Lui dice che per New York aveva ragionato. E io ci credo. Non per un atto di fede, ma perché è il suo modo di agire. E, a pensarci bene, parte da lontano.
Le corse in automobile vivono di fotogrammi, imprese ai limiti dell’impossibile di cui la gente parla per anni. Come il numero di Alex in quell’ultimo giro a Laguna Seca, in California. A cercarla su YouTube esce semplicemente come “The Pass”, il sorpasso per eccellenza. Era la gara finale della stagione 1996, quella in cui ha esordito negli Stati Uniti con il team di Chip Ganassi.
Fin lì aveva vinto due corse e conquistato tre pole position, era stato un anno molto bello che aveva raddrizzato la sua carriera e messo le basi per i trionfi che sarebbero arrivati in seguito. A Laguna Seca, correva alle spalle di Bryan Herta con pochissime probabilità di scavalcarlo. E quando tutti si erano messi il cuore in pace aveva tirato fuori quella mossa incredibile, la lucida follia che gli aveva permesso di infilare il rivale al “Cavatappi”, una curva sinistra-destra in discesa in cui era impossibile anche solo immaginare un tentativo. Ma l’aveva fatto. Approfittando dell’angolo cieco del rivale in discesa, saltando su un cordolo, sfiorando un muro, quasi decollando sulla terra all’esterno della pista. Ma c’era riuscito! Tra gli appassionati non si smetterà mai di parlarne. «Mille piloti avevano sognato quel sorpasso senza trovare il coraggio di eseguirlo, cento idioti ci hanno provato finendo contro il muro, Zanardi l’ha fatto» commentò Ganassi.
Istinto puro? No. Ci stava pensando da qualche giro e aveva valutato i pro e i contro, era entrato addirittura nella testa di chi doveva attaccare. “Bryan Herta non ha mai vinto una gara in Indy, è l’ultima corsa della stagione, pensa ai titoli sui giornali, all’inverno felice davanti a lui, è attento, prudente.”
Aveva messo insieme tutti i dettagli possibili, forse anche la scelta del palcoscenico in cui piazzare il colpo. Un modo di pensare così accurato da diventare una delle prese in giro preferite di Jimmy Vasser, il suo compagno di squadra. Che, tra parentesi, vinse quel campionato. Jimmy, narratore straordinario e uomo molto simpatico, spiega ancora oggi che nel tour celebrativo di quell’inverno la gente chiedeva sempre e solo di “The Pass” e mai del suo titolo, e che a ogni cena la ricostruzione di Alex partiva da più lontano, arricchendosi di qualche nuovo particolare, fino a trasformarsi in una specie di monologo teatrale con tutti gli spettatori a bocca aperta. E lui, Vasser, che alzava gli occhi al cielo ormai rassegnato… “The Pass” rimane, intendiamoci. Così come la poesia di quell’impresa. Ma il signor Zanardi era fatto così, a suo modo calcolatore, prima della Maratona di New York. E lo è stato anche dopo. Gambe o non gambe.
Le sfide che raccoglie, che affronta, sembrano a tutti vere e proprie imprese. E lo sono, questo non è in discussione. Che si tratti di presentare un programma televisivo di divulgazione scientifica, non certo uno scherzo, o esordire nel triathlon partendo dalla gara più massacrante in assoluto. Poi uno vede che il gioco gli riesce sempre o quasi e allora pensa di trovarsi davanti a un superuomo. Ma non è vero. Quando Alex dice: “Sì, facciamolo” non si sta buttando a pesce per amore di protagonismo o per inseguire il sensazionale confidando in qualcosa di magico. Tutt’altro. Il suo sì è frutto di una riflessione in cui entrano numerosi fattori, più o meno razionali. Il desiderio e il divertimento, che sono le molle principali. Ma anche il calcolo e l’analisi, che sono altrettanto importanti. Ne viene fuori, quasi sempre, un mix perfetto. Perfetto per come è fatto lui, naturalmente. Scomporre e capire il suo approccio è affascinante e non toglie nulla ai risultati: e il fascino sta nel capire che ogni volta c’è qualcosa di nuovo da imparare o un’occasione da sfruttare per migliorare se stessi. Una volta imboccata questa strada l’entusiasmo altrui che la accompagna è piacevole ma, per quanto gratificante, diventa quasi un dettaglio.
Quanto successe quel giorno a Brands Hatch si è un po’ ripetuto quando ho accettato di correre l’Ironman di Kona, alle Hawaii, nel 2014. È la gara di triathlon più dura al mondo e non sono io a dirlo. 3,86 chilometri a nuoto, 180,26 in bici, 42,19 di corsa a piedi da affrontare nelle condizioni ambientali ostili di quell’isola: mare mosso, caldo massacrante, rocce di lava nera tutto intorno, vento violento (soprattutto il famigerato “ho’omumuku”, che soffia di traverso a 70 chilometri orari), pochissimi momenti di recupero. Si disputa in autunno ed è la finale mondiale dell’Ironman, a cui accedi solo se hai raggiunto i punti necessari nelle gare andate in scena durante i mesi precedenti. Anche se i partecipanti sono più di 3000, esclusi pochi invitati come me, gli altri rappresentano l’élite della disciplina.
Non penso oggi che prendere parte a una gara così dura senza gambe sia più facile che con le gambe. Ne ero convinto anche prima. Il succo dell’Ironman è la maratona. I quasi 4 chilometri a nuoto hanno la coda lunga ma si fanno, i 180 chilometri in bici idem. Il problema è la maratona. Che non puoi preparare correndo tutti i giorni la distanza, ti distruggeresti. Ti alleni in modo scientifico, in proiezione, e poi spari tutto quel giorno, conscio che a ogni maratona stacchi un biglietto di un blocchetto non infinito. Chi supera un certo numero di volte è una rarità a livello genetico, è dotato di cartilagini e struttura ossea e muscolare che glielo consentono. Ma è massacrante. E a Kona arriva come terza e ultima frazione, dopo nuoto e bici. Lì inizia il vero Ironman.
Ho pensato che mi sarei dovuto spremere parecchio prima – nuotare senza gambe è dura e spingere per 180 chilometri una bici a forza di braccia anche – ma che una volta sceso dall’handbike il più per me era fatto, mentre per i normodotati iniziava la vera tortura.
Sapevo di avere un fisico allenato, di non poter tenere i miei soliti ritmi, di dover trovare con il mio allenatore il tempo giusto. Essendo costretto a viaggiare un’intera giornata lasci perdere i watt di potenza e ti concentri sul cuore. Anche perché l’entusiasmo, la voglia, nel mio caso una benzina incredibile, possono rappresentare una fregatura: vai come un missile e quando la fatica ti cade addosso sei finito. Sarebbe servito un allenamento diverso, ma andava a scontrarsi con le necessità delle gare paralimpiche che dovevo affrontare quell’anno. Dunque diventava fondamentale identificare il modo per far durare oltre dieci ore un fisico abituato a gare sprint. Come dire: preparo la macchina per una corsa di accelerazione e poi mi iscrivo alla 24 Ore… Bisogna andarci delicati sull’acceleratore se si vuol vedere il traguardo. Però mi ripetevo: “Devo solo trattenermi nelle prime quattro ore di gara, poi sarà la fatica a darmi il ritmo e quando scendo dalla bici e salto sulla carrozzina tutti i santi aiutano e in fondo ci arrivo”.
Questo pensavo, con molto realismo e lucidità. Ma in tanti alla vigilia si sono entusiasmati e si sono spaventati per me, l’hanno vista come la sfida impossibile. Creando un’attenzione che ha generato domande epocali. “Sei sicuro di potercela fare?”, “Perché ci vuoi provare lo stesso?” e avanti così. Tanto che pure gli amici di Enervit, che mi seguono da tempo e conoscono la materia perché è il loro lavoro studiare lo sport, hanno visto una tale magia nel mio tentativo da decidere di produrre un docufilm presentato in una conferenza stampa in «Gazzetta». Proprio lì con un giro di parole Pier Bergonzi – vicedirettore della «rosea» – mi ha domandato in sostanza che tempo pensavo di realizzare. Pur avendo chiaro in testa dove potevo arrivare, ho tergiversato un po’. «È difficile da calcolare» ho risposto, «anche per chi ha già fatto l’Ironman, figurarsi per me che sono al debutto nel triathlon. E anche questa è una bella anomalia: come se uno iniziasse a correre in macchina e come prima “garetta” si presentasse al GP di Monza di F.1, ma ti pare? Io vado a disputare il Mondiale di Kona che, per chi lo conosce, è il master universitario del triathlon…» E intanto, mentre la tiravo lunga, ci pensavo. Poi ho detto: «Credo che se si riuscisse a stare di un secondo sotto le dieci ore, sarei soddisfatto». A quel punto è calato un po’ di silenzio e ho visto Pier che ha proprio alzato gli occhi al cielo, come per dire: “Ma questo qui di cosa sta parlando?”.
Ci sono triathleti vicini al professionismo che, con le condizioni spaventose di Kona, se finiscono in dodici ore sono felici. E io che non ho mai affrontato una corsa del genere in vita mia, senza gambe, col vento forte e caldissimo, temperature mega, magari pure gli squali e la cubomedusa in mare (piccolissima, fatta a cubo, è letale…) dico dieci ore? Uno pensa: “Dai, non fare lo sborone. Da dove comincio a spiegartela?”. Vabbè, ho stretto le spalle e abbassato un po’ lo sguardo come fa chi pensa di aver esagerato, mica potevo comportarmi da professore su qualcosa di mai sperimentato. Hanno avuto tutti la stessa reazione di Fabio Fortina per la Maratona di New York: “Stavolta hai esagerato, ti è scappata la frizione…”. Non li biasimo.
Nell’edizione del 2015 molta gente, quando è scesa dalla bici per mettersi a correre, è andata per terra secca. È impressionante vedere uno che fa tre passi, barcolla, alza gli occhi per aria e cade come una pera. Quando è uscito il sole cattivo, ogni dieci che arrivavano al cambio uno sveniva, non c’erano più dottori per assisterli.
Come ha detto il Filips. All’anagrafe Filippo Zanelli, mio compagno di banco alle superiori e tuttora mio amico del cuore. Era con me alle Hawaii per una serie di motivi. Perché, in primis, nel progettare un’avventura del genere era impensabile non condividerla con le persone che mi vogliono bene: quindi era lì come amico. Ma, visto anche il fisico che si ritrova, era il mio handler, ovvero la persona che ti aiuta nel passaggio dal nuoto alla bici e per qualsiasi altra forma di assistenza nei cambi. E lo è stato in entrambe le edizioni, regalandoci momenti unici…
Il primo anno è andato malissimo, era in stato confusionale. La notte della vigilia non ha dormito per la responsabilità del compito che gli avevo affidato… Tanto che mi aveva detto: «Tu Sandrino mi devi dare la procedura esatta, così io eseguo al millimetro senza metterci del mio». Poi però, dopo avermi portato dall’acqua alla handbike in tempo record, della famosa “procedura” si è totalmente dimenticato e non mi metteva più giù: mi ha tenuto in braccio per un tempo interminabile, in catalessi, nonostante i miei pugni sulle spalle per svegliarlo. Nel 2015, invece, perfetto. E da solo, perché nell’edizione precedente l’organizzazione gli aveva assegnato un aiuto: l’assistente dell’assistente…
La storia che fa più ridere però è quella della sua preparazione. Ha iniziato ad allenarsi per l’occasione dall’inverno precedente. In palestra aumentava sempre più i carichi per le gambe, considerata la dinamica di ciò che pensava di dover fare. E mi mandava le foto con i bilancieri appesantiti di 20 chili alla volta. Quando è arrivato a 180 chili alla decima ripetizione la palestra si è fermata per applaudirlo. Solo che non serviva… «Filippo, guarda che basta appoggiare le ginocchia ai gradini in acqua e puntare i gomiti su quelli tre file più su, io arrivo dal nuoto, salgo sulla tua schiena, e facendo forza su gambe e braccia ti alzi e andiamo.» Non era convinto, dunque abbiamo fatto le prove a casa mia. Si è piazzato alla base di una scala, dandomi la schiena e abbiamo simulato tutto con successo, dimostrando così l’efficacia della tecnica. «Ah, ma è una cazzata» è stato il suo primo commento. Poi, dopo una pausa, ha aggiunto: «Sai che c’è? L’unico problema è che se mentre ti aspetto messo giù così arriva un ironman e si approfitta di me, tu trovi occupato» (chi legge capirà che ho dovuto addolcire un po’ il linguaggio…). E giù a sghignazzare come fa lui, con quella risata aspirata e contagiosa.
Perché con Filips non ridere è impossibile, anche se si parla di gente che sviene, come è successo in gara un anno fa. Sì, erano proprio condizioni spaventose. Ma sebbene gli statunitensi siano sensibili al tema dello scarico delle responsabilità, il mondo dell’Ironman è qualcosa a se stante.
La partecipazione di chi guarda o è di supporto è la stessa di chi va in pellegrinaggio a Medjugorje: tu speri inconsciamente che la Madonna ti appaia ma in realtà ti basta andar lì in cerca di ispirazione. Ci sono persone che seguono la gara con questo spirito.
Io mi sono presentato alle 4 e mezzo del mattino alla tatuatura del numero di gara e la gente è già lì che aspetta, urla, ti chiama per nome, una scena bellissima. Anche i volontari che ti assistono in corsa sono lì per coltivare il tuo sogno: se sei in crisi ti massaggiano, ti danno schiaffi per svegliarti, se ti riprendi corrono con te per rimetterti in moto. Se te la senti e sei lì per trovare te stesso, i tuoi limiti, io non ti posso fermare, se vuoi morire è una tua decisione. In quel fine settimana, se sei a Kona, lo devi capire.
Catia, la moglie di Filippo, era lì con lui e mi ha detto: «Io di sport so poco e i giorni precedenti mi avevano preparato, ma quando ho sentito il colpo di cannone del via, l’onda sul molo di quelli che si tuffavano, ho davvero respirato l’atmosfera e compreso. Non ho visto persone in competizione con altri ma esseri umani che tiravano fuori la loro parte più nobile». Lei insegna lingue alle scuole medie e lo sport non le interessa proprio. «Ma in quel momento non ho potuto fare a meno di commuovermi. E pensare a tutte le volte in cui eravamo in vacanza insieme, tornavi stanchissimo da un allenamento e io mi dicevo: “Ma chi glielo fa fare?”. Ecco, adesso ho capito e provato un’ammirazione molto grande e anche un po’ di invidia per la tua motivazione.» È una grande verità. E sono fortunato: perché l’ho scoperto alla svelta e gli ho potuto dedicare gran parte dei miei anni.
Non è mai troppo tardi, si dice. Ma non è vero: prima o poi il tempo finisce. E che sia nello sport o in qualunque altro campo c’è gente a cui la vita passa davanti senza che se ne renda conto. Il momento più bello di tutta l’avventura con l’handbike è stato quello in cui ho puntato la ruota verso nord, un giorno qualsiasi di tanti anni prima, pensando molto vagamente ai Giochi di Londra. Non alla fine, quando ho tagliato il traguardo con tutti gli altri che esultavano intorno a me. Prima di Kona sapevo cosa mi dovevo aspettare. Detto tutto questo, o forse proprio per tutto questo, se quel giorno in «Gazzetta» a sentirmi pronosticare l’Ironman in meno di dieci ore qualcuno ha pensato “ma va a caghér” posso comprenderlo…
Comunque, per raccontare Kona, bisognerebbe partire proprio dagli occhi del Filips.
Anche lui era convinto mi stessi imbarcando in un’avventura impossibile. Volendomi bene come un fratello la preoccupazione lo tormentava. Io poi ho il vizio di esagerare un po’ nei miei racconti, e lui dopo tanto tempo non ha ancora imparato a distinguere… A distanza di anni, nel vago ricordo di un giorno speciale sul Michigan Speedway, quando racconto della velocità più alta che io abbia mai toccato al volante, tra i 416,8 e i 418,6 chilometri orari, punto sempre sulla seconda cifra, quella che fa più paura, e lui si agita ancora.
Perché l’avventura vissuta a Kona va un po’ ridimensionata. Da disabile, solo a forza di braccia, sembrava a tutti un’impresa impossibile. Soprattutto se portata a termine in meno di dieci ore. Assomigliava ai racconti dei bambini, almeno quelli come me, che alla storia iniziale continuavo ad aggiungere pezzi fino al punto che gli stessi creduloni compagni delle elementari mi mandavano a quel paese… Bambino un po’ lo sono rimasto: curiosità, dono della meraviglia, entusiasmo me li porto sempre dietro. L’esagerazione, che da piccolo serviva ad accrescere la mia autostima, non più.
Eppure anche il Filips, la cui fiducia in me rasenta da sempre il fondamentalismo religioso, era certo che avessi sottovalutato alla grande l’impegno. Lui nella vita parte regolarmente da un presupposto: «Se Sandrino dice che si può fare allora si fa!». Ormai ci scherzo sopra. Tempo fa gli ho chiesto: «Oh Filips, ma se rimani da solo nella giungla e puoi scegliere preferisci che ti venga paracadutato un megazaino con viveri, kit di sopravvivenza, medicinali, accendini, attrezzi di prima necessità, GPS portatile, arma da fuoco e munizioni o semplicemente Sandrino?».
«See, va là! Sandrino tutta la vita! Io mi metto lì sotto una pianta, mi faccio una pennica e tempo che mi risveglio a mani nude hai già costruito una casa che volendo di lì a poco ci apriamo un villaggio turistico!»
E via a ridere.
È un’evoluzione dell’età adulta, non è andata sempre così. Sui banchi di scuola – siamo stati in classe insieme a lungo – mi prendeva spesso in giro per le mie fantasie quando gli raccontavo dei kart, delle gare che facevo e dei miei progetti futuri. Poi tanti anni dopo, nel 1997, mi ha visto correre a Michigan, su uno dei circuiti ovali americani più veloci al mondo. E ha sgranato gli occhi come quando ci si sveglia dal sonno per rendersi conto che non era un sogno: Sandrino, il compagno di scuola di mille chiacchierate interminabili piegati sotto il banco durante l’ora di italiano, era lì, dentro un bolide rosso durante un giro di ricognizione in cui la sua era una delle trentatré vetture che rombavano sommessamente in attesa del via.
Voler bene a una persona significa anche interessarsi ai suoi sentimenti, a quello che pensa, provare a intuire come reagirà di fronte a qualcosa che lo sorprende. Io quel giorno a Michigan, nonostante l’enorme concentrazione della gara, arrivai addirittura a immaginare cosa stessero pensando i miei amici in tribuna, perché oltre a Filippo c’era anche il Titano (vero nome Stefano, ma noi i nomi corretti li usiamo poco…). “Sandrino? Lì in mezzo?” E me lo vedo, in quel giro di ricognizione tra centomila persone sedute sugli spalti, che vola col pensiero ai tempi passati in classe e realizza che ciò che sta vedendo assomiglia tremendamente ai progetti e ai sogni impossibili che gli confidavo.
Poi la gara è partita. Si è fatta difficile. Ma pian piano ho trovato il modo di uscire dai guai d’assetto che avevo all’inizio. Ho superato un’auto dopo l’altra, prima all’interno, poi all’esterno delle curve e infine verrebbe da dire “dove capitava” tanto ero veloce.
Filippo sapeva anche della discussione che avevo avuto con il mio tecnico Morris Nunn sulla sesta marcia da utilizzare in gara che giudicavo esagerata: velocità teorica al massimo regime di rotazione del motore 418,6 chilometri orari (o 416,8? No, no, certamente la prima…). E quando lo scoprì aveva semplicemente risposto: «Meeerda!», perché quel numero era così incredibile da sembrare una bestemmia. Morris però aveva ragione perché dalla tribuna Filippo si era reso conto dell’esplosione di metanolo negli scarichi quando il limitatore di giri tagliava la corrente ai cilindri per impedire al mio motore di salire ancora. Quel limite pazzesco l’avevo toccato giro dopo giro prendendo la scia degli avversari da passare, con una facilità tale da sembrare appartenere a una categoria diversa. Allora ha iniziato a stropicciarsi gli occhi mentre 500 miglia volavano via insieme a tre ore di gara, un attimo rispetto a quanto duravano a scuola. Anche perché qui sapevo benissimo cosa stavo facendo. Non avevo preso 5 in topografia o un 6 striminzito nel tema d’attualità, scelto per evitare guai con storia o letteratura. Qui ero sicuro di me e stavo vincendo, dominando sul terreno più yankee che ci fosse, quello della US 500, la gara su ovale più importante della stagione.
E lì Filippo aveva avuto la rivelazione in grado di creare una fiducia cieca ed eterna. Perché per lui Sandrino restava Sandrino, un amico. Ma da dove saltava fuori quello che gli aveva visto fare? Era roba magica. Anche se guardandomi sul podio ha riconosciuto lo stesso sorriso di quando, ragazzino, provavo a spiegargli il progetto impossibile del mio futuro da pilota. Con annessa smorfia che significava: “Hai visto Filips che non era così impossibile come poteva sembrare?”.
Da quel giorno non ha mai più dubitato, fossero partite a biliardo, a carte, far gli scemi con la moto d’acqua sul lago di Indianapolis, in vacanza al mare d’estate. O nei fine settimana di ozio totale a casa mia, a Padova, dove vivo oggi. Se serve una risposta a una qualsiasi domanda, lui prende le mie parole come una verità religiosa e indiscutibile. Non stavolta, non con l’Ironman.
Mi aveva visto preparare il Mondiale di paraciclismo, trascurando per quello l’allenamento in carrozzina, mezzo che ancora oggi non conosco affatto bene, o prendere dimestichezza con muta e boccaglio, concessi a noi disabili per il nuoto. Fino a quel momento in acqua, al mare, c’ero entrato per fare il bagno… In agosto lui era a casa mia in Toscana, dove ogni anno ci troviamo per fare le vacanze insieme. E non bastava avermi accompagnato più volte nell’allenamento – in quad con Sofia, sua figlia – vedendomi spingere dopo ore di allenamento con un numero di chilometri esagerato. Al ritorno da uno di quei giri aveva osservato la piccola Sofia farsi cura di una striscia di gomma mezza scollata della carrozzina olimpica che mi ero ripromesso di sistemare dopo l’esperienza dell’anno prima alla Maratona di New York. E ai suoi occhi era la metafora di quanto stessi prendendo il tutto con troppa leggerezza.
«Alle Hawaii dovrai nuotare nell’oceano per 4 chilometri. Poi con l’handbike fare una cosa che non hai mai fatto, perché te 180 chilometri tutti assieme non li hai mai percorsi. E come se non bastasse devi metterne insieme altri 42 con un affare di cui non sai niente, perché l’anno scorso a New York hai finito che eri morto quasi un’ora dopo l’arrivo dei primi. E invece cosa fai? Continui a prepararti per il Mondiale dove farai una gara da 10 minuti, una da meno di 30 e un’altra da poco più di un’ora. E intanto la carrozzina ha le ragnatele. E aggiungo: se non fosse stato per la Sofi anche una gomma del corrimano a penzoloni perché in questi mesi non hai trovato il tempo di incollarla!»
Ma nella mia testa tutto era già definito, progettato da tempo. La sera, cercando i pensieri per conciliare il sonno, avevo “lavorato” tantissimo sulla mia posizione sulla carrozzina, sui guanti speciali da realizzare, su tanti fattori da personalizzare.
E avevo ragionato sul nuoto. Sul fatto che il motore, le mie braccia, dopo anni di allenamento in handbike e soprattutto di vita da disabile che ha solo quelle, sono ormai vascolarizzate come le gambe di uno sportivo. Sapevo che il motore era a posto e che, alimentandomi nel modo giusto, non avrei finito la benzina. Avevo ragionato sul boccaglio per tenere giù la testa, su una muta a galleggiamento variabile tutta da costruire che mitigasse gli effetti negativi dell’assenza delle gambe, fondamentali per assetto e spinta. Avevo letto i regolamenti, studiato il percorso, metabolizzato la “dimensione enorme” dello sforzo da produrre per iniziare ad accettare una gestione conservativa delle forze, che non è esattamente nella mia indole…
Solo che un po’ mi divertiva l’incredulità del mio amico, così come lo stupore misto a stima e scetticismo di tutte le persone che avevo incrociato sulla mia strada da quando la storia era diventata pubblica.
Chiedo scusa ma ammetto di averne un po’ approfittato. Perché non solo ci avevo pensato, avevo fatto molto di più: l’avevo sognato, avevo progettato la strada da percorrere perché quella degli altri, per me, non poteva andar bene. La linea da tagliare sul traguardo di Kona non la vivevo come un’ossessione ma come la logica conseguenza di un progetto ben eseguito. Io provavo a raccontarlo a Filippo, ma siccome anche lui pensava che la mia fosse la banalizzazione ignorante di un’impresa titanica allora ho fatto un po’ il furbo…
E la scenetta – io tranquillo, lui invece preoccupatissimo – è andata avanti fino alle Hawaii. Sabato 4 ottobre 2014, alle dieci di sera, Filippo è arrivato a casa mia. Lui e Catia dormivano da noi perché il giorno seguente saremmo partiti da Venezia. Rientrando dal giardino me lo sono trovato davanti. Stavo finendo di imballare l’attrezzatura ed ero terribilmente in ritardo, mancava ancora la cassa con l’handbike in cui dovevo infilare gli accessori di cui avevo bisogno, e mentre stavo facendo appello alla memoria per non dimenticare niente lui ha guardato tutti i borsoni schierati davanti alla porta del garage. «Socc’ Sandrino, quanta roba! Ma hai capito cosa devi fare alle Hawaii?»
Eddai… Ho evitato di discutere: dovevo finire di preparare tutto, fare la valigia con i vestiti, doccia, controllare lo zaino dove avevo messo i miei due Garmin, computer, passaporto e un libro per il viaggio e poi a letto, che il mattino la sveglia era alle 6! Ci sono volute più di trenta ore, da Venezia, per arrivare a Kona. Faceva un caldo bestiale e si è scatenato un temporale proprio mentre stavamo tentando di caricare il van che avevamo noleggiato. Pochi chilometri e, incredibilmente, abbiamo trovato subito la strada per la casa che avevamo affittato. Casa… Oddio, una villa che non vi dico! Mia moglie Daniela, pragmatica come solo lei sa essere, aveva valutato diversi hotel: «Questo è bello ma fuori mano, questo sarebbe il top ma quando chiudono il percorso rimane tagliato fuori. Quest’altro è logisticamente il migliore, ma non è un granché…».
«Affittiamo una casa» avevo suggerito.
E lei: «Sì, ma come la trovi?».
«Con internet.»
Mi sono fiondato su Google immagini e, giusto per non farmi mancare nulla, ho digitato: “Beautiful private home vacation rental Kona Hawaii waterfront swimming pool”. Una roba da sboroni, ma l’avevo fatto così per scherzare. La prima foto uscita sembrava troppo bella per essere vera. Daniela, intuito il sistema, ha passato una settimana a cercarne altre ma alla fine abbiamo affittato proprio quella! All’arrivo eravamo talmente cotti da non poterla valutare bene, ma quando il mattino ci siamo alzati… Wow, che figata! E così tra allenamenti, prove dell’attrezzatura e considerazioni su come impostare la gara ci siamo avvicinati al giorno fatidico. Mentre nelle orecchie ogni tanto sentivo una voce con cadenza bolognese: «Sandrino, fa un caldo boia. E hai visto quanto è lungo il percorso? Ma sei tranquillo?». E la faccia dell’autore delle domande lasciava intuire i suoi pensieri: “Oh, te la sei cercata, adesso risolvitela da solo!”.
Il giorno della corsa la sveglia mi ha rapito da un sonno poco convinto. Ero contento: primo perché era finalmente arrivato il momento di intraprendere una cosa sognata da tanto e poi perché quel che era fatto era fatto, dovevo pensare solo a gareggiare. Alle 4.30 iniziava la tatuatura dei numeri: un bel 147 sui bicipiti e vari «good luck» dei volontari addetti ai controlli. Mentre tutto era ultimato e serviva solo attendere, Filippo continuava a fissare il mio numero sul braccio e a ripetere: «Merda, Sandrino…». Che vuol dire tutto e niente, ma per me che lo conosco voleva dire molto. E infatti, dopo un po’ ha iniziato a domandarmi come facessi a essere così calmo visto che lui se la faceva sotto… Gli atleti professionisti sarebbero partiti alle 6.25, gli uomini, e alle 6.30, le donne. Il “resto del mondo” (me compreso) alle 6.50.
L’inno statunitense è partito mentre mi stavo preparando e lì il mio cuore ha cambiato marcia! Mi ha preso di sorpresa e l’emozione non dipendeva dall’essere il segnale inequivocabile che la gara stava per iniziare, ma dall’avermi riportato con la memoria alle mie gare in IndyCar. Alle prime note mi è passato davanti un pezzo di vita, perché negli States ho gareggiato per quasi quattro stagioni. Quando, dopo qualche secondo, sono tornato nel presente mi sono detto: “Dai, è solo un’altra occasione per fare quel che puoi, solo quel che puoi. E comunque anche gli altri sono nervosi”. Poi ho guardato Filippo e ho colto il terrore nei suoi occhi… Fissava questo numero di tre cifre che, se hai i bicipiti un filo pronunciati, sta proprio bene. E alternava lo sguardo perso all’intercalare «meeerda» che sottintendeva: “Zanna, stai facendo la cazzata”. Lo spaventava soprattutto il nuoto: era sicuro che affogassi…
Il colpo di cannone che accompagna la partenza dei professionisti mi ha fatto salire di botto le pulsazioni. Poco dopo è arrivato un tizio dell’organizzazione a dire: «It’s time to go».
Era ora di andare. Filippo e Scott (l’assistente dell’assistente…) mi hanno messo in acqua e ho atteso un tempo interminabile in cui continuava ad arrivare gente, sgomitando per prendere posizione. Gli organizzatori mi avevano consigliato di andare il più possibile a sinistra, dove c’erano meno atleti: avrei fatto più strada per arrivare alla boa ma avrei perso in fondo solo pochi secondi. Invece a causa del mio spirito competitivo ho pensato: “No, no, mi caccio qui che vado dritto e risparmio tempo”.
È stato un errore. Al via gli altri, con le gambe, hanno prodotto uno sprint che a me è vietato e sono stato subito travolto da gente che tirava calci e pugni. Involontari, per l’amor di Dio, ma fanno male lo stesso. E per questa scelta sbagliata nel primo tratto ho nuotato in mezzo a gente più lenta di me. Dopo un chilometro molti di quelli che sembravano gagliardi hanno iniziato a calmarsi, si sono aperti degli spazi e mettendo a frutto il mio allenamento anormale su braccia, tronco e spalle ho iniziato a guadagnare posizioni su chi invece è dotato del kit completo di Madre Natura.
In tutto questo Filippo e Scott dovevano tenersi pronti per recuperarmi, e agli handler vengono dati continui aggiornamenti da parte degli organizzatori. Dopo aver passato la boa la previsione era di un’ora e quaranta in tutto. Con il Filippo molto sollevato perché la sua teoria per cui dovevo affogare sembrava essere smentita. Ma non ha fatto in tempo a godersela perché i tempi si sono accorciati e in men che non si dica li hanno chiamati. «È già qua!»
Mi hanno recuperato e il cambio è andato bene, anche se ho forse esagerato nella doccia. Mi avevano raccomandato di lavar via bene il sale ma, con il senno di poi, era quasi inutile: con tutti i liquidi che ha buttato fuori il mio corpo quel giorno il sale se ne sarebbe andato da solo più e più volte. Sono partito per la frazione in bici e in quel momento ho provato la vera felicità. In acqua sapevo di poter nuotare ma non è comunque il mio elemento, temevo l’imprevisto. Mentre con le ruote per terra tutto ti spaventa meno. In più sentivo le braccia girare bene e, dopo il tratto tortuoso che ti fanno percorrere dentro la cittadina, girando a sinistra prima di Palani Road per infilare la strada più larga e dritta, ho provato davvero una sensazione meravigliosa. È stato il momento più bello della giornata.
A quell’ora del mattino non c’era vento e viaggiavo bene: puntavo, per i 180 chilometri in bici, a una media di 33 chilometri orari e pian pianino quel numero lo vedevo arrivare. Al punto che continuavo a impormi di stare calmo perché mi sembrava tutto troppo bello per essere vero. Ma proprio mentre mi stavo un filo gasando si è alzato un vento contrario, che è diventato fastidioso mentre la strada per Hawi – il punto in cui giri per tornare – iniziava a salire. Lì abbiamo incrociato i pro che tornavano e con quel vento alle spalle sembravano dei proiettili. Un po’ li ho invidiati. Solo che quando abbiamo fatto dietrofront per i 90 chilometri verso Kona, il vento ha cambiato direzione e durante la discesa ha iniziato a spirare dalle montagne sparando bordate spaventose.
Le Hawaii sono famose per la vegetazione rigogliosa ma nella parte in cui si disputa l’Ironman il vulcano, oltre a versare la lava, ha disseminato veleni e le piante sono praticamente assenti. Si è formato una specie di paesaggio lunare, con queste conformazioni tondeggianti, sembrano tutte merda di vacca ma in realtà è roccia durissima.
Al rifornimento avevo preso un paninetto, non mi serviva altro. I ragazzi della Enervit mi avevano preparato pastiglie di sali da ingerire ogni due ore solo con acqua e poi delle maltodestrine speciali che restavano liquide anche ad altissima concentrazione. Erano in una borraccia da un litro piazzata alle mie spalle con un tubo che arrivava alla bocca: ogni dieci minuti, con precisione svizzera, tiravo una e una sola sorsata, senza impegnare così più di tanto stomaco e fegato per digerire.
Avevo fatto un errore riguardo l’uso delle ruote lenticolari al posteriore. Sono proibite sulle bici normali per ragioni di sicurezza legate al vento molto forte. Con la handbike le ho potute utilizzare ma ho visto con i miei occhi quanto siano pericolose. Un paio di volte in piena discesa, dove frenandomi andavo a 60 orari, la bici si è messa a coltello su due ruote. Per fortuna mi son ritrovato dritto ma ho visto gente volare letteralmente via e un ragazzo, che aveva tolto una mano dal manubrio per prendere una bottiglietta d’acqua, essere vittima di una folata, cadere e finire sotto i banchi del rifornimento. Poi sul piano, quando la discesa è finita, il vento è calato. Mancavano 70 chilometri alla conclusione della parte ciclistica e dopo un po’ mi son detto: “Bon, è fatta. Siamo a posto”. Nell’attimo stesso in cui ho prodotto questo pensiero arrogante Eolo al s’è incazzé e mi sono ritrovato nuove folate frontali e contrarie, piene e potenti. Quei 70 chilometri sono stati un’agonia, non passavano mai. Mi impegnavo in esercizi mentali per far trascorrere il tempo, contavo le battute delle pedalate, ma era tutto inutile. In più era quasi mezzogiorno e il sole picchiava, era diventato tutto durissimo. Ho rapidamente accantonato i sogni di gloria covati sul tempo finale e sono andato avanti come potevo, completando la frazione in 6 ore e 7 minuti.
Sono ripartito con la carrozzina, un mezzo di cui sinceramente devo ancora capire molto. Non ho acquisito per intero la tecnica giusta e dunque, non riuscendo a sfruttarlo al massimo, non sono nemmeno in grado di fare fatica. Il che quel giorno non si era rivelato proprio un fastidio. Ma quella della maratona resta la parte che mi avvantaggia di più: l’ho chiusa in 2 ore e 24 minuti. Staccando di mezz’ora, per darvi un’idea, Sebastian Kienle che ha vinto la gara assoluta. Chi la fa con le ruote è favorito. Vi basti pensare che sono uscito dalla frazione di nuoto intorno al 300° posto, ho chiuso quella in bici circa 1200° e alla fine ho tagliato il traguardo 153°.
Dopo l’arrivo ci sono stati grandi festeggiamenti, tutti erano orgogliosi e felici, ci siamo buttati in acqua, abbiamo fatto un gran casino. Lì accanto, un po’ defilato, c’era Morris Nunn, il mio vecchio ingegnere di pista dei trionfi statunitensi, che era venuto a vedermi. Notando la mia vitalità e osservando allo stesso tempo che altri lì vicino arrivavano disfatti al punto da sdraiarsi sulle barelle, con il suo fare laconico e molto British mi ha chiesto: «But, did you run the same course?», ma, avete fatto lo stesso percorso?
Solo Filippo non mollava. Cocciutamente, per non darmi ragione, continuava a chiedere quasi stizzito: «Ma te non hai neanche un piccolo dolorino? Sei sicuro?». A un certo punto, tornati a casa, eravamo in acqua appoggiati al bordo della piscina e di colpo ho detto: «Aspetta aspetta, sento un pizzicorino nel braccio».
E lui: «Vedi, vedi, vedi?».
Ho sollevato il gomito: «Ah no, era un piccolo sasso che si era infilato qui sotto».
«Ma vaffanculo Sandrino!»
Alla fine siamo tornati a recuperare la bici dalle parti del traguardo. Faceva buio, c’erano ancora atleti che stavano arrivando. Il pubblico, che non si muove fino alle undici di sera, quando è previsto il limite per concludere la gara, era ancora lì a incitare e applaudire. Pronto a mettere la ghirlanda al collo anche all’ultimo, come aveva iniziato a fare con il primo, mentre l’intera città era in festa.
Lo trovavo commovente.