Io vi saluto qua. Non c’è bisogno di tante altre parole. È stato un bel viaggio.
Se devo fare un bilancio provvisorio, alla boa dei cinquanta, posso dire che nello sport ho sempre messo in campo tutto ciò che avevo. Ho dato l’anima, divertendomi, ma ho anche ricevuto molto. E imparato ancora di più. Perché lo sport è in fondo una metafora di vita: quello che succede in pista, in campo o sulla strada è un po’ il concentrato di quanto, più dilatato nel tempo, avviene nella storia di ognuno di noi. Con una differenza: se nella vita ogni tanto puoi nasconderti, delegare, posporre, nello sport non te lo puoi permettere. Chi ha successo è proprio chi desidera mettersi alla prova in continuazione. Che è un po’ come andare a scuola e quando il professore chiede “C’è qualche volontario?” stare sempre con la mano alzata, perché uno non vede l’ora di farsi interrogare. Roba da matti, è vero, ma lo sport è anche questo.
Qualcuno lo affronta in modo diverso, pensando che sia solo il risultato a regalare la felicità, e magari finisce con l’imbrogliare per arrivarci. Salvo rendersi conto, a distanza di tempo, che quella medaglia non rappresenta niente. Invece il gusto è vivere tutto con entusiasmo dall’inizio. Quando ti prepari, quando ogni giornata è un’occasione per fare un passettino che, per quanto piccolo, crea un nuovo punto di partenza, sposta la linea un po’ più avanti per il giorno seguente. E metro dopo metro anche il grande sogno diventa un obiettivo raggiungibile.
Oggi, per me, il quadro è molto più chiaro. E mi rendo conto che se avessi compreso prima l’importanza del piacere di far qualcosa per farlo, piuttosto che per l’ambizione di veder riconosciuto il risultato, avrei portato a casa mille volte di più. Ma succede a tutti e non me ne faccio un cruccio, perché comunque so di essere uno speciale: ho vissuto tante avventure diverse e per fortuna ho avuto altre possibilità oltre a quelle che ho sprecato. Ma proprio per questo, adesso, sento quasi il dovere di non far finta di niente.
Sono un genitore. E a un certo punto, che tu lo voglia o no, come tutti i padri ti ritrovi a trasmettere ciò che hai imparato. Se ci pensate la figura di Dino, il mio di papà, ad esempio è apparsa spesso in questo libro. Non in modo esplicito forse, ma quasi sempre sfumato. Sarà che sto invecchiando, e il ricordo diventa più tenero con gli anni che passano, però sento che mi manca molto. Un pezzo alla volta è venuto a galla tutto quello che mi ha dato. E che ai tempi rimbalzava contro l’arroganza della mia età e la voglia di provare tutto in prima persona, come in fondo è giusto che sia.
Agire per curiosità, scovare gli aspetti appassionanti, che poi rendono tutto molto più divertente e più facile da affrontare. Mio padre cercava di farmi sposare questa filosofia. Un tentativo che sembrava andato perso, allora. Invece la prova, la testimonianza diretta che questo semplicissimo meccanismo facilmente attuabile in tutto l’avevo interiorizzato, è il mio percorso riabilitativo.
Io l’Olimpiade di Londra e quella di Rio ho cominciato a vincerle nel mio letto di ospedale a Berlino, quando invece di domandarmi: “Come farò a vivere senza le gambe? Che vita di merda sarà?”, mi sono chiesto: “Ma come cavolo riuscirò a far tutte le cose che devo fare senza le gambe?”. E non c’era nulla di retorico, si trattava proprio di una domanda pratica. “So che in qualche modo ci arriverò.” E per quanto assurdo, mi sembrava quasi buffo. “Qua da dove parto?” mi dicevo. Per certi aspetti non vedevo l’ora di mettermi al lavoro.
Quel momento ha determinato tutto ciò che è venuto dopo. E non è niente di straordinario. La gente mi chiede spesso: «Ma dove la trovi la forza?». Ma che forza? Di cosa stiamo parlando?
Dovunque vada mi spalancano la porta, stendono il tappeto rosso. Scopro la handbike e diventa un’opportunità professionale. Partecipo ai Giochi olimpici, sollevo una bicicletta per festeggiare e diventa la foto simbolo non della Paralimpiade ma addirittura dell’Olimpiade, perché quell’immagine è stata votata come il momento più iconico di Londra 2012.
L’abbiamo già detto e lo ribadisco: era molto più complicato trovare la strada a quindici anni. Adesso so come affrontare i problemi, che si tratti dell’handbike, di un’auto da corsa, di aggiustare il tosaerba. Il metodo è sempre quello: cominci, studi la situazione, recuperi le informazioni necessarie e ti metti al lavoro. Senza fretta, iniziando a fare quel che puoi.
Perché non arriva tutto subito, ci vuole pazienza. È servito un anno e mezzo, da quando sono tornato a correre nel Mondiale Turismo con la BMW, per vincere o comunque diventare competitivo. E a me, giorno dopo giorno, è sembrato un anno e mezzo, niente di più e niente di meno. Ma chi aveva ancora in testa il ricordo di uno portato via in elicottero dalla pista del Lausitzring, mentre Emilio Fede diceva che ero morto, ha gridato al miracolo vedendomi fare le stesse cose di prima al volante: non riusciva a pensare che una cosa simile fosse umana. Perché il salto è pazzesco, per chi non ha seguito il percorso lento e anche faticoso di tutti quei giorni. L’eccezionalità è legata al fatto che, per fortuna, dover fare le cose senza gambe non riguarda la stragrande maggioranza delle persone. Tutto qua.
Per cui a mio figlio – e non a tutto il mondo – vorrei trovare il modo di spiegare queste cose. Vorrei essere in grado di rendere chiara questa metafora che, come avrete capito, mi piace molto: il grafico in cui la linea che rappresenta la forza fisica cresce, cresce, cresce fino ai vent’anni, e se lavori con costanza su di te può continuare a salire. Ma a un certo punto, verso i trenta, comincia inesorabilmente a venir giù. Mentre l’altra linea, quella dell’esperienza e della coscienza di sé, sale più lentamente, scende un po’ durante l’adolescenza, salvo poi ricominciare a crescere senza più fermarsi, fino all’ultimo dei nostri giorni. Sarebbe bello se un genitore potesse fare qualcosa per entrambe. A mio figlio rompo sempre le scatole su ciò che mangia, una quantità di dolci impressionante, Coca-Cola… Però, ecco, l’ho fatto anch’io e sono sopravvissuto, non è che mi posso tanto incazzare perché non sarei nemmeno credibile.
Quindi la faccenda divertente è cercare di dargli dei consigli sapendo che in questo momento sembrano totalmente inutili. Allora mi butto sull’altra funzione, quella dell’apprendimento, dove penso di poter incidere di più. Ma anche qui, alla sua età, è dura. Però insisto. Posso solo fare in modo che l’incrocio tra le due linee arrivi il più rapidamente possibile, perché gli darà le opportunità che lo renderanno più sereno, più felice, e in pace con se stesso. E il tutto non passa attraverso l’aver successo, firmare autografi e scattare dei selfie. La mia felicità non è quella.
La mia felicità è poter andare nel capanno in cui tengo le bici, trafficare su ruote, cambi e catene, ragionare su un’idea che ho in testa e mettermi al lavoro per realizzarla. Sapendo che il momento in cui taglio il traguardo rappresenta un po’ la fine del gioco. Di avventure ne ho già provate tante nella mia vita. La cosa bella è che a cinquant’anni sono ancora qui a divertirmi, con tanti altri progetti da inseguire. Ci saranno di certo: il giorno in cui il fisico non mi consentirà più di fare sport ad alto livello mi inventerò qualcosa di diverso. “Sotto con il resto” ce lo siamo già giocato tanti anni fa. Allora, per una volta, provo a guardare indietro e rivedo con un sorriso pieno di serenità quest’altro pezzo di strada. In cui in fondo volevo solo pedalare. E tu guarda cos’è venuto fuori…
Spa, un luogo mitico per chi ha i motori nel sangue. Per me, anche una data da segnare sul calendario per dare colore a una foto rimasta in bianco a nero…