima in sua moglie. Jane capisce che Rochester si attaccherà ancor più a lei se, durante il fidanzamento, gioca ad allontanarsi. Non ha un carattere riservato, ma tale gioco ha per lei un valore preciso nel breve spazio tra la dichiarazione e il matrimonio: è parte di un codice inteso a ritardare l’atto del possesso (il modo in cui Rochester vede la loro prossima unione). Rochester fa infatti battute sull’indipendenza che Jane si concede – quelle libertà, le dice in tono di scherno, avranno presto termine. Il possesso chiuderà quello spazio in cui Jane può mettere in scena i propri sentimenti ed esprimerli. In realtà, nei primi anni di matrimonio, la cecità di Rochester consente a Jane di coltivare i propri spazi e le proprie libertà anche nella cornice della loro eccezionale unione.
Dai trent’anni in poi, Charlotte Brontë aveva riflettuto ampiamente sul matrimonio dal punto di vista della donna, e lo aveva fatto in termini così trasparenti e onesti che i recensori, e persino alcune amiche dalle idee evolute come Harriet Martineau ed Elizabeth Gaskell, trovarono le sue opinioni sconvenienti. La signora Gaskell disse che le circostanze la costrinsero a «toccare il fondo», ma che fu «contaminata» solo per un breve istante, perché poi le tragedie della vita la “purificarono”965. È uno strano argomento, basato su un modello distorto di signorilità, un modello che Dickens avrebbe bersagliato con la sua satira nel 1856-57: alla piccola Dorrit, educata per diventare una ragazza come si deve, viene detto dalla signora General che le vere signore non vedono cose disdicevoli, né pronunciano parole che forzino le labbra a guastare la bella forma a bocciolo di rosa garantita da vocaboli quali «papà, patate, pollame, prugne e prisma, prugne e prisma»966. Quello stesso anno, la signora Gaskell pregò i lettori di perdonare la poco femminile disinvoltura di Charlotte Brontë, abituata a vivere tra uomini dello Yorkshire che si rivolgevano alle donne con maggior libertà rispetto ai gentiluomini della buona società. Disse inoltre – e questa era anche la sua missione – che Charlotte Brontë aveva voluto mostrare la vita per quella che era. Un simile argomento, ovviamente, non si sarebbe mai potuto applicare a Dickens.
Se nei romanzi Charlotte espresse così candidamente le proprie opinioni sul matrimonio, è improbabile che non abbia dedicato alla faccenda uno scrupoloso esame nel corso del lungo periodo in cui si avvicinò a poco a poco al signor Nicholls. Data la natura convenzionale del curato, dovette riconoscere che le proprie idee si erano irrimediabilmente discostate dalla realtà del matrimonio vittoriano. Il marito aveva preso il controllo, e Charlotte aveva dovuto abbandonare il lavoro – questo lo aveva previsto chiaramente (una lettera spedita dal signor Nicholls a un quotidiano mostra quanto rigidamente egli detestasse la pubblicità nelle donne; ad eccezione di quando si sentì chiamato a difendere l’onore di Charlotte dalle colonne dell’«Halifax Guardian967» e del compiacimento che provò per il modo in cui Thackeray l’aveva lodata nel «Cornhill Magazine», fu sempre pronto a proteggere sua moglie da qualsiasi esposizione pubblica). Eppure, la felicità che Charlotte provò nel matrimonio – un livello di felicità che non aveva osato attendersi – fa pensare che quell’uomo severo si sia anche abbandonato a dimostrazioni d’affetto che per Charlotte erano di vitale importanza.
La signora Gaskell, da brava vittoriana, fu obbligata a “chiudere la porta” sul matrimonio, così come fece Charlotte, che lasciò filtrare appena uno spiraglio nel settembre 1854, quando scrisse di suo marito alla signorina Wooler: «Quanto al suo continuo affetto e alle sue gentili attenzioni, non posso dirne molto ma, finora, non sono mutati né diminuiti»968. Era soddisfatta quando egli esprimeva la propria felicità in frasi brevi, lineari. Lei stessa si sentiva ogni giorno più attaccata a lui; a novembre disse alla signorina Wooler: «La mia vita è diversa da quella di un tempo. Che Dio mi renda grata per questo»969.
Non solo Charlotte si dedicò agli interessi di Arthur – il suo studio, le sue passeggiate, le sue visite pomeridiane ai parrocchiani meno abbienti –, lo autorizzò persino a controllare le lettere che spediva a Ellen. Ora quando scriveva alla sua amica più cara, come aveva sempre fatto, era accompagnata da dietro le spalle dall’attento sguardo di Arthur, che disapprovava la sua libertà d’espressione. Le lettere erano pericolose, le disse. Charlotte poteva riderci su, cosa che Ellen, comprensibilmente, non era disposta a fare. Il signor Nicholls dichiarò che non avrebbe consentito nessun ulteriore scambio epistolare se Ellen non avesse promesso, per iscritto, di bruciare tutte le lettere di Charlotte. Quest’ultima, assecondandolo, per ben tre volte pregò l’amica di esaudire la richiesta del marito. Ellen escogitò una risposta ambigua che accontentò il signor Nicholls, ma, in privato, si riservò di fare diversamente. Alla fine, distrusse solo poche lettere (ed è grazie al gran numero di quelle rimaste se abbiamo a nostra disposizione tante opinioni dell’autrice prive di filtro).
Il signor Nicholls considerava sconveniente la licenziosità verbale delle lettere di Charlotte. I suoi motivi erano vari: si considerava, da ora e per sempre, l’unico protettore di Charlotte. Ma rivaleggiava anche con Ellen sul piano dell’intimità, e inoltre si sentiva in competizione con l’amica di una vita per il possesso di Charlotte e del suo passato – una battaglia che avrebbero continuato a combattere fino alla fine del secolo.
Oggettivamente, Arthur non aveva alcuna ragione di temere le lettere. Charlotte si era sbarazzata di quelle più pericolose prima ancora di sposarsi. Non credo che le avesse distrutte; Monsieur Heger era convinto che non lo avrebbe mai fatto. Era più da lei seppellirle970, come Lucy Snowe, che sotterra le preziose reliquie d’una relazione senza futuro. A Haworth si dice che, all’epoca del suo matrimonio, Charlotte piantò i due pini neri che ora svettano nel giardino della canonica, e mi sono chiesta se abbia seppellito il suo passato proprio lì sotto. Altrimenti, c’era la comoda distesa delle colline: lasciare la voce di un grande amore nell’eterna brughiera avrebbe rappresentato un ulteriore legame con l’autrice di Cime tempestose.
In ogni caso, Charlotte chiuse la porta sulla vita domestica con fedeltà e decoro, rendendo innocua ogni minima voce o piccolo pettegolezzo. Quasi scomparì nel ruolo di moglie: le sue frasi iniziavano con “Arthur... Arthur... Arthur...”. Arthur sta in gran forma, ripeteva, e ha messo su qualche chilo. Arthur era stato definito “un bravo cristiano e un generoso gentiluomo” in occasione di una cena che avevano organizzato di ritorno dall’Irlanda nel refettorio della scuola, alla quale avevano partecipato cinquecento tra bambini, insegnanti, campanari, coristi e altri abitanti del villaggio. La cosa l’aveva commossa; dopotutto, la bontà non era superiore alla fama? Fu poi orgogliosa quando Sir James Kay-Shuttleworth offrì ad Arthur il beneficio ecclesiastico di Padiham, annesso alla residenza di Gawthorpe Hall, in Lancashire – senza rendersi conto che era lei stessa la vera mira di quell’ostinato predatore. Ovviamente, Arthur aveva rifiutato nel rispetto della promessa di prendersi cura del reverendo. Arthur non aveva in grande simpatia i dissenzienti, e si augurava di vedere presto Ellen ben sistemata. Charlotte rassicurò l’amica: se avesse sentito una sola parola di denigrazione nei confronti delle donne sole, sarebbe esplosa «come una bomba»971. Ora Arthur la stava aspettando per iniziare la sua passeggiata, per questo Charlotte poteva scriverle solo di gran corsa. Arthur le dava sempre un gran da fare, e sperava di non stancarsi di essergli accanto.
Una sera di novembre, mentre sedevano in salotto, gli fece notare: «Se tu non fossi stato qui con me, io ora starei scrivendo»972. D’impulso corse al piano di sopra, andò a prendere Emma e glielo lesse ad alta voce973. Quando finì, tutto ciò che Arthur seppe dirle fu che i critici l’avrebbero accusata di ripetersi, perché anche questa storia era ambientata in una scuola. Ma il pretenzioso collegio di Chalfont Lodge non ha niente a che vedere con Lowood, a parte il fatto che entrambi formano le ragazze all’insegna dell’artificio. Fu una risposta inspiegabilmente ottusa – inspiegabile alla luce del fatto che il signor Nicholls aveva dato prova di acutezza e perspicacia nell’apprezzare Shirley. Forse anche lui si aspettava di trovare in Emma ciò che sia Ellen sia la signora Gaskell vi avevano cercato, rimanendo deluse quando infine lo lessero? Si aspettavano di rintracciarvi l’effetto tranquillizzante del matrimonio – una sorta di quiete dei sentimenti974. La signora Gaskell, che aveva sperato in una storia meno dura, ebbe la sensibilità necessaria per scorgere il potenziale di Emma, ma il signor Nicholls, disse Gaskell a George Smith, «brontolava davvero»975 ogni volta che Charlotte accennava alla possibilità di continuarlo. Nicholls, però, negò sempre di aver distolto la moglie dallo scrivere e, in senso letterale, ciò risponde probabilmente al vero. Come faceva la signora Gaskell a sapere che brontolava? Non ebbe alcun contatto con Charlotte dopo il matrimonio. Quando il signor Nicholls revisionò Emma per la pubblicazione, qualche anno dopo, si dimostrò assai poco puritano, ripristinando persino la scena finale che Charlotte stessa aveva cancellato. L’allusività di questa scena, in cui Ellin adagia la ragazza sul suo letto, era precisamente ciò che i vittoriani trovavano «volgare» in Charlotte Brontë. Ritengo che Nicholls non volesse nuocere alla moglie con la sua immediata reazione, fu semplicemente povero d’immaginazione, come accade alle molte persone, persino brillanti, che non riescono a scorgere il potenziale di un libro leggendone le bozze.
Amorevolmente, lei gli spiegò la natura di una bozza: «Riscrivo sempre due o tre volte prima di essere soddisfatta». Fu un test non programmato che diede un risultato chiaro: Arthur non poteva prendere il posto delle sorelle. Se non si opponeva alla sua scrittura, nemmeno era in grado di incoraggiarla. Il manoscritto fu messo da parte.
Per alcuni mesi si sentì piena di energie, meno soggetta ai mal di testa e alla cattiva digestione. Poi, a dicembre, Tabby si ammalò di dissenteria. Sembrava non riuscisse a trattenere il cibo per più di qualche istante, e Charlotte scrisse al signor Ingham976, il chirurgo, chiedendogli delle medicine. Il mese successivo Charlotte iniziò a lamentarsi d’essere malata. Pensò che i conati di vomito fossero tipici degli inizi della gravidanza, ma è più probabile che le sue condizioni si fossero aggravate perché era stata contagiata da Tabby – una febbre tifoide letale, dovuta all’acqua potabile inquinata che all’epoca uccise tanti abitanti di Haworth. Il rapporto di Babbage su Haworth, del 1850, parla di una mortalità annua di 25,4 su mille abitanti, mentre quella di un villaggio vicino era solo di 17,6. La speranza di vita media che si registrava a Haworth, appena venticinque anni, era pari a quella dei peggiori quartieri di Londra. Non c’era ancora una rete fognaria e le fosse a cielo aperto, le latrine accatastate l’una sull’altra, così come altri resti animali sparsi ovunque, rappresentavano un noto pericolo per la salute pubblica.
La rete idrica fu definita «nociva». L’acqua scorreva attraverso quello che la signora Gaskell aveva chiamato il «pestifero»977 cimitero adiacente alla canonica.
Per diverse settimane lo stomaco di Charlotte non fu in grado di assorbire nulla, nemmeno i liquidi; poi nelle ultime due o tre settimane si riprese, e chiese del cibo. Ma, a quel punto, il suo corpo si era già sfibrato a causa dei continui attacchi di vomito, che la colpivano notte e giorno – a quanto pare furono molto più violenti di quelli causati dalle nausee della gravidanza, che, per quanto costanti, non portano alla fuoriuscita di sangue. È stato suggerito978 che Charlotte non fosse incinta, bensì soffrisse della malattia di Addison (questa tesi fu proposta per salvarla dall’assurda teoria secondo cui i severi malesseri mattutini erano segni nevrotici del fatto che la donna aveva rigettato il feto). Dato che la malattia di Addison include tra i suoi sintomi alcuni dei disturbi che possono presentarsi all’inizio di una gravidanza – anoressia, nausea e perdita di peso –, il suggerimento non è del tutto implausibile, ma i dati a disposizione sono troppo scarsi per stabilire con certezza alcunché. Sono più propensa a dare fiducia a Charlotte, che era convinta di essere incinta, ma concordo con chi sostiene che la gravidanza non fu la causa immediata della sua morte. Finora, tutte le teorie sulla morte di Charlotte Brontë sembrano sottovalutare il fatto che, quando apparvero i suoi primi sintomi, in canonica girava una malattia sempre più preoccupante: una letale infezione del tratto digestivo.
Tabby morì nel febbraio del 1855; Charlotte alla fine di marzo. Entrambe furono malate all’incirca per lo stesso periodo di tempo. A causa dell’età di Tabby (quarantotto anni) e della gravidanza di Charlotte, le due morti non sono state messe in relazione, ma è improbabile che qualcuno muoia per le nausee, a meno che non siano connesse a qualche altra malattia. Il dottor MacTurk, il medico più rinomato di Bradford, che visitò Charlotte alla fine di gennaio, non vide alcun serio pericolo. Due settimane dopo, quando Tabby morì, il signor Nicholls notò la «frequente febbre»979 di sua moglie senza riuscire a individuarne le cause. È stato ipotizzato che Charlotte avesse la tubercolosi, portata alla luce da un raffreddore: fu questa la conclusione del certificato di morte. Ma lei era convinta che il sangue provenisse dallo stomaco, non dai polmoni, a causa degli eccessivi sforzi. Suo marito disse che morì di «consunzione»980, che potrebbe essere stata disidratazione. Fu lui a curarla, e Charlotte espresse la sua gratitudine in alcuni biglietti debolmente scritti a matita indirizzati alla sua compagna di scuola di Bruxelles, Laetitia Wheelwright, ad Amelia Taylor e, ovviamente, a Ellen. Tutti questi messaggi confermano l’irrevocabilità del legame che la stringeva ad Arthur.
«Non credo esista al mondo un marito più buono e più gentile del mio»981.
«Non ti parlerò delle mie sofferenze, sarebbe inutile e doloroso. Voglio assicurarti [...] che trovo in mio marito l’infermiere più tenero, l’aiuto più gentile, il miglior conforto terreno che mai ebbe una donna»982.
«In merito a mio marito – il mio cuore è saldato a lui»983.
853 CB a EN, 11 aprile 1854 (trad. it. in Lettere, Milano, SE, 2002, p. 172); CB alla signorina Wooler, 12 aprile 1854; CB a GS, 25 aprile 1854, CBL, iii, p. 240, p. 242, p. 250.
854 A EN, 15 dicembre 1852, CBL, iii, p. 93; trad. it. in Lettere, cit., p. 169.
855 Ibid.
856 BST (1936), pp. 3-22.
857 Trascritto da Herbert Rosengarten, pubblicato in appendice all’edizione di The Professor, pp. 249-269. Manoscritto conservato nella Taylor Collection, Princeton. Si tratta di venti pagine, datate 27 novembre 1853, e scritte a matita, il che indica, in CB, che si tratta di una prima bozza. Il manoscritto presenta evidenti correzioni. Una prima edizione di Emma, poco accurata, apparve nella nuova rivista di GS, «Cornhill Magazine» (aprile 1860) con un’introduzione di Thackeray.
858 A EN, 18 dicembre 1852, CBL, iii, p. 95.
859 A EN, 26 dicembre 1854, CBL, iii, p. 312.
860 A EN, 6 aprile 1853, CBL, iii, p. 149.
861 A EN, 15 dicembre 1852, CBL, iii, p. 93; trad. it. in Lettere, cit., p. 169.
862 Ibid.
863 A EN, 18 dicembre 1852, CBL, iii, p. 94.
864 Ibid.
865 Virginia Woolf, Three Guineas, 1938; ripubblicato da Harmondsworth, Penguin, 1977, pp. 148-155; trad. it. Virginia Woolf, Le tre ghinee, Milano, La Tartaruga, 1975, p. 217.
866 CB a EN, 4 marzo 1852, LFC, iv, p. 319.
867 Ibid.
868 Life, p. 395; trad. it. Elizabeth Gaskell, La vita di Charlotte Brontë, Milano, La Tartaruga, p. 511.
869 V, p. 387.
870 A EN, 27 luglio 1851, CBL, ii, p. 671.
871 Si trattava del Dr Longley, vescovo di Ripon, che sarebbe diventato arcivescovo di Canterbury nel 1862.
872 All’epoca i genitori di ABN erano ancora in vita. Sua madre morì nel 1830 e suo padre nel 1849.
873 BPM.
874 EG a John Forster, 23 aprile 1854, LFC, iv, p. 117.
875 Lettera di Catherine Winkworth, traduttrice dal tedesco (figlia di un produttore di seta di Manchester, che faceva parte della cerchia dei Gaskell), a Emma Shaen, 8 maggio 1854, LFC, iv, p. 123.
876 A EN, 15 dicembre 1852, CBL, iii, p. 92; trad. it. in Lettere, cit., p. 169.
877 EG a John Forster, EGL, 155: p. 230.
878 BL. Manoscritto di JE, ii, p. 446.
879 V, p. 619.
880 Schizzo a penna e inchiostro in una lettera a EN, 6 marzo 1843.
881 Lettera che PB spedì a CB mentre lei si trovava a Londra, dicembre 1852 – gennaio 1853. CB la spedì a EG. BST, 63: 3, p. 199 (1953).
882 EN a Clement Shorter, aprile 1895, Ellen Nussey Papers, Brotherton.
883 EG nota che l’amore di CB «andava prima di tutto» a EB, Life, 107; trad. it. in La vita di Charlotte Brontë, cit., p. 153.
884 CB a PB, 2 giugno 1852, CBL, iii, p. 50.
885 CB a EN, 2 gennaio 1853, CBL, iii, p. 101.
886 CB a EN, 11 gennaio 1853, CBL, iii, pp. 102-103.
887 CB a GS, CBL, iii, p. 128.
888 CB a GS, 16 febbraio 1853, CBL, iii, p. 124.
889 CB a GS, 26 marzo 1853, CBL, iii, p. 142.
890 CB a WSW, 8 aprile 1853, CBL, iii, p. 151.
891 CB a WSW, 23 marzo 1853, CBL, iii, pp. 138-139.
892 Ibid.
893 Ibid.
894 Lettere di WMT del marzo e aprile 1853 in Letters and Private Papers of WMT, a cura di Ray; ripubblicato in The Brontës: The Critical Heritage, a cura di Miriam Allot, Londra, Routledge, 1974, pp. 197-198.
895 Lettera di Matthew Arnold a Clough, 21 marzo 1853, in The Letters of Matthew Arnold to Arthur Hugh Clough, a cura di Howard Foster Lowry, Oxford University Press, 1932, p. 132.
896 HM a CB, gennaio 1853 circa, LFC, iv, p. 41.
897 Vedi Life, pp. 373-376; trad. it. in La vita di Charlotte Brontë, cit., pp. 483-486 e LFC, iv, pp. 43-44.
898 CB a HM, CBL, iii, p. 118.
899 CB a GS, 16 marzo 1853, LFC, iv, p. 55.
900 CB alla signorina Wooler, 13 aprile 1853, CBL, iii, p. 154.
901 CB a GS, 29 marzo 1853, BPM. BS.87. CBL, iii, p. 146.
902 Ripubblicata in The Brontës: The Critical Heritage, cit. p. 207.
903 A WSW, 1? marzo 1849, BPM. Bon 208. CBL, II, p. 185.
904 A WSW, 8 aprile 1853, BPM. Gr:F2. CBL, iii, p. 152.
905 Sono in debito con Jenny Uglow per questa informazione.
906 CB a Lucy Holland, 28 maggio 1853, BPM. BS.89.2. CBL, iii, p. 171.
907 CB a EN, 4 marzo 1853, CBL, iii, p. 129.
908 A EN, 6 aprile 1853, CBL, iii, p. 149.
909 GS: A Memoir, p. 91.
910 Nello sviluppo della bozza, CB usa anche i nomi «signorina Featherhead», «Fetherstone» e infine «signorina Wilcox». Ho lasciato «Fetherhed» per sottolineare il significato allegorico [in inglese il nome Fetherhed rimanda direttamente alla parola feathered, che significa ‘piumato’, N.d.T.].
911 Tuttavia, la rivista «Cornhill Magazine» pubblicò la scena finale (aprile 1860).
912 CB a GS, 30 ottobre 1852, CBL, iii, p. 75; trad. it. in Lettere, cit., p. 165.
913 V, p. 414.
914 CB a EG, 9 luglio 1853, CBL, iii, p. 182.
915 EGL, 68: p. 106.
916 Bodleian Library, Oxford. Riprodotto da Jenny Uglow, Elizabeth Gaskell: A Habit of Stories, Londra, Faber, 1993, illustrazione numero 18, p. 338.
917 CB a EN, 15 aprile 1854, CBL, iii, p. 244. Sto supponendo, qui, che CB si tenne dentro questo pensiero per un bel po’ prima di comunicarlo, e questo giocò un ruolo decisivo nella sua decisione in favore di ABN.
918 CB a GS, 25 aprile 1854, CBL, iii, p. 250.
919 CB lo disse a EG, EG a John Forster, 23 aprile 1854, CBL, iii, p. 248.
920 CB a EN, 1° aprile 1854, CBL, iii, p. 239.
921 A EN, 6 aprile 1853, CBL, iii, p. 149.
922 CB a EN, 16 maggio 1853, CBL, iii, p. 166.
923 EG a un amico, settembre 1853, LFC, iv, p. 91.
924 Ivi, p. 89.
925 MT a EN, dal 19 aprile al 19 maggio 1856. Berg. Stevens, MT, p. 126. La parola usata da MT è «tirannia».
926 Ibid.
927 EN a Sir T. Wemyss Reid, 3 novembre 1876; nella stessa lettera ricorda che MT definì PB «quel vecchio perverso». Berg.
928 A EN, 15 aprile 1854, CBL, iii, p. 244.
929 A EG, 18 aprile 1854, CBL, iii, p. 247.
930 CB a GS. BPM. S-G.83. CBL, iii, p. 174.
931 A GS, 3 novembre 1852, CBL, iii, pp. 77-78.
932 In una bozza olografa di una lettera a CB, nella quale le comunicava il fidanzamento di GS, BPM. S-G.87. CBL, iii, p. 210.
933 In una lettera a Sir Sydney Lee, 29 ottobre 1901, Elizabeth Smith dice di aver «ricevuto in custodia la cura del DNB». Bodleian Library MS. Eng. misc. d., p. 180.
934 BPM. S-G.86. CBL, iii, p. 209.
935 CBL, iii, p. 212.
936 10 dicembre 1853. BPM. S-G.88. CBL, iii, p. 213.
937 CB alla signorina Wooler, 12 dicembre 1853, CBL, iii, p. 213. Nella lettera loda la signorina Wooler per il suo carattere che non si è inacidito.
938 CB raccontò questo scambio a EG, durante una visita a Plymouth Grove più tardi quella primavera, e in seguito EG lo riportò a John Forster, EGL, 195: p. 289.
939 CB a GS, 18 aprile 1854, CBL, iii, p. 245.
940 Si parla della “tentazione” percepita da EN in CB e di una breve frattura tra le due amiche in una lettera olografa di Mary Hewitt a EN, 21 febbraio 1854, Brotherton. Il 24 aprile 1854 un’altra lettera di Mary Hewitt parlò di «riconciliazione», LFC, iv, p. 118.
941 EN a Sir T. Wemyss Reid, 3 novembre 1876, Berg. Sebbene questa sia un’opinione espressa da EN vent’anni dopo la morte di CB, tale parere negativo potrebbe aver avuto origine dalla stessa CB prima che cambiasse atteggiamento nei confronti di ABN. Ciò spiegherebbe l’accusa di “contraddizione” citata poco sotto.
942 MT a EN, 24 febbraio – 3 marzo 1854. BL. Ashley. Stevens, MT, p. 120.
943 A WSW, 3 gennaio 1850, CBL, II, p. 323.
944 CBL, iii, p. 225.
945 Virgina Woolf, “Professions for Women” in Collected Essays, Londra, Hogarth, 1972, pp. 287-288. Si tratta di un discorso tenuto da Virginia Woolf alla Women’s Service League nel 1932. Una sua affascinante bozza è riprodotta in The Pargiters; trad. it. “Professioni per le donne”, in Le donne e la scrittura, Milano, La Tartaruga, 2003, pp. 55-59.
946 ABN contribuì con argomenti convincenti alla controversia su Cowan Bridge che seguì la pubblicazione di Life. ABN sostenne che CB in JE avesse detto la verità in merito alla scuola.
947 25 aprile 1854, CBL, iii, p. 250.
948 18 aprile 1854, CBL, iii, pp. 246-247.
949 La sua traduzione di Lyra Germanica, un volume di accompagnamento alla Theologia Germanica tradotta da sua sorella Susan Winkworth, fu pubblicata un anno dopo questo incontro, nell’agosto 1855, con grande successo.
950 Catherine Winkworth a Emma Shaen, 8 maggio 1854, Memorials of Two Sisters: Susanna and Catherine Winkworth, a cura di Margaret J. Shaen, Londra, Longmans, 1908, pp. 112-115. CBL, iii, pp. 256-258.
951 CB a EN, 12 giugno 1854. BPM. Gr: E28. CBL, iii, p. 268.
952 CB a EN, 27 maggio 1854, CBL, iii, p. 265.
953 CB alla signorina Wooler, 22 agosto 1854, CBL, iii, p. 286.
954 Life, p. 395; trad. it. in La vita di Charlotte Brontë, cit., p. 511. EG sentì questa espressione dagli abitanti di Haworth.
955 EN a Sir T. Wemyss Reid, 3 novembre 1876. Berg. EN disse che questo accadde durante la sua ultima visita da sola in canonica, cioè l’ultima prima del matrimonio. Sebbene il tono di EN sia lamentoso nel riferire il tentativo di PB di allontanare CB dalla sua “fedele amica”, sembra ricordarsi bene dell’accaduto: «Si voltò verso di lui con rabbia mentre facevamo colazione: lui aveva fatto nei miei confronti alcune osservazioni ipocrite sulle vicissitudini della vita».
956 Un agile riassunto del viaggio di nozze si trova in Life, p. 395; trad. it. in La vita di Charlotte Brontë, cit., p. 511.
957 CB a EN, 7 dicembre 1854, LFC, iv, pp. 164-165.
958 Life, p. 395; trad. it. in La vita di Charlotte Brontë, cit., p. 511.
959 EN, bozza di una lettera a GS, datata 28 marzo [1860 circa], da Woodhouse, Leeds; nella bozza EN cita il fatto che la rivista «Cornhill» aveva recentemente pubblicato alcuni scritti postumi di CB, Berg. La lettera spedita è conservata nell’archivio Murray.
960 9 agosto 1854, CBL, iii, pp. 283-284; trad. it. in Lettere, cit., p. 173.
961 CB a EN, 7 settembre 1854, CBL, iii, p. 288.
962 CB a EG, 27 agosto 1850, CBL, II, 457; trad. it. in Lettere, cit., pp. 157-158. CB commenta l’articolo di John Parker “La missione della donna”, «Westminster Review», gennaio 1850: «Vi sono [...] mali [...] di cui non ci è dato di lamentarci, cui è consigliabile non pensare troppo spesso».
963 JE, p. 533.
964 Vedi JE (dove Jane non è «stata paralizzata e avvilita» con Rochester, p. 295) e V (dove Lucy «non siede asphyxiée» – vedi supra cap. 8).
965 Life, p. 375; trad. it. in La vita di Charlotte Brontë, cit., p. 485.
966 La piccola Dorrit, libro II, cap. V.
967 All’«Halifax Guardian», 30 giugno 1857, ripubblicata in LFC, iv, p. 306, rimproverando una donna che aveva preso le difese della Clergy Daughters’ School, la signora Sarah Baldwin, per «essere estranea a quella delicatezza di sentimenti che spinge una donna a evitare di avere il proprio nome esposto in pubblico». È interessante notare che il maggior avversario di ABN, il figlio di Carus Wilson, non si trattenne dal commentare beffardamente dichiarando di non voler difendere la signora Baldwin, il che suggeriva che egli condividesse l’opinione di ABN sulle donne che desiderano mettersi al centro dell’attenzione pubblica.
968 CB alla signorina Wooler, 19 settembre 1854, CBL, III, p. 291.
969 15 novembre 1854, CBL, III, p. 301. Vedi anche CB a EN, 26 dicembre 1854.
970 Sono arrivata a tale conclusione autonomamente, e sono stata felice di scoprire che Gérin era della stessa idea, CB, appendice A, p. 573.
971 A EN, 20 ottobre 1854, CBL, III, p. 295.
972 ABN a GS, 11 ottobre 1859, Appendice, The Professor, p. 250.
973 ABN raccontò questa scena in una lettera a GS, ivi.
974 EG a EN, 9 luglio 1856, LFC, iv, p. 202: «Il felice stato mentale dovuto alla vita matrimoniale avrebbe probabilmente conferito al frammento un carattere diverso, più ottimista e sereno» .
975 EG a GS, Appendice, The Professor, p. 250.
976 . BPM. BS.98. CBL, III, p. 314.
977 Lettera a un’amica di Haworth, settembre 1853, LFC, iv, p. 88.
Da Gerson Weiss della New Jersey Medical School, come riportato da Nigel Hawkes nell’«Herald Tribune» (31 marzo 1992). La malattia è causata dall’insufficienza delle ghiandole corticosurrenali, situate sopra i reni, nel secernere molti ormoni importanti nel mantenimento dell’equilibrio idrico e minerale del corpo. Dato che all’epoca di CB non esistevano gli esami biochimici, una tale diagnosi non avrebbe potuto essere accertata.
979 ABN a EN, 14 febbraio 1855, CBL, III, pp. 324-325.
980 ABN a EN, 31 marzo 1855, comunicando la notizia della morte di CB avvenuta nel corso della notte, CBL, III, p. 330; trad. it. in Lettere, cit., p. 179.
981 CB a Laetitia Wheelwright, 15 febbraio 1855, CBL, III, p. 325.
982 CB a EN, 21 febbraio 1855, CBL, III, p. 326; trad. it. in Lettere, cit., p. 178.
983 CB ad Amelia Taylor, febbraio 1855, CBL, III, p. 327.