1. Lo spazio non visto

«Un’istitutrice privata non ha un’esistenza»1, scrisse Charlotte Brontë a sua sorella Emily nell’estate del 1839. La sua datrice di lavoro, la signora Sidgwick, la teneva tutte le sere, prima che si ritirasse nella sua camera da letto, al piano della servitù, a cucire da sola nella stanza adibita alle lezioni. Quando gentiluomini e gentildonne posavano accidentalmente lo sguardo su un’istitutrice, «pareva che fissassero il vuoto»2, disse la più giovane delle sue sorelle, Anne, che era stata licenziata lo stesso anno dagli Ingham di Blake Hall. Questo vuoto apparente fu lo spazio che le tre ragazze ricavarono per se stesse; lì, protetto dall’oscurità, il carattere crescente3 di Charlotte Brontë prese forma.

Una volta Charlotte parlò di vita «segreta». Negò ogni «relazione esterna»4 in riferimento a sé e alle sue due sorelle, tre ragazze del XIX secolo che fecero da insegnanti ai rampolli di famiglie della buona società e che condussero il resto delle loro brevi, riservate vite in una casa parrocchiale dello Yorkshire. Dietro quella «modesta facciata», però, si celava un «fuoco segreto» che «infiammava le vene» delle scrittrici. Nell’insieme, tra il 1846 e il 1853 le sorelle Brontë pubblicarono Poesie, Agnes Grey, Jane Eyre, Cime tempestose, Il segreto della signora in nero, Shirley e Villette. Eppure per gli estranei non erano «nulla»; e «meno di nulla», in quanto ragazze a servizio in case di campagna.

Per tutta la sua giovinezza, Charlotte cullò il sogno del riscatto sociale. Nel febbraio-marzo del 1839, quasi ventitreenne, due mesi prima di essere assunta per la prima volta come istitutrice, scrisse la storia di un’insegnante senza arte né parte, ma dotata di spirito. Elizabeth Hastings, questo è il suo nome, arriva in una metropoli immaginaria da una landa remota, non dissimile da quella in cui si trovava la casa di Charlotte, il villaggio di Haworth, nelle colline del West Yorkshire. La nuova insegnante si guadagna subito un certo riconoscimento per il suo «talento superiore»5. Veste «nel modo più ordinario possibile», eppure con «meticolosa cura e attenzione»; la sua modestia pubblica è l’ammirata controparte delle sue doti private. In breve tempo si ritrova in una vasta cerchia di amicizie e riceve inviti continuamente.

Questo sogno si scontrò amaramente con la realtà nel maggio 1839, quando Charlotte iniziò a lavorare come istitutrice a Stonegappe, una grande casa sul ciglio di una collina a circa sei chilometri da Skipton, nello Yorkshire. La sua datrice di lavoro le fece capire ben presto i confini del suo ruolo.

«Ho detto nella mia ultima lettera che la signora Sidgwick non mi conosceva», Charlotte scrisse a Emily l’8 giugno. «Ora inizio a capire che non intende conoscermi [...]. Pensavo che mi sarebbe piaciuto stare a contatto con la buona società, ma ne ho avuto abbastanza – è un compito penoso osservare e ascoltare»6.

Sopportare l’indifferenza era più duro che cucire i vestiti delle bambole che la signora Sidgwick continuava ad affibbiarle nelle ore serali. Per quanto Charlotte cercasse di essere compiacente – per quanto Anne tentasse a sua volta di esserlo, a Blake Hall –, nessuna delle due ottenne il benché minimo riconoscimento. Le loro doti intellettuali rimanevamo invisibili; i datori di lavoro non potevano vedere in loro nient’altro che il proprio riflesso. Più tardi, nel romanzo più famoso di Charlotte, Jane Eyre, due sorelle, Diana e Mary Rivers, devono lasciare la loro casa, la MoorHouse, per entrare in veste di istitutrici in famiglie «i cui membri, ricchi e altezzosi, le consideravano umili dipendenti e non conoscevano né cercavano i loro grandi meriti innati, ma apprezzavano soltanto le consuete capacità acquisite come apprezzavano l’abilità della cuoca o il buon gusto della cameriera personale»7. Anne Brontë sottolineò l’effetto mortificante dei sei anni trascorsi nelle solide dimore di commercianti e di piccoli aristocratici di campagna: «Dall’esterno non mi giungevano concetti nuovi o pensieri stimolanti, e se ne nascevano in me, venivano quasi sempre schiacciati all’istante, o destinati a languire e appassire, non riuscendo a veder la luce [...]. I grevi vapori della terra mi si addensavano intorno assediando il mio paradiso interiore»8.

Le sorelle furono costrette ad arrendersi e consegnare il loro «paradiso interiore» allo sguardo disinteressato dei datori di lavoro, o riuscirono a concepire strategie in grado di garantirne la sopravvivenza?

Lontana dal modello di femminilità corrente (che Jane Eyre esibisce nelle arie di Lady Ingram e di sua figlia – così chiamate, forse, in riferimento agli Ingham che disprezzarono Anne), Charlotte visse nell’ombra: il vestito scuro dell’istitutrice, l’alone delle palpebre chiuse9 mentre scriveva, la copertura di Currer Bell, lo pseudonimo con cui firmava i suoi libri. In quell’ombra era in agguato un carattere ancora sconosciuto che si apprestava a fare il suo ingresso nel mondo: la fonte di una nuova voce di verità che stava per esplodere nella società vittoriana dei tardi anni Quaranta dell’Ottocento.

La copertura silenziosa deve essere stata allo stesso tempo una sfida e una forma di protezione: non fu mai penetrata dalle mogli affettate che impartivano i loro ordini a Charlotte e il cui carattere insipido le veniva richiesto di imitare, sebbene in tono minore. Alcuni dei suoi contemporanei, Thackeray e Matthew Arnold, seppero cogliere la sua passione, ma ne furono inquietati: la loro reazione fu quella di inchiodarla al banale ruolo di zitella bisognosa di un uomo. Pochi la riconobbero per quello che era: la compagna di scuola indipendente, Mary Taylor; la confidente di una vita, Ellen Nussey; il professore esigente, Constantin Heger; la collega scrittrice, Elizabeth Gaskell; a tratti il giovane editore, George Smith; e sempre – il che è piuttosto sorprendente – il curato locale che Charlotte finì per sposare, Arthur Bell Nicholls.

Persino da costoro non poteva aspettarsi più di una comprensione limitata. Solo le sorelle videro il suo io in piena luce. Aveva lucidi capelli castani e occhi grigi espressivi10, attenti quando ascoltava e ardenti quando era invitata a parlare. Se si trovava tra i familiari, le parole risalivano facilmente fino alle sue labbra. Altri videro una figura diffidente, quasi infantile, che camminava con il passo un po’ goffo di chi ha avuto un precoce problema all’anca11. Il taglio della sua bocca era in parte sciupato dall’andamento irregolare degli incisivi, che avrebbe voluto sistemare grazie alla nuova tecnica anestetica dell’etere – cosa che non fece mai12. Si rassegnò al fatto che i suoi tratti «non rispondevano ad alcuna linea di regolarità – ma hanno manifestato un tale spirito d’indipendenza che sarebbe stato poco costruttivo trattenere»13. Le sopracciglia erano troppo spesse per essere belle, il naso non delicato, e la bocca e gli occhi sembravano ravvicinati, come se i lineamenti più pronunciati si fossero concentrati al centro del volto. Avere un viso dai tratti così forti, un aspetto in qualche modo singolare, non era considerato elegante dalle donne vittoriane, che cercavano di apparire uniformi come uova, levigate e ovali. Così Charlotte crebbe vergognandosi della propria faccia, e ideò un modo per contrastarla. Si presentava in pubblico come una persona fragile, modesta, il paradigma stesso della sobrietà.

Charlotte Brontë è stata vista di solito come una figura patetica che si aggira all’ombra tra le lapidi. Ma se cerchiamo di far coincidere la sua vita creativa interiore con quella esteriore, l’immagine cambia. Osserviamo una creatura sconosciuta: una donna vincente che si faceva gioco delle pose cimiteriali da genio maledetto di suo fratello; una determinata scrittrice professionista, impaziente, sarcastica, dotata di spirito, accesa da un fuoco inestinguibile. Questo carattere «domestico»14, che fa a pugni con la sua immagine pubblica, portò la sua vita lungo una faglia vulcanica molto al di sotto della crosta apparentemente piatta e grigia. L’“ombra” ricorre nella sua scrittura non come una debolezza, ma come una potenza che rimane celata alla vista.

Non si raggiunge mai la verità definitiva su una vita, e ogni epoca ne distilla una propria visione. La scrittrice della metà dell’Ottocento Elizabeth Gaskell, amica di Charlotte e sua prima biografa, parlò agli uomini e alle donne vittoriani di perdita e dolore, e questa è rimasta la sua immagine consolidata. Ma è arrivato il tempo di portare alla luce la forza che trasformò la perdita in conquista. È noto che Charlotte dovette affrontare in vita sofferenze straordinarie, ma a renderla diversa da molti altri chiamati a confrontarsi con la morte, la solitudine e l’amore non corrisposto furono i suoi atti creativi, quasi mai menzionati nelle sue lettere, perlopiù ligie al dovere. I dati sulla vita di Brontë sono così abbondanti che è facile cedere alla tentazione di confezionare una storia in apparenza senza cuciture, che nasconda i buchi e gli strappi su cui non abbiamo informazioni. Intendo indagare quei buchi con l’aiuto dei romanzi autobiografici di Charlotte Brontë; le loro protagoniste si rivolgono ad alcuni uomini in modo diretto, possibilità negata alle donne vittoriane che desideravano essere considerate signore. Allo stesso tempo, essi parlano ai lettori attraverso i secoli, rivelando una vita segreta, così come una rigogliosa energia creativa. Questa, dunque, è una biografia che della scrittrice insegue la scintilla nascente, i “libri” segreti e le parole audaci che non ebbero timore di raccontare l’esperienza di chi era solo e silenzioso, di chi viveva nell’ombra, tenuto in disparte dalla società: una nuova voce di appassionata comunione.

Dove ha inizio l’immortalità? Quali condizioni si sono contemporaneamente verificate per esaltare il suo talento? Nella sua strada di scrittrice, Charlotte Brontë incontrò di gran lunga più ostacoli del necessario – un padre formidabile i cui bisogni venivano prima di tutto, la depressione, il divieto alla scrittura femminile –, eppure continuò a scrivere fin quasi alla fine. A darle la forza per andare avanti furono la sempre viva capacità di appassionarsi, la costante ricerca della verità, il desiderio di prendere la parola. Dire che fu preoccupata, timorosa, restia è un po’ dire che fu come altre donne del 1840. Ma non era come loro. Si tirò indietro, a volte, ma fu anche eloquente, coraggiosa e molto determinata.

Davanti a me aleggia il miraggio di un documento da cui poter distillare la forma e il significato della sua vita, per cogliere l’esatta natura della sua determinazione. Che sia miraggio o realtà ha a che vedere con un vero problema, ovvero con il fatto che alcune parti essenziali della sua vita sono state oscurate da decisioni prese dopo la sua morte. Molte delle sue lettere, così come gran parte di quelle che lei ricevette dai suoi più intimi corrispondenti, sono andate perse: tutto ciò che rischiava di contrastare la crescita della leggenda Brontë è stato fatto sparire. Quello che di Charlotte Brontë resta ancora da scoprire riposa tra i fatti. Per completare la dettagliata ricerca di Winifred Gérin, seguita ammirevolmente da Rebecca Fraser, dobbiamo entrare in quello spazio non visto in cui le donne talentuose dell’epoca di Charlotte erano costrette a vivere.

Quando Charlotte aveva quattro anni, Emily due, e Anne quattro mesi, la famiglia Brontë arrivò nel villaggio di Haworth, sui monti Pennini, nel nord dell’Inghilterra. Era l’aprile 1820. Quattro pesanti carri risalirono traballanti il ripido corso di acciottolato che conduceva alla canonica, sopra la chiesa di San Michele e tutti gli Angeli, in cima al paese. Era una canonica georgiana squadrata, costruita in pietra grigia. Il reverendo Patrick Brontë, sua moglie Maria, che si stava riprendendo dall’ultimo parto, e i loro sei figli arrivarono (nelle parole del reverendo stesso) come stranieri in terra straniera. Patrick veniva dall’Irlanda; Maria dall’ultimo lembo di terra a sudovest dell’Inghilterra, Penzance, in Cornovaglia. Trasferendosi in questa parrocchia ai margini di un’arida brughiera, si erano lasciati alle spalle la più socievole comunità di Thornton, vicina alla città di Bradford, nello Yorkshire, dove avevano vissuto felicemente dal 1815 al 1820 e dove erano nati i loro ultimi quattro figli. Sembra che agli inizi, a Haworth, la famiglia Brontë sia rimasta per conto proprio, forse perché la signora Brontë era ancora troppo debole per darsi da fare in parrocchia, forse perché le antiche famiglie locali, gli Heaton e i Greenwood, in origine guardie reali ma già da tempo avvezze alla ricchezza e alla superiorità sociale, non accolsero il signor Brontë con attenzioni paragonabili a quelle riservategli a Thornton dalla pia signorina Firth. Per tutto il resto della loro vita, gli ultimi nati della famiglia Brontë avrebbero provato un certo senso di estraneità, motivo per cui ebbero difficoltà a lasciare il nucleo familiare.

Questo senso di estraneità non aveva affatto origini romantiche, piuttosto aveva a che fare con la repentina ascesa sociale del padre, che provocò in particolare in Charlotte la volontà di affermare la sua posizione di figlia di gentiluomo. Suo nonno, Hugh Brunty, era un contadino semianalfabeta, sebbene fosse una sorta di cantastorie, emigrato dal sud al nord dell’Irlanda. Sua nonna, Eleanor (o Eilís) McClory, proveniva da una famiglia cattolica. Patrick, nato nel giorno di San Patrizio del 1777, era il più grande dei dieci fratelli Brunty15. La famiglia sopravviveva grazie a una dieta di siero di latte e pane fatto con patate e farina d’avena, che Patrick riteneva essere la causa della dispepsia che lo afflisse per tutta la vita. Alto, con i capelli rossi e gli occhi di un celeste pallido, leggeva avidamente alla luce di una fiammella tremolante – una possibile causa della perdita della vista che lo colse con l’età. L’amore per Il viaggio del pellegrino, Paradiso perduto, Omero e altri classici greci e latini segnò la sua vita portandolo dalle origini contadine – apprendista di un fabbro all’età di dodici anni – a diventare maestro della scuola del suo villaggio all’età di sedici, dove cinque anni più tardi la sua devota perspicacia catturò l’attenzione del reverendo Tighe, un metodista e un amico di Wesley. Il signor Tighe era un allievo del Saint John’s College di Cambridge, e nel 1802 vi mandò anche Patrick a studiare gli scritti teologici e i classici. E lì, al Saint John’s, il contadino irlandese si ritrovò in compagnia di Lord Palmerston, che sarebbe diventato primo ministro: entrambi si esercitavano con le armi da fuoco in un corpo di civili volontari che si preparava all’eventualità di un’invasione oltre Manica delle truppe napoleoniche. Lì, inoltre, con l’aiuto di una rendita annuale di dieci sterline, sussidio voluto dal riformatore William Wilberforce, Patrick si inserì nella ristretta cerchia degli evangelicali (il partito rivoluzionario che intendeva rinnovare la chiesa ufficiale dal suo interno) che lo portò infine a ottenere una posizione di gentiluomo nella Chiesa anglicana. In due lettere del 180416, il celebre predicatore Henry Martyn diede la sua benedizione a Patrick, allora nel pieno della sua scalata sociale:

Un irlandese di nome Bronte è entrato al Saint John’s un anno e mezzo fa come sizar [un servitore di studenti più abbienti][...]. In merito al carattere del ragazzo posso serenamente affermare di conoscerlo come studioso, intelligente e pio [...]. C’è ragione di sperare che possa diventare uno strumento di bene all’interno della Chiesa, in quanto il desiderio di rendersi utile nel ministero sembra ispirarlo in misura non trascurabile.

Fece ritorno una sola volta, dopo l’ordinazione, avvenuta nel 1806, a County Down dalla sua famiglia, i Brunty, anche se continuò a spedire soldi a sua madre finché lei restò in vita. Fu durante gli anni di Cambridge che cambiò il suo nome, scegliendo Brontë forse perché la parola greca indicava la voce del tuono, ma più probabilmente perché si identificava con un guerriero senza paura. Nel 1799, Nelson era stato fatto duca di Bronte (in Sicilia) e a quest’origine del nome si rifece anche Charlotte che, in Shirley, recitò per esteso l’orgoglioso titolo, «l’ammiraglio Horatio, visconte Nelson, duca di Bronti», descrivendolo come un uomo piccolo, pallido e sofferente, eppure dotato della «potenza di un gigante, la forza di un leone»17.

Dopo alcune curazie in Essex e in Shropshire, il reverendo Patrick Brontë si stabilì in Yorkshire, in un primo momento, dal 1809 al 1810, a Dewsbury, come curato alle dipendenze dell’autore di inni sacri John Buckworth; poi a qualche chilometro di distanza, come curato di Hartshead, una parrocchia che fu al centro di alcune sommosse operaie: lì si schierò contro i luddisti, quando distrussero i nuovi macchinari che minacciavano il loro lavoro nelle fabbriche. Era l’epoca delle guerre napoleoniche e il moto luddista coincise con un embargo degli scambi commerciali con il continente che colpì l’industria della lana dello Yorkshire. Per un po’ lo Yorkshire sembrò a un passo dalla rivoluzione. Il signor Brontë si allineò ai proprietari delle fabbriche e ai gentiluomini tory, in particolare a un suo predecessore nella chiesa, il marziale reverendo Roberson di Liversedge, feroce contro i ribelli. Brontë rimase in buoni rapporti con Roberson, chiamato anche «duca ecclesiastico» perché era «un vero Wellington della chiesa».

Mentre si trovava a Hartshead, il trentacinquenne Brontë, che parlava ancora con accento irlandese, incontrò la raffinata Maria Branwell. Proveniva da una famiglia di mercanti, aveva ricevuto un’educazione metodista ed era risalita al Nord per accompagnare una cugina metodista, Jane Fennell, nel West Yorkshire. Maria era all’epoca ventinovenne; da poco rimasta orfana, disponeva di un’indennità annuale di cinquanta sterline ed era abituata a frequentare la buona società. Il suo ritratto di profilo mostra una donna esile, con naso e labbro inferiore pronunciati, che indossa un fine abito bianco a vita alta. Dopo una calda e giocosa corrispondenza da parte di Maria, lei e Patrick si sposarono il 29 dicembre 1812 a Guiseley, appena a nord di Leeds. All’inizio vissero a Hightown, dove nel 1814 nacque la loro primogenita, Maria, e una seconda figlia, Elizabeth, arrivò nel 1815. Una volta trasferitisi nella più congeniale Thornton, Maria continuò ad avere un bambino ogni anno: Charlotte nacque nel 1816; l’unico figlio maschio, Patrick Branwell, nel 1817; una quarta figlia, Emily Jane, nel 1818; e l’ultima, Anne, all’inizio del 1820.

Fu in questo momento che al signor Brontë fu offerta una curazia perpetua a Haworth, una parrocchia resa celebre da William Grimshaw, grande predicatore del XVIII secolo, fautore di una rinascita evangelica in Yorkshire. Anche Haworth si trovava al centro di un’area in cui si produceva la lana, le pecore pascolavano ovunque nelle colline circostanti e nessuno era davvero povero, sebbene persino i bambini, prima del Factory Act del 1833, fossero costretti a lunghi turni di lavoro in fabbrica. Haworth presentava due inconvenienti fondamentali, oltre alla sua posizione arrampicata sulla collina: c’era una forte componente di dissenzienti nella parrocchia e – problema più serio – il villaggio era oltremodo insalubre, persino per gli standard sanitari dell’epoca, privo di una rete fognaria e servito da acque inquinate. La speranza di vita media, a Haworth, era di venticinque anni.

Arrivati alla parrocchia, tutti i figli, eccetto la neonata Anne, furono stipati in una stanza stretta, non più ampia di un corridoio, situata proprio sopra la porta d’ingresso. Lì rimasero, incredibilmente buoni e tranquilli, mentre la signora Brontë moriva lentamente nella stanza accanto. A partire dal gennaio 1821 un cancro allo stomaco la colpì in modo così brutale che quasi ogni giorno ci si aspettava la sua fine. Morì nel settembre 1821 pronunciando le parole: «Oh Dio, i miei poveri figli!». Doveva sapere che il padre non aveva un debole per i bambini. Quando era malata, la signora Brontë aveva spiegato ai piccoli che non andava disturbato. All’esterno, un vialetto di ghiaia conduceva dal cortile (dov’era parcheggiata la carrozza) al retro della casa; lì un piccolo prato, con un biancospino e qualche cespuglio rachitico, era recintato da un muretto di pietra che separava la parrocchia dalle tombe, ammassate l’una all’altra, del camposanto. Ma i bambini avevano libero sfogo nelle brughiere.

Queste lande basse ed estese, con esili frange di boscaglia, non sono né grandiose né romantiche: «Il panorama non è maestoso»18, come disse Charlotte. Non erano lo scenario di un’illimitata libertà, ma l’alternativa alla costrizione, e stabilirono nei Brontë, già dalla prima infanzia, un contrasto tra limiti e libertà che sarebbe diventato centrale nella loro opera adulta. In questo senso il paesaggio potrebbe essere considerato la controparte visibile delle loro fughe mentali: lo spazio come contrappeso al severo esercizio, al pacato rispetto e alla costante vicinanza al dolore e alla morte. Jane Eyre sa che, in casi estremi, si getterà tra le braccia della natura come nel grembo di una madre19. Negli afosi pomeriggi di luglio, i bambini Brontë si sdraiavano accaldati in cima a un’altura, con il ronzio delle api a sfiorargli la testa, . Nelle giornate più cupe, la brughiera, umida, aspra e tetra, sembrava allungarsi verso le onde e le ombre dell’orizzonte; d’inverno non mancavano violente tempeste ed estese coltri di neve. Quando crebbero e iniziarono ad avventurarsi più lontano da casa, ogni crinale si ergeva contro il cielo come un invito alla scoperta. Si soffermavano a esaminare un po’ di muschio, dell’erica, un fungo che aveva aperto il suo ombrello arancione in mezzo alle foglie secche. Scovarono la «grotta delle fate» sotto Peniston Crag e, molto più lontano, un ruscello che saltava da una roccia di granito verso il «fondo», creando un’ammirevole cascata. Uno dei loro luoghi preferiti era il distante «Incontro delle Acque»20, nella Sladen Valley, un’oasi di verdi prati disseminati di piccole sorgenti cristalline.

Mentre esploravano quella che Charlotte definì la «nostra Terra del Silenzio»21, i bambini sentivano anche racconti di luoghi più selvaggi e avventurosi: le esplorazioni di Mungo Park alla ricerca delle sorgenti del Niger tra il 1805 e il 1806; le spedizioni del maggiore Denham, tra il 1822 e il 1825, nel nord e nel centro dell’Africa22; le mappe estraibili nella Grammar of General Geography23 (1823) del reverendo J. Goldsmith, su cui erano riprodotte le numerose meraviglie naturali della Costa d’Oro. Le spedizioni artiche di Ross e Parry negli anni Venti dell’Ottocento catturarono l’immaginazione di Emily e Anne, e furono la base per il loro ciclo di Gondal. Anche Charlotte era attratta dalla «vasta cerchia della zona artica»24, dalle coste desolate di Lapponia, Groenlandia e Siberia, descritte in un libro molto amato in canonica, History of British Birds di Thomas Bewick. Uno dei primi disegni che conservò, fu la copia di un’incisione di Bewick che raffigurava un cormorano sopra un mare in tempesta: Bewick aprì i suoi occhi «ai pensieri in immagini, che respirano, parlano, bruciano»25.

Lo stridente contrasto tra questi pacati bambini stipati in una stanzetta e la loro esposizione, una volta cresciuti, allo spazio infinito si rifletteva nella conformazione della stessa Haworth, con il suo groviglio di stradine strette che si arrampicavano verso la sommità della collina. La via principale era così ripida che gli zoccoli dei cavalli dovevano far presa su delle pietre appositamente disposte ai lati della strada, come in una scalata. Tornante dopo tornante, il corso superava le case addossate l’una all’altra, superava gli ubriachi del Black Bull, superava le facce apatiche della domenica mattina, pesanti sulle panche della chiesa, dove alcuni riposavano dopo aver arrancato fin lassù, altri dormivano – per essere “pizzicati” dal sagrestano col suo lungo bastone –, altri ancora venivano risvegliati dal sermone del reverendo Brontë al punto di sentir sorgere dentro di sé il barlume di una domanda o la traccia di un’obiezione; poi, superati infine la chiesa, il cimitero e la canonica in cima al villaggio, la strada sembrava salire verso il cielo spalancato. Raramente le sorelle scendevano a Haworth, al signor Brontë non piaceva che la sua famiglia si confondesse con i contadini. Si trovavano al punto di incrocio tra due mondi diversi, giravano le spalle al villaggio per arrampicarsi più su, percorrendo in lungo e in largo la brughiera, spingendosi sempre un po’ oltre man mano che diventavano più adulte e più forti, saltando i torrenti e riposando sulle rocce mentre si facevano strada verso il luogo segreto dove le acque si incontravano in un rigoglio di sorgenti.

Quella terra offrì un paesaggio suggestivo alla scrittura matura di Charlotte Brontë. In un certo senso riscrisse il Viaggio del pellegrino (un’altra lettura prediletta in canonica) attraverso i tentativi e le avventure di persone che si rifiutano di consegnare le loro anime alle sollecitazioni della circostanza. Da sempre il suo chiodo fisso fu l’idea di farsi strada in una terra inesplorata; è quell’idea alla base delle sue successive esplorazioni degli stati mentali: l’impulso, la rabbia, la passione, il desiderio represso di un maggiore attivismo, le segrete libertà di pensiero e di spirito – in una relazione viva con il senso morale. Keats ha detto una volta che la vita di un uomo di valore è un’allegoria; Charlotte avrebbe rinvigorito l’allegoria nei suoi termini, testando la legittimità della forza, dell’ambizione e dello sdegno nella vita di una donna che non contestò mai gli assoluti morali del dovere e della fede.

Lo spiccato senso del giusto e dello sbagliato di Charlotte proveniva in termini formali dai sermoni del padre e dalla severa devozione di zia Elizabeth Branwell, la sorella più anziana di sua madre, che all’età di quarantacinque anni (uno in più del signor Brontë) era venuta dalla Cornovaglia ad assistere Maria nell’ultima fase della sua malattia, rimanendo poi in canonica in attesa di una qualche collocazione alternativa. Sebbene fosse una devota metodista wesleyana, era una persona di sobria rettitudine più che di grande ispirazione – le alte sfide immaginative della vita morale discesero nei piccoli Brontë dalla sorella maggiore, Maria. Se la zia, austera e accigliata nel suo vestito di seta nera, mandava avanti la casa, fu Maria a fare la parte della madre con i fratelli minori. Maria aveva sette anni quando, nel 1821, la madre morì – era una bambina quanto mai precoce a quell’età: sapeva del conservatorismo politico di suo padre, con il quale era in grado di sostenere una discussione, e si teneva informata leggendo il «Blackwood’s Magazine». La sua straordinaria intelligenza la rese una sorta di compagna per il padre nell’età tra i sette e i dieci anni, quando fu spedita in una scuola lontana da casa.

A parte Maria, il signor Brontë rimase piuttosto distante dai bambini – le loro “chiacchiere” lo infastidivano – e si curò solamente dell’educazione del figlio maschio. In questo non fu diverso da altri padri dell’epoca. Le figlie (eccetto, per un breve periodo, Anne) non ricevettero la formazione classica che a Branwell fu impartita nello studio del padre. Branwell aveva una selvaggia chioma rossa e una parlantina inarrestabile alimentata dall’incoraggiamento e dall’orgoglio paterno. Aveva la sicurezza di un ragazzo dal quale ci si aspetta che un giorno si distingua e prenda in mano le redini della famiglia. Emily, al contrario, distoglieva lo sguardo dall’interlocutore e parlava poco. Aveva bellissimi occhi, a volte di colore grigio scuro, altre blu profondo. Come Charlotte era pallida, con lisci capelli castani (che da adolescenti cercavano di arricciare nel fallimentare tentativo di adeguarsi alla moda). Anne aveva i capelli ricci; era la più graziosa delle sorelle, con una pelle chiara, quasi trasparente, e sopracciglia fini. Tutte impararono a cucire e a sbrigare le faccende domestiche da zia Branwell, una donna minuta che indossava giganteschi cappelli di un gusto ormai superato, scontenta di essersi trasferita in Yorkshire dalla Cornovaglia, ma ligia al suo dovere. I modi riservati del padre e della zia potrebbero spiegare il comportamento infantile di Charlotte, incline a dire «molto poco di sé e disinteressata a fare sfoggio di quel che conosceva»26.

Chiudendosi nel suo studio, anno dopo anno, e non partecipando ai pasti in comune, il signor Brontë finì per conoscere appena le potenzialità delle figlie e un bel nulla della loro scrittura. Decenni dopo, quando Charlotte rivelò al pubblico di essere l’autrice del fenomenale successo Jane Eyre, non ritenne che la cosa potesse interessarlo. Non era così poco accorta da menzionare con il padre la scrittura più di una volta al mese. Le foto del reverendo Brontë lo mostrano con lo sguardo fisso, vigile e severo al di sopra di zigomi sporgenti. Ha l’aspetto orgoglioso e sicuro di chi ha opinioni pronte su tutto, di chi si lascia facilmente coinvolgere, eppure si guarda bene dallo sconfinare nel terreno delle emozioni. Era un prete solerte che riteneva le visite e le letture la parte più importante del ministero e credeva nel valore di una predica colloquiale, estemporanea, prossima alla «dignitosa semplicità delle scritture» e accessibile anche al membro più illetterato della sua congregazione. Si occupò inoltre della questione del lavoro minorile nelle fabbriche e si oppose alla New Poor Law (che introdusse i temuti ospizi per i poveri). In seguito non ebbe paura di attaccare i ricchi che si rifiutarono di accollarsi i costi per il miglioramento della rete fognaria e per l’approvvigionamento di acqua pulita. Allo stesso tempo il signor Brontë, un tory, si batté contro le tendenze democratiche dell’epoca – e, persino fisicamente, nel 1811-12, contro le rivolte dei luddisti. Fiero della sua familiarità con le armi da fuoco, tutte le mattine infilava in tasca una pistola carica27, e un fucile ugualmente carico era appeso nel suo studio, accanto ai suoi libri (disposti su due piccoli scaffali tra le finestre). Lì sedeva con le sue due pipe e la sua sputacchiera, prendeva abbondanti appunti sui lassativi che «danno tono alle viscere» ai margini di Modern Domestic Medicine28, scriveva mediocri poesie didattiche (piene di fuoco infernale e infinito dolore) e preservava il suo oblio della vita domestica con solenni appelli a Dio nel forte accento scozzese usato nel nord dell’Irlanda.

Dopo la morte della signora Brontë, il signor Brontë fece tre tentativi di risposarsi. Inizialmente si avvicinò all’ospitale signorina Elizabeth Firth di Kipping House, Thornton, un’orfana di vent’anni più giovane di lui con una fortuna personale da amministrare. La signorina Firth declinò l’offerta, ma rimase cordiale con il signor Brontë anche dopo essersi sposata, nel 1824, con il reverendo Franks (vicario di Huddersfield). Brontë fu ugualmente ambizioso quando puntò Isabelle Dury, sorella del rettore di Keighley. La signorina Dury disse che non sarebbe mai stata tanto sciocca da sposare un uomo senza futuro e con sei figli a carico. Allora, nel 1823-24, il signor Brontë scrisse a una vecchia fiamma, Mary Burder, ricoprendola nuovamente di attenzioni dopo quattordici anni di silenzio. Tra il 1808 e il 1810, durante la sua prima curazia in Whetersfield, Essex, il reverendo Brontë aveva corteggiato la signorina Burder scrivendole delle lettere29, e quest’ultima in un primo momento sembrò accogliere la sua proposta; ma poi accadde qualcosa che suscitò nella donna l’impressione di “doppiezza”. Non sorprende che la signorina Burder preferì rimanere single, non rispecchiandosi affatto nelle lettere del reverendo Brontë: zelanti, autocompiaciute, affettate, mostrano solo un meccanico e superficiale interesse verso i suoi sentimenti. Scritte in una grafia molto decisa, con solchi verticali che marcano tutte le t, sono le lettere infarcite di retorica di un uomo improvvisamente determinato a sistemare la propria situazione domestica. Il signor Brontë non era tipo da conquistare una donna. Era troppo preso dalle sue esigenze – una rigida routine, quiete e riservatezza, oltre alle cautele dettate dalla dispepsia – per notare alcunché.

Dunque nessuna nuova madre venne a occupare la scena, e quando gli altri prelati andavano in visita in canonica raramente portavano le mogli con sé. Il signor Brontë istruiva Branwell nel privato del suo studio, la zia, non abituata al freddo del Nord, si ritirava davanti al fuoco della sua stanza, portandosi dietro un vassoio con i pasti, che consumava per proprio conto. Cosa fecero e cosa si dissero le cinque sorelle Brontë nei tre anni successivi alla morte della madre, trascorsi perlopiù in casa da sole?

La vita di Charlotte Brontë è una sorta di esperimento nel quale una donna, emarginata dal resto della società insieme alle sorelle, sfrutta l’isolamento per esplorare gli angoli più reconditi del proprio carattere. Un curioso precursore di questo esperimento si può rintracciare in una trovata che il signor Brontë escogitò nel 1824 per scoprire la vera natura e i talenti nascosti dei figli. Convinto che i bambini, sentendosi non visti, avrebbero rivelato più di se stessi, li chiamò a sé uno a uno e, mettendogli a turno una maschera sul volto, gli pose delle domande30. Quando chiese a Charlotte, allora una bambina di sette anni, quale fosse il miglior libro mai scritto, lei rispose: «La Bibbia».

E qual era, a suo parere, il secondo?

«Il libro della natura».

La maschera messa sul volto dei bambini avrebbe dovuto liberarli dai loro condizionamenti, ma le loro parole furono ubbidienti come da copione. Anche se il signor Brontë fu soddisfatto da quelle che gli sembrarono risposte appropriate, l’esperimento fallì perché non rivelò nulla che non riflettesse le opinioni degli adulti che vivevano nella canonica. Già allora i bambini Brontë erano beneducati e impenetrabili, e poiché non c’è giunto alcuno scritto della loro prima infanzia, è impossibile sapere che cosa pensassero e sentissero davvero. Anne, a quattro anni, disse che quello che occorreva a un frugoletto erano «gli anni e l’esperienza» – ripetendo a pappagallo quanto sentiva dalla zia Branwell, con cui divideva la stanza. La sua risposta non lasciò trapelare nulla dello stoicismo che l’avrebbe distinta in seguito, né dell’acuto spirito di osservazione che si nascondeva dietro il suo silenzio, e nemmeno della ribelle intraprendenza della futura eroina di Il segreto della signora in nero, che pensa a se stessa e a suo figlio, piuttosto che restare al fianco di un marito dissoluto. Emily, di cinque anni, disse che il miglior modo di trattare un ragazzaccio come Branwell era «farlo ragionare e, se non vuole dar retta, frustarlo». In seguito sarebbe diventata alta come suo padre, e in tutto simile a lui nel temperamento; la sua risposta faceva sì prevedere la sua fierezza, che ritroviamo anche in Heathcliff, l’eroe del suo unico romanzo noto, Cime tempestose, ma in quelle parole non v’era traccia dell’immaginazione poco ortodossa che sarebbe arrivata a chiamare lo spirito divino suo «schiavo» e suo «re»31. Branwell, di sei anni, ripeté l’opinione all’epoca diffusa secondo cui la diversità intellettuale di uomini e donne andrebbe giudicata dalla loro differenza fisica. Charlotte diede una risposta corretta e intelligente citando il «libro della natura», ma era certa di ricevere l’approvazione paterna, perché tale risposta trovava conferma nell’amore del reverendo per le lunghe e solitarie passeggiate, che lo riportavano indietro nella memoria alle camminate fatte da ragazzo sulle colline ai piedi delle montagne di Mourne, nella nativa County Down. A Elizabeth, che allora aveva nove anni, fu chiesto quale fosse il miglior metodo di educazione per una donna; «quello che la metterà in grado di dirigere bene la sua casa», rispose. Quando più tardi quello stesso anno lasciò la famiglia per andare a scuola, il padre la destinò a un futuro di governante, scegliendo per lei un’educazione inferiore rispetto a quella delle altre. Rimane la più sconosciuta dei Brontë, forse meno brillante degli altri, o percepita come tale, anche se forse ebbe qualcosa del silenzioso stoicismo di Anne. La risposta più devota alle domande di papà venne da Maria, che allora aveva dieci anni.

«Qual è il miglior modo di spendere il proprio tempo?», chiese il signor Brontë.

«Dedicarlo alla preparazione di una felice eternità», fu la pronta risposta di questo prodigio di abnegazione che avrebbe presto dato prova di sé sfidando la morte per fame e assideramento quando, nel 1824-25, fu mandata a studiare nella Clergy Daughters’ School di Cowan Bridge.

Nella prima metà del 1824, l’esigenza di educare le figlie fu al centro dei pensieri del signor Brontë. Come avrebbe potuto permetterselo? Il suo stipendio era al di sotto delle duecento sterline all’anno. A tale cifra si era un tempo sommata la rendita annuale di sua moglie; ma si trattava di un vitalizio, e di conseguenza era tornato ai Branwell al momento della sua morte. La famiglia di Maria non offrì alcun aiuto per i suoi figli, circostanza che potrebbe aver causato una certa freddezza tra il signor Brontë e i parenti della moglie. I Branwell non invitarono mai un Brontë in Cornovaglia; a quanto sembrerebbe, le due famiglie a malapena comunicavano. Il fallimento del signor Brontë nell’assicurarsi una seconda moglie dotata di mezzi propri – culminato, all’inizio del 1824, nel risentito silenzio della signorina Burder – ebbe dunque conseguenze pratiche nella vita delle sue cinque figlie. Sarebbero rimaste senza dote, circostanza che avrebbe reso per loro assai improbabile trovare un marito. Era perciò essenziale prepararle a guadagnarsi da vivere da sole. Poiché la posizione più comune per le donne poco abbienti era quella di istitutrice, il signor Brontë dovette cercare una scuola che fornisse alle sue figlie la necessaria istruzione. Il progetto di mandare le ragazze in collegio avrebbe avuto anche il vantaggio di rappresentare agli occhi della zia Branwell un incentivo a rimanere in canonica.

Una scuola di carità per le figlie dei prelati bisognosi era stata recentemente aperta a Cowan Bridge, vicino Kirkby Lonsdale, in Lancashire. La quota per le allieve era di quattordici sterline l’anno, con un extra di tre sterline per eventuali “conseguimenti”: francese, musica o disegno. Quattro figlie in età scolastica significavano per il signor Brontë una spesa pari a oltre un quarto del suo stipendio annuale; decise tuttavia di iscriverle, e loro andarono a Cowan Bridge pienamente consapevoli del peso economico di tale scelta e della totale mancanza di alternative.

Maria ed Elizabeth entrarono nella Clergy Daughters’ School nel luglio 1824, poco dopo che in famiglia si era diffusa la tosse convulsa. Charlotte ed Emily, che iniziarono la scuola più tardi quello stesso anno, ebbero più tempo per rimettersi in salute. Il destino di istitutrice di ciascuna di loro (eccetto Elizabeth) era scritto nei registri della scuola, di fianco al loro nome e ai commenti sulle loro capacità – o sui loro deficit: la mediocrità nel cucito (nonostante gli sforzi della zia nel campo in cui era maggiormente esperta) e la loro istruzione alla buona. Né erano abili nel far di conto. Ma Maria ed Elizabeth, di dieci e nove anni, sapevano scrivere bene, Charlotte, di otto, era «nel complesso intelligente per la sua età», ed Emily, a sei anni, sapeva leggere «con molto garbo».

La scuola era situata ai piedi delle colline, in un luogo pittoresco ma umido. La sua insalubrità era aggravata da scarse condizioni igieniche e da una dieta povera, a volte indigeribile, composta perlopiù da pane secco, porridge bruciato e sformati di miseri avanzi provenienti da una cucina sudicia. Per quanto affamate, spesso le ragazze non riuscivano a mandar giù simili pasti e deperirono ben presto.

Il fondatore della scuola, William Carus Wilson, parroco di Tunstall, aveva immaginato un regime severo con l’idea di instillare nelle ragazze la rinuncia cristiana; tanto per rafforzare l’idea, alle allieve veniva costantemente ricordato che erano oggetto di carità. Secondo il successivo resoconto di Charlotte, il morale basso, la malnutrizione e la trasandatezza fisica predisponevano la maggior parte delle allieve alle infezioni. Maria ed Elizabeth, forse indebolite dai postumi della tosse convulsa, furono entrambe colpite dalla tubercolosi o incamerarono la malattia in forma latente. Molte altre studentesse contrassero il tifo e, nella primavera del 1825, un’epidemia incontrollabile dilagò nella scuola.

Il 10 agosto 1824, quando accompagnò Charlotte a raggiungere in collegio le sorelle maggiori, il signor Brontë sembrò non notare nulla che non andasse in quella scuola; né fece caso al deperimento delle figlie più grandi, quando anche Emily si unì alle altre, nel mese di novembre. Tale cecità è così singolare da aver erroneamente suggerito l’ipotesi che il signor Brontë non abbia accompagnato di persona Emily nel viaggio di ottanta chilometri lungo la strada carrozzabile che andava da Leeds ai Laghi32. Ma è ipotizzabile che si sia accontentato dell’elevata spiritualità di Maria e del volto fiero di Elizabeth, e che lui stesso fosse tutto preso da quel genere di pompose cerimonie che avevano segnato la sua impressionante ascesa da una catapecchia di due stanze con pavimenti di fango, da Patrick Brunty – discendente di contadini, il cui nome era una qualche variante di Prunty33 – al reverendo Brontë, un gentiluomo del West Riding dello Yorkshire.

Non appena entrata a scuola, Charlotte fu obbligata ad assistere alle ripetute umiliazioni inflitte a Maria da una maestra chiamata signorina Andrews, che sarebbe in seguito diventata la signorina Scatcherd di Jane Eyre. Molti anni più tardi, Charlotte disse alla signora Gaskell che la Lowood School di Jane Eyre era un’accurata ricostruzione di Cowan Bridge. La signorina Scatcherd, descritta come piccola, con i capelli neri, vestita elegantemente e con un aspetto piuttosto cupo, perseguita la rassegnata Helen Burns, fedele ritratto di Maria Brontë. «Non le piace il mio carattere», dice Helen all’allieva più giovane, con calmo tono di constatazione. Maria era una mente di raro acume; era sorprendentemente matura nelle sue letture e nei suoi pensieri, ma questo veniva sottovalutato perché era disordinata. Nella versione che ne diede Charlotte, Maria divenne la vittima preferita della maestra. Costretta a stare in piedi nel mezzo della classe, appariva distaccata:

Sembra che pensi a qualcosa che va ben oltre il suo castigo, oltre la sua situazione: a qualcosa di lontano. Ho sentito parlare di sogni a occhi aperti: forse sta sognando a occhi aperti? Ha gli occhi fissi al pavimento, ma sono certa che non lo vede – sembra che guardi dentro di sé, nel suo cuore.34

Anche se Maria eccelleva a lezione, la signorina Andrews la riprendeva per le sue unghie sporche, nonostante l’acqua gelida rendesse impossibile lavarsi. Ribelli ma senza difese, le sorelle minori videro Maria andare a prendere un mucchietto di ramoscelli, slacciarsi il grembiule e ricevere numerose frustate sul collo. Charlotte ribolliva di una rabbia impotente, ma nella sopportazione Maria era sostenuta dalla fede. Lo scopo dell’esistenza, come Maria aveva detto col volto coperto dalla maschera, era guardare oltre la vita. Charlotte ricordò le sue parole: «...Dio aspetta solo la separazione dello spirito dalla carne per farci la grazia della sua piena ricompensa. Perché mai allora dovremmo sprofondare sopraffatti dallo sconforto, quando la vita è presto finita e la morte è certamente la porta d’accesso alla felicità: alla gloria?».

Questo è il linguaggio dell’evangelicalismo, non distante dal calvinismo di William Carus Wilson. Oltre a essere parroco, costui era un proprietario terriero locale che viveva a Casterton Hall. Carus Wilson era all’apparenza un benefattore che aveva raccolto fondi e contribuito generosamente alla realizzazione di una scuola che avrebbe garantito un’istruzione a un costo ridotto alle figlie dei prelati più poveri; nella pratica era un manipolatore, un uomo sinistro che vedeva nelle ragazze delle fragili peccatrici, e la sua scuola cercava di salvarle annientando la loro natura: gli venivano tagliati i capelli, i loro corpi erano infreddoliti, gli appetiti smorzati attraverso il cibo indigeribile, e venivano fustigate fino alla sottomissione. Quest’uomo bigotto era tutt’uno con il Dio sadico dei suoi libri per l’infanzia, un Dio che arrivava a distruggere i corpi dei bambini per il bene delle loro anime («per amore della sua povera, piccola anima [il Signore] fece in modo che la candela appiccasse il fuoco alle sue vesti», questo è solo un articolo tratto dal suo catalogo di santi infortuni). Convinta che la natura fosse irrimediabilmente corrotta, Maria accettava le punizioni della signorina Andrews, anche se il suo corpo gemeva.

Negare la natura significava essere il prodotto ideale della Clergy Daughters’ School. In Jane Eyre, quando il fondatore della scuola visita Lowood si indispettisce per i ricci di una ragazza. I suoi capelli sono naturalmente ricci, dice la sovrintendente, la signorina Temple. «Naturalmente!», esclama il signor Brocklehurst. «Sì, ma noi non dobbiamo uniformarci alla natura: io voglio che queste ragazze siano figlie della Grazia». Ordina quindi alla maestra di «mortificare in queste ragazze i desideri della carne; di insegnargli a rivestirsi di modestia e sobrietà».

Il buon senso di Charlotte le diceva che non era il volere divino a desiderare che i corpi delle sue compagne di scuola fossero mortificati; era un’ideologia di classe incarnata in Carus Wilson, un esponente della piccola nobiltà, le cui donne non erano tenute a rinunciare ad alcuna vanità nell’abbigliamento o nell’acconciatura. L’elemento punitivo era sostenuto dal dogma, allora diffuso nella classe media, che la povertà fosse sostanzialmente una colpa. Questo dogma, in realtà, fu appoggiato anche dalla signora Brontë in un trattato, di cui rimane un manoscritto non datato, circa “I vantaggi della povertà nelle preoccupazioni religiose”:

Ma quali parole possono esprimere la grande miseria di coloro che soffrono qui tutti i mali della povertà e questo, per giunta, a causa della loro cattiva condotta, e non hanno alcuna speranza di una felicità nell’aldilà, piuttosto hanno ragione di temere che la fine di questa vita miserevole sia l’inizio di un’altra, infinitamente più miserevole, destinata a non avere mai fine!35

Se i figli dei poveri erano affamati e infreddoliti, la signora Brontë gli suggeriva di indirizzare i loro pensieri all’aldilà. Considerandoli dalla sua posizione privilegiata, non avrebbe mai potuto immaginare che anche le sue figlie avrebbero un giorno sofferto «i mali della povertà»36. È sorprende passare dalle sue interessanti lettere a queste devozioni che avrebbero ricevuto l’approvazione di Carus Wilson. Quest’ultimo, trasposto da Charlotte nella figura del reverendo Brocklehurst, riprende la sovrintendente di Lowood quando dà alle ragazze il nutrimento che i loro corpi tanto desiderano: «Ah, signorina, quando mettete pane e formaggio, invece di porridge bruciato, nelle bocche di queste bambine, forse nutrite i loro corpi di fango, ma non vi accorgete di affamare le loro anime immortali!». Anni più tardi Charlotte avrebbe detto all’amica Gaskell che a Cowan Bridge «le sofferenze patite per la fame erano tali da non poter essere raccontate»37.

Quando arrivò l’inverno, con le abbondanti nevicate di gennaio e febbraio, le sorelle Brontë e le altre dovevano camminare ogni domenica per oltre tre chilometri fino alla chiesa di Tunstall dove Carus Wilson officiava la messa. La chiesa era troppo lontana perché le ragazze tornassero a scuola per pranzo; per sostenerle durante il servizio pomeridiano gli venivano distribuite delle esigue porzioni di pane e carne fredda. Più tardi, la via del ritorno si arrampicava su per una collina esposta a un vento gelido che sferzava i loro volti. Una volta rientrate a scuola, tutte sognavano un caminetto acceso, ma le ragazze più grandi vi si disponevano davanti a semicerchio, bloccando gran parte del calore. Dietro di loro le Brontë battevano i denti, si stringevano le braccia dentro i grembiuli.

Nel febbraio 1825, otto mesi dopo il suo arrivo nella scuola, Maria, che non si era mai lamentata, fu rimandata a casa con una tubercolosi trascurata. Rimase fedele alla devozione materna, derivata dal metodismo dei Branwell, anche mentre sprofondava nella malattia. Negando la vita, la piccola umiliò il suo spirito con gli occhi rivolti al cielo – e lo fece in maniera più rigorosa di sua madre, che, naturalmente, aveva faticato ad accettare un dolore prolungato, come aveva scritto Patrick Brontë al reverendo John Buckworth (il suo vicario a Dewsbury) nel novembre 1821: «Per molti anni aveva camminato insieme a Dio, ma il gran nemico, invidiando la sua vita o la sua santità, molestò spesso la sua mente nella battaglia finale»38. Maria, la figlia, fu tutta per la morte e, in quanto tale, fornì un modello formidabile in opposizione al quale Charlotte plasmò il suo carattere alternativo, mentre Emily e Anne vi si conformarono in modi diversi: Emily con la sua negazione del mondo e il suo oblio del corpo, che affamò senza concedergli nessuna pietà nelle settimane che precedettero la sua morte, avvenuta nel dicembre 1848; Anne sforzandosi di scrivere i suoi Ultimi versi39 prima di consegnarsi alla sua prematura morte nel 1849. Branwell, come Anne, era a casa con Maria mentre lei si consumava a poco a poco tra febbraio e maggio. La sua poesia Misery è segnata dall’immagine di Maria che incarna una perfezione che lui non sarebbe mai stato in grado di raggiungere:

[...] E con ferocia mi aggrappai a te.

Non potei, non volli, non osai lasciarti,

ebbi timore che l’inferno s’impadronisse ancora del mio cuore

[...] Ma siamo divisi – tu, la tua tomba,

e a me questo tetro deserto.40

Versi sulla morte di una sorella che Branwell lesse all’epoca nel «Blackwood’s Magazine» e che gli sembrarono tanto appropriati da citarli dieci anni dopo: «Quel momento, tanto più terribile di qualsiasi altro che possa rabbuiarci in questa terra, quando lei [...] scese lentamente, lentamente nella terra orribile, e ci sentivamo anche noi come già morti, desideravamo morire fuori dal cortile della chiesa»41.

Maria morì all’età di undici anni nel maggio 1825, ed è probabile che la sua sublime forza d’animo abbia lasciato nel fratello e nelle sorelle un’impressione più indelebile di quella provocata dalla morte della madre. Più tardi, quello stesso maggio, Elizabeth fu rimandata a casa con una tubercolosi allo stadio terminale, e morì poco dopo, a giugno. Aveva dieci anni. Queste morti ravvicinate segnarono i restanti quattro. Maria fu sepolta mentre Charlotte ed Emily erano ancora a scuola, ma il signor Brontë, infine spaventato, le riportò a casa il 1° giugno, e avrebbero assistito al funerale di Elizabeth. Tra i frammenti lasciatici da Charlotte c’è l’abbozzo di un romanzo in cui una ragazza chiamata Jane Moore ripensa al giorno del funerale della sorella e al «cadavere rigido e allungato» disteso nella bara, alla gente che preme tutt’intorno per guardarla un’ultima volta, «al bacio che le fu chiesto di dare al cadavere, al sentimento, affiorato per la prima volta alla superficie del suo cuore infantile e leggero, che Harriet li aveva lasciati per sempre»42.

Negli anni successivi, Charlotte parlò incessantemente di Maria. Quando si fece nuovi amici all’età di quindici anni, descrisse Maria come «una piccola madre per tutti gli altri, di una bontà e un’intelligenza sovrumane», ha ricordato in seguito la compagna di una vita, Ellen. «Ma più commovente di ogni altra cosa fu la rivelazione delle sue sofferenze – il fatto che aveva sofferto con la sensibilità di un adulto, e sopportato con una forza e una pazienza degne di Cristo»43. Per tutta la vita Charlotte rievocò scene di crudeltà impresse nella sua memoria durante quei dieci mesi trascorsi in collegio, ma non le inserì in Jane Eyre pensando che i lettori non le avrebbero ritenute credibili. Una mattina, dopo che le era venuta una vescica sul fianco, Maria era troppo debole per svegliarsi con la campanella delle sei. Quando la signorina Andrews arrivò nel dormitorio, buttò Maria giù dal letto e la trascinò nel mezzo della stanza, insultandola per le sue cattive abitudini44. Placando i mormorii di indignazione delle sue compagne, la ragazza malata, con movimenti rallentati, iniziò a tirarsi su le calze per coprire le gambe magre e pallide; poi fu punita per il suo ritardo. A sette anni di distanza, Charlotte riviveva ancora la tragedia della sorella più grande, ha affermato Ellen. «Parlava pure di Elizabeth, ma mai con l’espressione angosciata che aveva in volto quando ricordava Maria».

Charlotte raccontò a Mary Tailor – un’altra nuova amica – di un sogno in cui Maria ed Elizabeth tornavano in vita45. Nel sogno la chiamavano, le incontrava in un salotto, e loro erano diventate alla moda e volgari. All’età di quindici anni, il sogno rappresentò per Charlotte una temporanea messa in discussione di quel modello di elevazione spirituale che non poteva dimenticare. La bambina che aveva messo la Bibbia davanti alla natura; la studentessa che si era aggrappata al ricordo di quella forza d’animo degna di Cristo; la donna adulta che scrisse della vita come di un cammino che andava seguito e lungo il quale bisognava pregare per ricevere aiuto: in tutte le trasgressioni che sarebbero arrivate in seguito, il suo pensiero fu plasmato da sua sorella. Charlotte emerge in tutta la sua singolarità proprio in relazione al modello offerto da Maria, tanto più potente in quanto la sua perfezione era stata sigillata da una morte che appariva a Charlotte nella luce del martirio. Era convinta che Maria, come Elizabeth dopo di lei, fosse stata distrutta dalla scuola e che lei stessa era marchiata per sempre, nel corpo e nello spirito, da quanto era successo in quel collegio. In Jane Eyre, il datore di lavoro, il signor Rochester, fa notare a Jane, l’istitutrice, che chiunque sia sopravvissuto a Lowood deve essere «resistente». Una simile scuola sembrava progettata per distruggere «la costituzione più robusta. Non mi meraviglio che abbiate l’aria di uscire da un altro mondo»46.

Contro le morti rassegnate delle sorelle, Charlotte assunse il carattere di una sopravvissuta, e lo stesso fecero le sopravvissute dei suoi romanzi. Tutte vivono secondo l’ideale cristiano dell’umiltà, ma si rifiutano di cedere il controllo sui loro destini a delle fallaci figure autoritarie: il fondatore di una scuola di carità, un amante prepotente, uno zio guardiano, un missionario dogmatico. Charlotte fu, a suo modo, inflessibile quanto la sua scuola – anche lei vedeva la vita come una battaglia morale –, ma non privò le donne della loro autonomia: i suoi romanzi indicano loro un duro ma stimolante cammino illuminato dal lucido ridimensionamento degli idoli che le sovrastano. La sua impresa, spesso fraintesa dai contemporanei per licenza irreligiosa, fu quella di tracciare una nuova mappa dell’anima per l’allieva del collegio, la ragazza priva di libertà, la governante trascurata, l’umile maestra – per tutte coloro che venivano educate a mostrare una facciata modesta. Maria Brontë fu un modello di autodisciplina e trascendenza. Ma non fu, agli occhi di sua sorella, un modello da seguire.

Quando Ellen chiese a Charlotte come avesse potuto, ancora bambina, giudicare Maria, lei rispose che aveva iniziato ad analizzare il carattere delle persone all’età di cinque anni. A otto, aveva osservato sua sorella consacrare la sua pia intelligenza a quello che le era sembrato. La scuola di carità era pensata per umiliare ragazze destinate, per la loro mancanza di mezzi, a un futuro di servitù e abnegazione. Su Charlotte ebbe l’effetto opposto. Invece di spingerla a rivolgersi al cielo, fece sorgere in lei un io indipendente. Una voce nuova e forte mise in discussione l’uso della retorica religiosa per abusare delle scolarette, come sentiamo nella risposta che Jane dà a Rochester:

«Avete condotto la vita di una monaca: senza dubbio siete esperta di religione; Broklehurst, che a quanto so dirige Lowood, è un pastore, vero?».

«Sì signore».

«E voi ragazze probabilmente avevate una venerazione per lui, come un convento di suore l’avrebbe per il direttore spirituale».

«Oh no!».

«Lo dite con molta freddezza. No! Come? Una novizia che non venera il suo pastore? È blasfemo».

«Io non amavo il signor Brocklehurst; e non ero la sola. È un uomo duro; pomposo e impiccione: ci faceva tagliare i capelli, e per economia comprava aghi e filo di pessima qualità, con cui non si riusciva a cucire».

«Era un’economia sbagliata», osservò la signora Fairfax, che di nuovo aveva afferrato il filo del discorso.

«Erano qui tutte le sue colpe?», chiese il signor Rochester.

«Quando era solo a occuparsi dell’economato, prima che fosse nominata una commissione, ci faceva morire di fame; e ci annoiava con interminabili prediche una volta alla settimana, e con letture serali prese dai libri scelti da lui, dove si parlava di morti improvvise e giudizio divino, per cui poi avevamo paura ad andare a letto».47

Va detto che il taglio dei capelli, giustificato dall’idea della vanità della natura delle donne, era abbastanza comune nelle scuole femminili. Nel suo Il segreto della donna in nero, Anne Brontë protesterà contro gli standard educativi differenziati per i maschi e per le femmine, in base ai quali i ragazzi, dotati di una tempra più resistente, andavano esposti alle tentazioni terrene, mentre le ragazze andavano recluse, protette da se stesse, in quanto incarnazioni di quelle tentazioni. Charlotte solleverà la stessa obiezione in una lettera che spedì nel 1846 a una direttrice scolastica in pensione, la signorina Wooler48. Se i ragazzi venivano formati per assumere posizioni di comando, le ragazze erano educate alla negazione di sé. Charlotte non si scagliò contro l’altruismo e la disciplina – qualità che in realtà apprezzava – ma contro il tentativo di annientare lo spirito. La pioniera dell’educazione femminile Dorothea Beale, che insegnò alla Clergy Daughters’ School nel 1857, più di trent’anni dopo che Charlotte aveva lasciato la scuola, fornì un sobrio resoconto degli effetti duraturi della severità calvinista: «I suoi risultati immediati nell’educazione delle giovani erano in realtà disastrosi. I cuori [...] venivano tramutati in pietra, o sprofondati in un terrore senza speranza; ma, peggio di ogni altra cosa, le forme religiose, la fraseologia, persino le emozioni venivano assimilate dalle ragazze tendenti all’autoillusione o eccessivamente ansiose di accontentare»49.

Nei primi anni Cinquanta dell’Ottocento, Charlotte espresse meraviglia per il fatto di essere sopravvissuta; ma la sua volontà di combattere e di vivere e il suo bisogno di riconoscere l’esistenza di sentimenti naturali dovevano qualcosa, ironicamente, proprio a Carus Wilson e alla sua repressione della natura, che provocò in lei un’istintiva resistenza – una rabbia salutare, suggerisce Jane Eyre. C’era in lei un’energia ardente che si rifiutava di essere placata. E quando una tale energia si manifestava in una ragazza, i vittoriani la trovavano sospetta. Fiutavano la ribellione, la “volgarità” – e sarebbe stato questo il caso se dietro il nome di Currer Bell si fosse rivelata la presenza di una donna. Quando Elizabeth Gaskell pubblicò la biografia della sua amica, nel 1857, persino lei additò con disapprovazione una certa “volgarità” dei suoi romanzi e pregò il pubblico dei lettori di «prendere in considerazione la sua vita» per giustificarla50 . Gaskell presenta al lettore una «vita di desolazione»51 consumatasi alle spalle della selva di tombe che spuntano da dietro il muro della canonica: il pathos di una sofferenza insostenibile è chiamato a scusare l’eccesso di passione. Non sto suggerendo che Gaskell non ci trasmetta un’innegabile verità della vita di Charlotte Brontë. Difese la sua amica con sensibilità, eloquenza e coraggio, in termini adatti a parlare alla sua epoca, scrisse con convinzione di una donna che aveva conosciuto personalmente, e questa Charlotte – quella che apparve a un’attenta contemporanea – è sempre con noi. Ma leggendo i documenti centocinquanta anni dopo, scrivendo per un’altra epoca, inizio a comprendere che l’ombra del dolore (così persuasiva per i vittoriani) ha oscurato un’ombra più profonda, più prodigiosa, al riparo della quale crebbe una nuova forma di vita. Gaskell vide (con sincera commiserazione) l’isolamento della sua amica, la sua solitudine e, soprattutto, la sua sofferenza per quei macigni irremovibili che furono le morti precoci della famiglia Brontë, avvenute una dopo l’altra. La sua Charlotte non è una fiera sopravvissuta, ma la povera reliquia di una famiglia dannata. Gaskell è una perfetta narratrice, sempre capace di tenere viva la storia che ci racconta, ma è stato da tempo riconosciuto che non seppe resistere alla tentazione di drammatizzare il suo punto di vista, ragion per cui non fu sempre accurata nel riportare i fatti relativi ai suoi soggetti52. Scrisse ad esempio che Dickens aveva comprato un servizio di piatti in oro, aneddoto del tutto infondato che divertì molto lo scrittore, il quale replicò ironicamente affermando che tutto a casa sua era d’oro, persino i vestiti delle figlie. Gaskell sostenne con insistenza che il George Eliot che aveva scritto Scene di vita clericale e Adam Bede fosse un certo Joseph Liggins di Nuneaton, perché non riusciva a capacitarsi che simili libri, da lei ammirati, fossero stati scritti dalla Marian Evans che conviveva apertamente con George Henry Lewes. Prima ancora, mise in circolo la voce che Charlotte Brontë era spacciata a causa di una malattia letale, una conclusione desunta dalle precoci morti delle sorelle, che si rivelò dannosa per la scrittrice di Haworth, la quale tentò invano di smentirla. Nella sua biografia, Gaskell nota la raffinatezza di Charlotte, la sua squisita cura, la sua modestia e delicatezza, il suo rispetto nei confronti del padre. Tutto ciò è vero – ma è solo una parte della verità. Gaskell, pienamente consapevole che per i vittoriani la donna irrequieta e resistente al sacrificio di sé era un tabù, non porta alla luce il lato sovversivo di quella vita. La sfida di Charlotte fu proprio quella di combinare il fervore della suora – con la quale aveva molto in comune – con il rifiuto di negare la natura.

Dati gli angusti limiti della casa e del villaggio, e la repressione subita nella scuola di carità, come riuscì Charlotte Brontë a espandere il suo spazio immaginativo? La sua fu una ricerca durata tutta la vita, ma due aspetti della sua infanzia – la distesa delle brughiere dietro case la rabbia provata in collegio – aprirono un paesaggio interiore che rimase, singolarmente, solo suo. In ciò si trovò in accordo con le ardenti aspirazioni di Maria (in Jane Eyre, il personaggio che la incarna si chiama Burns, ‘brucia’, dal soprannome che Maria aveva a scuola). Recenti ricerche hanno dimostrato che nel suo ministero il signor Brontë, sebbene ripudiasse il calvinismo, si concentrava più sulla dannazione che sulla salvezza. Nel settembre 1824 interpretò l’esondazione di una palude vicino casa come un monito contro il peccato. L’orrore per il peccato fu anche la piaga di zia Branwell53, nonostante la sua famiglia fosse più orientata al pacato metodismo wesleyano che al metodismo di matrice calvinista di Whitefield. La zia insegnò alle nipoti – specialmente alla sua preferita, Anne54 – a diffidare dell’istinto naturale, che andava considerato un suggerimento del diavolo, e a vedere nell’indipendenza di giudizio un peccato d’orgoglio. Maria può essere vista come il prodotto di questa forma di devozione e della Clergy Daughters’ School, ma nella figura romanzesca che Charlotte restituì della sorella fu in grado di trascendere entrambe. Nei suoi discorsi più lunghi e ispirati, Burns espone un suo particolare credo, la fede in uno spirito più puro di quello punitivo che pervade la scuola. Riesce a vedere uno spirito che proviene da un qualche essere superiore all’uomo e che non potrà mai, ne è convinta, degenerare nel demoniaco: «No; non posso crederlo: la mia fede è un’altra; che nessuno mai mi ha insegnato e di cui parlo raramente, ma che mi dà gioia e a cui mi afferro; perché estende a tutti la speranza...».

Nel luglio 1826, un anno dopo la morte di Maria, il padre regalò a Charlotte la copia dell’Imitazione di Cristo nella versione ridotta da John Wesley nel 1803, che era appartenuta a sua madre. Non è dato sapere quanto attentamente Charlotte abbia letto quel libro, se mai lo fece, ma è possibile che l’abbia aiutata ad assimilare la tragedia che aveva vissuto in termini di “cammino” della vita che avanza per tentativi e richiede disciplina: «Non c’è altra via che conduca alla vita e alla vera pace interiore se non quella [...] di una quotidiana mortificazione [...]. Il nostro merito e il miglioramento della nostra condizione non sta nell’abbondanza di dolcezza o di consolazione, ma nel saper sopportare gravi traversie e tribolazioni»55.

Nella sua infanzia, Charlotte diede forma a un’alleanza dualistica tra la Bibbia e la natura, tra l’oneroso pellegrinaggio da una parte e il libero vagare per la brughiera dall’altra. In questo modo riadattò il modello di Maria in un suo personale credo: lo spirito martirizzato eppure indipendente di sua sorella autorizzò il suo bisogno di trascendere le proprie condizioni di vita.

1 CB a EB, Stonegappe, 8 giugno 1839, CBL, I, p. 191.

2 Anne Brontë, Agnes Grey, Roma, Editori Riuniti, 1989, cap. xiii, p. 94.

3 Winifred Gérin ha detto giustamente che per Charlotte Brontë la realizzazione personale non era tanto un risultato letterario, ma la creazione di un carattere. Cfr. Winifred Gérin, Charlotte Brontë: The Evolution of Genius, Oxford University Press, 1967, p. XV.

4 “Biographical Notice of Ellis and Acton Bell”, pubblicata nell’edizione postuma di Ellis [Emily] e Acton Bell [Anne Brontë], Wuthering Heights and Agnes Grey, with A Selection from their Literary Remains, Smith, Elder, and Co., 1850, riprodotta nella maggior parte delle edizioni attuali delle Brontë.

5 Questo sogno è centrale in “Henry Hastings”, la quarta delle cinque “novelle” scritte da Charlotte Brontë quand’era poco più che ventenne. Sono raccolte in Five Novelettes, a cura di Winifred Gérin, Londra, Folio Press, 1971, p. 243; la novella è stata tradotta in italiano e pubblicata autonomamente: Henry Hastings, Caivano, Albus, 2009.

6 CBL, I, p. 191.

7 JE, p. 415.

8 Anne Brontë, op. cit., p. 87.

9 RHJ.

10 Notati da molti, tra cui Matthew Arnold (che ne parla in una lettera del 21 dicembre 1850), Elizabeth Gaskell e George Smith.

11 Un’impressione dell’artista George Richmond (che ritrasse Charlotte Brontë nel 1850), ricordata da suo figlio, John, in una lettera (30 dicembre 1909) a Reginald Smith, genero di George Smith, S-G.

12 CB a EN, 29 ottobre o inizi del novembre 1847, CBL, I, p. 556.

13 CB a Mary Dixon (che cercò di attirare CB a Bruxelles tra il 30 gennaio e il giugno del 1843). Berg. CBL, I, p. 313.

14 L’espressione di CB «naturale carattere domestico» si trova in una lettera a EN, 12 marzo 1839, BPM. Gr: E2. CBL, I, p. 187.

15 Per le informazioni biografiche su Patrick Brontë vedi John Lock e Canon W.T. Dixon, A Man of Sorrow: The Life, Letters and Times of the Rev. Patrick Brontë, Londra, Nelson, 1965; Edward Chitham, The Brontës’ Irish Background, Londra, Macmillan, 1986; J. Horsfall Turner, a cura di, Brontëana: The Rev. Patrick Brontë’s Collected Works, Bingley, T. Harrison and Sons, 1898, e il saggio di Erskine Stuart sulla nomenclatura Brontë in BST 8: 43, 83. Alcuni dettagli provengono da “Currer Bell”, «Belfast Mercury», aprile 1855. Juliet Gardiner fornisce un efficace resoconto dei fatti essenziali in The World Within: The Brontës at Haworth: A Life in Letters, Diaries and Writings, Londra, Collins & Brown, 1992, cap. 1.

16 Le due lettere furono scritte da Henry Martyn ai collaboratori di Wilberforce per richiedere il sussidio per PB. Una lettera non è datata; la seconda è datata febbraio 1804. Bodleian Library, MSS. Wilberforce d. 14.

17 Sh, p. 447.

18 “Prefatory Note to Selections from Poems by Ellis Bell”, Smith, Elder, 1850; trad. it. in Emily Brontë, Poesie, Milano, Mondadori, 1997, p. xxxix.

19 JE: «Non ho parenti, se non la natura, madre universale: a lei chiederò cibo e riposo».

20 Ricordi di EN della sua prima visita alla canonica, estate 1833, LFC, I, pp. 112-113.

21 CB a EG, 30 settembre 1854, Manchester University Library.

22 Vedi l’introduzione di Gérin a Five Novelettes, cit., p.8. Le notizie sulle spedizioni di Mungo Park (1771-1806) arrivarono ai Brontë attraverso il «Blackwood’s Magazine». Qualcuno suggerisce che abbiano letto anche il libro di Park Travels in the Interior of Africa (1799), prendendolo in prestito dalla biblioteca di Ponden Hall, situata nel versante opposto della brughiera.

23 La copia dei Brontë si trova in BPM. Notato da Gérin in Anne Brontë, Londra, Thomas Nelson, 1959, p. 51.

24 JE, I, p. 5.

25 Vedi la poesia di CB Lines on Bewick, datata 27 novembre 1832, CBP, p. 139.

26 PB a EG, 24 luglio 1855, John Rylands University Library, Manchester.

27 EG a un amico, settembre 1853, LFC, iv, p. 91.

28 Di Thomas John Graham (1826). La copia di PB, ricca di annotazioni, si trova in BPM. Bon 38.

29 Contenute in LFC, I, pp. 60-68.

30 Life, p. 36; trad. it. in Elizabeth Gaskell, La vita di Charlotte Brontë, Milano, La Tartaruga, 1987, p. 61. La mancanza di indipendenza nelle risposte delle figlie (ad eccezione di EB) è notata da Katherine Frank, Emily Brontë: A Chainless Soul, Londra, Hamish Hamilton; New York, Viking Penguin, 1990, pp. 44-45.

31 Plead for Me, The Complete Poems, a cura di Janet Gezari, Har­mondsworth, Penguin, 1992, pp. 22-23. Scelta dalla stessa EB per essere pubblicata in Poems (1846); trad. it. Parla per me, in Anne, Charlotte, Emily Brontë, Poesie, Milano, Mondadori, 2004, p. 749.

32 Gérin, CB, cit., p. 10.

33 La storia del cognome è discussa in Chitham, The Brontës’ Irish Background, Londra Macmillan, 1986. Sembra tuttavia difficile giungere a una verità certa sui fatti.

34 La versione di CB dei disastri di Cowan Bridge si trova in JE, dal capitolo v al ix.

35 “The Advantages of Poverty in Religious Concerns”, contenuto in LFC, I, pp. 24-27.

36 Su questo punto sono in debito con Allegra Huston di Weidenfeld & Nicolson.

37 EG a Catherine Winkworth, 25 agosto 1850, EGL, 75: 125, e LFC, iii, p. 143.

38 LFC, I, p. 59.

39 The Brontës: Selected Poems, a cura di Juliet R.V. Barker, Londra, Dent, 1985, p. 99; trad. it., Non è vile la mia anima, in Poesie, cit., pp. 803-805.

40 La seconda metà di questa poesia è stata completata il 2 marzo 1836. The Poems of Patrick Branwell Brontë, a cura di Tom Winnifrith, Oxford, Blackwell, 1983, p. 23-33; e Works of Patrick Branwell Brontë, a cura di Victor Neufeldt, ii, p. 492.

41 Citata in una lettera di PBB (dicembre 1835) all’editore del «Blackwood’s Magazine» e ripresa dalla signora Oliphant in Annals of a Publishing House: William Blackwood and His Sons, ii, Edimburgo, Blackwood, 1897, pp. 177-179.

42 Si trova nel RHJ, BPM. Bon 98/6, p. 464.

43 “Reminiscences of Charlotte Brontë” di EN, in «Scribner’s Monthly», maggio 1871, pp. 18-31. Queste furono originariamente scritte per accompagnare un volume delle lettere di CB a EN. Alla fine, solo alcune lettere furono pubblicate in Hours at Home (1870), e le “Reminiscences” furono date alle stampe separatamente. LFC, I, pp. 92-100.

44 Fu una compagna di scuola a descrivere questa scena a EG, che la riportò in Life, p. 45; trad. it. in La vita di Charlotte Brontë, cit., pp. 72-73.

45 Ricordato da MT per EG (18 gennaio 1856), e contenuto in Life. Riportato per intero in Joan Stevens, Mary Taylor, Friend of Charlotte Brontë: Letters from New Zealand and elsewhere, Oxford University Press and Auckland University Press, 1972, Appendix B. La scrupolosità accademica della trascrizione dei materiali di MT rende questa compilazione sempre preferibile a LFC.

46 JE, p. 141.

47 Ivi, pp. 143-144.

48 Lettera del 30 gennaio 1846, contenuta in CBL, I, p. 448.

49 In Elizabeth Raikes, Dorothea Beale of Cheltenham (1908), citato da Gillian Avery, The Best Type of Girl: A History of Girls’ Independent Schools, Londra, André Deutsch, 1991, p. 50.

50 Life, p. 375: «I do not deny for myself the existence of coarseness here and there in her works, otherwise so entirely noble. I only ask those who read them to consider her life...»; trad. it. in La vita di Charlotte Brontë, cit., p. 485: «Da parte mia non nego che qua e là si incontri qualcosa di grezzo nei suoi lavori così nobili nel loro insieme. Chiedo solamente a chi li legge di prendere in considerazione la vita da lei condotta...». La stessa opinione è espressa da HM in «Daily News», aprile 1855: «La volgarità che, in una certa misura, pervade le opere di tutte le sorelle, e la repulsione che rende le storie di Emily e Ann[e] davvero insostenibili per chi non abbia nervi d’acciaio». Vedi anche la recensione di Elizabeth Rigby, “Vanity Fair and Jane Eyre”, «Quarterly Review», dicembre 1848, pp. 153-185: «Una grande volgarità nel gusto». Inga-Stina Ewbank esplora le connotazioni del termine “volgare” in Their Proper Sphere: A Study of the Brontë Sisters as Early Victorian Female Novelists, Londra, Edward Arnold, 1966, p. 46.

51 EG a Tottie Fox, martedì [27] agosto 1850, EGL 79: pp. 129-131, e LFC, iii, p. 147. «Povera Miss Brontë», scrisse Emily Winkworth a sua sorella, Catherine Winkworth, dopo aver letto la lettera di EG in cui la crudele vita di CB veniva descritta come priva di qualsiasi scintilla di gioia e in cui CB veniva quasi sicuramente data per infetta da quella tubercolosi che aveva ucciso le sue sorelle, 30 agosto 1850, LFC, iii, p. 151.

52 Jenny Uglow, Elizabeth Gaskell: A Habit of Stories, Londra, Faber, 1993, pp. 242-243.

53 Per i pregiudizi religiosi di PB e zia Branwell vedi Tom Winnifrith, The Brontës and Their Background: Romance and Reality, Londra, Macmillan, 1973, pp. 36-38; e Rebecca Fraser, Charlotte Brontë, Londra, Methuen, 1988, p. 46.

54 Gérin, Anne Brontë, cit. p. 101.

55 Thomas da Kempis, The Imitation of Christ, versione ridotta da John Wesley (1803); trad. it. in Imitazione di Cristo, Milano, Rizzoli, 1974, pp. 139-145.