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Gli amici di Zanna

Quando abbiamo finito di scrivere l’altro libro, all’inizio dell’estate del 2003, abbiamo festeggiato la fatica (si fa per dire…) con una cena a casa del dottor Costa, sulle colline sopra Imola. Poche persone: nove in tutto, ma importanti nella storia che avevamo raccontato e importanti per Alessandro.

E quella sera lui, di solito un gran chiacchierone, era rimasto tanto ad ascoltare: perché alla sua destra aveva il padrone di casa e di fronte Franco Ferri, il mago delle protesi che da un paio d’anni era il suo nuovo “ingegnere”.

Anch’io, che ricordo di aver riso parecchio, avevo parlato poco. Perché comunque – per ragioni di età, di esperienza, di carisma anche – era come avere a che fare con un paio di filosofi.

Claudio, fino a qualche anno fa il medico per eccellenza del Motomondiale, non ha bisogno di grandi presentazioni. Ferri invece non è mai stato un personaggio pubblico. Ma la sua calma, la sua saggezza, la sua simpatia non potevano lasciarti indifferente.

Entrambi sono stati importantissimi per il recupero di Alex, in quella gara – iniziata una volta uscito dall’ospedale di Berlino – che ha disputato con lo stesso atteggiamento con cui affrontava le sfide sulle piste in America. Una piccola squadra che poteva contare anche su Claudio Panizzi, fisioterapista che si è preso cura dei primi passi, letteralmente, di Zanna con le protesi.

Questi personaggi, ai miei occhi, avevano una qualità che nel corso degli anni ho imparato a cercare e apprezzare sempre più in chi incontravo: la grande semplicità.

Di quella sera esiste una foto, che Angelo Orsi ha scattato dall’alto. Ferri ha il braccio destro allungato per un brindisi, con lo sguardo serio di sempre. Anche Costa solleva un bicchiere di vino, ma la mano sinistra è ferma, appoggiata al salame di sua produzione che di lì a poco avrebbe visto la fine… Un presa solida. Come loro, in fondo.

Mario Valentini è l’ultima delle figure “paterne”, se così le vogliamo chiamare, con cui ho instaurato un bellissimo rapporto. Prima di lui, nel mio percorso riabilitativo, c’è stato Franco Ferri, il mago delle protesi. Un direttore tecnico con cui non ragionavo su molle e ammortizzatori quanto piuttosto su ginocchia, piedi, attacco dell’invaso, geometrie e regolazione della protesi, punti da scaricare e punti in cui recuperare un certo tipo d’appoggio. Ma alla fine la discussione con lui è stata appassionante tanto quanto quelle che posso avere avuto con gli ingegneri dei team con cui ho corso, un Morris Nunn o un Peter Wright, da un certo punto di vista.

Di Franco mi colpivano la capacità di risolvere i problemi con soluzioni apparentemente semplici ma geniali e la grande cultura tecnica nel suo mestiere. Ma anche la passione, l’ingegno, la ricerca della soluzione alternativa quando un’idea banale superava l’assenza di un determinato macchinario. E il piacere che provava davanti alla mia ingegnosità. Perché Dio li fa e poi li accoppia, si sa. Lui ad esempio aveva trovato un modo furbissimo di allargare un invaso, ovvero la parte di protesi a contatto con il moncone. Cosa si era inventato? Scaldava leggermente l’invaso, poi prendeva un pallone di quelli da… mi viene da dire 500 lire, ma – ora non c’è più la lira, quanto sono vecchio… – adesso sarà da 5 euro, non lo so, il classico Super Tele di quelli leggeri leggeri. Lo infilava nell’invaso, gli cacciava dentro la pistola con lo spillo per gonfiarlo finché la protesi non si allargava il tanto che lui aveva deciso e poi la lasciava raffreddare col pallone dentro rendendo definitiva la modifica. Tu vai in un laboratorio dotato di ogni tipo di attrezzature e alla fine vedi che per modificare una protesi usano un pallone… Ti viene da ridere! Ti viene da dire: “Ma no, non si fa così!”. E invece a me quella roba lì fa andare in sugo, mi esalta. Perché è quell’ingegnosità artigiana tipica di chi, pur avendo tutto e sapendone fare buon uso al momento opportuno, ha imparato a fare le cose senza avere niente ed è davvero capace di portare a casa il risultato. Quell’ingegnosità che aveva mio padre Dino e che io, almeno in parte, ho ereditato… Franco Ferri, con le sue dita tutte storte… Rimuginava, pastrugnava, plasmava e alla fine, un colpo di lima qui e uno di là, pum, tutto a posto, incastro perfetto.

A me questi uomini geniali – capaci di guardarti in faccia mentre stanno trafficando con le mani trovando il tempo per una battuta, un sorriso e due parole in dialetto – piacciono molto.

Ricordo l’orgoglio di quando riuscii a stupirlo dopo avergli portato il materiale che mi aveva dato Dallara per rivestire le protesi con cui poter andare in acqua a fare il bagno, una spugna speciale a cellula aperta. Quella spugna che si mette dentro i serbatoi delle monoposto come antiscuotimento. Me ne ero procurato due pezzi sufficientemente grandi per “scolpirci” due gambe e quindi c’era parecchio materiale da eliminare. Io l’avevo portato a Ferri perché lo forasse internamente per far passare invasi ginocchia e tibie e poi lo lavorasse esternamente per dargli la forma di due gambe. Quando lo raggiunsi il pomeriggio in officina, trovai due gambe enormi che sembravano prosciutti. «Ma non si riesce a fare di meglio?» gli ho chiesto. E lui stizzito – si capiva che ci aveva perso del tempo senza venire a capo del problema – ha risposto: «Guarda, se gli vai vicino con la pigna» che sarebbe una specie di fresa per lavorare la gomma piuma, «la prende dentro che rischi di strappare tutto e farti anche male! Meglio di così non viene».

E lì mi arriva il flash. A quell’epoca usavo il rasoio elettrico per risparmiare tempo e guadagnare dieci minuti di sonno: da casa di mia mamma, dove stavo nel primo periodo della mia riabilitazione, al Centro Protesi servivano quindici minuti passando per strade poco trafficate e, durante il tragitto, mi facevo la barba. Intuii che il tagliabasette poteva incidere meglio sul materiale in questione, per cui, dopo essere volato in auto per recuperare il rasoio, mi ripresentai da Ferri a verificare la mia teoria.

Oh, veniva via che era un piacere, come tosare una pecora. Perfetto! Ricordo l’ammirazione con cui mi ha guardato e le parole con cui mi ha apostrofato affettuosamente: «Ooh, mo’ i paensset a là not?», ma le pensi di notte? Anche perché Franco era uno che il dialetto lo parlava davvero, inconsciamente: in quel momento gli batteva il cuore, perché evidentemente era un colpo di genio di quelli che lo esaltavano, e che lui aveva prodotto in mille altre occasioni.

Questa sintonia ha aperto la strada a un rapporto che non era solo professionale o tecnico, ma è diventato anche e soprattutto umano. E si è trasformato alla fine in una grande amicizia. Franco Ferri mi ha voluto molto bene, ma anche io ne ho voluto tanto a lui. Per me è stato davvero una specie di papà.

In quel periodo, in cui c’erano tante cose da affrontare tecnicamente, è stato l’uomo che mi ha permesso di coprire quel pezzo di strada così importante nella mia vita con lo stesso entusiasmo, la stessa applicazione, la stessa visione, lo stesso modus operandi con cui io ho affrontato la preparazione delle corse automobilistiche o le sfide delle Paralimpiadi.

Insomma, era un’avventura molto tecnica e molto appassionante in cui ci siamo regalati un sacco di stimoli, ci siamo fatti un sacco di domande e ci siamo dati un sacco di risposte. È stato un legame bello e importante. Dico è stato perché Franco non c’è più, se n’è andato cinque anni fa e mi manca moltissimo. Spesso ricordo con grande nostalgia le partite a biliardo, a casa mia, con il dottor Costa e Mauro detto “sbaffione” per i suoi baffi folti e inconfondibili. Un amico prezioso e sincero che ho “ereditato” da mio padre, personaggio strepitoso.

Ferri, le prime volte che è venuto a giocare, aveva un rendimento un po’ così, diciamo che non era esattamente un fenomeno. Poi, dopo tre mesi in cui non ci siamo visti, forse c’era di mezzo l’estate, si è ripresentato e sembrava che giocasse come prevede per filo e per segno il manuale… Si era allenato di nascosto! E proprio quella volta lì, non è bello dirlo ma è vero, lui e Mauro si erano messi d’accordo per far incazzare Costa. Perché ho parlato di Valentini, di Ferri, di Nunn e non di Claudio Marcello Costa, per il quale bisognerebbe scrivere un libro a parte.

Costa è una delle persone che mi conosce meglio al mondo, dopo mia moglie e mia madre. Claudio è un uomo straordinario. Lui è più teorico rispetto a Ferri, ma la sua mente è costruita in un modo estremamente scientifico ed è basata su una serie di archivi in cui ci sono tutte le sue informazioni. Ma i passaggi per arrivare a questi archivi sono assolutamente e rigorosamente unici. Primo: tu non sei in grado di utilizzarlo. Secondo: anche lui può accedervi soltanto passando attraverso determinati reparti, prima di arrivare a ciò che gli interessa. Se l’interrogativo lo porta a dover attingere all’archivio della scienza – perché, attenzione, non dimentichiamo che lui è un medico con i controcoglioni – per arrivarci è come se prima dovesse passare attraverso altri cassetti dove ci sono i rudimenti, gli aspetti più pratici per cercare le soluzioni.

Esempio: dopo l’incidente del 2001 ho subìto sedici interventi in anestesia totale, della durata media di quattro ore. Ogni volta mi hanno aperto le gambe come dei prosciutti: lavaggi, suturazione di vene, sistemazione dei tessuti, trapianti di pelle. Quindici sono stati effettuati mentre ero ricoverato a Berlino, il sedicesimo, sull’arto sinistro, quando ero già tornato a casa.

Di lì a qualche settimana questa gamba continuava a sanguinare, e non era un fatto normale. Per cui Costa ha cominciato a preoccuparsi. Io avevo già iniziato il percorso riabilitativo con le protesi. Con Ferri, che mi faceva gli invasi, trovavamo il sangue dentro al gesso, la ferita si apriva e si chiudeva continuamente. Finché a un certo punto che cosa è accaduto? Che Costa, sempre più pensieroso, mi ha portato da una sua collega bravissima, che ha identificato i vasi più importanti e ne ha seguito uno fino a quando non ha trovato la ragione del problema. Questo vaso non si era chiuso: era stato reciso – non solo nell’incidente ma anche nelle varie operazioni – e non era stato suturato in modo adeguato. Perciò cosa succedeva? Che “infarciva”, si dice in gergo, una piccola sacca: un ematoma che si riempiva di sangue, si gonfiava, tra l’altro facendomi un male esagerato, e poi questo sangue riusciva a riaprire il canale di sfogo che si era creato impedendo quindi alla ferita di rimarginarsi; non si sarebbe mai chiuso.

Io avevo letto la preoccupazione negli occhi di Claudio perché a quel punto si trattava di riaprire, trovare il vaso (che era molto in profondità), tagliare importanti fasci muscolari, suturare e richiudere. Questo era ciò che diceva la scienza. Poi Costa, nel corso della notte, perché non aveva chiuso occhio, ha rifatto quel percorso dei vasi e del sangue una serie infinita di volte. Ed evidentemente, nell’archivio “attrezzi di base”, ha trovato la soluzione che gli ha permesso di fermarsi prima.

La mattina successiva mi ha riportato a rifare l’esame e nel momento in cui ha trovato la vena ha provato a fare un po’ di pressione con il pollice. Ha visto che la vena si chiudeva. Quindi cosa ha fatto? Ha sostituito la pressione del pollice con un rotolo di garza, mi ha fatto una fasciatura strettissima, incorporando quel rotolo di garza; cinque giorni dopo mi hanno sfasciato, ha rifatto l’esame e la vena si era chiusa.

E ne potrei raccontare mille. Perché Costa – per dire – ha salvato una gamba a Mick Doohan, campione di motociclismo, che doveva essere amputata. Dopo un incidente sulla pista di Assen e le multiple fratture esposte che Doohan aveva riportato, i medici olandesi avevano deciso di operare e Claudio, che temeva grosse complicazioni vascolari derivanti dall’intervento in un contesto già estremamente critico, aveva cercato di dissuaderli dall’intento finendo per entrare in grande contrasto con loro e venire addirittura allontanato dalla polizia. L’intervento tutto sommato non era andato male, ma la decisione di ingessare la gamba appena operata era stato il vero grande errore; di lì a poco il gonfiore aveva generato una pressione assurda all’interno del gesso provocando una serie di danni irreversibili che aveva condotto lo sfortunato pilota australiano verso la setticemia. La gamba di Mick nella notte stava andando in cancrena; lui aveva chiamato Costa che, una volta arrivato in ospedale, aveva liberato l’arto offeso rompendo il gesso e scoperto il dramma che si stava producendo. E aveva ubbidito alla supplica di Doohan: «Portami via!». Così Claudio, insieme ai suoi collaboratori, l’ha letteralmente rapito dall’ospedale. Correndo poi pure dei guai giudiziari. Una storia anche molto buffa perché mentre passavano con la barella per andarsene di nascosto c’era Kevin Schwantz, altro pilota che si era infortunato durante il GP, che li ha guardati e ha detto: «Dove andate?». «In Italia.» «Vengo anch’io!» Ed è saltato sulla barella, con la vestaglia. E Costa, sull’ambulanza, senza sapere veramente cosa doveva fare si è inventato l’intervento.

Quando è arrivato in Italia ha allertato l’équipe medica, ha tirato giù dal letto quello che gli sembrava il miglior chirurgo per l’operazione (con questo che gli diceva: «Sei un pazzo, ma può funzionare…»), e alla fine ha collegato le due gambe di Doohan e ha trovato il modo di vascolarizzare l’arto offeso attraverso l’arto buono. E a distanza di ventotto giorni – Claudio aveva stabilito che ne servivano quarantadue ma Doohan voleva tornare a correre per giocarsi il Mondiale e si è preso dei rischi enormi – gli ha staccato le gambe legate tra loro.

Era il 1992. Doohan, ancora oggi, è uno che per partecipare alla festa d’addio di Costa dal Motomondiale ha preso l’aereo dall’Australia, è arrivato, lo ha abbracciato, è stato con lui mezz’ora, e poi è tornato a casa. Perché a Claudio non si può non voler bene. All’inizio del 2015 mi sono rotto malamente una clavicola, giù in discesa con la handbike ho fatto lo “Zanardi” e sono andato contro un guardrail… L’ho chiamato e mi ha detto: «Vatti a far fare una radiografia, io sto arrivando». Sono andato da Pavanello, vicino a casa, dove trimestralmente vado a fare esami del sangue per l’ufficio antidoping che me li richiede. E il radiologo, quando mi ha visto arrivare, ha chiesto: «Zanardi, cosa abbiamo combinato oggi?». «Eh, mi sa che mi sono rotto una clavicola.» «Noooo, la clavicola fa un male boia! Se ti fossi rotto una clavicola non saresti così. Ti sarai fatto una distorsione.» Quando Costa è arrivato, ha guardato le lastre, ha fatto un mezzo sorriso e ha detto: «Bene, bene, bene. Qui ho due notizie, una bella e una cattiva. Quale vuoi prima?». «La cattiva.» «Be’, quella cattiva è che questa frattura qui è forse una delle più brutte che io abbia visto. E credo di essere uno che di fratture di clavicole ne ha vista qualcuna…» «E la bella?» «Ah, la bella è che… Guarda mo’» sempre con lo sguardo fisso sulla lastra messa in controluce «qui siam messi così male che noi non la tocchiamo, la lasciamo stare e lasciamo fare a Madre Natura. Perché qui non esiste mano dell’uomo che possa lavorare meglio di lei. Però io ti assicuro che questa frattura qui alla fine va a posto da sola e per quanto brutta sembri oggi, la clavicola diventerà più forte di prima…» E ha cominciato a fare tutti i suoi discorsi, che se tu lo senti pensi: “Costa l’è matt! È andato!”.

Ma io so chi è davvero Claudio Marcello Costa, mi sono fidato di lui come sempre senza esitazione. E a fine luglio dello stesso anno ho vinto tre medaglie d’oro ai Mondiali di Nottwil, in Svizzera, dopo aver corso la settimana precedente la 24 Ore di Spa.

La clavicola mi ha lasciato qualche piccola sporgenza ma alla fine è tornata perfetta.

Qualche mese fa, mentre mi allenavo in handbike, sono finito contro un’automobile (ma stavolta non era colpa mia, mi hanno tagliato la strada senza rispettare una precedenza): d’istinto, per proteggermi, mi sono curvato a riccio finendo per dare alla Opel Vectra una spallata talmente forte che sono dovuti scendere tutti e due dal lato passeggero, perché lo sportello sinistro si era piegato al punto da rimanere bloccato nel telaio. Se avessi impattato con la spalla destra, quella “buona”, sono certo che si sarebbe rotta; ma col lavoro di Madre Natura propiziato dal mio caro amico Dottor Costa, a soccombere, è stata l’auto. Tedesca, per di più…