Alex non è un superuomo. Però trasmette un’immagine di grande solidità, questo è innegabile. Qualche esperienza nella vita l’ha messa insieme. Ad alto livello nello sport, e anche di quelle toste dal punto di vista umano. Ha affrontato i gradini dell’automobilismo fino ad approdare alla F.1, ha fatto le valigie ed è emigrato negli Stati Uniti per riuscire a vincere di nuovo. Ha dovuto prendere decisioni importanti sul suo futuro di pilota. Magari non sempre perfette ma tutte comunque di un certo peso, sapendo che potevano portare di riflesso conseguenze positive o negative. E relative responsabilità.
Insomma, è uno che si è misurato con situazioni difficili e molto alla svelta. Personalità e indipendenza non gli sono mai mancate.
Eppure in tutto questo percorso non ha rinunciato a una costante che lo ha accompagnato spesso. Una figura con caratteristiche precise. Come se a un certo punto andasse a cercare o identificasse quella che possiamo definire – per ragioni di età, di relazione, di confronto – una figura paterna, che nella sua vita ricorre tanto. È successo con Morris Nunn (suo ingegnere di pista) in America, con Franco Ferri (mago delle protesi) quando è stato il momento di rimettersi in piedi, infine con Mario Valentini per scoprire e conquistare il mondo del ciclismo.
E nell’istante in cui ha trovato questo rapporto, la sua motivazione e il suo rendimento sono schizzati alle stelle. Perché in fondo restiamo tutti figli a vita. E se un padre ha saputo toccare le corde giuste non è il tempo passato senza di lui, sempre più lungo e dolce e malinconico, a permetterti di poterne fare a meno.
È inutile negarlo. E nemmeno voglio. Parte tutto da Dino, mio padre. Intendo la predisposizione a creare un rapporto umano, ancor più che tecnico, con persone che in qualche modo ricalcano la sua figura. Perché è chiaro che mi manca tantissimo.
Quando ero ragazzo la sua presenza arrivava a infastidirmi, tanto era ingombrante. Ma con altrettanta evidenza molto di ciò che faccio oggi ha a che vedere con quanto mi ha passato lui e con il modo in cui ha “plasmato” la mia materia.
Io sono quello che ha concepito insieme a mia madre ma anche quello che ha cresciuto, sono il frutto dell’educazione che mi ha dato. Capirlo è anche un momento di speranza perché mi ritrovo tante volte a parlare con mio figlio Niccolò e mi sembra veramente di comunicare con un muro di gomma, sul quale i concetti non fanno altro che rimbalzare e tornare indietro. E invece capita spesso che io riconosca in certi atteggiamenti e riveda in certi comportamenti ciò che mi raccomandava o ciò che faceva Dino. E certi dettagli, come il modo in cui tengo in mano una pinza, mi sorprendono proprio come un pugno nello stomaco: guardo la mia mano e mi viene la pelle d’oca perché vedo la mano di mio padre. Sto ripetendo il movimento nello stesso identico modo in cui me lo spiegava il mio vecchio. Per questo spero. Perché ero molto più muro di gomma di Niccolò, e chissà quanta frustrazione devo aver procurato ai miei genitori. “Sì papà ho capito, che palle.” Magari facevo apposta il contrario di quello che voleva mio padre perché avevo bisogno di spazio. Volevo crescere, volevo far vedere che avevo le mie qualità, che non doveva preoccuparsi per me. Ma in realtà, adesso, gli sono estremamente grato per averlo fatto, per essersi preoccupato. E mi auguro che domani possa succedere lo stesso anche a mio figlio.
Mio padre se n’è andato presto, avevo ventotto anni. Era ancora un momento in cui poteva passarmi altri strumenti fondamentali per affrontare la vita. Credo di essere stato in grado di organizzarmi, ma in tante mie conquiste c’è l’impostazione nata da lui. Ora che questa dinamica la capisco bene forse mi succede di andare un po’ alla ricerca della sua ripetizione. Da qui il mio legame con persone che spesso non sono mie coetanee. Certo, non con tutti. Va riconosciuto agli uomini che abbiamo citato di essere, per lo meno dal mio punto di vista, eccezionali. Io non sono un pozzo di scienza, anzi… Però ho retto tranquillamente conversazioni importanti con alcuni tra i tecnici più geniali, preparati e colti della F.1.
Quando ero ragazzino ho avuto a che fare con Peter Wright e chi conosce l’automobilismo sa di chi sto parlando. È l’uomo che negli anni Settanta in F.1 si è inventato l’“effetto suolo” e le minigonne, un’intuizione che ha guidato la Lotus dieci anni avanti agli altri. Peter alla fine mi portava sul palmo di una mano e mi ha voluto un sacco di bene: perché le discussioni che avevamo per lui erano un grande stimolo nel cercare nuovi punti di vista e nuove idee. E questo scambio è avvenuto anche con altri ingegneri molto competenti o titolari di team che hanno fatto la storia delle corse. Per cui verrebbe da dire: “Che cosa c’entra con Peter Wright uno come Mario Valentini che mangia porchetta e salsiccia (anzi, ‘salcicce’ come dice lui) mentre ti racconta che le ruote da 28 pollici vanno meglio di quelle da 26 e ti sputa le briciole addosso mentre spiega che il tubolare dev’essere gonfiato in quel modo?”. C’entra molto, invece. Perché il merito di ciò che discute lo conosce benissimo. È un uomo di enorme esperienza, ma soprattutto è un uomo geniale.
Mario, che è perugino, in gioventù è stato ciclista su pista – non un campione ma ha comunque vinto due titoli italiani – e poi si è rivelato un vero talento come commissario tecnico dell’Italia. Prima per la Nazionale sulla pista (di cui è stato responsabile dal 1984 al 1997) e poi come numero uno degli azzurri del ciclismo paralimpico. In entrambi i ruoli ha vinto molto. E nel corso degli anni ha avuto modo di dare spazio alla sua creatività, nel momento in cui l’aspetto tecnologico dello sport era già importante ma non supportato dai metodi di analisi odierni.
Per stare nel campo che conosco meglio di tutti: oggi un tecnico che lavora con un pilota in F.1 – l’ingegnere di pista – è di fatto un esecutore. A lui viene passata una serie di dati, sviluppati in fabbrica con programmi di simulazione molto accurati, e la monoposto nel momento in cui viene messa per terra in circuito è al 95 per cento già assettata come si deve. C’è poco da inventarsi.
Invece Morris Nunn, per dire, ai tempi in cui correvo in IndyCar preparava un’auto con molle delle sospensioni da 1200 libbre. Poi magari ti ritrovavi che non c’era niente di funzionante. Lui iniziava a fare calcoli e calcoli nella sua testa, non proprio della serie “cambio tutto, vada come vada!” ma tenendo un certo bilanciamento. I numeri non erano a casaccio, per intenderci, ma non aveva paura a triplicarli. Perché, ad esempio, se il problema era generare temperatura nello pneumatico, scaldare le gomme in sostanza, e scivolavi, non per questo motivo allora ammorbidire l’assetto dell’auto ti portava a guadagnare aderenza. Per cui lui era capace di prendere strade impensabili.
Ricordo un’occasione in cui dopo le qualifiche eravamo non dico “dispersi” ma assolutamente incapaci di entrare tra i primi dieci, avevamo un po’ litigato con la macchina. Allora mi ha fatto iniziare il warm-up della domenica mattina – le ultime prove prima della corsa – con un assetto totalmente stravolto che poi abbiamo ulteriormente ritoccato prima del via. E alla fine abbiamo vinto la corsa!
Ecco, quella era ancora un’epoca, gli anni Novanta, in cui personaggi con queste capacità e un intuito straordinario facevano la differenza. Perché non c’era altro modo: era come lanciarsi con un paracadute da 3000 metri di quota e dover riconoscere il luogo nel quale atterrare segnato con una X e largo come un fazzoletto. Diverso è se devi atterrare nella piazza più grande di una città fosforescente con indicazioni precise.
Oggi la tecnologia offre dei sistemi guida che ti portano ad avere tutto quasi interamente a posto alla partenza, non all’arrivo. Mentre un tempo, nell’automobilismo, vinceva chi alla fine del weekend era arrivato all’80 per cento del potenziale della monoposto. Perché partivi davvero al buio ogni volta che iniziavano le prove. Nel ciclismo c’è un certo parallelismo, anche se ovviamente meno sofisticato a livello tecnico.
Valentini – per fare un esempio – è quello che si è inventato l’utilizzo della ruota lenticolare in certe situazioni in pista, perché diceva che è soltanto questione di abitudine. I ciclisti la provavano all’anteriore e dicevano: “No, è inguidabile” e la tiravano via. Invece quando hanno iniziato a crederci hanno vinto.
Valentini è quello che ti racconta i trucchi con cui ha portato a casa un sacco di gare come ciclista mediocre ma estremamente furbo. O in che modo ha fatto vincere i suoi atleti a livello strategico, con piccole astuzie. È quello che non si vergogna se riesce a conquistare una gara con uno stratagemma, quando in realtà poteva vincerla anche nel modo più classico e lineare. Ma a lui piace di più se è capace di fregare qualcuno. Senza sconfinare nell’illecito, sia chiaro. Le piccole furbizie – “faccio una finta a destra, poi vado a sinistra” – sono ciò che lo fa veramente godere. E generano anche l’aneddoto del quale si continua a parlare all’infinito a cena, ridendo, ed è qualcosa che aiuta molto a fare gruppo.
Mario, però, è soprattutto un uomo di sostanza. Molto riflessivo, molto psicologo e molto tattico. E ho avuto tante occasioni per rendermene conto. Nel 2013, per raccontarne una, mi sono presentato ai Mondiali come campione olimpico uscente. Tutte le gare di Coppa di quell’anno le avevo vinte facilmente, rifilando ai miei avversari distacchi importanti, e quando sono arrivato sul percorso di Baie Comeau, i compagni di Nazionale mi dicevano: “Oh, poi me la fai provare la maglia iridata di campione del mondo!”. Sembrava tutto scontato, fino a quel momento non avevo avuto avversari. Io, invece, non la vedevo così. Alla fine l’unico che mi capiva era lui. Sono fatto così, quando ho un pensiero in testa non mi passa. E sono poco influenzabile, anche molto testone se sono convinto di una cosa. Però la mia curiosità mi porta a chiedere consiglio. E sento tutte le campane, perché mio papà mi diceva sempre: «Tu ascolta tutti. Su mille persone 999 non ti raccontano niente di nuovo. Magari poi c’è uno che è un cretino e conosce una cosa sola, però se lo ascolti quella cosa che sa magari ti serve e te la passa». Dunque, anche lì, ho ascoltato tutti. E Mario aveva capito la mia preoccupazione, che era tecnica, riguardava il percorso. Tant’è vero che già la cronometro si era rivelata durissima, e vincerla – perché alla fine l’ho vinta – è stato uno dei momenti d’orgoglio massimi per me. Non ci sarei riuscito se non fossi stato capace di produrre una grande prestazione, sono andato molto più forte di un anno prima a Londra. E ce l’ho fatta per soli 14 secondi su Van Dyk.
Due giorni dopo era in programma la gara in linea. E qui torniamo ai miei dubbi e alla psicologia di Valentini. Avevo guardato il percorso e quello che sembrava un finale fatto per me – con un arrivo leggermente in salita, perché ho un buon rapporto peso/potenza e tutto il resto – sospettavo in realtà si potesse rivelare esattamente il contrario. Avevo capito che in realtà era Van Dyk il favorito. I compagni continuavano a dire: “Ma va! Vai via quando vuoi!”. Ragionavo su quando poteva partire lo sprint perché era chiaro che si finiva lì. E l’immancabile risposta era: “Be’, la volata parte gli ultimi 200 metri, come sempre”. Io avevo altri pensieri. E Mario – che di solito, quando proponi un argomento leggero a tavola, quasi non ti lascia finire la frase e parte in quarta – stava zitto. Ha aspettato che sviluppassi tutta la mia teoria e le dessi una forma concreta. E alla fine ha detto: «Se ne vuoi parlare, ne parliamo». Lo abbiamo fatto. E le sue parole, che non erano quelle di tutti gli altri, sono state molto importanti.
Perché ha questa grande capacità: sembra che non gliene freghi niente e invece sta zitto per farsi un’idea precisa di cosa stai pensando. Perché al momento giusto, quando conta davvero, si esprime. E lo fa senza insinuarti dei dubbi, che in certi frangenti possono diventare pericolosissimi. Magari rafforza solo la tua strategia, che potrebbe non essere la migliore ma se ne sei convinto ti porta al risultato. Magari ti aiuta a limare gli spigoli. E lo fa in modo delicato, intelligentissimo, con le frasi giuste. Ti dice: «Riprendiamola in mano questa idea, perché secondo me quello che hai deciso è giusto. Però tieni presente che potrebbe accadere questo e quest’altro…». Ti aiuta.
Il percorso finiva così: un tratto in discesa, di circa 300 metri, che ci avrebbe lanciati, uno pianeggiante della stessa lunghezza e di colpo una salita di 150 metri. Roba breve ma impegnativa, spaccagambe, con una pendenza del 10 per cento. Dopo la quale si aprivano altri 250 metri circa, sinuosi e sempre in lieve ascesa, per arrivare al traguardo. Normalmente sul finale il ritmo si alza e in vista del traguardo parte uno e dietro di lui partono tutti.
La teoria classica sarebbe stata quella di rimanere tranquilli, guardandosi comunque in cagnesco, su per la salita, e, appena finita quella, sparare tutte le cartucce. E secondo me non andava bene. Fossimo rimasti solo in due a giocarcela poteva anche produrre qualcosa di buono. Ma in un gruppo di cinque o sei atleti che arrivano insieme all’ultimo chilometro c’è sempre quello che, sapendo di perdere la volata, prova qualcosa di diverso prima. E cosa poteva essere? Immolarsi giù per la discesa a una velocità spaziale, toccare i 60 all’ora, sfruttare l’abbrivio, tirare come un assassino appena iniziava la salita sperando di sorprendere tutti, avere quei 30 metri di vantaggio grazie ai quali, anche se vai in agonia e qualcuno ti riacchiappa, una medaglia la porti a casa. Poteva tentare l’impresa un outsider. Siccome però questo ragionamento lo fanno tutti, per non far partire l’outsider parte uno forte. E siccome tutti sanno che accadrà, succede che lo sprint finale inizia direttamente sotto la discesa. Contorto, eh? Ma è anche affascinante fare tutti questi ragionamenti. Comunque sia, eravamo d’accordo che alla luce di quelle premesse sarebbe diventata una volata più lunga, di oltre 500 metri, ma anche più impegnativa per via della salita. Apnea totale. Era questo che mi preoccupava. Fosse andata così Van Dyk sarebbe stato imbattibile. Io ho uno sprint più secco e bruciante del suo, ma se la faccenda dura più di mezzo minuto, dopo un po’ è matematico che ti si inchiodino le braccia. E a me questo succede quattro o cinque secondi prima di lui.
Ero preoccupato. E Valentini questo mio pensiero l’aveva notato. Per me la strategia da adottare era una sola: restare leggermente arretrato prima della discesa, spingermi continuando a pedalare per guadagnare ulteriore velocità, arrivare lanciato sul gruppo e simulare un attacco prematuro. Perché a 50 e fischia all’ora se vedi uno che arriva come un proiettile e ti alzi e cominci a pedalare non è che produci uno scatto felino. Fai fatica ad aumentare il ritmo. E spendi molto. Era quello che speravo succedesse a Van Dyk, ed è andata proprio così. Con l’aggravante che, alla fine di quella corsa, ero morto, perché in quel Mondiale me ne hanno fatte di tutti i colori. Per provare a staccarmi mi hanno ucciso, soprattutto gli olandesi. Facendo anche mosse poco nobili, tipo scattare nella zona rifornimento mentre tu allunghi il braccio per prendere una borraccia. Non è bello ma, d’altro canto, non è scritto da nessuna parte che non si possa fare.
Alla fine, all’ultimo giro, ho pensato “proviamoci!” anche se avevo appena conosciuto la vera tristezza. La metafora dei cinque secondi, che racconto spesso – per cui, in sintesi, quando pensi di non averne proprio più provi a tener duro altri cinque secondi e scopri che magari hanno mollato gli altri – l’avevo forse già intuita ma quel giorno l’ho proprio vissuta e compresa in pieno. I miei cinque secondi metaforici lì sono stati mettere in atto il mio piano nonostante fossi distrutto. Mi avevano massacrato.
Quando la gara all’ultimo giro si è calmata, perché era chiaro a tutti che ormai si sarebbe arrivati allo sprint, ho avuto modo di riconnettermi con il mio corpo, riascoltarlo, e mi sono scoperto triste. Mi era già capitato, in altre gare, di sentirmi stanco, sofferente, esausto. Ma alla tristezza non ero mai arrivato. Se avessi seguito il mio istinto mi sarei fermato sul bordo della strada e mi sarei messo a piangere, da quanto ero disintegrato.
Invece, non so nemmeno bene come, ho messo in pratica ciò che avevo progettato. Mi sono lanciato in discesa, ho riguadagnato la coda del gruppo alla fine del tratto in piano e portandomi dietro una velocità maggiore. Per cui ne ho affiancati e passati uno, due, tre, quattro, cinque e quando sono arrivato vicino a Van Dyk e lui mi ha visto con la coda dell’occhio si è alzato ed è partito. Ha abboccato! Ha fatto gli ultimi 50 metri in piano andando a tutta, usando un sacco di energie, e quando la strada ha iniziato ad arrampicarsi io mi sono messo a ruota, in scia, usando solo lo slancio che mi veniva dalla velocità presa in discesa. Mentre lui stava tirando a tutta già da sei o sette secondi. A metà salita l’ho affiancato e quando lui ha iniziato a gemere, in un modo che non aveva più niente di umano, sono successe due cose. Ho provato una sensazione incredibile dentro di me, che ha cancellato tutta la stanchezza precedente. “Non è tra un giorno, un’ora, un minuto, nemmeno un secondo: è adesso che devi tirar fuori tutto Zanna, fallo!” E poi proprio in quel punto, a bordo pista, c’era Mario. Che in qualche modo aveva previsto tutto. Gli altri erano sulla linea del traguardo ma era lì che ci si giocava la corsa. E lì c’era lui. Quando mi ha visto scattare di fianco a Van Dyk – me l’hanno detto dopo, io non potevo vederlo – ha iniziato a esultare perché aveva già capito come sarebbe finita.
Che poi in realtà non è che, alla vigilia, avesse parlato tanto. Mi aveva detto solo: «Ricordati che gli olandesi sono in tre, che la maglia di campione la indossi tu, che Van Dyk sa benissimo che con un arrivo simile deve solo portare la gara alla volata finale e che, in mezzo al gruppo, ci sono dei rompicoglioni che proveranno a inventarsi qualcosa». Per il resto ha solo annuito ai miei ragionamenti e fatto mezzi sorrisi quando sembravo enunciare una teoria non da manuale, diciamo. E alla fine mi ha aiutato molto nel partorire in dettaglio questa sorta di strategia legata alla discesa.
Quando alla fine una tattica studiata così va in porto è una figata, è esaltante. Credo sia stata la mia vittoria più bella a livello paraciclistico. Nettamente più bella di quella di Londra.
Vivere insieme certe esperienze cementa i rapporti. Una persona ti piace per mille motivi. Nel mio caso ha sempre un grande peso constatare da cosa viene colpita. Io credo che niente di ciò che ho fatto sia speciale perché lo hanno fatto anche altri. Però ho a che fare con tanta gente e spesso, magari anche per fare colpo su di me, molti mi chiedono o cercano di rievocare i momenti più significativi della mia carriera, quelli che sono finiti sotto i riflettori.
Mario invece è diverso: le cose che lo colpiscono sono quelle piccole, che toccano anche me. Lui continua a raccontare di quando mi ha consegnato la prima volta la maglia azzurra in quella gara a Piacenza nel 2009 e a me brillavano gli occhi. Perché per me è importante. «Ma guarda questo che ha corso a Indianapolis…» «No Mario, a Indianapolis mai.» «Vabbè, in America e in F.1, l’eroe dei due mondi. Gli do la maglia azzurra e appena tira su la zip guarda come si commuove.» Per lui ha contato moltissimo la mia emozione, perché è uno con valori saldi. Che alterna a momenti un po’ meno saldi…
Un anno partecipavamo a una gara in Australia, e l’hotel dove alloggiavamo era molto lontano dal tracciato. Io avevo corso presto ma, siccome c’erano tante categorie, dovevo aspettare che tutti finissero per rientrare in albergo insieme al resto della squadra. Alle 3 del pomeriggio però avevo una fame spaventosa. «Ma che, hai fame?» mi ha detto. «Fai te Mario, ho fatto colazione alle 6 del mattino, ho corso per due ore e dopo non ho più mangiato niente.» «Vieni con me, va.» E mi ha portato dentro un furgone dove con qualche pagnottella tonda aveva preparato dei panini con il cibo della colazione. Ho fatto glu! e ho mandato giù il panino come fosse una pillola. «Ma che, c’hai fame ancora?» «Oooh Mario, ma per forza!» «Aho vabbè, seguimi.» E io, che in quel momento ero sulla sedia a rotelle, gli sono andato dietro fiducioso ma altrettanto perplesso perché non capivo che intenzioni lo animassero. La gara si svolgeva in un autodromo che aveva i garage con una porta a saracinesca di ingresso e una di uscita che davano rispettivamente sulla corsia box e sul paddock. A ogni Nazionale era stato assegnato uno spazio, più o meno grande a seconda del numero degli atleti. Noi, molto numerosi, avevamo un garage doppio. Come gli Stati Uniti.
A un certo punto Valentini, che andava con passo deciso ma seguendo un andamento che si spostava a destra e sinistra come di uno che non conosce bene la meta, ha girato di colpo infilando proprio il box degli Stati Uniti. Avevano il reparto biciclette da una parte e il reparto handbike dall’altro e in mezzo stavano dei tavoli, sui quali erano appoggiate le cassette degli attrezzi e i ricambi e una sorta di buffet con cibo vario e molte barrette energetiche. Lui è entrato, io l’ho seguito pieno di fede e speranza, ha attraversato il garage e tutti si sono girati a guardarlo, come se dicessero “ma questo cosa vuole?”. E lui prontissimo: «Aho! Ma che è quella roba là?», puntando un dito contro il soffitto con una tale convinzione che tutti si sono voltati a controllare dove indicava. In quel preciso istante ha arraffato velocissimo una decina di barrette con la mano destra, un’altra decina con la sinistra, se le è infilate in tasca e quando tutti si sono rigirati di nuovo ha sparato un «forza IUESSEI!» (Usa alla romanesca…) ed è uscito così com’era arrivato. Appena fuori mi ha mollato due barrette dicendo: «Tie’, papà se preoccupa dei figli suoi». E io: «No, papà ruba, cazzo!». E non è neanche Robin Hood che ruba ai ricchi per dare ai poveri perché noi siamo solo disorganizzati, non poveri… Ma questi numeri gli regalano una goduria pazzesca.
Così come, dall’altra parte, è attaccatissimo a valori di dignità assoluta: se qualcuno ti aiuta gli devi gratitudine eterna. Alla correttezza a livello sportivo. Alla cultura del lavoro, che è quello che alla fine premia. Gli ingredienti che vai a miscelare sono molto diversi tra loro ma alla fine in Mario riconosco qualcosa che lo rende importante nella mia vita.