Uno dei tratti più visibili della personalità di Alex è qualcosa che in fondo tutti hanno imparato a conoscere: il suo essere semplice e solare. Da posizione privilegiata, di chi lo frequenta, posso confermare. In quindici anni non l’ho mai visto con il muso. L’ho sentito di buonumore e sereno in mezzo a situazioni che avrebbero fatto perdere la pazienza a un santo. E l’ho scoperto felice soprattutto in compagnia dei suoi amici, senza bisogno di contorni roboanti o lussi clamorosi.
Anzi. Bastano e avanzano una cena, una partita a biliardo, due chiacchiere, le carte, vedere un GP di F.1 in tv insieme alle persone che lo fanno stare bene. Un compagno di scuola, un amico di suo padre, gente normale incontrata lungo la strada. Non figure famose o potenti. Perché alla fine il sugo, e torniamo sempre lì, è fare ciò che ti piace. A lui piace quello.
La semplicità, dunque. Ma questa sua caratteristica che lo rende da un certo punto di vista personaggio molto lineare non gli vieta una profondità di pensiero e una sensibilità intense. I campioni dello sport sono a rischio ego smisurato, e ogni tanto ci cadono. Non raccontiamoci balle. Sarebbe molto strano il contrario, è così umano sentirsi stimati ai limiti dell’adorazione e godere dell’apprezzamento di tutti. Ci sono però anche quelli che sanno riconoscere pregi e difetti personali, specie i secondi, che non mancano proprio a nessuno e con i quali è meglio saper fare i conti. E così sono anche in grado di vivere certi eventi tirando fuori sensazioni impreviste, dopo averle inquadrate e analizzate grattando sotto la superficie più scontata.
Nel momento in cui Alex ha conquistato la seconda medaglia d’oro a Londra, nel momento in cui l’esplosione di gioia sua e di quelli intorno a lui avrebbe dovuto oscurare qualsiasi altro sentimento, gli è venuta una botta di tristezza, quasi un attacco di depressione. E non se l’è nascosto. Se l’è portato fin qua perché ha avuto comunque un significato.
Saper riflettere è un grande pregio, ti permette di gestire meglio ciò che ti succede, di buono e di meno buono. Trattando allo stesso modo – parafrasando la poesia di Kipling – quei due impostori che sono i trionfi e i momenti più duri.
È stata una soddisfazione pazzesca. Alla fine ad arrivare secondo nella cronometro era stato Mosandl, Sanchez – staccato di 45 secondi – aveva chiuso in terza posizione. Roba da non credere. Gli uomini della squadra mi son corsi tutti incontro, erano di una felicità incontenibile. E nel “te l’avevo detto!” pronunciato in quel momento da Valentini non c’era la retorica dei professori del giorno dopo ma la sua fede nell’impresa.
Mario è un tipo da storie vissute con un bicchiere di vino in mano intorno a un tavolo dopo cena, è un casinista, un raccontatore e allo stesso tempo ascoltatore infinito di barzellette. Una in particolare credo di averla ripetuta in sua presenza, senza esagerare, almeno un centinaio di volte. E uno dei suoi classici è il ricordo di una giornata a Giano dell’Umbria, dove avevo raggiunto la Nazionale in ritiro.
Ero arrivato un po’ in ritardo, perché rispetto agli altri ho sempre un sacco d’impegni, e lui mi aveva chiesto: «Domani che fai?». Normalmente il gruppo tende a dividersi tra quelli con l’handbike, che affrontano un certo percorso, e i ciclisti che ne fanno un altro. Quando le strade sono particolarmente impegnative, perché ci sono salite e discese, la differenza è notevole. Io sono un po’ una via di mezzo, per la posizione che assumo sulla bici. Per cui sono sempre molto propenso a rispondere: «Vado con i ciclisti». L’ho fatto anche quella volta. «Vengo con voi, se mi prendete. Che giro fate?» «Ah, domani si fanno più di 100 chilometri.» «Non c’è problema.» Mi sono aggregato e ho percorso 118 chilometri, infilandomi spesso in qualche fuga perché poi, quando la strada scende o si viaggia sul piano, tento di tirare il collo a tutti.
Ogni volta che succede, Mario ne è molto orgoglioso. Perché è di quelli vecchia maniera. Per esempio quando parliamo dell’SRM, il misuratore di potenza, lui si incazza. «Senti, ma con questo RSM (lui storpia sempre la sigla…) se te sei in gara e uno te va via in fuga, te che je stai a di’? Ahó, guarda che l’RSM me segnala che sto a fa’ troppi watt! Ma vaffanculo, ma li mortacci, ma pedala! Ma che stai a guarda’ ’ste robe?» Per cui quando lui trova un atleta che morde l’asfalto, si gasa, s’immedesima. Morale della favola: quel giorno lì era già carico perché mi aveva visto tirar fuori la grinta, la voglia di faticare. Poi siamo arrivati nel casale dove si alloggiava, tutti a fare la doccia per poi trovarsi a pranzo. E io a pranzo non c’ero. Allora Valentini ha detto al massaggiatore: «Oh, va’ a vedere dove sta Zanardi che secondo me quello si è addormentato». Il massaggiatore ha controllato, è tornato e gli ha riferito: «Sta in piscina». «In piscina? A far cosa?» «Sta nuotando. Ha detto che ha in programma cinquanta vasche. Ne ha fatte solo venti.» «Ma quello è matto!»
Il pomeriggio era libero, tutti si sono fatti una dormitina, ma a me il pisolino non piace per cui sono andato nel fienile che era adibito a officina meccanica. Valentini porta sempre in ritiro una Vespa PX 200, con il rullo montato in coda, per il cosiddetto “dietro motore”. Esercizio che consiste nel viaggiare in scia a una moto utilizzando un rapporto lungo e che, grazie allo schermo aerodinamico fornito dal mezzo che ti sta davanti, consente un lavoro defaticante.
Il problema è che lo scarico della Vespa, che tra l’altro va a miscela, a me che con l’handbike sto basso butta i fumi in faccia. Allora – anche per fargli uno scherzo – in officina ho trovato una scopa, ho smontato il manico, l’ho attaccato con due fascette al portapacchi e poi con un tubo ho fatto un collegamento con lo scarico, sistemandoci anche un beccuccio sopra. Poi son stato lì ad aspettare che il buon Mario arrivasse. Volevo vedere la sua faccia, farmi due risate. Si è presentato dopo un bel po’, ha fatto un giro e se n’è andato. L’ho rincorso: «Be’? Hai visto niente di strano?». È tornato indietro. «Ma li mortacci!»
Il “dietro motore” serve a far lavorare velocemente la muscolatura, senza sforzo, far circolare il sangue e portar via la “roba sporca” prodotta dall’allenamento, è una sorta di recupero attivo. Allora eravamo lì, sotto ’sta tettoia, in una giornata calda, dopo aver riso per il manico della scopa. E mi ha detto: «Ahó, vuoi fare un po’ de scarico che oggi hai lavorato molto? Me sei piaciuto». «Vabbè» ho risposto. Mi faceva piacere gratificarlo un po’. «Vatte a cambia’ va’, che partiamo.» E siamo andati. Lui lentamente ma inesorabilmente apriva sempre di più il gas, io non volevo dargli soddisfazione e quindi tacevo. Tenevo, tenevo, e insomma abbiamo finito a 65 all’ora, che dietro la Vespa li fai anche, ma vi garantisco che dopo 20 chilometri di quella bomba lì avevo la lingua fuori. Quando finalmente ha mollato un attimo gli ho urlato: «Oh, ma non dovevamo fare scarico?». «No, io ho detto “annamo a prova’ lo scarico della Vespa che mi hai sistemato…”» Ha fatto inversione e via, stessa musica fino al ritorno. Al rientro c’era una salita ripidissima. «Attaccati, va’» mi ha detto. E io: «Dopo che ho fatto tutta ’sta fatica adesso mi attacco? Ma neanche morto!». Sono andato su imbelvito. E lui si è esaltato.
Quando è arrivato c’erano i suoi collaboratori, in particolare Fratarcangeli, suo caro amico. Mario ha spento la Vespa, l’ha messa sul cavalletto, si è seduto di nuovo, si è tolto il casco e ha detto: «Ahó, se questo a Londra non vince due medaglie d’oro, noialtri di ciclismo non abbiamo capito veramente un cazzo». Per questo a Londra il suo “te l’avevo detto” – che in realtà non aveva mai pronunciato… – era un po’ un parlare davanti allo specchio.
C’era tutto, anche questo racconto, c’era il tempo passato insieme, c’era il bene che mi vuole come persona. Perché ciò che tiro fuori a livello sportivo, caratterialmente, è il moltiplicatore di tutti i sentimenti, è ciò che accende l’interesse di un uomo del genere nei miei confronti.
Poi, credo che provi un grande affetto anche perché umanamente abbiamo trovato la sintonia giusta. Non so nemmeno come definirlo questo legame, perché il rapporto con persone un po’ più grandi di me non l’ho mai cercato di proposito, ma nella vita l’ho trovato. Quello originario ce l’avevo ai tempi del kart con mio padre, anche se ovviamente era una questione di natura. Poi ho perso papà troppo presto e, chissà, forse per questa ragione l’ho inseguito inconsciamente in altri. Un rapporto simile l’ho trovato con Morris Nunn, il mio ingegnere di pista dei trionfi americani, a cui ho veramente voluto bene. Non mi stancavo mai di stare con lui, di ascoltare le sue storie, i suoi aneddoti. Ha reso quel periodo della mia vita davvero magico.
Ho avuto un rapporto buonissimo anche con Chip Ganassi, che di quella squadra vincente era il titolare. È una delle figure fondamentali della mia vita perché me l’ha cambiata: mi ha dato una chance e ha saputo anche metterla in pericolo al momento giusto, quando facevo delle cazzate. Ha saputo tirar fuori da me il meglio. Però Morris era la persona, la figura paterna se volete, che stavo davvero cercando. Ed è stato la mia forza in più, ciò che ha reso appassionante il mio percorso.
Questo tipo di rapporto poi l’ho vissuto nuovamente con Franco Ferri, che è stato il mio “direttore tecnico” in un altro momento determinante della mia vita, la riabilitazione dopo aver perso le gambe. E oggi ce l’ho con Valentini.
Di sicuro mi sono calato bene nello “spogliatoio” dei ciclisti paralimpici, senza tirarmela e senza fare il “fighetto”. Per dire, in Nazionale apprezzano il fatto che la mia bicicletta non ha mai un filo di grasso. Me la curo, le sto dietro. La mia handbike non la tocca nessun altro. E credo di essere stato il secondo meccanico a Londra: mettevo a posto anche le bici degli altri perché mi diverte, mi piace. Quando i miei compagni hanno scoperto che dietro a quel mio star seduto per terra a lavorare, a “massaggiare il mio mezzo” (come dicono gli inglesi) c’era anche parte della mia prestazione, hanno cominciato con curiosità a venire a chiedermi consigli. E Valentini queste piccole cose le apprezza. Per cui, tornando a quel “te l’avevo detto” che potrebbe sembrare la frase più retorica e più banale possibile, in quel momento lui parlava più a se stesso che a me. Perché forse in quel successo ci aveva creduto più di quanto non ci avessi creduto io. E allora deve aver pensato: “Non c’è nessuno come te che si meriti una roba del genere”. Ed è questo che mi scalda davvero il cuore.
Il momento del rientro a Londra da Brands Hatch è stato pazzesco, pieno di confusione, non riuscivo a rispondere a tutte le telefonate. E l’assalto è diventato rapidamente una lieve scocciatura. Perché c’era del lavoro da completare: avevo già l’altra gara in testa. Tutti mi facevano dei gran complimenti. “Bello, bello! Bravo, bravo!” Io volevo restare calmo e fare qualcosa di importante anche dopo la cronometro. Che, a mio parere, non avevo gestito così bene ma che avevo vinto rifilando distacchi importanti ai miei avversari. In più le caratteristiche tecniche del percorso in linea sembravano perfette per me, per il mio rapporto peso/potenza. Ero ottimista, convinto di poter far bene.
La sera, dopo la prima medaglia, i giornalisti mi avevano detto: «Fra due giorni è il compleanno di tuo figlio! Gli hai fatto un bel regalo, sarà orgoglioso di suo papà». E dentro di me pensavo: “No no, io il regalo glielo faccio proprio il giorno giusto, il 7”. Ne ero convinto. Così come ero sicuro che avrei potuto vincere in solitario. Invece la gara è andata in un altro modo.
Il mio piano di fuga sulla salita dell’ultimo giro non è andato a buon fine… Ci sarei riuscito se avessi avuto la lucidità e la consapevolezza di oggi, non tanto riguardo i miei mezzi ma in generale. Ormai sono in grado di valutare anche le prestazioni dei miei avversari, capire la loro sofferenza sempre molto celata. Li guardi in faccia e sembra che non stiano facendo fatica, ma con l’esperienza intuisci piccoli segnali che ti dicono che non è così. Fossi stato quello di adesso all’ultimo giro, su quella salita, forse sarei potuto scappare davvero verso il traguardo. Anche per un altro motivo: quando prendi qualche metro di vantaggio in un Mondiale o in una gara di Coppa si organizzano per aiutarsi e venirti a prendere. Ma in un’Olimpiade prima di fare uno sforzo (e magari un favore a qualcuno che sta dietro) ci stanno attenti. Perché ai Giochi contano anche il secondo e il terzo posto, sono sempre medaglie.
Alla fine, per una serie di ragioni e circostanze, sono arrivato a giocarmela in volata e a riguardare la gara adesso mi viene quasi da ridere pensando a tutti i dubbi che mi sono venuti fino a quando ho tagliato il traguardo. Oggi so che quel giorno ero nettamente il più forte.
Io e Van Dyk abbiamo “sverniciato” tutti gli altri. In più lui, a metà dello sprint, ha proprio mollato. Ma in quel momento tutte queste belle notizie mi erano ignote, non sapevo cosa stesse succedendo dietro di me. E fino all’arrivo mi sembrava di essere un bambino inseguito da un genitore urlante: provavo la sensazione di panico che avverti quando sai che dopo qualche secondo qualcuno ti può acchiappare. Temevo che da un attimo all’altro avrei visto la ruota di Van Dyk, o di Sanchez, sbucare nuovamente al mio fianco. Perché ero assolutamente concentrato su di me, non mi rendevo conto di nient’altro. Per cui, passato il traguardo in trance, ho capito di aver vinto solo perché ho visto Alain Lorenzati, il massaggiatore dell’Italia, che mi correva incontro con la bandiera… su cui aveva già scritto “buon compleanno Niccolò!” nella parte bianca del tricolore, un grande!
È stato un istante speciale. Ma si è trasformato quasi immediatamente in un momento di nostalgia estrema, profonda. Sono stato proprio assalito da una sensazione di vuoto. Come quando da ragazzo sei in vacanza ed è l’ultima sera prima di partire. Sei mano nella mano con una ragazza che hai conosciuto, bellissima, a vedere i fuochi d’artificio, però sai che lei il giorno dopo tornerà a Milano e tu a Bologna. Io provavo un po’ quello. Meglio di così non poteva finire, però era finita.
So che rischio di sembrare un po’ retorico e opportunista quando dico che a essere belli sono il percorso, l’esecuzione del progetto, il viaggio e non l’arrivo. Uno mi può rispondere: “Sì sì bravo, però lo dici perché hai vinto”. Ma non è vero. Io in quel momento avevo conquistato ogni successo possibile a livello individuale: prima partecipazione ai Giochi paralimpici, due gare, due medaglie d’oro. Ma le avrei restituite subito per ripartire, fare rewind e tornare a tre anni prima. Mi era sembrato di colpo un momento tristissimo. Perché è quasi inevitabile, quando affronti qualcosa con tanta passione e divertendoti così tanto, speri inconsciamente che non arrivi mai il momento in cui finisce. E non è fondamentale se quel giorno vinci o perdi. È ciò che dico sempre ai ragazzi quando mi capita di parlare nelle scuole. Questa sensazione è per tutti, non soltanto per il solo destinato a vincere.
Poi è logico che se quel traguardo l’avessi tagliato decimo, anche tutto quello che avevo costruito in precedenza avrebbe avuto un senso un po’ diverso. Non avrei provato la stessa potentissima nostalgia.
Il mio orizzonte era Londra, l’avevo raggiunto. E a questo punto si stava rivelando anche un po’ una fregatura… Mi sono consolato alla svelta, comunque. Insieme a Vittorio e Francesca Fenocchio abbiamo conquistato un argento nella staffetta mista. E poi mi sono goduto la cerimonia di chiusura dei Giochi, con il concerto dei Coldplay e Rihanna che ha cantato svolazzando su una specie di altalena che passava vicinissima sopra la mia testa. Tanto che un tizio che era seduto davanti alla tv – Gasparini – mi ha mandato un sms estremamente provocatorio con scritto: “Toccale il culo in mondovisione, che vediamo cosa succede…”. Finito tutto, ed era davvero tardissimo, sono andato con Podestà al ristorante del villaggio olimpico, aperto ventiquattr’ore su ventiquattro. Offriva cucina di tutti i Paesi del mondo e sui nostri vassoi, quella notte, abbiamo caricato quantità industriali di cibo thailandese, indiano, del Bangladesh, non ricordo nemmeno più di dove. So solo che alla fine del mix il mio olfatto era confuso… Non era rimasta una briciola nel piatto. E la notte ho sognato di tutto.