Accompagnarvi, tappa per tappa, in questo viaggio: è uno dei miei compiti. Una premessa, una piccola spiegazione, un ricordo di ciò che è stato, un breve passaggio dietro le quinte prima che Alex inizi a raccontare. Roba così. In questo, di capitolo, non serve proprio niente. Solo leggere.
Ci sono ragioni valide per soffrire. Dicono che io ci sia passato, un po’ di anni fa. E ci sono sensazioni nascoste che fanno percepire ciò che accade in modo diverso, incomprensibile agli occhi di chi guarda. Io ci stavo dentro, senza capire bene perché e da dove tutto questo avesse avuto inizio. Il conto alla rovescia si stava concludendo. Ero pronto per la cronometro dei Giochi di Rio: alle 9.26 di un mercoledì mattina brasiliano cominciava la mia seconda Olimpiade. Non era la mia corsa, sulla carta. Poteva diventarla.
Ho ripassato mentalmente tutto quello che avevo pianificato, ho messo da parte la tensione che prende prima di ogni appuntamento simile, ho tirato un lungo respiro. Avevo davanti quasi mezz’ora di gara. Il mio carattere esuberante, l’adrenalina che mi spinge sempre e il mio desiderio eterno di fare le cose che amo potevano diventare i miei nemici peggiori. Lo sapevo bene. Eppure, mentre dalla voce di un commissario di gara sentivo i numeri diminuire uno a uno, ho chiuso gli occhi e me lo sono ripetuto un’ultima volta: “Zanna, è il tuo momento! Ma dura mezz’ora, non mezzo minuto…”. E sono partito.
Stavolta ho rispettato dall’inizio il piano stabilito. Dietro mi seguiva l’ammiraglia della Nazionale con a bordo il commissario tecnico Mario Valentini e il suo vice Fabio Triboli. Avevo chiesto di darmi i riferimenti sui rivali principali, almeno quelli previsti alla vigilia: lo statunitense Oscar Sanchez e l’olandese Jetze Plat su tutti. Fabio, il cui vocione rende inutile l’uso del megafono, dopo poco ha iniziato a gridarmi: «Bene!». Che nel nostro codice significa che sei in vantaggio. E poi: “Bene… 10!”, “Bene… 10!”. E il numero rappresenta i secondi che hai sul rivale più vicino. La corsa sembrava sotto controllo. Ma non avevamo calcolato tutto. Giuro: me lo sentivo.
Alla fine del primo giro, sui due in programma, sono transitato sulla linea d’arrivo e ho avuto il tempo per buttare l’occhio sul megaschermo che mostrava i tempi: 1° Tripp (Australia) 14'28''91, 2° De Vries (Olanda) 14'35''20. Non erano i nomi che stavamo controllando. E l’australiano era partito per primo, quasi dieci minuti prima di me… “Se ne saranno accorti?” mi chiedevo. Poi ho guardato il computer che ho sulla bici: il timer azzerato al via era già arrivato a 14 minuti e 50 secondi. Quindi “bene 10” non era bene per niente… Avevo una ventina di secondi di svantaggio rispetto a Stuart Tripp e serviva a poco calcolare quelli da De Vries. In momenti simili la confusione è peggiore di un’amara verità: ho pensato, sperato, che il rilevamento fosse stato preso in un’altra parte del circuito, centinaia di metri prima. Ma, riflettendo, ho capito che l’ipotesi non aveva senso. Ero indietro e di molto. Mi era successo anche l’anno prima, al Mondiale di Nottwil, in Svizzera. Nella crono, dopo un terzo di gara, stavo viaggiando lontano da Plat e dallo stesso De Vries. Con serenità mi ero detto: “Vabbè, le hai suonate a tutti per molto tempo. Prima o poi doveva accadere”. E avevo continuato a lavorare lasciando da parte ogni ansia. Senza volerlo era stata la mia forza. I due olandesi erano scoppiati e la gara l’avevo vinta su Sanchez e Van Dyk.
A Rio stava accadendo una cosa simile ma, come e più di allora, ho avuto la tentazione immediata di inventarmi qualcosa, mettermi a tirare in modo violento. Controllarmi non è stato facile: non ero animato dallo stesso spirito nobilmente sportivo… Non solo per il valore della posta in gioco, ma per qualcos’altro. Qualcosa che avevo ignorato fino a quel momento. Ho resistito. Stavo seguendo un piano preparato da tempo, da mesi. Dovevo fidarmi. Ho continuato a “spalmare” la mia azione lungo la strada, come previsto. Nella speranza che, per una ragione o per l’altra, il “bene” fosse davvero “bene”. O lo diventasse grazie a un calo dei miei avversari.
Il secondo giro è stato durissimo, come sempre in una cronometro. Però, restando fedele alla tattica studiata per mesi con Francesco Chiappero, il mio allenatore, sono andato veloce come nel primo. Anzi, con la forza della disperazione ho chiuso con uno sprint che ha alzato il ritmo di qualcosina. Una seconda parte di gara perfetta.
Ho tagliato il traguardo e ho spalancato la bocca per “mangiare” l’ossigeno che avevo speso in uno sprint infinito. Ero morto. L’impresa agonistica è riuscire a non calare, arrivare a fine gara disintegrato ma con un livello di agonia che riesci a controllare e poi – a 500 metri dall’arrivo – cacciare una volata che ti porta a finire esanime, ma senza il minimo rimpianto. L’avevo fatto.
Pian piano, tornavo a respirare ma nella mia testa non capivo molto. Dopo 200 metri di abbrivio ho infilato l’uscita dal percorso, perché dietro comunque sarebbero arrivati atleti di altre categorie partite subito dopo di noi. Ho visto venirmi incontro Mario Castello, uno dei massaggiatori della Nazionale. Mi ha gridato: «Aho, pe’ du secondi!». In quel momento – ero assolutamente e indiscutibilmente rincoglionito – ho capito: «Avete fatto due secondi». Siccome c’erano altri azzurri che gareggiavano appena prima di me, pensavo volesse dire che avevamo conquistato due secondi posti. Gli ho domandato: «Ma chi ha vinto?». Non mi piaceva tantissimo il pensiero di aver mancato il successo ma lui me l’aveva annunciato con un sorriso così bello, con una gioia così grande, che non volevo mortificarlo: stavo già cercando di convincermi che, in fondo, andava bene anche l’argento… «Tu hai vinto!» ha risposto. «Ma che cazzo dici?» Giuro, non capivo. «Tu hai vinto! Pe’ ddu secondi.» Allora sono tornato indietro, ho guardato il monitor ed effettivamente il mio nome era in cima all’ordine d’arrivo. È stata una bella visione, non posso negarlo. Ma qualcosa non andava, per qualche motivo non era la stessa sensazione provata a Londra.
Dentro di me c’era una nota stonata. Che non si era ancora manifestata chiaramente ma più passava il tempo più veniva fuori. E nel momento esatto in cui mi hanno comunicato ufficialmente che avevo vinto, come da prassi, ho iniziato a star male.
Di colpo mi sono reso conto di quanta energia avevo messo nel preparare l’avventura, quante persone avevo coinvolto, che livello di perfezione era servito per potercela fare. All’improvviso è emersa tutta la preoccupazione, che evidentemente fin lì avevo represso, per l’attesa, per le aspettative, per i pensieri riguardo un percorso che mi era ostile. E tutti i problemi che un quasi cinquantenne ha nella sua vita. Perché anch’io attraverso momenti difficili e alcuni, in questa stagione, hanno indubbiamente lasciato il segno.
Nelle interviste della vigilia raccontavo che, se si chiamano Giochi paralimpici, devi saper comprendere la parola “paralimpici” ma anche la parola “giochi”: dunque puoi anche non vincere, e accettarlo con il sorriso. L’avevo ripetuta così tante volte questa battuta da iniziare a chiedermi se non la stessi ricordando soprattutto a me stesso. Forse mi ero solo caricato di una tensione enorme, e non siamo dei robot. Ma ciò che ho iniziato a provare in quell’istante assomigliava profondamente a un capitolo finito, a un ciclo chiuso. Pensavo alla mia cassa, quella che ho costruito con orgoglio per trasportare le mie due bici a Rio. Ecco, se dopo Londra non vedevo l’ora di arrivare a casa per tirare di nuovo fuori la handbike, montarla e ripartire, qui metaforicamente ero già pronto a smontarla e metterla via. Anche se avevo ancora due gare da disputare.
Londra era un traguardo, uno dei tanti. Questo sembrava il mio, di traguardo. E si è visto. Quando sono salito sul podio, ascoltando l’inno, sono scoppiato a piangere. Non era commozione: avevo un bisogno enorme di sfogarmi, di far sfiatare una valvola che era rimasta sigillata dentro di me senza che lo sapessi. Mi sarebbero serviti un paio di giorni per elaborare tutto, ma non li avevo. Così sono arrivate le lacrime, in modo quasi irrefrenabile.
Quando racconto al dottor Claudio Costa, storico medico dei motociclisti e grande amico, di certi miei travolgenti finali di gara, lui identifica nella forza, nella cattiveria agonistica e nelle energie – che mi portano a volte a superare i limiti della fatica – il frutto di capacità speciali. Parte con i suoi discorsi sul “sentiero del dolore”, la mitologia greca, i racconti epici, alla fine dei quali la sintesi è la seguente: ci sono individui che quando desiderano qualcosa ferocemente riescono ad attivare meccanismi che annullano le protezioni naturali del loro corpo. Quelle che servono per evitare che la fatica ci faccia del male. È la più potente forma di doping che possa esistere in natura, conclude sempre. A me piace ascoltarlo e, anche se non ci credo tanto, le sue parole mi lusingano. Però poi inevitabilmente, quando metto giù il telefono, penso: “Claudio è il solito esagerato, lo dice perché mi vuole bene”.
Lui esagera, però qualcosa di vero ci dev’essere. Il giorno seguente la sfida a cronometro era in programma la gara in linea: Alessandro ha fatto una prestazione buonissima, ma Zanardi non c’era. Forse, se fossi stato nella condizione descritta da Costa, ce l’avrei fatta. Invece non è accaduto. Ho avuto qualche occasione ma mi è mancata la capacità di approfittare di attimi che in passato mi avevano regalato successi inaspettati e bellissimi. Prendere la giusta decisione, sfruttare un colpo d’occhio magico. Niente di tutto questo. Ernst Van Dyk mi ha battuto in volata e ha vinto meritatamente dopo una gara in cui si è speso in modo generoso, più degli altri. Io, nell’anniversario del mio incidente tedesco, mi sono svegliato la mattina ed ero già vuoto. Sono partito e ho iniziato a contare non i chilometri ma addirittura i metri. Ho cominciato anche psicologicamente a prepararmi a un risultato mediocre, a dirmi che non avrei dovuto deprimermi o farmi prendere dallo sconforto, che era già una gran cosa esserci a questi Giochi.
Ho corso bene, salvando le energie che mi erano rimaste, e sono molto orgoglioso di aver conquistato comunque una medaglia d’argento. Ma non ero in stato di grazia. Non ero io, o almeno quello che mi ero abituato a essere. Avrei dovuto sentirmi deluso. Invece ho assaporato, in modo malinconico ma allo stesso tempo molto dolce, una sensazione diversa. Non sono un marziano, e non dovevo certo impararlo a Rio. Ma scoprirmi più umano di quanto non sia stato in altre situazioni mi ha trasportato in una condizione molto bella, in cui ho compreso una volta di più che non siamo macchine ma esseri misteriosi capaci di sorprenderci e meravigliarci con i nostri stessi comportamenti.
Quella notte ho dormito bene. Altro sintomo del peso che se n’era andato. Non ero arrivato al capolinea, la mia passione c’era ancora: non era quello il momento di mettere la bici nella cassa…
Il terzo giorno era in programma la staffetta a squadre, con i miei compagni Vittorio Podestà e Luca Mazzone. Ero carico, mentre dentro di me i pensieri volavano e mi dicevo che poteva essere la mia ultima gara olimpica. Volevo correrla bene, dunque. Sono partito per la frazione ascoltando solo il mio corpo che desiderava spingere, tirar fuori tutto. E alla fine, controllando i dati sul computer, ho scoperto di aver prodotto, nei primi tre minuti, il miglior valore di potenza media della mia carriera: 389 watt, che a forza di braccia è tanta roba!
Non sentivo la fatica, e mi sono ripetuto nelle frazioni seguenti. I miei compagni non sono stati da meno e abbiamo vinto. Anzi, stravinto. Sono arrivato sul traguardo da solo, su due ruote. L’avevo già fatto quando abbiamo conquistato il Mondiale a Baie Comeau, in Canada. Correre insieme, condividere la fatica, moltiplica la gioia e lenisce la sofferenza. È esaltante. Abbiamo battuto gli Stati Uniti per 47 secondi, nonostante nell’ultima parte di gara abbia rischiato di metter sotto un cane. Un randagio è entrato in pista e quattro o cinque addetti gli sono corsi dietro, spaventandolo. Lui, preso dal panico, mi è venuto incontro: ho pestato una frenata pazzesca, abbiamo perso tempo ma abbiamo salvato il cane… Dopo il traguardo mi sono buttato sui miei compagni, è stata la prima cosa che mi è passata per la testa. Chi ha visto la scena si è emozionato. Mi ci sono lanciato io, ma metaforicamente c’eravate tutti: era una vittoria dell’Italia. Mentre avvicinavo il traguardo su due ruote continuavo a indicare la scritta che portavo sulla maglia, quella della mia nazione. Ci tenevo.
Orgoglio a parte, sul podio pensavo che nel tornare al villaggio olimpico avremmo dovuto fermarci in un supermercato a comprare una cassa di birra per festeggiare. Iniziativa puntualmente rispettata. E mi dicevo, su quel podio, che quattro anni in fondo erano volati.
La preparazione per Rio è cominciata il giorno dopo la conclusione dei Giochi di Londra. Come detto, non vedevo l’ora di tornare a casa, aprire lo scatolone, rimontare la bici e andare subito in giro. Lo sognavo già il Brasile. Con Mario Valentini ci eravamo fatti la promessa che all’Olimpiade 2016 saremmo arrivati insieme. Sembrava di spararla veramente grossa: io avrei avuto cinquant’anni. Poi adesso son qui che parlo con Mario di Tokyo 2020, ma questa è un’altra storia…
In mezzo, tra le due Olimpiadi, l’entusiasmo non è mai calato. Mi sono goduto i chilometri percorsi, gli allenamenti, i tre Mondiali che ho vinto. Ma alla vigilia di questa stagione si è aggiunto il ticchettio di un orologio che scandiva una specie di conto alla rovescia.
Negli inverni scorsi non mi preoccupavo troppo quando mangiavo una fetta di brasato o allungavo la mano verso la bottiglia di vino che mio cognato portava per il pranzo di Natale. Stavolta invece, entrando nell’anno olimpico, sono stato attentissimo anche in questo, mi sono concesso meno deroghe e ho lavorato con una precisione maniacale. Ha funzionato tutto bene fino ad agosto.
Ma un mese prima di Rio ho iniziato a far fatica. A livello inconscio, ma sempre di fatica si trattava. Diventava una forzatura fare qualcosa, qualsiasi cosa, in più. Avvertivo che si stava avvicinando un traguardo. E non si traduceva, come era sempre successo, nella voglia di rilanciare per un ultimo grande sforzo. Sembrava piuttosto l’accettazione che qualcosa di profondo e incontrollabile potesse o dovesse accadere dentro di me. Come poi è successo, sorprendendomi.
Il lavoro in ritiro, con i miei compagni di Nazionale, è stato intenso e divertente. Facevamo base a Rocca di Mezzo (in provincia di L’Aquila) e le strade intorno a Campo Felice erano perfette per le nostre uscite a mettere insieme chilometri.
Con il mio allenatore avevamo capito da tempo le difficoltà di queste gare brasiliane. Le caratteristiche tecniche del percorso non mi avrebbero concesso alcun vantaggio: il mio rapporto peso/potenza, che di solito in salita mi favorisce, non avrebbe avuto alcuna influenza. In relazione al tipo di disabilità, ognuno di noi ha caratteristiche che possono diventare punti di forza o limiti. La mia forza è poter lasciare in hotel il peso delle gambe: mentre ti arrampichi – se poi hai modo di recuperare in discesa – aiuta. Ma per mezz’ora di gara totalmente pianeggiante, dove non fermi mai le braccia, sono molto maggiori i limiti. Non a caso mi sono ritrovato sul podio con due atleti che le gambe le possiedono ancora: avere due litri di sangue in più nel proprio corpo consente di “pulire” le tossine e fa una certa differenza.
Così quest’anno, con Francesco, abbiamo lavorato in modo diverso. Curando la resistenza allo sforzo invece di sviluppare ulteriormente i muscoli per produrre potenze più alte per tempi più brevi. Lui è stato bravissimo nel calcolare tempi di recupero adeguati, io nel fidarmi ciecamente. La mia macchina adesso è diversa: a cinquant’anni produco ancora ottime prestazioni ma non paragonabili a quelle che mi riuscivano anche solo due anni fa. Stabilire dov’erano il mio livello di forma e la mia curva di fatica e come si incrociavano tra loro è stata la piccola magia, che rasenta la perfezione.
Il mio contributo ulteriore è stato presentarmi con l’evoluzione di una bici già eccezionale, quella usata a Londra. Agli amici della Dallara, azienda che costruisce telai e un sacco di altre componenti per le auto da corsa, ho “concesso” solo un 10 per cento totale su cui incidere: il restante 90 per cento della resistenza aerodinamica è rappresentato dal mio corpo e lì più di tanto non si può fare. Mica mi posso far tagliar via qualche altro pezzo… Su quel 10 per cento si sono impegnati tantissimo, sono riusciti a incidere e anche quello è stato determinante. Così come la forma del casco che si integrava perfettamente con la bici o la tecnologia delle ruote e del cambio. Ognuna di queste parti è stata fondamentale al termine di una gara che ho vinto per due secondi e mezzo. In fondo è un piccolo merito sapere cosa chiedere e coinvolgere emotivamente chi lavora insieme a te: sono convinto che sia stata una soddisfazione enorme anche per loro. Tanti anni fa non sarei riuscito a cercare il pelo nell’uovo e soprattutto a trovarlo, conscio dei miei limiti in una situazione del genere.
Insomma, abbiamo fatto tutto bene. Poi è iniziato quel famoso conto alla rovescia. La fine del ritiro, il volo aereo per Rio, il villaggio olimpico. E negli ultimi giorni prima della gara la sensazione che a un traguardo di qualche genere mi stessi avvicinando è diventata via via più percepibile. Era uno sforzo e lo vedevo sulla fame che dovevo tenere a bada. Non fame di vittoria, fame di cibo! Fa anche un po’ ridere, ma era una fatica bestiale resistere alle patatine sui piatti di alcuni miei compagni, a un pezzo di carne cucinato in modo elaborato o a una fetta di pane tostato in più da mangiare insieme all’insalata.
Era diventato difficile anche dormire, controllare l’orologio e scoprire ogni notte la stessa cosa: che dopo le 3 arrivano le 4 e poi le 5… E che alle 6 ti alzi perché pensi: “Almeno inizio prima la giornata, con tutto quello che ho da fare”. Credevo fosse solo un segnale degli anni che passano, ma adesso che sono tornato a casa sto infilando notti da più di dieci ore al termine delle quali mi sveglio nell’esatta posizione di quando mi sono coricato. Tutto questo ha consumato il mio motore emotivo. Ma non potevo farci niente. E anche la sera prima della cronometro ho faticato a addormentarmi. Nel dormiveglia ho ripensato al lungo viaggio, inatteso e bellissimo, cominciato tanti anni fa in un autogrill. Un viaggio che sembrava passato in un attimo, non come la mia notte infinita in attesa della sveglia. Quando ha suonato, invece di dirmi come sempre: “Finalmente ci siamo!”, la frase più calzante per una volta avrebbe dovuto essere: “Dai Zanna, è l’ultimo sforzo!”.