“Sei proprio sicuro?” Se non addirittura: “Ma sei matto?”. Posso solo immaginare quanta gente, soprattutto tra chi lo frequenta spesso, abbia pronunciato queste due frasi quando Alex ha deciso di dedicarsi completamente alla handbike. Comprensibile.
Ho conosciuto Zanardi per lavoro nell’autunno del 1997, quando ha vinto il suo primo titolo negli Stati Uniti. L’avevo visto correre un paio di volte in F.3000 nel 1991, al Mugello e sul circuito di Spa, da semplice appassionato, e ne ero rimasto molto colpito, andava veramente come una scheggia.
Da giornalista avevo vissuto i suoi exploit in Indy a distanza, in redazione a Milano: le sue gare finivano tardi a causa del fuso e, in quanto ultimo arrivato nel gruppo, restavo spesso a fare la guardia al barile.
Mi piaceva, quelle corse in fondo le avrei viste anche a casa mia. In più era stato capace di imprese memorabili, non solo vincenti ma molto spettacolari. In quei giorni, in quegli anni, Alessandro rappresentava la quintessenza del pilota. Che non è certo tramontata con l’incidente. Anzi, il ritorno alle corse e – poco dopo – al successo aveva rafforzato se possibile questa immagine.
E adesso lui abbandonava un luogo accogliente dove tutti si erano abituati a vederlo, e dove forse volevano continuare a vederlo, per imboccare un sentierino che era stretto stretto – rispetto ai metaforici viali circondati di spettatori dell’automobilismo da corsa – e soprattutto non si sapeva dove portasse.
Quando Alex si è concentrato sullo sport paralimpico il seguito era veramente minimo, per usare un eufemismo. Di pubblico, media, tutto. Ma la sua scelta non era motivata dall’interesse che circondava o avrebbe circondato queste gare. Voleva solo infilare una strada che gli sembrava giusta per lui. E nel frattempo divertirsi un po’. Ci voleva coraggio. Non per correre in handbike, ma per essere se stessi. A me la faccenda in fondo intrigava, nel tempo avevo imparato a fidarmi di quest’uomo. “Sa dove sta andando” mi dicevo. Non credo di avergli mai chiesto se era sicuro o se era diventato matto.
Quando ho salutato la BMW, per dedicarmi all’handbike, la strada che si apriva portava all’Olimpiade di Londra. Non era il mio primo pensiero ma poteva rappresentare la conclusione naturale di un percorso. Ho iniziato a vincere spesso, a fare punti iridati, la partecipazione diventava automatica. E pian pianino sono arrivati segnali di un certo tipo. Come la scoperta che le gare di paraciclismo si sarebbero disputate sul circuito di Brands Hatch.
Io ovviamente non ne sapevo niente, la notizia me l’aveva data Podestà, che non avendo una mazza da fare sta sempre davanti al computer…
Battute a parte, ce lo siamo già detto, ma Vittorio è stato strumentale per il salto di qualità verso quei Giochi, quando aveva insistito con il discorso di una bicicletta fatta apposta per me. Dopo aver “copiato” quella di Sanchez e prodotto l’“attrezzino” da usare in palestra ho iniziato a vedere un rendimento superiore anche del 30 per cento rispetto a prima. Mi son detto: “Qualcosa andrà sprecato in aerodinamica, però questa bici dobbiamo metterla in strada il prima possibile”. Lì è cominciata l’avventura giusta. Perché già alla prima prova, a parità di sforzo, andavo più forte e ciò mi consentiva di concentrare l’energia trasformandola in potenza e velocità. In quel momento ho capito che, lavorando bene, potevo arrivare al vertice.
In questo sport la bici che va bene per me non può essere perfetta per un altro. Se hai una sola gamba, se hai un moncone più lungo o uno più ridotto, se hai un braccio più corto e così via. Tutto è diverso e tutto è relativo. E queste differenze diventano ancor più importanti nella mia posizione. Da sdraiato ti agiti meno, la posizione tende a essere quella e punto. Mentre per noi amputati, che ci dimeniamo come ossessi, è come avere a che fare con uno strumento che una volta accordato suona benissimo, ma da accordare è un casino. Ecco, io da questo punto di vista credo di aver innovato molto. E infatti adesso – è una ruota che gira – gli altri hanno copiato me. Hanno compreso il piccolo segreto dietro certe mie prestazioni, soprattutto in pianura o a cronometro. Le braccia sono più forti a tirare che a spingere: se ti metti su una panca e sollevi un peso, tiri su 50 chili; se ti appoggi col petto e lo raccogli da terra, ne tiri su facilmente 100. Ma cosa succede se non hai modo di scaricare questa forza, e nel mio caso con due monconi così corti è facile, perché non sei ben attaccato al mezzo? Come ti tieni agganciato per tirare davvero con energia e non saltare fuori dal guscio?
Alla fine sviluppare la mia posizione e puntare molto di più sulla spinta che sul tiro è stata una scelta un po’ imposta, ho dovuto fare di necessità virtù: in questo modo infatti riesco a stare con il busto molto più inclinato in avanti e aerodinamicamente paga.
Con dei valori di potenza media buoni, ma non eccezionali, produco velocità che i miei avversari fanno fatica a eguagliare, se non sprecando tanta energia in più. Per cui a loro volta hanno copiato.
Fino a Londra, in gara, vedevi atleti produrre prestazioni simili ma con mezzi molto diversi tra loro. Dopo l’Olimpiade del 2012 il livello si è alzato ulteriormente e oggi guidiamo mezzi che si assomigliano tantissimo. Se scendo dalla mia bici e trovo il modo di fissarmi adeguatamente su quella di Van Dyk posso correrci senza problemi, perché fondamentalmente è la stessa: altezza, movimento da terra, lunghezza delle leve, larghezze e così via.
Ne sono anche orgoglioso: ha molto a che vedere col mio essere trafficone, con le mie passioni, col fatto che mio nonno quand’ero bambino mi regalò una motina a retrocarica e io la smontai tutta perché volevo capire come funzionava… A questo ho aggiunto le conoscenze specifiche acquisite nell’automobilismo sportivo: accesso a materiali, ad amicizie che mi consentono di individuare con facilità chi mi può fare quel pezzo, il poter condividere la genialità della Dallara. Sono vantaggi, certo.
Ma per restare all’attualità un rivale come Plat ha venticinque anni, spinge come un ossesso e suda sette camicie. Io invece di anni ne ho il doppio, e sono cinquant’anni che sto al mondo, mi son fatto degli amici. L’aiuto che mi possono dare è impagabile. Ma, ancora una volta, loro mi possono dare la risposta giusta, ma non la domanda, capite? Ecco, credo che alla vigilia di Londra tutto si sia messo insieme con grande tempismo, un incastro perfetto.
Prima di provare la nuova bici mi ero sempre sentito lontano dai migliori. Sui giornali erano comunque celebrazioni, anche per i piazzamenti, ma un conto era ciò che scrivevano loro, un altro ciò che sapevo io. Servivano tempo, voglia, molto lavoro. E il disimpegno di BMW Italia dal Mondiale era cascato bene. Avrei potuto correre il campionato Superstars, però era un déjà-vu, qualcosa che avevo già vissuto. Un’altra salsa di un piatto buonissimo ma gustato in mille occasioni diverse.
In testa ho sentito proprio la mia voce che diceva: “Voglio andare!”. A quel punto l’obiettivo, anche se ancora annebbiato, era disputare una Paralimpiade e quella di Londra era in programma due anni dopo. Non ci pensavo troppo. Mi stimolava di più mettermi in discussione in uno sport che sembrava divertente e mi piaceva. Ma l’appetito vien mangiando.
Una volta costruito questo mezzo, molto più adatto a me, è iniziato il gioco vero. Anche se un gioco non così facile…
La prima uscita fu alla Maratona di Roma in cui viaggiai in effetti molto forte. Illudendomi e pensando di andare subito all’incasso anche nelle sfide internazionali. Salvo poi scoprire, alle prime gare di Coppa del mondo, che il distacco si era dimezzato ma c’era ancora molto da sforbiciare per agguantare i più forti. E per un attimo ero rimasto un po’ così, perché ero fiducioso di poter migliorare ma non avevo bene chiaro in testa come. Lì tornò buona la mia filosofia più intima, quella che mi ha accompagnato in questi ultimi anni e invece mi mancava quando, a inizio carriera, pensavo che diventare campione fosse l’unica cosa importante. Oggi mi rendo conto che fondamentale è solo il piacere che trovi nel fare qualcosa al meglio delle tue capacità. Per cui mi sono messo al lavoro, era la parte più bella.
E di lavoro ne serviva. La stagione 2010 si concluse con il Mondiale in Canada, a Baie Comeau. E per l’ennesima volta – siccome venivo da risultati interessanti – puntavo a qualcosa di grosso, almeno una medaglia. Niente. A cronometro mi beccai i miei bei 2 minuti e 8 secondi da Sanchez arrivando quinto, che è parecchio (soprattutto dopo aver pensato: “Questo percorso tecnicamente mi favorisce”…). E nella gara in linea chiusi sesto. Uno potrebbe anche dire: “Vabbè, dai, quinto non è male”. No, invece, è male! Perché in questi appuntamenti iridati non c’è un gruppo numeroso di atleti. Una trasferta del genere ha dei costi e le nazionali ci pensano due volte prima di imbarcare trenta persone. Dunque, tendono a essere selettive e convocano chi ha davvero una chance. Per cui a un Mondiale puoi aver gare con quindici atleti o anche meno. In quell’occasione eravamo meno di dieci. Tutti di alto livello, perché sono quelli che in effetti possono star lì, però alla fine quando vai a controllare l’ordine d’arrivo te ne sei messi dietro pochi, ma veramente pochi, e questo un po’ ti deprime. Speravo in qualcosa di diverso.
Ma l’anno si concluse comunque con dei segnali positivi, dovuti probabilmente più al mio innato ottimismo che a riscontri oggettivi. Perché in realtà, rivedendo il tutto col senno di poi, ho davvero creduto tanto in me stesso e nel divertimento che mi procurava allenarmi e provarci. Forse cercavo anche dei motivi, degli stimoli, per non mollare.
Così ho iniziato a lavorare diversamente, anche come preparazione fisica. Ho cominciato ad ascoltare un po’ di più Podestà. Non che mi allenassi male, come quantità non avevo mai esagerato, ma quando mi sono dedicato solo alla handbike è subentrato un entusiasmo che si traduceva in fatica eccessiva. Alla fine mi stancavo.
Perciò, come prima mossa per il 2011, mi sono dotato di un allenatore – Fabrizio Tacchino –, che è in gamba e ne capiva molto più di me. Dopo però ci siamo resi conto che non era la persona più adatta alle mie esigenze: è parecchio impegnato con tanti giovani ciclisti e non ha avuto il tempo per comprendere che certi allenamenti andavano ridefiniti per uno come me che ha un apparato muscolare diverso. Però quell’anno Fabrizio è stato molto utile nel darmi la misura dei carichi e nell’insegnarmi a lavorare con più qualità. Anche se non è riuscito più di tanto a frenare il mio slancio: di fronte a certi esercizi pensavo che aggiungendo un buon 15-20 per cento al programma previsto avrei fatto meglio il mio lavoro. Cazzata. Era vero il contrario.
Comunque quella del 2011 si rivelò una stagione diversa. Perché andavo più forte, perché nelle gare di Coppa del mondo mi sono visto subito più vicino agli altri e perché alla fine, al Mondiale di Roskilde, portai a casa un argento che mi diede la conferma dei progressi fatti.
Il mio errore, in sostanza, era che viaggiavo monomarcia, come dire, sempre a fiamma! Uscivo, partivo e tiravo come un assassino. Oppure mi dicevo: “Vado piano fin sotto i colli Euganei, poi quando iniziano tiro”. Ma il mio andar piano era talmente forte che quando arrivavo ai piedi delle salite ero già cotto e dunque, per raggiungere la cima, mi disintegravo. Peraltro non usavo strumenti particolari per valutare lo sforzo. Un cardiofrequenzimetro e amen.
Ma il ciclismo oggi, grazie al misuratore di potenza, è molto più scientifico di quanto non fosse un tempo. Naturalmente Vittorio me l’aveva suggerito.
Alla fine, dai e dai, ne ho comprato uno di un’azienda tedesca. Uno strumento “ignorante”: fa una sola cosa ma la fa molto bene. Fondamentale per uno come me, che deve imparare ad allenarsi e soprattutto poter dialogare in modo efficace con il proprio preparatore atletico. Con quello registri tutto. E dopo aver finito, quando carichi il tuo allenamento sul computer e lo spedisci via e-mail, un tecnico è in grado di vedere cosa hai fatto in modo ancor più preciso che se fosse stato lì con te, al tuo fianco.
Si impara. Nel crescere, nel trovare il tuo stato di forma ideale, devi partire da una serie di lavori, poi farne altri, poi integrarli. Poi ricominciare, perché devi creare delle specie di fondamenta: un lavoro di base che porta il muscolo a memorizzare il gesto. E allora arriva un momento in cui, se vuoi migliorare la prestazione, devi alzare il livello della tua forza e quindi fare esercizi che lo consentono. È un po’ come dire: “Corro o vado in palestra?”.
Dopo che hai corso e hai fatto un po’ di fiato, devi cominciare a lavorare in palestra, su carichi più massimali, più al limite della tua capacità muscolare, poche ripetizioni ma con pesi notevoli. Quando sei riuscito ad alzare il livello della tua forza, cioè per te non è più così faticoso fare le dieci ripetizioni con quel tipo di carico, devi acquisire resistenza inserendo sforzi intensi ed essere in grado di recuperare, anche se stai continuando ad andare veloce. Devi educare il tuo fisico a recuperare nonostante tu abbia fatto uno sprint, nonostante la gara prosegua dopo quello scatto.
Ecco, questo gioco di stimoli, miscelato con i giusti tempi di recupero, consente al corpo di adottare forme di difesa verso questa pressione: l’allenamento non è altro che un modo intelligente di “stressare” il proprio fisico.
E quindi lui cosa fa? Su un lavoro di resistenza impara a utilizzare le risorse che ricava dall’alimentazione – gli zuccheri, il glucosio che brucia assieme all’ossigeno per far funzionare il muscolo. Se invece lo sforzo è estremo il muscolo si ingrossa: strappi delle fibre e il fisico dice: “Socc’mel, qui quelle che avevo fatto non son bastate, sono andate! Allora aspetta che le rifaccio più grosse perché se questa è la musica bisogna adeguarsi…”. Così il muscolo diventa più grande, cresce come misura. E quindi è un percorso in cui fai un giorno una cosa, un giorno l’altra, un giorno l’altra ancora e poi ripeti il ciclo cercando di alzare sempre più l’asticella.
Sintesi: in qualche modo ho dovuto ricondizionare la mia struttura muscolare. Pedalare con le mani rappresenta una grande anomalia. Madre Natura le braccia le ha create per sopportare sforzi di breve durata: solleviamo un peso, ma se poi lo dobbiamo portare dall’altra parte della casa, per dire, ci andiamo con le gambe, dotate di un sistema vascolare adeguato a un lavoro di resistenza. Le braccia mica tanto. Se pensate ai muscoli come fossero motori, funzionano perché arriva la benzina e per le gambe il tubo della benzina è bello grosso. Se vai piano consumi pochissimo carburante, se dai del gas di benzina ne deve passare di più. Per le braccia invece lo sforzo è stato pensato per essere breve. Per cui, con l’ossigeno e il glicogeno a disposizione, quello depositato naturalmente nel muscolo, tiri su anche 200 chili ma per tre secondi. Non hai bisogno di alimentarti e nemmeno di respirare, perché se la faccenda dura quel tempo lì i muscoli funzionano con quello che hanno già in cassa. Tant’è vero – e questo me l’ha spiegato il dottor Costa – che gli antichi greci, quando si sono inventati i Giochi olimpici, son stati dei furbi pazzeschi perché i 100 e i 200 metri rappresentano distanze che vanno oltre il limite fisiologico dell’essere umano: per completare lo sforzo non bastano le risorse naturalmente a disposizione. Devi andare oltre, devi fare una cosa che si definisce il “pane del campione”. Perché se i 100 metri invece di esser 100 fossero 80, tu li potresti fare in apnea. Sei più efficace, non sprechi energia per la respirazione e chiudi la distanza con le energie presenti nel muscolo. Invece si va leggermente oltre, per cui hai bisogno di allenarti in un modo particolare per sviluppare le capacità che ti consentono di farcela. Poi la differenza tra chi è un fuoriclasse e chi è soltanto uno che si è allenato come una bestia – bene, bravo – ci sarà sempre.
Io tutte queste cose all’inizio faticavo a capirle, per quanto avessi vicino a me persone competenti, che me lo spiegavano per bene. Uno come Podestà potrebbe tranquillamente allenarsi da solo: conosce la materia, si documenta in continuazione. Io dove potevo documentarmi, che già non capivo niente? Invece, pian piano, ho cominciato a comprendere e nel momento in cui la fai tua diventa anche molto più semplice capire perché ti devi fermare in quel momento preciso, perché un giorno alla settimana devi riposare e via di questo passo. Non ti sembra più di sprecare tempo ma di metabolizzare il lavoro fatto. Così ho iniziato a vedere la luce, come dicevano i Blues Brothers.
Se dopo il Mondiale del 2010 a Baie Comeau, dopo aver preso 2 minuti e rotti, non sapevo dove andare a cercare il tempo che mi mancava, imparando a conoscere sempre meglio la macchina umana – almeno la mia – ci sono riuscito. E più avanti ho potuto concentrarmi su dettagli di cui percepivo l’importanza, ma che avevo dovuto trascurare perché le priorità erano altre.
L’anno in cui ho davvero chiuso il cerchio è stato il 2012. Prima di tutto perché ho conosciuto Francesco Chiappero, il mio attuale allenatore, per merito di Vittorio. Ho ringraziato Fabrizio ma il rapporto a distanza non funzionava, soprattutto per i suoi tanti impegni. Anche Francesco non abita dietro a casa mia. Ma con lui è stato diverso da subito: ha avuto il talento di capire con chi aveva a che fare e quindi – anche se sembra buffo, perché ha sedici anni meno di me – di parlarmi come si fa con un bambino.
A un bambino è inutile rivolgersi come fanno i politici con noi ignoranti, no? Gran parulon… Adesso c’è anche la moda di tutti questi termini in inglese: la spending review, il benchmark, il jobs act. Non si può più nemmeno mangiare in modo normale. Tocca fare dei dinner o dei brunch. Finché poi arriva la voce del popolo, di quello magari un po’ anziano che viene intervistato a Ballarò. “Ma lei cosa ne pensa?” Risposta: “Penso che l’abbiam sempre preso in quel posto. Ma da quando si son messi anche a parlare in inglese, lo prendiam proprio nel culo”.
Ecco, scusate l’amena divagazione, ma Francesco con me ha agito nel modo contrario rispetto ai politici: è stato molto chiaro e diretto. Perché doveva spiegarmi bene tutto. Quindi si è fatto capire usando la grande empatia che si è creata tra noi, anche a livello caratteriale… È molto bravo nel suo lavoro. Certo non è il solo, però lui con me riesce a esserlo più di altri. Mi ha dato davvero una mano: mi ha riordinato i cassetti e adesso trovo tutto.
Alla fine del 2011 abbiamo intrapreso insieme un percorso che da subito ha iniziato a dare frutti. Ero anche nel momento ideale come entusiasmo e desiderio.
Chiappero lavorava già con con Podestà, e dopo un po’ hanno iniziato a prendermi in giro per quanto considerassi seriamente le indicazioni: mi chiamavano Citizen, come l’orologio, per la precisione con cui eseguivo i compiti. Ogni tanto Francesco stampava i tempi di un mio allenamento e li mandava a Vittorio dicendogli: «Guarda come lavora questo qua, con una precisione assolutamente maniacale, millimetrica». Questo, prese per i fondelli a parte, ha contato molto.
Alla vigilia di quel 2012 ero considerato meno di un outsider. “Sì, se va bene a cronometro porta a casa una medagliuzza, ma deve indovinare tutto.” La percezione è cambiata dopo la prima gara di Coppa del mondo, che poi fu anche l’unica che feci quell’anno perché avevo già raggiunto il punteggio per qualificarmi ai Giochi.
Alla Maratona di Roma conquistai sia la crono sia la prova in linea. E ricordo la sorpresa sul volto di Sanchez quando ci siamo trovati vicini alla premiazione. Gli avevo rifilato 13 secondi a cronometro e non si capacitava. Gli parlavo e si vedeva che con la testa stava da un’altra parte. Finché a un certo punto ha alzato gli occhi, di nuovo carichi di grinta, mi ha guardato e ha detto: «Ok, Zanardi, però hai capito cosa hai fatto? Hai svegliato il leone che dormiva». Ho sorriso e la cosa non mi ha spaventato perché in realtà come sportivo, come atleta, stimo talmente tanto lui, Van Dyk, Plat, gli avversari che mi son ritrovato a sfidare, che non mi preoccupa l’idea di essere battuto. Mi sono solo reso conto che forse, furbescamente, avrei fatto meglio a nascondermi un po’… Lui, tornato a casa, si è messo a lavorare. Ma a quel punto ho continuato a lavorare anch’io.