10. Sopravvivere
Charlotte fu l’unica Brontë a morire con la parola amore sulle labbra. Per Emily, la morte fu il passo definitivo nell’unione con il divino. Per Branwell fu un momento di pentimento. Anne morì nel segno della pietà e con il pensiero rivolto agli altri. Sebbene fosse gentile e delicata nei modi, solo un tenace senso morale le aveva consentito di sopportare la gelida vita dell’istitutrice. Agnes Grey, che racconta la dura realtà di quel mestiere, è il trionfo dello spirito sulle condizioni esterne più ostili. I suoi due romanzi, in particolare Il segreto della signora in nero, il ritratto di una donna intraprendente che riesce a lasciare un marito degenere, rimarranno immortali. Un recensore disse che nessuna donna avrebbe potuto dar prova di «una tale familiarità con i modi di dire e di fare dei peggiori uomini dissoluti»984, mentre per Kingsley nessuna moglie avrebbe mai avuto il coraggio di scrivere un resoconto così orribile della propria esperienza985. Acton Bell doveva aver avuto dei momenti inebrianti, mentre esponeva il calvario della moglie abusata o dell’istitutrice schivata da tutti, ma, al di là delle gioie di una mente lucida e vigile, la vita non le aveva concesso molto. La poesia che scrisse al momento della morte, alla precoce età di ventotto anni, è insostenibilmente cupa.
Charlotte, in quanto sopravvissuta, vide sei vite recise. Una persona normale sarebbe rimasta schiacciata dal dolore, ma Charlotte Brontë non era una persona come le altre. Più volte, grazie all’immaginazione, seppe reinventarsi la vita a partire da trame esistenziali che altri avrebbero trovato scoraggianti: la governante senza volto, l’inutile “zitella”, la figlia e moglie devota. Ebbe la determinazione del pellegrino. La disperazione non era nella sua indole; quando le speranze venivano a mancare da un lato, si voltava dall’altro. La sua salute non fu mai così buona come nei pochi mesi di matrimonio, ed è probabile che la sua morte si debba a una fatale infezione, non alla lunga consunzione che si era portata via le sorelle. Quando queste erano morte, aveva affermato con fermezza di non avere malattie costituzionali di quel genere, ed era ben attenta a curarsi un raffreddore appena se ne presentavano i sintomi. Ma non aveva il controllo sulla rete fognaria di Haworth. La sua non fu la morte romantica causata da una malattia logorante; fu un’infezione acuta provocata da scarse condizioni igieniche. Sebbene scrisse un testamento il giorno in cui morì Tabby, il 17 febbraio, non si aspettava (a differenza delle sorelle) di morire. Quando suo marito pregò per lei, disse: «Non sto per morire, vero? Non ci vorrà [Dio] separare, siamo stati così felici»986.
La felicità fu il grande traguardo del suo ultimo anno di vita, non la scrittura. Trasformò la propria esistenza con una scelta consapevole, meditata nei primi mesi del 1854, sposando la vita invece che l’arte. Quando Yeats ingiungeva all’intelletto di scegliere tra la «perfezione della vita o quella dell’opera»987, per lui non si trattava di un vero dilemma; la stessa questione era già materia artistica. Per il poeta, come per altri, l’arte aveva la priorità assoluta – a prescindere da quanto affermassero. Tolstoj, Hardy ed Eliot sacrificarono le loro vite in termini di felicità e abbracciarono quella che Yeats chiamò la vita «pianificata»988 degli immortali. In tale contesto, la scelta di Charlotte fu insolita: all’apice della carriera, dopo aver iniziato quello che poteva diventare il suo più grande romanzo, ebbe il coraggio di cambiare rotta. Il matrimonio potrebbe sembrare una scelta prevedibile per una donna comune, ma non lo fu per lei. Le sue lettere a Ellen, in particolare quelle in cui parla della crescente idiozia di Amelia Taylor, portano a galla i suoi dubbi: il matrimonio le sembrava ridurre le donne a una clausura domestica.
Il dubbio accompagnò Charlotte per tutto il periodo precedente al matrimonio. Anzi, fu quanto mai insistente e articolato proprio nella settimana prima delle nozze, quando, nella stanza da letto di Manchester, si aprì con la signora Gaskell e Katie Winkworth. Eppure, da un altro punto di vista, la scelta di sposarsi con il signor Nicholls fu una continuazione del suo Addio ad Angria – l’addio ancor più definitivo a una vita relegata nell’immaginazione. Da ragazza, aveva abbandonato i sogni di una vita fastosa per confrontarsi con la realtà della “zitella”, degli operai, dell’ambiente industriale. Ora stava mettendo alla prova la realtà del matrimonio – non il lieto fine romanzesco a base di torta nuziale989. Questo approccio era evidente già in Villette. Affrontando un matrimonio reale, Charlotte Brontë si tenne quanto mai lontana dai tramonti infuocati che facevano da sfondo alle storie romantiche di Angria. Fu lucida, calma, ponderata. Aveva avuto modo di assistere agli effetti del matrimonio vittoriano sulle mogli – spazzava via il loro carattere indipendente –, e in modo pienamente consapevole si concesse di sparire a quel modo.
Le ultime parole che pronunciò a nome di Currer Bell furono eloquenti. Nel febbraio 1854 disse al poeta Sydney Dobell che il genio deve essere «paziente» e soddisfare le esigenze degli affetti naturali. A Ellen disse che le donne devono stare in guardia dagli effetti del matrimonio sulla loro natura. Scomparendo, continuò a tenere in equilibrio le antinomie della sua impresa: la dedizione al dovere e la dedizione all’indipendenza. Il dramma della sua vita, come quello della sua arte, ha luogo lì, in quel punto di fermento, all’intersezione tra due atteggiamenti opposti: da un lato la signora fragile e introversa; dall’altro la resilienza della pellegrina. L’arte non nasce dalle ideologie, ma dal loro interfacciarsi. In questo senso, il carattere che Charlotte Brontë distillò nell’opera continuò a esistere nella sua vita – lo spirito irrequieto che indaga, non la rigida facciata – anche quando l’autrice svanì dal campo visivo, sottraendosi a qualsiasi posizione data.
La scelta ultima tra la vita e l’arte definisce Charlotte Brontë: il suo è il raro caso del genio che abbandona l’arte in favore della vita. Il suo attaccamento alla vita anticipò quello di scrittrici come George Eliot e Sylvia Plath, che avrebbero rischiato molto in nome delle loro esistenze di donne non convenzionali. Il loro vantaggio fu vivere nell’ombra, far scoprire quei «rumori al di là del silenzio»990 e, come Charlotte Brontë, far sentire una voce in grado di parlare al “Lettore” con intima autenticità.
Charlotte rimase difficile da afferrare e da definire anche dopo la morte. Sfuggiva alla presa di chi l’aveva conosciuta per un verso o per l’altro e intendeva fissarla in una posizione precisa, rivendicare il possesso della sua memoria o controllare la sua opera.
Nel suo letto di ammalata, sotto lo sguardo di Arthur Bell Nicholls, redasse un testamento in cui lasciava tutto a lui. È questo documento ad aver dato l’avvio alla battaglia per il suo possesso. Per Arthur era una moglie; per Ellen e per il signor Brontë era anche Currer Bell, l’autore che il mondo avrebbe dovuto continuare a conoscere. Su suggerimento di Ellen, nel giugno 1855 il signor Brontë invitò Elizabeth Gaskell a scrivere la biografia della figlia. Il signor Nicholls reputò l’idea «quasi una profanazione»991, ma non poteva fermare il reverendo. A luglio, quando la signora Gaskell (accompagnata da Katie Winkworth, che era interessata alla faccenda) venne a vedere le carte Brontë, il signor Nicholls tirò fuori appena una dozzina di lettere, principalmente indirizzate a Emily, scritte dalla moglie tra il 1839 e il 1843. In altre parole, si aspettava che Gaskell costruisse la biografia su questa minuscola base, senza essere a conoscenza dell’enorme mole degli scritti giovanili e senza aver visto i manoscritti di Il professore e di Emma (un anno dopo, Sir James Kay-Shuttleworth, che, in virtù del suo stato sociale, esercitava una certa influenza su Nicholls, prese in prestito quei manoscritti per la signora Gaskell grazie al semplice espediente di chiederli con la sua abituale arroganza).
Senza il potere trasformante di Charlotte, alcuni attori apparivano privi di spessore, le loro parole morivano sulla pagina. Ad esempio, Charlotte aveva proiettato nell’immagine della signorina Wooler un po’ della propria forza: «Quanto sembrerebbe dura la vostra vita ad alcune persone – quanto letteralmente impossibile da vivere con spirito sereno e buona disposizione! A me sembra meraviglioso»992. Questa direttrice scolastica, in cui Charlotte aveva individuato un modello per le donne sole, reagì alla Vita di Elizabeth Gaskell come la persona di vedute ristrette che probabilmente era sempre stata, obbediente alle opinioni dei suoi superiori, in particolare a quelle del clero. Riteneva che Jane Eyre fosse un cattivo libro perché l’aveva sentito calunniare. Poi, nel 1857, quando la Vita fu attaccata dai sostenitori della Clergy Daughters’ School, la signorina Wooler ripeté a pappagallo l’opinione di un curato locale: la signora Gaskell era stata un’abile donna di mondo993 nel dare voce ai pettegolezzi.
La signora Gaskell disse più volte che le lettere di Charlotte alla signorina Wooler erano le migliori di tutte. La ragione di tale opinione è chiara: quelle lettere rispecchiavano l’immagine virtuosa che sia Charlotte sia Gaskell intendevano trasmettere – con successo, dato che sopravvisse anche nel secolo successivo994. Con la signorina Wooler, Charlotte era stata più che mai corretta e rispettosa, come si addiceva alla relazione con una direttrice scolastica che aveva avuto poco da insegnarle, ma che era stata con lei sempre affettuosa in quelle lontane sere trascorse a Roe Head, quando la signorina Wooler passeggiava avanti e indietro per l’aula con le sue allieve a braccetto. Era stata inoltre un’amica sempre presente nel corso degli anni, nonché una fonte di sollievo in quel mattino del giugno 1854, quando aveva fatto le veci del padre dandola in sposa.
Al secondo posto, per la signora Gaskell, venivano le lettere di Charlotte al raffinato e grigio William Smith Williams, un’altra corrispondenza poco intima. Anche in questo caso, la signora Gaskell andava in cerca di quel decoro che avrebbe offuscato l’immagine poco signorile di Currer Bell.
Il signor Brontë si compiaceva dell’eco della fama: fu appagato da una visita del duca del Devonshire e dalle lettere che arrivavano da tutto il mondo richiedendo campioni di scrittura di Charlotte. Nel novembre del 1860, la signora Gaskell e sua figlia, Meta, lo trovarono seduto sul letto, fresco e pulito, con una folta chioma di capelli bianchi, che ritagliava le lettere di Charlotte in striscioline di una riga da inviare agli ammiratori. Continuava a dire pompose banalità, e quando la signora Gaskell provò a ottenere da lui informazioni, «abbellì i fatti in scritti talmente vaghi e nebulosi»995 che la biografa ritenne inutile continuare a interrogarlo. Tuttavia, il signor Brontë disse chiaramente alla signora Gaskell che doveva omettere il fatto che egli aveva ignorato l’opera della figlia fino a qualche tempo dopo la pubblicazione di Jane Eyre. Allo stesso tempo, fu abbastanza magnanimo da non curarsi del modo esageratamente eccentrico in cui Gaskell lo aveva ritratto, in vista del trionfo della biografia di Charlotte. Insieme, lui e il signor Nicholls selezionarono alcune delle poesie di Emily e una di Charlotte, in cui si parla di una «silenziosa luce» che aspira a un «fuoco più sacro»996, per pubblicarle nel «Cornhill Magazine». Il signor Brontë rimase in pieno possesso delle sue facoltà mentali997 fino al momento della morte, che lo colse all’età di ottantacinque anni. Nel rispetto della promessa fatta a Charlotte, il signor Nicholls rimase con lui fino alla fine.
Il controllo esercitato dal signor Nicholls fu intensificato dal fatto che egli era arrivato tardi nella vita di Charlotte e sapeva poco del suo mondo interiore. Lei si era ben guardata dal turbarlo parlandogli della passione per Monsieur o della giocosa intimità con George Smith. Ciononostante, Arthur rimase ansioso rispetto alla libertà del suo stile epistolare; a preoccuparlo erano non solo il suo candore, ma anche quelle che i vittoriani chiamavano “espressioni forti”, che potrebbero oggi sembrarci innocue, ma che allora apparivano poco adatte a una signora. Sebbene Charlotte scherzasse sulla riservata stringatezza dell’uomo d’affari Currer Bell, Arthur non cambiava opinione.
Charlotte aveva detto a Ellen di aver distrutto la corrispondenza prima del matrimonio998. Ma, scoprì l’amica, non l’aveva fatto del tutto: un mese dopo la morte di Charlotte, il signor Nicholls ritrovò delle lettere di James Taylor999. Incapace di nascondere il proprio turbamento, Nicholls si rivolse a Ellen per avere chiarimenti. Sapeva che Ellen era a conoscenza di fatti a lui ignoti e temeva eventuali rivelazioni – per se stesso come per la posterità. Per questo si adirò quando la signora Gaskell pubblicò degli estratti dalle trecentocinquanta lettere scritte da Charlotte a Ellen1000: pensava che la signora Gaskell avrebbe preso visione della corrispondenza solo per farsi un’idea più precisa del «modo di pensare»1001 del suo soggetto. In una lettera che spedì al signor Smith il 3 dicembre del 1856, Nicholls si rifiutò di autorizzare la signora Gaskell a pubblicare anche solo una riga dell’epistolario di sua moglie1002. Il 6 dicembre, la signora Gaskell scrisse a Smith per ringraziarlo «del permesso ottenuto dal signor Nicholls»1003. L’unico modo per spiegare questa discrepanza è supporre che George Smith abbia voluto tranquillizzare la signora Gaskell prendendosi la responsabilità di convincere con le maniere forti il signor Nicholls. L’11 dicembre, la signora Gaskell citò una frase in cui Smith parlava della sua «feroce corrispondenza»1004 con Nicholls.
Ingiustamente, il signor Nicholls accusò Ellen, che contraccambiò il risentimento: arrivò a supporre che le «ignoranti cure»1005 prestate dal signor Nicholls potessero aver giocato un ruolo nella morte di Charlotte, quando le «era stato offerto un più esperto aiuto». Scrisse a Sir Wemyss Reid: «Se non fosse stato per il suo egoismo e il suo desiderio di controllo, credo che ora Charlotte sarebbe ancora in vita»1006. Per quanto qui piccata e lamentosa, su un punto Ellen aveva ragione: Nicholls si era dimostrato possessivo negandole il permesso di venire in canonica (anche se la sua esperienza di infermiera era stata efficace quando Charlotte si era ammalata tra il dicembre 1851 e il gennaio 1852) e rifiutandosi di convocare la signora Gaskell, la quale fece intendere che, se fosse andata lì, avrebbe persuaso Charlotte a interrompere la gravidanza per salvarle la vita.
Ellen si risentì anche per il testamento, che dava al signor Nicholls il pieno controllo sulle carte di Charlotte. Criticò la sua «egoistica appropriazione di ogni cosa»1007. Per tutta la vita conservò la ciocca di capelli1008 che Martha Brown aveva tagliato per lei il giorno in cui era morta l’amica (tuttora mantiene il suo caldo colore castano) e, nei decenni successivi alla morte di Charlotte, cercò di ripristinare l’importanza dell’epistolario, prima di tutto attraverso la Vita di Gaskell. Dai primi anni Sessanta dell’Ottocento, Ellen tentò più volte di pubblicare un’edizione separata delle lettere di Charlotte, la cui maggioranza era sopravvissuta, nonostante ne avesse distrutto una partita nel 18551009. Dal suo punto di vista, aveva agito responsabilmente, rispettando il volere del marito dell’amica, ma non poteva aggirare il suo divieto di pubblicazione.
Nel 1869 cercò una sponda nella casa editrice Smith, Elder & Co.: George Smith la incoraggiò a scrivere delle memorie inframezzate dalle lettere di Charlotte, ma la avvertì che il diritto di pubblicazione era di Nicholls. Ellen redasse tre scritti: uno sulle prime impressioni che aveva avuto di Charlotte incontrandola a Roe Head nel 1831; un altro sulla sua prima visita in canonica nel 1833; un ultimo sulle sorelle Brontë nei tardi anni Trenta dell’Ottocento, in cui parla della loro educata goffaggine nella veste di ospiti alla festa annuale per gli insegnanti della Sunday School, della loro mancanza di senso estetico quanto all’abbigliamento, delle loro passeggiate notturne in salotto e della loro inadeguatezza nel ruolo di istitutrici. Ellen aveva già fornito un resoconto degli ultimi giorni di vita di Anne per la biografia della signora Gaskell. Sono tutti documenti meravigliosi – empatici, accorti, dettagliati, ben scritti –, ma per poter andare avanti con questo memoriale, Ellen avrebbe avuto bisogno dell’aiuto di un uomo. Quando George Smith rifiutò di intercedere per suo conto con il signor Nicholls, Ellen abbandonò l’impresa. Nel 1870 andò a monte un altro tentativo con l’editore Scribner (con un’edizione americana in vista). Nel 1876 fece infuriare il signor Nicholls consentendo a Sir Wemyss Reid di usare alcune lettere1010 in una monografia su Charlotte Brontë (per la quale Ellen ricevette un terzo dei profitti). Tra il 1889 e il 1895, Horsfall Turner di Bradford stampò all’incirca trecentosettanta lettere per accompagnare un volume di studi brontëani. Il signor Nicholls venne a sapere del volume poco prima della pubblicazione e ne ordinò la distruzione. I libri furono debitamente bruciati, fatta salva una dozzina di copie.
Il 31 marzo 1895, nel pieno della battaglia, il signor Nicholls, forse in risposta alle rivendicazioni e ai piani di Ellen, consentì a un improbabile studioso, Clement Shorter, di portare via la gran mole dei manoscritti Brontë. Il compare di Shorter, Thomas Wise1011, era un impostore. I due ottennero delle lettere da Nicholls e da Ellen facendo credere loro che sarebbero state donate al South Kensington Museum come omaggio alla nazione, ma, una volte che le ebbero tra le mani, negarono di essersi impegnati con una simile promessa. Spregiudicato, Wise divise i manoscritti in pezzi e li vendette ai maggiori offerenti in giro per il mondo. Alcuni dei libretti furono smontati e la saga di Angria, i frammenti di Roe Head, “Henry Hastings”, Ashworth, le bozze e le belle copie delle poesie dei Brontë furono sparpagliati in lungo e in largo. Le radici di questa storia, tuttavia, affondavano indietro nel tempo, in quel giorno dell’ottobre 1854 quando, nella sala da pranzo – che era stata la stanza della scrittura delle sorelle Brontë, poi di Charlotte sola, poi non più solo sua –, Arthur si sporse da dietro le spalle della moglie, preoccupato per le parole indiscrete che utilizzava per raccontare la lunga vita nell’ombra condivisa con Ellen e dalla quale lui era stato escluso. Fu allora che individuò nelle lettere di sua moglie un rivale che doveva «bruciare»1012, così che nessun altro nello Yorkshire, in tutta l’Inghilterra e nemmeno tra i posteri cui era destinata la sua amata consorte, potesse vederle. Visse il resto della sua vita, altri cinquant’anni, aspettando di rincontrarla nell’aldilà.
Chi possedeva la memoria di Charlotte? Mentre il signor Brontë ritagliava le lettere della figlia per farne dei souvenir ed Ellen cercava di preservare i suoi lasciti letterari, l’idea guida del signor Nicholls era quella di segretare tutto, o quasi1013. Quando Ellen arrivò in canonica ad appena qualche ora dalla morte dell’amica, il signor Nicholls le disse: «Non mostrerai a nessuno le lettere di Charlotte, se ne hai ancora»1014. Nel 1895, quando Ellen cercò di scoprire che ne era stato delle sue lettere a Charlotte1015, il signor Nicholls suggerì che Charlotte le avesse bruciate subito dopo averle lette. Più probabilmente era stato lui a bruciarle; Charlotte non lo avrebbe mai fatto, a meno che suo marito non avesse molto insistito. Negli anni Novanta dell’Ottocento, nel pieno dell’era della “Donna Nuova”, Nicholls continuava a disapprovare le lettere di Mary Taylor1016 (molte non sono mai state rinvenute) e affermava – inspiegabilmente – che nemmeno le lettere di Charlotte al padre (sempre affezionate e premurose) fossero adatte alla pubblicazione. Sembrava incapace di distinguere le legittime pretese di Ellen da quelle dei mercanti mercenari, l’idolatria dei cacciatori di souvenir (che, comprensibilmente, disprezzava) dal caloroso interessamento della gente di Haworth. Quando in chiesa fu apposta una nuova lapide per Charlotte, si assicurò che quella vecchia venisse distrutta in una miriade di frammenti e sepolta ad almeno un metro e mezzo sotto terra. Si arrabbiò quando il sacrestano, il signor Greenwood, volle dare al suo ultimo figlio il nome di Brontë. Rifiutò di battezzare il bambino. Alla fine, il piccolo Brontë Greenwood fu portato di nascosto al reverendo Brontë, che, dal suo letto in canonica, celebrò gioiosamente il sacramento.
Così, dopo la morte di Charlotte, il signor Nicholls non fu molto popolare nel villaggio di Haworth, e la gente del posto non aveva dimenticato che egli si era rifiutato di seppellire Michael Heaton1017, esponente della dinastia che aveva vissuto per secoli nella dimora al limite della brughiera. Quando, nell’estate del 1861, il signor Brontë morì, al signor Nicholls non fu offerta la residenza. Nel novembre 1861 se ne tornò in Irlanda, portando con sé i vestiti della moglie, i suoi disegni, il ritratto che le aveva fatto Richmond, che lui era stato il primo a vedere, e una pila di manoscritti dei Brontë. Il 25 agosto 1864 sposò sua cugina, Mary Anne Bell, la ragazza che Charlotte aveva incontrato quando era arrivata con il marito a Dublino in viaggio di nozze, dieci anni prima. Mary l’aveva indotto a sposarla chiedendogli la sua opinione su un’altra proposta di matrimonio. Dopo le nozze, il signor Nicholls la portò nella stessa locanda gallese in cui aveva trascorso i primi giorni con Charlotte. Ciò potrebbe voler dire che lì era stato felice, o semplicemente che era un tipo abitudinario. A Banagher divenne un agricoltore, vendeva i suoi prodotti nei mercati locali e nella sua casa di Hill House era venerato come un idolo. La nuova signora Nicholls gli consentì di appendere il ritratto di Charlotte in salotto. Visse ancora a lungo, superando la soglia del nuovo secolo, in quel luogo remoto, dove nessuno arrivava mai a fargli visita, pieno zeppo di cimeli di Haworth, mentre un pacco e uno scatolone di sempre più pregiate carte dei Brontë accumulavano polvere in fondo a una credenza. Non esaminò mai i «libretti»1018, ma tagliò la testa di Emily da un ritratto di famiglia ed eliminò gli altri. Solo dopo la sua morte, la signora Nicholls posò lo sguardo sull’ormai famoso ritratto delle tre sorelle dipinto da Branwell.
Ellen visse fino al 1897, quando avrebbe compiuto ottant’anni, corteggiata di tanto in tanto dagli studiosi dei Brontë, ma perlopiù circondata dalla noia. Sembrerebbe che Ellen abbia fatto la fine che Charlotte aveva temuto per sé: quell’amaro inverno che può toccare in sorte alle donne prive di grandi mezzi e di un’attività utile con cui impiegare il tempo. In vista di questa eventualità, Charlotte aveva ammirato la fermezza con cui la signorina Wooler aveva diretto la sua scuola e le opere buone delle “zitelle” di Shirley. Ellen era meno placida di quanto Charlotte avesse immaginato: anche lei, come Mary Taylor, era provvista di un intelletto inquieto che non poteva accontentarsi di tenere un banchetto al mercatino della chiesa. Una donna modello avrebbe accettato quel destino di buon grado, ma non è difficile simpatizzare con gli accessi di irritazione che esplodono nel flusso delle lettere di Ellen: irritazione nei confronti di Nicholls per la sua appropriazione di Charlotte, viva e morta; irritazione verso la signora Gaskell per non averla accreditata come sua prima fonte; irritazione per il fatto che, se la Vita era stata un successo di pubblico e di critica, Ellen – le cui lettere erano il caposaldo di quel libro e che ora, dopo la morte della madre, non poteva più permettersi di vivere a Brookroyd – non ne aveva ricavato un bel nulla. Ellen arrivò a leggere questo esito come il frutto di un piano di George Smith, che aveva chiesto alla signora Gaskell di estendere la sua Vita a due volumi – la cui casa editrice guadagnava i proventi del libro e che (come lui e Charlotte erano soliti dire scherzando) poteva essere piuttosto«taccagno» – non con gli autori che sapevano come pretendere belle somme, ma con una donna sola dai modi modesti come era lei, e come era stata la stessa Charlotte.
Ellen, caduta in disgrazia ma sempre elegante, non avrebbe mai chiesto dei soldi, però il 20 febbraio 1869 domandò a Smith se poteva donarle dei libri per il mercatino della chiesa1019. L’editore rifiutò cortesemente1020. In un secondo tempo, Ellen presentò di nuovo la sua richiesta: stavolta Smith rifiutò seccamente – la signorina Nussey era ai suoi occhi una delle tante donne impegnate in opere caritatevoli che scocciavano gli uomini d’affari con l’acqua alla gola. Se solo si fosse fermato a riflettere, verrebbe da dire. L’idea che la sua azienda avesse sfruttato la signorina Nussey non sarebbe mai passata per la testa di un uomo come George Smith, per il quale Ellen era una donna senza alcuna importanza. All’epoca, Smith era il maggiore editore del momento, la sua immagine era quella del barbuto e allegro comandante di una solida nave, forgiata da Leslie Stephen quando lo aveva conosciuto, trasferendosi a Londra da Cambridge verso la fine degli anni Sessanta dell’Ottocento.
Tre anni dopo averle rifiutato i libri in dono, Smith chiese a Ellen se poteva individuare con esattezza i luoghi ritratti da Charlotte nei suoi romanzi per farne un’edizione illustrata.
«Lo considero un favore», scrisse Smith il 30 marzo 1872. «L’interesse che avete sempre nutrito per Charlotte e le sue sorelle potrà, spero, indurla a scusarmi per il disturbo che le arreco».
Questo tono gentile sfruttava la devozione di Ellen per la sua amica; in realtà le stava chiedendo di prestare un lavoro non pagato per la sua casa editrice. Il 28 maggio 1872 le spedì una lettera di ringraziamento per le «preziose informazioni» – quel “grazie” era tutto ciò che Ellen ne avrebbe ricavato, oltre a una copia gratuita del libro. L’atteggiamento di Smith nei confronti di Ellen era dispotico e fu in un caso decisamente sfacciato, quando le disse che alcune delle poesie che gli aveva inviato erano inaccettabili, non all’altezza. George Smith fu uno dei molti uomini intelligenti, come Thomas Huxley e Leslie Stephen, che quando facevano visita a George Eliot non portavano con sé le proprie mogli perché il decoro andava mantenuto, nonostante Eliot fosse considerata la più grande autrice inglese degli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento. Smith spiegò così la questione: «Le nostre figlie non erano più delle bambine; vivevamo a Hampstead, lo scenario preferito [per la pruderie] della signora Grundy. George Eliot era più o meno un personaggio pubblico: la sua effettiva posizione [di convivente di Lewes] era arcinota e, se si fosse saputo che delle ragazzine le avevano fatto visita, ne sarebbero potute derivare delle spiacevoli conseguenze sociali». Divenne una sorta di gioco di coppia: Elizabeth Smith gli chiedeva delle sue frequenti visite a questa donna che non le era mai stata presentata. Poi, una sera, la signora Smith vide George Eliot al teatro dell’opera. Avendo modo di osservare il volto ampio, stanco e malinconico della scrittrice, rassicurò allegramente suo marito: era libero di vedere quella donna ogni giorno della settimana.
Non solo George Smith mantenne il suo atteggiamento convenzionale nei confronti della bellezza e della rispettabilità, ma rimase anche taccagno con i meno fortunati. Nel 1880, come atto caritatevole, costruì un edificio residenziale per quaranta famiglie a George Yard, nel cuore del quartiere di Whitechapel1021; allo stesso tempo era determinato a dimostrare che la carità di questo genere poteva rendere. Trovò «strano notare la paura e l’odio che i poveri provano per gli ospizi» quando gli fu riferito delle disperate suppliche di un’inquilina, una vedova troppo vecchia per guadagnare e pagare l’affitto. La vedova sperava che Smith l’avrebbe protetta; l’agente di Smith le disse che il titolare era un uomo «d’acciaio». A differenza dell’“acciaio” di James Taylor, la sua volontà era però rivestita del più morbido dei guanti: con paziente ragionevolezza e immancabile cortesia persuase la vedova ad accettare lo sfratto – all’ospizio, in definitiva, doveva andarci. Un altro atto di «benevolenza», come amava chiamarli lui, fu quello di espellere una famiglia per garantire la tranquillità degli altri inquilini, i quali si lamentavano per il fastidio causato dalle grida della moglie, che veniva continuamente picchiata dal marito. Smith descrive la sua gestione della faccenda con divertita noncuranza:
Cercai di spiegargli [al marito] che ero di mentalità troppo liberale per avere alcunché da obiettare al fatto che un uomo picchiasse sua moglie fin quando ne aveva voglia. Ma avevo qualcosa in contrario al fatto che sua moglie continuasse a urlare, disturbando gli altri inquilini quando lui la batteva. Dubito che la mia spiegazione sia risultata del tutto soddisfacente per il marito, ma dovette cercarsi un altro posto dove poter massacrare la moglie a suo piacimento [...].1022
In realtà non era diverso da altri paternalistici vittoriani della classe agiata; risoluto, esuberante, affettuoso com’era, poteva a volte scadere molto al di sotto dei modi principeschi che un tempo avevano fatto ben sperare Charlotte Brontë, e anche al di sotto della compassionevole moralità che la scrittrice aveva predicato e praticato (una volta, quando Charlotte aveva mandato una sterlina d’oro a un pover’uomo che si era rotto una gamba, suo padre aveva detto che le donne erano spesso impulsive nel fare la carità; lei aveva risposto: «In merito alla carità, gli uomini ragionano molto e fanno poco; le donne ragionano poco e fanno molto, e io continuerò a comportarmi da donna»1023). All’età di settant’anni, nel 1894, George Smith fu insignito di una laurea honoris causa dall’università di Oxford per aver pubblicato il Dictionary of National Biography – uno dei momenti di massimo orgoglio per il ragazzino che era stato espulso dalla scuola a soli quattordici anni. Morì nel 1901, milionario, nella storica villa di Park Lane che aveva eletto a sua residenza.
In queste vicende non rimaneva più nulla della Charlotte Brontë vivente – era diventata l’oggetto di interessi tra loro in competizione. Harriet Martineau la vide «ancora nell’ombra, che svanisce alla nostra vista»1024. Sarebbe potuta scomparire del tutto, se non fosse stato per altre tre persone dal carattere forte, rimaste tali e quali a come Charlotte le aveva conosciute, le cui parole e i cui ricordi non erano sbiaditi.
Mary Taylor non era una donna soggetta al cambiamento. Era abituata a dire la verità e ben attenta nell’adoperare le parole. I ricordi che mise per iscritto per la signora Gaskell terminano dove si accorge di oltrepassare il confine con idee o opinioni impubblicabili. Sottovoce1025, sottolinea il sacrificio di Charlotte alla «tirannia»1026 di quel «vecchio egoista», il fin troppo comune sacrificio di una figlia che sembrava non indignare nessuno. Mary aveva in comune con Charlotte i modi diretti tipici dello Yorkshire, ma in lei assumevano una valenza ideologica. Le sarebbe piaciuto che le donne avessero il fegato di «lamentarsi a gran voce»1027. Non riusciva a concepire i piaceri dell’immaginazione, dunque la sua pietà per la “povera Charlotte” si avvicinava a quella della signora Gaskell, pur avendo una motivazione opposta: la signora Gaskell compativa Charlotte per la sua appropriata, signorile debolezza; la compassione di Mary era quella di una femminista nei confronti di una vittima. C’era del vero in entrambi i punti di vista, ma ciascuno era a suo modo riduttivo. Charlotte fu di fatto una signora in senso vittoriano, ma fu anche forte nello spirito e nel tirare fuori la voce. Con suo padre fu compiacente, ma lo amò davvero e visse nel rispetto dei valori del dovere e dell’altruismo, che non avrebbe mai rigettato e che praticò in atteggiamento di sfida nei confronti della politica propugnata da Harriet Taylor Mill, che le sembrava senza cuore.
Dopo la morte della cugina, avvenuta nel 1852, a Mary le cose non andarono bene in Nuova Zelanda. Nel 1846, Charlotte aveva previsto che Mary sarebbe rimasta «in Nuova Zelanda fin tanto che avrà un lavoro serio da fare laggiù – ma non oltre»1028. Andò esattamente così. Mary non si attaccò molto al paese: si era fatta una cattiva opinione dei suoi abitanti. La nostalgia dei libri potrebbe sembrare uno strano motivo per tornare in Inghilterra, ma erano soprattutto quelli che Mary desiderava. Sempre più spesso preferiva rimanere stesa sul divano in compagnia di un buon libro piuttosto che passare il tempo con delle ragazze «ignoranti e di vedute ristrette»1029. Era troppo accorta per non sapere che il suo giro di conoscenze di Wellington non era peggiore di quello che si sarebbe potuta fare altrove, e aveva anche stretto qualche nuova amicizia, ma si sentiva sfiduciata. Alla lunga, divenne insofferente alla vita del XIX secolo in quella remota colonia, dove le notizie da casa arrivavano con mesi di ritardo. Nel 1860 tornò a Gomersal e con i suoi risparmi costruì una casa, High Royd, dove visse fino al 1893.
“Pag”, come Mary firmava le sue lettere a Charlotte, sembrerebbe per un verso scomparire insieme a quel carattere forte e sovversivo che aveva contraddistinto Charlotte in vita. Si rifiutava di parlare con gli entusiasti ammiratori dei Brontë. In quanto destinataria delle confidenze di Charlotte su Monsieur (in risposta, forse, all’onestà con cui lei l’aveva messa a parte della sua attrazione non corrisposta per Branwell), distrusse le lettere di Charlotte – tutte tranne una, in cui l’amica le raccontava della sua prima visita nell’ufficio di George Smith, avvenuta nell’estate del 1848. Il signor Nicholls, che non aveva mai visto Mary e non sapeva nulla del rapporto di reciproca confidenza che l’aveva legata a sua moglie, sobbalzò davanti alle parole di una donna che desiderava far andare il mondo per il verso giusto in molti aspetti, ed è probabile che abbia distrutto quasi tutte le lettere di “Pag” a Charlotte. In questo vuoto di testimonianze, ancora una volta siamo tenuti a soffermarci e a fare attenzione per poter “sentire” le loro voci perdute, per percepire l’onestà con cui esposero la reale condizione delle donne. “Pag”, o Mary, fu tra coloro che continuarono a vivere nel rispetto delle idee di Charlotte Brontë; le sue parole sopravvissute e giunte fino a noi sono scottanti – non fiamme d’eloquenza, ma cumuli di braci. Rimpianse la perdita delle lettere di Charlotte, ma visse mettendo in pratica le idee che in quegli scambi avevano condiviso. Entrambe avevano criticato l’obbligo all’inattività che svuotava l’esistenza delle donne. Quest’idea sopravvive nel romanzo di Mary, Miss Miles, or A Tale of Yorkshire Life Sixty Years Ago, iniziato in Nuova Zelanda negli anni Cinquanta dell’Ottocento, quando lì (Mary aveva detto con orgoglio a Charlotte) si assisteva a una vivace proliferazione di «dibattiti» e di «visioni originali della vita»1030. Solo nel 1890, quando Mary aveva superato i settant’anni, fu pubblicato il libro. Qui Dora, venticinquenne, descrive una vita molto simile a quella condotta da Caroline Helstone in Shirley: «Sto seduta da sola finché non mi sento prossima alla stupidità. So anche – cosa che ho sempre temuto – che è un destino comune. Le donne si perdono così, a volte. Il primo passo, ovviamente, è scomparire alla vista – nessuno sa più quel che ne è stato di loro»1031.
Mary aveva pensato che per la signora Gaskell sarebbe stato impossibile raccontare i fatti in modo veritiero, ma dovette ricredersi. Se altri avevano avvolto i ricordi nel silenzio, la signora Gaskell aveva offerto i propri al pubblico. Il suo resoconto era, come ritenne anche il signor Brontë, «pieno di verità e di vita»1032: il raro incontro tra una narratrice esperta, capace di commuovere, e un grande soggetto che aveva conosciuto di persona. Sentiamo Charlotte parlare e, attraverso gli occhi evocativi di Gaskell, la vediamo materializzarsi fisicamente davanti a noi con i suoi tratti insoliti, la sua timidezza dovuta alla concezione dell’epoca della bellezza femminile: una presenza modesta nella residenza di The Briery in Windermere nell’agosto 1859, un’esile figura vestita a lutto che parlava poco delle proprie perdite, ma che diceva cose interessanti e assennate con voce dolce ed esitante. E, ancora più importante, sentiamo citare dalle labbra della stessa Charlotte alcune fonti autobiografiche dei romanzi. In canonica, nel settembre 1853, mentre il signor Brontë fumava la sua pipa d’argilla in studio, la signora Gaskell sedeva di fronte al caminetto della sala da pranzo insieme a Charlotte: le sentì raccontare la storia della morte di Maria «proprio come quella di Helen Burns», e apprese che il carattere di Emily era servito da modello per quello di Shirley. Fu direttamente da Charlotte che la signora Gaskell riprese la visione di un’Emily «discendente dei titani, pronipote dei giganti che un tempo abitavano la terra».
La signora Gaskell intraprese un’opera coraggiosa scrivendo una biografia quando molti dei suoi protagonisti erano ancora vivi e vegeti. «Niente paura», la incoraggiò il signor Brontë. Disse la verità su Carus Wilson, accusò la signora Robinson di aver giocato con Branwell e attaccò Lady Eastlake per aver tacciato Currer Bell di essere una donna inadatta alla compagnia del proprio sesso. La signora Robinson (nel frattempo rimasta vedova, e che a Londra si faceva chiamare Lady Scott) minacciò azioni legali, e gli amici di Carus Wilson scatenarono una furibonda protesta.
Così, negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione della Vita la signora Gaskell arrivò a rimpiangere di aver scritto la biografia. Ma in realtà riuscì a raggiungere l’obiettivo sperato, ovvero mettere in salvo la reputazione dell’amica. La reazione di Charles Kingsley fu un esempio dell’effetto che la Vita poteva suscitare in chi aveva un’opinione negativa di Currer Bell1033. Fu impaziente di scrivere alla signora Gaskell per raccontarle della conversione avvenuta: «Shirley mi aveva disgustato subito e avevo abbandonato quel libro e l’autrice, reputandola una persona volgare. Quanto mi sbagliavo!». Ora la considerava «di gran lunga superiore a me». La signora Gaskell aveva restituito l’immagine di «una donna valorosa resa perfetta dalle sofferenze»1034.
La signora Gaskell racconta una storia coerente, così come fa Samuel Johnson nel suo Vite dei più insigni poeti inglesi o T.S. Eliot nel suo libretto biografico su George Herbert. Tutti e tre comunicano una verità immaginaria, basata su una selezione di fatti, destinata a lunga vita. La selezione della signora Gaskell risaliva al triste resoconto che Charlotte aveva dato della propria vita nel suo periodo di massima sofferenza, la seconda metà del 1850 – quel prolungato momento di «dolore oscuro e costante»1035 che arriva subito dopo la prima fase del lutto, quando la morte appare come una liberazione. Ciò che Elizabeth Gaskell ascoltò quel giorno a Windermere, nell’estate del 1850, e poi nel corso della sua visita in canonica del settembre 1853, e ciò che decise di consegnare alla posterità, è una tragedia di letti di morte e pietre tombali. Il suo ritratto è offuscato dal fatto che frequentò Charlotte nei suoi anni più bui, dal 1850 al 1854, quando infine si sposò: «Potei sentire quanto sola e fuori dal mondo dovette essere, povera creatura»1036. Continuò a custodire quell’immagine nonostante Charlotte le avesse rivelato una verità diversa, parlandole della «libertà»1037 della solitudine, una confessione che aveva fatto anche al caporedattore della rivista «The Christian Remembrancer»: l’isolamento – aveva sostenuto – le era «più congeniale»1038 che la vita in società.
La versione della propria vita che Charlotte diede alla signora Gaskell non fu condizionata solo dal dolore e dalla solitudine che aveva provato in una particolare fase, ma anche da sensibili antenne che avevano captato gli iniziali dubbi di Gaskell circa la sua eleganza. Fu sempre impeccabilmente signorile con Elizabeth Gaskell, così come con i Kay-Shuttleworth, che avevano fatto incontrare le due scrittrici. Quando a The Briery si parlò del fatto che alcune autrici avevano oltrepassato la linea del pudore solitamente rispettata dagli uomini, Charlotte esclamò seria: «Spero che Dio mi tolga qualsiasi capacità di invenzione e di espressione piuttosto che rendermi incapace di giudicare ciò che è decente o è indecente dire»1039. La scrittrice di Haworth probabilmente lavorò per creare da subito questa impressione nella signora Gaskell; dopotutto, quando era ospite dei Kay-Shuttleworth, Charlotte era quanto mai repressa e a disagio. Il fatto che si confidasse con Elizabeth Gaskell nei ritagli di tempo del loro soggiorno appare rivelatorio – ma confidò solamente la rispettabile immagine di un lutto riservato, così come alla società londinese aveva offerto l’immagine altrettanto rispettabile di una tremante timidezza (un’immagine che, dopo la sua morte, Thackeray avrebbe enfatizzato con sentimentalismo nel suo “Last Sketch”: «Quella tremante manina non avrebbe più scritto nulla»1040; ma tale apparenza non faceva forse a pugni con la coraggiosa mano aperta che rivelava il disagio di Emma?). Charlotte mostrava alle persone solo quella parte di sé che desideravano vedere. Non era un atteggiamento necessariamente ipocrita; è una semplice realtà che compagnie diverse, in base ai loro gusti e alle loro convinzioni, portano allo scoperto diversi aspetti della nostra natura.
In tal modo, Charlotte smussò le punte satiriche che aveva espresso liberamente con le sorelle e con le amiche di vecchia data, e non consentì alla signora Gaskell di intravedere alcun segno dell’abbandono verbale che aveva sperimentato con Monsieur o nei duelli con Smith. Lo stesso Smith nascose il loro legame. Nonostante le ripetute pressioni da parte della signora Gaskell, non le concesse di vedere gran parte delle lettere che Charlotte gli aveva spedito. «Il loro contenuto è di natura squisitamente personale»1041, le disse. Nel settembre 1853, seduta davanti al caminetto della canonica, Gaskell confessò a Charlotte che Lucy Snowe non le piaceva. E cosa pensò Charlotte? Sebbene all’apparenza quella volta raccontò molto alla signora Gaskell (anche della corte che le faceva il signor Nicholls), il fatto che alla futura biografa non piacesse «quella persona, quella [...] “Lucy Snowe”» potrebbe averla scoraggiata dal fare ogni ulteriore riferimento alla passione. Questa compostezza si sposava bene con l’esigenza della signora Gaskell di insistere sul divario tra la raffinata autrice e le sue oscure eroine1042. Come Gaskell disse a George Smith, si augurava che la gente l’avrebbe «rispettata in quanto donna, distinguendola dai personaggi che aveva creato in quanto autrice»1043. La signora Gaskell, dunque, rivelò alcune delle fonti autobiografiche dei romanzi di Charlotte, ma ne occultò altre1044. Il manoscritto della Vita mostra come la biografa, nella correzione delle bozze, cancellò alcune lettere, ritoccando il carattere di Charlotte in modo da eliminare ciò che era spontaneo e naturale, in particolare il suo spirito umoristico e caustico1045. Quando la signora Gaskell percepiva una vena satirica, le appariva vagamente sgradevole – un indizio del fatto che a Charlotte erano negati i piaceri del matrimonio e dunque non aveva ancora raggiunto quella serenità che rappresentava l’ideale della moglie vittoriana.
La signora Gaskell desiderava celare ogni traccia di una natura non perfettamente a modo. Disse a George Smith di voler assolutamente citare l’apprezzamento di Charlotte per il sostegno che le aveva dato sua madre negli incontri con i letterati londinesi, perché era «un tratto di femminilità (opposto alla comune opinione che lei fosse una donna “forte ed emancipata”) che mi piacerebbe portare alla luce»1046. Sebbene la signora Gaskell avesse incontrato Monsieur Heger e letto le lettere in suo possesso, ritenne che Charlotte, in ragione del fatto che aveva rifiutato il reverendo Nussey e il signor Taylor, non fosse «molto suscettibile» all’«amore»1047, a differenza delle sue eroine. Quel «molto» assicura all’affermazione la sua innegabile verità, ma è anche fuorviante in una biografia in cui la passione per Monsieur Heger è omessa. Con questo non voglio criticare la Vita: ogni riferimento alla passione avrebbe avuto esiti disastrosi all’epoca (Ellen cercò di coprire il trasporto di Charlotte per Monsieur Heger dichiarando che la ragione per cui aveva sofferto tanto a Bruxelles e dopo il suo ritorno era che il signor Brontë e il suo curato, Malone, «erano diventati intemperanti»1048 in assenza di Charlotte; sempre più indispettita nei confronti del signor Brontë, Ellen dipinse una nobile figlia che placava il padre). La signora Gaskell minimizzò anche l’anelito all’indipendenza di Charlotte e la sua denuncia dell’ipocrisia religiosa. Era preoccupata per la pubblicazione di Il professore1049 (rivisto dal signor Nicholls), che seguì a stretto giro quella della sua Vita, nel giugno 1857: aveva trovato il romanzo «deturpato da ulteriori volgarità e dissacrazioni, poiché i testi delle Scritture vi sono citati in modo più sgradevole che in ogni sua altra opera»1050. Il signor Nicholls, pensò, non aveva sufficientemente epurato il libro di quelle frasi che contraddicevano l’immagine di Charlotte da lei dipinta.
«Oh! Vorrei che il signor Nicholls fosse intervenuto di più!», scrisse a George Smith. «Perché, se potessi, non permetterei mai che una sola sillaba passibile d’esser definita volgare venisse nuovamente associata al suo nome»1051.
Sebbene la visione della Gaskell fosse dunque limitata, entro tali limiti fu accurata, e nella misura in cui si presentava come il ricordo di una donna messo nero su bianco da un’altra donna, con la sua enfasi sulla vita privata, gli aspetti domestici, l’oscurità, piuttosto che i traguardi pubblici, è stata persino definita «sovversiva»1052. Come disse la signora Oliphant, il suo appello in nome di «ogni donna scomparsa alla vista»1053 rappresentava una novità. In questo senso, la signora Gaskell restituisce una viva immagine del modo in cui Charlotte apparì a molti simpatizzanti della sua epoca: modesta, raffinata, scrupolosa, coscienziosa e silenziosamente sofferente.
I ricordi più profondi e vividi arrivarono da Monsieur Heger, che il 7 settembre 1863 interruppe la sua impegnata e oscura vita di insegnante per far sentire la propria voce. Quell’anno Ellen Nussey gli aveva scritto per chiedergli se fosse interessato a tradurre in lingua francese cinquecento delle lettere di Charlotte per un’eventuale pubblicazione. Egli prese la parola per invocare con eloquenza il silenzio, e anche a distanza di tempo la sua argomentazione risulta persuasiva, poiché non era affatto animato dalle ansie possessive del signor Nicholls e sapeva quanto le lettere avessero significato per Charlotte. Tale opinione traeva fondamento, ovviamente, dall’intensità delle lettere che Charlotte gli aveva scritto in francese, che Monsieur possedeva ancora e che aveva mostrato in confidenza alla signora Gaskell a patto che non le pubblicasse. Il signor Heger, la cui moglie aveva frainteso le lettere di Charlotte e si era rifiutata di incontrare la signora Gaskell, comprese che solo il destinatario di quei messaggi poteva coglierne le sottili sfumature linguistiche – intraducibili, a suo avviso:
Quant à la traduction en français quelque soit le mérite du traducteur, il me parait que, de toutes les oeuvres litté́raires, ce sont les lettres qui perdent le plus à être traduites. Dans la correspondance intime, l’àpropos, la liberté de l’allure, l’allusion voilée, les demi-mots, même les charmantes negligences d’une forme toute spontanée donnent, aux moindres choses, une grâce, un charme intraduisibles.
Quanto alla traduzione in francese, a prescindere dai meriti del traduttore, mi sembra che, tra tutte le opere letterarie, siano proprio le lettere quelle che più perdono nel venir tradotte. Nelle corrispondenze intime, la replica, la libertà del discorso, le allusioni velate, le mezze parole, persino le intriganti negligenze d’una forma assolutamente spontanea conferiscono alle cose più semplici e umili una grazia, un fascino intraducibili.1054
Era convinto che scritti di una tale intimità, «où rien ne déguise le mouvement intime de sa pensée» [‘in cui nulla maschera il movimento intimo del pensiero’] non dovessero essere pubblicati, meno che mai tradotti. Quelle parole erano state dette «à voix baissée, à l’oreille de mon cur» [‘a bassa voce, all’orecchio del mio cuore’]. In questi termini Heger espresse la sua incapacità («mon impuissance») di fare quanto richiesto da Ellen: sarebbe stato come cercare di dipingere il volo di un uccello, o di trascrivere le note del suo canto.
Queste metafore suggeriscono che egli era stato in grado di comprendere Charlotte come lei desiderava essere intesa, attraverso il volo libero delle parole. E, nel corso della vita dell’autrice, era stata proprio la corrispondenza con Heger ad avvicinarla più che mai alle opere immaginative dell’arte. La risposta di Monsieur prova che egli ne era pienamente consapevole, e nessun’altra dichiarazione postuma avrebbe potuto risultare più gradita a Charlotte. Le vive parole dell’insegnante sembrano saltare fuori dalla pagina. A distanza di un secolo e mezzo, il soggiorno a Bruxelles non appare come un episodio qualunque nella tragedia della famiglia Brontë1055; fu di fatto per Charlotte un’incredibile fortuna che, tra le poche persone incontrate nella sua breve e segregata vita, si fosse imbattuta in quell’uomo capace di liberare la voce imprigionata dentro di lei. Il loro rapporto fu una fusione di passione e creatività, e non andrebbe visto in termini esclusivamente sessuali. A sorprendere non è tanto il fatto che Charlotte abbia reagito a quel modo all’incontro con Monsieur, ma che una persona come lui sia realmente esistita: un uomo che preparò la strada a quegli esperimenti amorosi tra insegnante e allieva che Charlotte avrebbe narrato nei suoi romanzi. «So cos’è l’amore», protestò con Harriet Martineau, e fu fermamente convinta che quanto aveva provato non dovesse subire alcuna repressione, né da parte del moralismo né dell’agenda politica femminista. Quello che aveva condiviso con il suo maître, la portata delle parole, fu centrale nella sua vita nascosta, nel cammino proibito che la condusse a sollevare la questione della passione.
L’indimenticabile amore per l’insegnante, lo smanioso desiderio di lettere e le parole scottanti furono parte della passione dell’autrice, non «qualcosa di volubile e superficiale»1056 (come Charlotte disse a Ellen), ma l’autentico fuoco. È facile contemplare questa vita come una serie di perdite – la perdita di Maria, la perdita, in Branwell, del compagno di scrittura, l’allontanamento di Monsieur, le morti di Emily e Anne, il venir meno dell’esuberante amicizia con George Smith –, eppure la perdita non spiega il fatto centrale dell’esistenza di Charlotte Brontë: la sua capacità di usare l’esperienza personale come materia d’arte. L’amore non corrisposto avrebbe potuto soverchiare un’altra persona; Charlotte lo tramutò nell’inammissibile desiderio di Frances per il suo professore, in quello di Jane per Rochester, di Caroline per Robert Moore, di Lucy Snowe per Graham Bretton. Con la loro intimità e il loro candore, queste storie stimolano i lettori alla riflessione, e sembrano farsi carico del peso delle loro vite. Questa forma di scambio, forse diversa per ogni generazione, è vitale per la sopravvivenza di un autore.
Gli ultimi ancora in vita che avevano conosciuto Charlotte di persona morirono tra gli anni Novanta dell’Ottocento e il primo decennio del XX secolo. Nel 1908, il figlio dell’artista George Richmond1057 riferì al genero di George Smith un’osservazione fatta da suo padre: forse che Charlotte aveva occhi luminosi e un portamento un po’ goffo? D’ora in avanti, i ricordi si fecero piuttosto vaghi, mentre la leggenda dei Brontë – la famiglia dannata nel suo romantico isolamento – cresceva e prosperava, attraendo migliaia di persone (in piena estate, fino a duemila al giorno) nella remota Haworth (frattanto dotata di un negozio di souvenir di Jane Eyre), il santuario letterario più visitato di tutta l’Inghilterra subito dopo Stratford-upon-Avon, di gran lunga più accessibile. Sì, perché Haworth rimane difficile da raggiungere. In un cupo e piovoso lunedì di febbraio ho dovuto cambiare più volte treno, con lunghe attese sulla banchina. Tuttora non esiste un comodo collegamento tra Keighley e Haworth (i Brontë erano soliti camminare per gli oltre sei chilometri che separano i due villaggi con qualsiasi condizione atmosferica). Il tassista si è lamentato dei turisti e dell’esca della leggenda Brontë: davvero ci crede?, voleva sapere.
In realtà, il museo della canonica è ben attento a scongiurare la leggenda e “l’erica viola” così come a collocare la famiglia nel contesto industriale del West Yorkshire. E vale la pena fare un lungo viaggio per ammirare il vestito di mussola a motivo cachemire indossato da Charlotte nei primi anni Cinquanta dell’Ottocento (più grazioso dei sobri abiti delle sue eroine), la sua scatola di colori poggiata sul tavolo della sala da pranzo e la stretta stanzetta in cui Emily concepì i suoi versi. La canonica conserva inoltre una superba collezione di libri e manoscritti. È in questi, ovviamente, che Charlotte Brontë sopravvive: nei frammenti di Roe Head, scarabocchiati su avanzi di carta, le sue scottanti parole ancora infiammano la pagina. Il legame con il suo confidente più intimo, che lei chiamava “Lettore”, vibra più forte che mai oggi che le donne si fanno avanti sulla scena pubblica. Etichette superate – romantica, ribelle femminista, spirito delle brughiere o figlia devota – sbiadiscono davanti alle pionieristiche promesse contenute nelle sue idee e nelle sue posizioni. I nostri punti di vista cambiano, e ormai più di un secolo ci divide dai vittoriani.
La strana passione di Charlotte Brontë disturbò i contemporanei. La chiamarono poco signorile poiché non potevano definirla. Nel 1852, l’anno in cui fu terminato Villette, Florence Nightingale notò che alle donne veniva detto che il sesso femminile era privo di passione. Osservò che «l’accumulo di energia nervosa» faceva credere alle donne ogni notte, quando si coricavano, «di essere sul punto di diventare matte» e le obbligava a «giacere a lungo nel letto al mattino per lasciarla evaporare e calmarsi»1058. Charlotte Brontë ha affrontato questa vita sepolta, dal suo primo scoppio a Roe Head fino alle strane “convulsioni” della studentessa modello ritratta nel suo ultimo frammento. Una vita che ribolliva, non vista, sotto la crosta della «cosa eminentemente artificiale»1059. Il passo coraggioso è stato la pubblicazione: l’impeto irrefrenabile che esce allo scoperto quando Jane dichiara – fa parlare – il suo amore per Rochester.
Il dar voce era la questione fondamentale sia per l’autrice che per l’eroina, il parlare come necessario complemento al bruciare di passione: l’“io” che esce fuori con implacabile fame di verità in Jane Eyre e l’“io” costretto inesorabilmente a rimanere in superficie, nel suo rifugio congelato, in Villette. Sull’altra sponda dell’Atlantico, Emily Dickinson, che leggeva ogni cosa pubblicata dalle Brontë1060, diede voce al suo “io”1061 attraverso cristalline rivelazioni, parlando non tanto ai suoi contemporanei quanto ai futuri lettori, che avrebbero saputo intenderla meglio: «Palpai la mia vita con entrambe le mani / per vedere se ci fosse», scrisse. «La mia vita era un fucile carico».
Riassumendo la storia della reticenza dettata dal decoro del XIX secolo, Henry James non mise Charlotte Brontë nel suo elenco di nomi venerati:
La signorina Austen e Sir Walter Scott, Dickens e Thackeray, Hawthorne e George Eliot, hanno tutti ritratto dei giovani innamorati, ma nessuno di loro ha [...] descritto nulla che possa essere chiamato passione – mettendola in moto davanti ai nostri occhi e mostrandocela all’opera nelle sue varie fasi [...]. La signorina Austen, Walter Scott e Dickens sembrerebbero aver omesso il sentimento erotico nel suo insieme, e George Eliot parrebbe averlo trattato con singolare austerità. Visti in questa luce, i voluminosi e altrimenti completi romanzi Middlemarch e Daniel Deronda appaiono stranamente privi d’amore. Ai lettori stranieri, probabilmente, sembreranno come ampie, fredde stanze spaziose [...] la cui sobria moquette viene percorsa invano alla ricerca del fuoco di un caminetto.1062
In Jane Eyre il fuoco non manca. La passione, insiste Villette, esiste e deve essere definita in termini che la riscattino dal voyeurismo spacciato per arte. Il dipinto Cleopatra (ispirato da Une Almée1063 di Defiefve, che Charlotte aveva visto a Bruxelles) appartiene alla tradizione dell’arte secolare che vede nel corpo delle donne solo una superficie di carne invitante. Il voyeurismo gioca la sua parte anche in un quadro che ritrae il mercato del matrimonio di Babilonia, dipinto nel 1875 da Edward Long, uno dei pittori acclamati dell’età vittoriana1064. Il fatto che alcune parti di Jane Eyre continuarono a essere considerate poco adatte alle ragazze fino al decennio del 18801065 mentre la velata pornografia di Long era accolta come assolutamente appropriata suggerisce il livello di confusione che esisteva all’epoca attorno alla questione della passione.
Il soggetto del dipinto Il mercato del matrimonio di Babilonia era tratto da The History of Herodotus (1870) di George C. Swayne, che descrive il costume babilonese di vendere all’asta le giovani in un ordine dettato dal loro aspetto. L’artista mostra dodici ragazze, disposte in una scala che va dalla più bella alla più brutta, in attesa di essere battute all’asta. Solo il titolo, che rassicura circa il fatto che gli acquirenti siano interessati al matrimonio e non alla prostituzione, conferisce al quadro una parvenza di rispettabilità. L’allusione pornografica giocò un ovvio ruolo nel successo del dipinto, sebbene molti critici d’arte si siano soffermati sul “grande trionfo tecnico” raggiunto nella resa dei gioielli delle ragazze (le recensioni sui giornali del 1875 furono senza eccezione entusiastiche). Ogni donna viene esibita sul palco e spogliata a turno per essere esaminata: le donne in primo piano, in attesa del loro momento, assecondano la fantasia dell’osservatore con atteggiamento inspiegabilmente compiacente. Le prime sono mostrate come silenziose e soddisfatte di sé; le ultime, più brutte, sono loquaci – la chiacchiera è un elemento di disturbo. Nessuna ha carattere nel senso di Jane Eyre o Lucy Snowe: queste ragazze non possono essere conosciute così come Rochester e Paul Emanuel conoscono le donne.
Virginia Woolf dipinse una scena simile a quella del mercato rievocando le donne della Londra edoardiana che sfilavano ai balli di società a cui lei e la sorella Vanessa erano obbligate a partecipare. Sottolinea l’inconoscibilità delle donne delle classi agiate, ammantate di un compiacente artificio: «Il campanello della cena, che suona le otto, le richiama all’esistenza»1066. Pure lei scivolava dietro una tenda per sfuggire alla vergogna di essere selezionata, o di non esserlo (perché quasi nessuno le chiedeva di ballare), e lì riparata leggeva Tennyson.
Questo tipo di invisibilità è vicina a quella della «regione sconosciuta» esplorata dal diario, dalle lettere e dai romanzi di Charlotte Brontë: uno spazio potenziale appostato nell’ombra, in cui si cammina – per necessità – nascoste, di cui si può parlare solo da dietro il velo di “Currer Bell”. Jane, che scruta l’orizzonte dal tetto di Thornfield, e Lucy, che medita nel vialetto proibito, inaugurano una nuova topografia della mente, uno spazio opposto a quello lineare dell’azione. A pochi anni dalla morte di Charlotte, Emily Dickinson avrebbe dato vita a uno spazio alternativo ancor più rivoluzionario in poesie che letteralmente distanziano le parole creando tra loro interstizi, mentre l’«Esistenza»1067 stessa irrompeva tra le maglie della routine. Di notte Dickinson, come le Brontë, prendeva possesso di quello spazio tutto per sé. Qualcosa di questa regione è rivelato in Giselle, un balletto degli anni Quaranta dell’Ottocento. Nel secondo atto, un principe che ha fatalmente giocato con una contadina si avventura in una foresta oscura, lontano dal suo ambiente. Lì scopre le Willi, donne sepolte le cui passioni sono state negate. La loro è un’esistenza in ombra, notturna, che si dilegua al mattino, inconsistente, eppure invincibile. Di giorno, Giselle non era stata per il principe altro che una suddita a sua disposizione. Di notte, ha il potere di farlo danzare fino alla morte, ma rimane emotivamente legata a lui e si divide in un’inedita vita scissa tra due mondi. Rifiuta la modalità diurna della resa superficiale; ma rifiuta anche la disumana freddezza della furia vendicativa delle Willi. Perché le Willi mostrano il terribile rovescio della passione, quello che Charlotte Brontë aveva temuto per tutta la vita: l’effetto raggelante di un’ostinata purezza, l’agghiacciante ideologia di una vita automatizzata.
Come Giselle, che deve esistere tra l’inautentico mondo diurno della passione tradita e l’occulto mondo lunare della rabbia distruttiva, tra momenti di furioso abbandono e il formalismo di uno sterile decoro, anche Jane Eyre si ricava un proprio spazio tra le opposte tirannie della licenziosità sfrenata e della frigida costrizione. Queste polarità derivavano in via diretta da Cime tempestose e potrebbero rappresentare, al livello più profondo, il legame immaginativo che strinse Charlotte a sua sorella Emily, la cui eroina, Catherine Earnshaw, esiste tra due uomini impossibili e tra due case: l’anarchica Heights e la monotona Grange, dove regna un mortifero ordine. Catherine, priva di una propria casa, esiste solo nel suo incessante fare la spola tra le residenze dei due uomini. Costoro le rimproverano di non adeguarsi alle possibilità date: Heathcliff condanna il suo tradimento della loro selvaggia affinità; Edgar, il marito, è costernato per la sua natura ribelle, che non si addice a una moglie. In modi diversi, la vita fantasmatica di Giselle, la suora seppellita e Catherine mostrano la scelta impossibile che era posta alle donne, che si vedevano negata una piena esistenza corporea.
La salvezza di Lucy Snowe sta nel ricavarsi uno spazio tra la sterile vacuità della scuola e «l’oceano» dell’esaurimento mentale, quando si rifugia in una «caverna marina»1068. Questa è una stanzetta a casa dei Bretton, bianca e verde pallido. Lì, in quella «casa sottomarina», dà forma a una nuova esistenza, tra la costa e i marosi, tra l’artificio della sicurezza diurna e l’incubo distruttivo. Lucy pensa che lo specchio della sua stanza «avrebbe potuto riflettere una sirena» – una sirena più sensibile di quella di Hans Christian Andersen, che oscilla pateticamente tra le profondità e le rive dell’ordine sociale, tra un’identità sottomarina, con la strana coda di pesce e l’innaturale figura dotata di gambe che deve assumere per soddisfare il bisogno di amore sessuale; tra l’amore incomunicabile – la lingua tagliata – e la finale dissoluzione nella schiuma marina. La caverna rende possibile la sopravvivenza di Lucy, quieta in superficie, dove si posa lo sguardo pubblico, eppure abbastanza vicina a «una parte della mia esistenza» che la malattia le aveva rivelato come una «regione sconosciuta»1069.
Charlotte Brontë attrae il lettore in questa regione inesplorata, analoga alla regione immaginaria che lei e le sorelle avevano condiviso, percorrendola nell’oscurità della sala da pranzo quando tutti gli altri abitanti della canonica si ritiravano a dormire; quello stesso spazio che Charlotte continuò a percorrere notte dopo notte, seguendo le orme fantasmatiche di Anne ed Emily – come scoprì la signora Gaskell durante la sua visita in canonica, quando senti dalla stanza da letto il rumore dei suoi passi. Il lettore è attirato in questo rifugio dove regna la libertà di esistere e di parlare, un luogo alternativo alla società, dotato di proprie leggi e propri modi di essere. È curioso notare quanto questo spazio alternativo sia presente nelle narrazioni realiste del XIX secolo, come Villette, “Il matrimonio di Mr. Gilfil”, Il mulino sulla Floss, Middlemarch e Ritratto di signora, in cui le donne cercano a fatica di comportarsi in modo conforme alle norme sociali che hanno interiorizzato. Sembrerebbe che proprio quando la società esercita sulle donne una forte pressione, dalla loro esistenza si distacchi una vita indefinibile e ombrosa che prende un corso autonomo. Questo dramma della resistenza lascia apparire un essere ancora privo di forma. Quando Charlotte Brontë parla di carattere “crescente”, il participio presente non è casuale. Intravediamo per la prima volta questo carattere in Elizabeth Hastings, attraverso gli occhi di suo fratello, così come l’identità di scrittrice di Charlotte era inizialmente emersa attraverso il legame con il fratello Branwell. Da dietro una finestra, Henry Hastings osserva sua sorella entrare e uscire da un cono d’ombra: «Una figura avanzò verso la finestra e tornò indietro perdendosi quasi nell’oscurità». Ancora una volta, Charlotte Brontë ci invita a scrutare nell’ombra: a vedere la signorina Hall illuminata dalla flebile luce di una candela nel dormitorio deserto; a osservare Jane Eyre nell’angolo più scuro del salotto di Rochester; a intravedere Lucy Snowe mentre si allontana nel vialetto proibito per incontrare il fantasma del suo io sepolto; a vedere in Emma una ragazza sonnambula incapace di dirci chi sia.
In quanto lettori, entriamo anche nello spazio aperto dalla tensione del rimando1070. Charlotte Brontë esplorò la passione da un punto di vista inedito, non quello della conquista o del possesso, bensì quello dello svelamento di un carattere il cui mistero è tenuto in vita dalla posticipazione. Oltre i limiti dei ruoli stantii, si apre «un’immensa falda d’ombra»1071: passione in quanto autenticità, logica, acume morale e potere verbale.
Nell’ultimo capitolo di Villette, le lettere che si scambiano gli amanti sono un focolaio di passione in crescita. Ma poi, quando il corpo dell’amato sembra disperso, la narrazione di Lucy si arresta: «È stato detto abbastanza»1072, un gesto conclusivo che, ristabilendo la privacy1073, assicura la prosecuzione di quell’amore nell’immaginazione del lettore. C’è, in questo finale aperto, un trasferirsi di autrice ed eroina in un luogo non visto oltre il testo, che le fa entrare in comunione con il lettore. Così il desiderio può circolare negli spazi tra le persone e nei vuoti lasciati dalla loro assenza. Charlotte Brontë raggiunge l’apice del suo genio quando suggerisce che la passione può trovare una forma alternativa d’espressione nell’atto di scrivere, che mantiene il desiderio eternamente vivo, in attesa di essere soddisfatto.
All’esterno, Charlotte Brontë mantenne la facciata di vittoriana modello. A Londra, prese parte alla festa di Thackeray con aria grave e riservata; alla residenza di The Briery con i Kay-Shuttleworth e la signora Gaskell, disse che Dio avrebbe fatto bene a privarla delle sue doti se non fosse stata in grado di riconoscere ciò che era giusto e appropriato: ovunque Charlotte affiorò pubblicamente in superficie, apparve docile e mite. Ma con le sorelle e le amiche di gioventù fu fiera, capace di dire la verità, eloquente. Uno spazio in cui poter esprimere questo carattere “domestico” fu cruciale per la sua scrittura come per quella di Anne. Per Emily la questione semplicemente non si pose. Emily esemplificò nella sua forma più pura il detto di Samuel Johnson secondo cui «il compito della poesia è descrivere la Natura e la Passione, che sono sempre le stesse»1074. Per lei, era impossibile simulare l’adesione alle norme di condotta pubblica. Dopo il 1842, l’anno trascorso a Bruxelles, dove aveva tenuto Charlotte sempre avvinghiata al suo fianco, non si allontanò più dalla canonica. Nel suo cammino verso l’“infinito”, schivò il mondo con fiero disprezzo. Le cose furono più dure per Charlotte e Anne, che intrattennero un certo rapporto col mondo. Riuscirono a farcela solo promettendosi di non rivelare mai ciò che si dicevano ogni notte mentre camminavano attorno al tavolo. Tali conversazioni erano nascoste persino a papà, che non aveva alcuna idea dei sogni, delle ambizioni e dei rancori che si rimestavano in quella stretta stanza.
Ciò che fu decisivo, in queste vite, perlopiù non ebbe a che vedere con gli eventi esterni; fu custodito in segreto nei pensieri, come il rifiuto di Charlotte dell’idea che per garantire la salvezza dell’anima andassero negati alcuni degli aspetti più naturali della vita: la tenacia della passione, il desiderio di parole, il dispiegarsi del carattere. A un certo punto, a noi ignoto, concepì una nuova vita dello spirito in grado di abbracciare la natura: il desiderio naturale, l’espressività naturale. Nulla fu più «buio»1075, per lei, dell’innaturale morte di Emily, una riproposizione di quella di Maria. Se Maria si era sottomessa con santa rassegnazione ai supplizi che le erano stati inflitti da bambina, Emily, una donna adulta, alta e vigorosa, sembrò invocare la morte a sé, conducendo il proprio corpo verso la fine. Durante la sua breve malattia, non volle parlare delle proprie sofferenze alle sorelle, che, ancora una volta, non poterono far altro che starsene a guardare in un impotente silenzio. Contro questo modello, Charlotte ne ideò un altro che non opponeva il corpo allo spirito. La vita pulsava con vigore nella sua piccola figura, tanto che proprio lei, «la più debole e gracile» dei figli Brontë, fu infine l’unica sopravvissuta. A volte, l’unica consolazione per quelle esistenze brevi e crudeli sembrò provenire da una fede che negava la vita, ma la sopravvivenza di Lucy Snowe fu la risposta matura di Charlotte alle morti delle sorelle: la natura, non la sublimità, la natura disciplinata e infusa di uno spirito temerario.
Il suo aspetto esteriore disarmò i contemporanei, avvezzi al costume dell’epoca: i piccoli guanti a manopola, il nastro di seta marrone al posto della coroncina con treccia, le sue modeste, sempre cortesi risposte. L’integrità della sua vita privata le consentì di replicare obbediente alla sentenza di Southey, per il quale la letteratura non era un’attività per donne. A quei tempi, non si poté permettere di sollevare il velo – nemmeno per un attimo, nemmeno con la signora Gaskell. A quest’ultima disse che Southey era stato «gentile e ammirevole, un po’ severo, ma mi ha fatto bene»1076. Era un bene affrontare la realtà del sistema sociale con desolata sopportazione? O forse anche lei, dopotutto, era una rispettabile vittoriana che accettava il suo posto in società con tutta l’umiltà di una Esther Summerson o di una piccola Dorrit, la cui prima preoccupazione era quella di prendersi cura del padre-guardiano?
Quando una volta Branwell aveva appiccato il fuoco nella propria stanza, il primo pensiero di Anne era stato quello di non far sapere nulla al padre per non turbarlo. Senza fare troppo rumore, aveva chiamato Emily, che era forte abbastanza per sollevare in braccio il loro stupefatto fratello. La vita in canonica ruotava attorno alle esigenze del signor Brontë e Charlotte, che interpretò il ruolo principale e più longevo in questo gioco delle parti, credette fosse giusto così. L’altruismo riceveva una sanzione assoluta da parte della religione. Non si trattava di semplice dovere; derivava dalla pietà filiale e dall’autentico interessamento per la salute e la quiete del padre. Quest’autocontrollo fu un risultato di prim’ordine: integrò ai suoi talenti la generosità di chi pensa agli altri. In questo senso, Charlotte Brontë rimane una portavoce dell’anima, oltre che una portavoce delle donne. Si potrebbe dire che conferì un’anima alla Causa che di lì a poco avrebbe preso forma. Quest’anima e le sue battaglie per preservarsi incolume dalle distorsioni dell’eccesso – la rabbia, la passione, l’obbedienza – plasmano l’affascinante figura di Jane Eyre: una pellegrina alle prese con l’arduo cammino tra l’audacia e l’altruismo. Nel fonderli assieme, Charlotte Brontë formò il proprio carattere crescente.
Fu una donna che camminò invisibile. La sua vita fu segnata dai legami che strinse con le persone a cui rivelò la propria natura, le sorelle e le amiche; ma rimase segnata, anche, dagli uomini che non furono in grado di sostenere il suo emergere. Constantin Heger e George Smith non la fecero soffrire perché furono incapaci di conoscerla, ma a causa delle loro promesse a metà: la invitarono a emergere in modo tanto allettante quanto parziale, e si allontanarono appena lei modulò delle note che non corrispondevano alla loro idea di decoro. Solo nei romanzi emerse pienamente; solo lì convocò uomini abbastanza avventurosi da dare il loro assenso all’emergere di una donna futura.
Cosa sarebbe diventata quella donna rimane in gestazione: la sua energia e le sue passioni hanno compiuto un inesorabile balzo in avanti grazie alle opere di Charlotte Brontë. Qual è la natura delle donne? È la soverchiante questione che ci ha lasciato in eredità, e ogni risposta resta, oggi come ieri, incerta – per alcuni avvolta da cupe ombre, per altri immersa in una promettente oscurità. Fermiamoci un attimo, fermiamoci ancora: come deve essere definita la vita di una donna? Questa domanda echeggia oltre la sua epoca, e oltre la nostra.
984 Citato in Winnifrith, The Brontës and Their Background, p. 119.
985 Recensione dell’aprile 1849, «Fraser’s Magazine», ripubblicata in The Brontës: The Critical Heritage, p. 271.
986 Life, p. 400; trad. it. Elizabeth Gaskell, La vita di Charlotte Brontë, Milano, La Tartaruga, p. 517.
987 “The Choice”, Collected Poems of W.B. Yeats, Londra, Macmillan, 1958, p. 278; trad. it. “La scelta”, in William Butler Yeats, L’opera poetica, Milano, Mondadori, 2005, p. 719.
988 “A General Introduction for my Work”, 1937, in William Butler Yeats, Selected Criticism, a cura di A. Norman Jeffares, Londra, Macmillan, 1964, p. 255.
989 Quarant’anni più tardi, Henry James avrebbe rifiutato il lieto fine in “The Art of Fiction” (1884), in Henry James, Essays on Literature, American Writers, English Writers, New York, Library of America, 1984, pp. 44-65; trad. it. in Henry James, L’arte del romanzo, Milano, Lerici, 1959.
990 George Eliot, Middlemarch, cap. XX; trad. it. in Middlemarch, Milano, Mondadori, 1995, p. 202.
991 ABN a GS, 1° dicembre 1856, Murray Archive.
992 CB alla signorina Wooler, 12 dicembre 1853, CBL, III, p. 213.
993 La signorina Woller a EN, LFC, iv, p. 228.
994 Winifred Gérin, Charlotte Brontë: The Evolution of Genius, Oxford University Press, 1967, condivide l’opinione di EG citando le lettere alla signorina Wooler come le migliori.
995 EG a GS, EGL, 322: p. 424.
996 Da When thou sleepest (1837), scritta quando CB era insegnante a Roe Head, CBP, pp. 207-208. Copiata da ABN e spedita a GS il 4 aprile 1861. Pubblicata nel «Cornhill Magazine» (agosto 1861), subito dopo la morte di PB; trad. it. Quando dormi cullata dalla notte in Anne, Charlotte, Emily Brontë, Poesie, Milano, Mondadori, 2004, pp. 398-401.
997 ABN a GS, 4 aprile 1861 e 25 giugno 1861. Murray Archive.
998 EN a EG, luglio 1856, LFC, iv, p. 204, e EN a Clement Shorter, aprile 1895, Brotherton.
999 EN a Clement Shorter, aprile 1895, Brotherton.
1000 Il numero consegnato a EG, Jenny Uglow, Elizabeth Gaskell: A Habit of Stories, Londra, Faber, 1993, p. 395.
1001 ABN a EN, 24 luglio 1855, Brotherton. LFC, iv, p. 191.
1002 ABN a GS, 3 dicembre 1856. Murray Archive.
1003 EG a GS, 6 dicembre 1856, EGL, 320: p. 422.
1004 EG a GS, 11 dicembre 1856, EGL, 322: p. 425.
1005 EN a Clement Shorter, aprile 1895, Brotherton.
1006 3 novembre 1876, Berg.
1007 EN a GS, 27 febbraio 1869, Brotherton. LFC, iv, p. 256.
1008 EN la conservò fino al 31 gennaio 1896. La ciocca fu intrecciata nell’ottobre 1898. Ora è in BL. Egerton MS. 3268B.
1009 EN a Thomas Wise, 18 novembre 1892, Brotherton. In una lettera di EN a EG, 26 luglio 1855, LFC, iv, p. 193, EN dice: «Ho distrutto solo una piccola parte della corrispondenza». Poiché questa dichiarazione è stata fatta in prossimità dell’evento, suppongo che sia più attendibile di quanto disse in seguito a Clement Shorter, nell’aprile del 1895, ovvero che ne aveva distrutta «una gran parte».
1010 Le lettere olografe di EN indirizzate a Sir Wemyss Reid sono in Berg.
1011 Sulle contraffazioni di Wise vedi Richard D. Altick in The Scholar Adventurers, New York, 1950, pp. 37-64, e anche “T. J. Wise and the Brontës” in Winnifrith, op. cit., appendice A, pp. 195-201. Uno degli espedienti di Wise fu quello di fare false promesse a ABN ed EN, dicendo loro che le lettere di CB sarebbero andate al South Kensington Museum. Vedi supra, cap. 3, il suggerimento di Melodie Monahan che potrebbe esser stato Thomas Wise a separare i fogli di Ashworth così da poter effettuare due vendite invece che una.
1012 CB a EN, 20 ottobre, 31 ottobre, 7 novembre 1854, CBL, III, p. 295, p. 296. Vedi anche pp. 298-299.
1013 ABN mandò a GS la trascrizione delle poesie di CB e EB per farle pubblicare, come ricordato sopra.
1014 EN a GS, 19 gennaio 1869. Murray Archive.
1015 Inizialmente sollevò la questione con GS attorno al 1860 e ottenne una risposta, alla fine, attraverso Clement Shorter tre decenni più tardi. ABN a Shorter, 26 aprile 1895, Brotherton.
1016 ABN a Shorter, 26 aprile 1895, Brotherton.
1017 Vedi supra cap. 5.
1018 ABN a Shorter, 18 giugno 1895, Brotherton.
1019 Carte di EN, Brotherton. Le lettere di EN a GS sono anche nell’archivio Murray.
1020 Le lettere di GS a EN si trovano tra le carte di EN, Brotherton.
1021 GSR, I, cap. 13, e II, cap. 24. I dettagli si trovano in Jennifer Glynn, Prince of Publishers: A Biography of George Smith, Londra, Allison & Busby, 1986.
1022 GSR, II, cap. 24.
1023 PB a EG, 27 agosto 1855, LFC, iv, pp. 194-195.
1024 HM, necrologio per CB, «Daily News» (aprile 1855).
1025 In italiano nel testo, N.d.T.
1026 MT a EN, 19 aprile 1856, Berg. LFC, iv, pp. 198-200.
1027 Ibid.
1028 CB a EN, 13 settembre 1846, da Manchester, mentre PB veniva operato. CBL, I, p. 497.
1029 MT a EN, 4-8 gennaio 1857. Berg. Stevens, MT, p. 131.
1030 MT a CB, aprile 1852, LFC, III, p. 329.
1031 Miss Miles, III. Questo significativo passaggio è stato citato da Rebecca Fraser, Charlotte Brontë, Londra, Methuen, 1988 pp. 174-175.
1032 PB a EG, 2 aprile 1857, Murray Archive. LFC, iv, p. 221.
1033 Un pratico sommario delle recensioni ostili si trova nel capitolo sul moralismo dei recensori in Winnifrith, op. cit.
1034 Kingsley a EB, 14 maggio 1857, LFC, iv, pp. 222-223.
1035 A EN, 11 ottobre 1854, CBL, iii, p. 29.
1036 EG a Tottie Fox, 20 dicembre 1852, LFC, iv, p. 31.
1037 CB a EG, 1° giugno 1853, CBL, iii, p. 172.
1038 18 luglio 1853, CBL, iii, p. 187.
1039 Life, p. 374; trad. it. p. 517.
1040 WMT, “The Last Sketch”, nel primo numero del «Cornhill Magazine», aprile 1860. ABN preparò una bella copia di Emma per la pubblicazione.
1041 EG a EN, 3 Nov. 1855, EGL, 271a: p. 874.
1042 Jane Miller, Women Writing About Men, Londra, Virago, 1986, p. 99.
1043 EG a GS, EGL, pp. 347-348, citata da Uglow, op. cit., p. 391.
1044 EG a un amico 1853, LFC, iv, 90.
1045 Uglow, op. cit., p. 403. Il manoscritto si trovava nella biblioteca della John Rylands University, Manchester.
1046 EG a GS, EGL, p. 326: p. 430.
1047 Life, p. 337; trad. it. cit., p. 430.
1048 Un biglietto senza destinatario, probabilmente indirizzato a EG mentre stava scrivendo la Vita. Murray Archive.
1049 Vedi l’introduzione di Herbert Rosengarten a Il professore.
1050 EG a Emily Shaen, 7 e 8 settembre 1856, EGL, p. 410.
1051 EG a GS, 2 ottobre 1856, EGL, p. 417.
1052 Quest’osservazione assai sottile è di Uglow, op. cit., p. 391.
1053 Citata ibid.
1054 CH a EN, LFC, iv, pp. 247-251.
1055 Gérin, op. cit., p. 313, parla del periodo a Bruxelles come di «un’infelice avventura» di CB.
1056 CB a EN, 17 agosto 1851, CBL, II, p. 682.
1057 John Richmond, vedi supra cap. 7.
1058 Cassandra (ripubblicato Londra, Virago, 1979), pp. 407-408.
1059 J.S. Mill, vedi sopra cap. 2.
1060 I suoi libri sono nella Houghton Library, Harvard University.
1061 L’apertura del suo “io” è stata notata da Archibald MacLeish, citata in Cynthia Griffin Wolff, Emily Dickinson, Reading, Massachusetts, Addison-Wesley, 1988, p. 163 (nella sezione sulla voce della poetessa).
1062 “George Sand”, «Galaxy», luglio 1877, ripubblicato in Henry James, Literary Criticism: French Writers..., New York, Library of America, 1984, p. 724.
1063 Identificato da Gérin, op. cit., p. 209.
1064 Commissionato da un deputato per un alto prezzo, fu venduto nel 1882 da Christie’s per 6,615 £ (un asta record all’epoca) al signor Holloway. Il quadro è ora nella collezione Royal Holloway and Bedford New College, Egham, Surrey.
1065 Kathleen Tillotson adduce delle prove in Novels of the Eighteen-Forties, Oxford University Press, p. 57: «Tra i molti esempi ne scelgo uno: Elizabeth Malleson (signora di vedute progressiste e amica di George Eliot) lesse Jane Eyre a voce alta ai suoi figli negli anni Ottanta dell’Ottocento, “omettendo completamente la moglie matta di Rochester, e in modo così abile che non ci accorgemmo di alcuna incongruenza nella trama!”».
1066 “Thoughts Upon Social Success” (1903), A Passionate Apprentice, a cura di Mitchell A. Leaska, Londra, Hogarth; New York, Harcourt, 1990, pp. 167-169. Virginia Woolf era allora Virginia Stephen.
1067 I tie my Hat..., circa 1862, The Complete Poems of Emily Dickinson, 443, Londra, Faber, 1970; ristampa 1975, pp. 212-213; trad. it. Mi lego il cappello – ripiego lo scialle in Emily Dickinson, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1997, pp. 487-489.
1068 V, p. 245.
1069 Ivi, p. 244.
1070 Devo questo a Linda Brandon.
1071 La frase è tratta da Michel Foucault sul rapporto tra il desiderio e il discorso nell’“età classica”: The Order of Things: An Archeology of the Human Sciences, Londra, Tavistock Publications, 1970, p. 211; trad. it. in Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano, Rizzoli, 1967, p. 231.
1072 V, p. 633.
1073 Anche questa e la successiva riflessione le devo a Linda Brandon.
1074 The History of Rasselas (1759), cap. 10. (Rasselas è il libro letto da Helen Burns in Jane Eyre); trad. it. Storia di Rasselas principe di Abissinia, Palermo, Sellerio Editore, 1994.
1075 CB a EN, 19 dicembre 1848, scrivendo, prima che EB morisse, nello stesso giorno della sua morte, CBL, ii, 154; trad. it in Lettere, cit. p. 128: «Non ho mai vissuto momenti bui come questi».
1076 In una conversazione con EG, vedi cap. 3 sopra.