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«Vai come un razzooo»

Vista adesso, a distanza di tredici anni, sembra la normale tappa di un viaggio lungo e ricco di avvenimenti. Come fosse stato facile. Non lo è stato. L’abitudine a certi exploit e la distanza nel tempo rischiano di rendere tutto scontato. Il ritorno di Alex alle corse in automobile resta un giorno da ricordare bene.

Pilota lo era rimasto, fin troppo: quando nel 2003, prima della 500 Miglia Indy del Lausitzring, era tornato a completare la corsa che gli era costata le gambe e quasi la vita, alla fine aveva percorso uno di quei giri in 37"487. Un tempo che gli sarebbe valso il quinto posto sulla griglia di partenza della gara vera. A uno così cosa vuoi dire? Che è pazzo? Che non ha il senso del pericolo? Invece, se superi la banalità, pensi che un pilota resta sempre un pilota, sa benissimo cosa sta facendo e si diverte un mondo. Ma un conto è un’esibizione, per quanto da pelle d’oca, un altro è sfidare avversari veri e forti in un campionato importante e combattuto.

Di quel 19 ottobre di tredici anni fa – una gara dal Mondiale Turismo che a guardare le tribune sembrava un GP di F.1 – ricordo soprattutto un casino incredibile: il suo box a Monza invaso letteralmente di persone e circondato, fuori, da una folla mai vista. La gente si era resa conto che si trattava di una storia grossa, piena di significati, primo tra tutti, perdonate il paradosso, è stato proprio il ritorno alla normalità in una situazione che di normale sembrava non avere niente. Ma invece in qualche modo lo è: un pilota ha un incidente, si riprende e torna in pista. Punto. Con il piacevole corollario – e questo rende tutto molto “zanardiano” – di averlo fatto circondato da amici vecchi e nuovi, con un team che stava praticamente dietro casa e mettendoci la fantasia e l’intelligenza “artigiana”. Tutti ingredienti che, conoscendolo, lo rendono una persona felice.

Sì, è una bella storia. Però come tutte le avventure riuscite, è stata soprattutto una questione di pensieri ben congegnati. Tradotto: serviva la domanda giusta. Quando siamo andati in pista per la prima volta ci siamo fatti quella sbagliata: come fa questo qui a correre di nuovo in auto con quello che gli è rimasto? Io stesso mi ero unito al coro di chi diceva: “Gli facciamo usare le mani”, sfruttando la tecnica già disponibile per ciò che serve a pilotare.

E così, al primo test che ho fatto sul circuito di Adria, avevo tutto in zona volante: un pulsante per azionare la frizione, un cerchiello per accelerare, un terzo comando per frenare. Alla fine sterzavo mentre azionavo la frizione, cambiavo e intanto però dovevo fare la curva e ci riuscivo col palmo della mano. Mi sono fermato ai box e ho detto: «Se volete anche mettermi uno scopettino nel culo, vi do una pulitina all’abitacolo…». In realtà l’approccio era sbagliato, perché escludeva completamente la possibilità che io fossi in grado di utilizzare una gamba. “Non puoi” dicevano tutti. Ma io l’anca per spingere ce l’ho ancora e con la protesi posso farlo anche con una certa forza. Questo dettaglio chiave non è nuovo, ma è meglio ricordarlo.

Roberto Trevisan, detto “Cipo”, è il tecnico che mi ha seguito per diverse stagioni nel mio viaggio verso la F.1. Era il mio ingegnere di macchina quando ho raggiunto grandi risultati in F.3000, nel 1991.

Ma Roberto è anche e soprattutto un amico. Tredici anni fa si è un po’ inventato il mio ritorno alle corse. Viveva a Padova, lavorava nel team di Ravaglia, a pochi chilometri da dove abito adesso. Insomma, la faccenda era nata anche come un divertimento insieme a degli amici. E lui era stato fondamentale per il primo assaggio. Ma, così come gli altri, sulla questione della gamba era un po’ testardo. Così un pomeriggio ci siamo presentati in officina con una pesa, di quelle che si tengono nel bagno di casa. Abbiamo fatto sedere il Cipo per terra, piazzato la pesa di cui sopra contro il muro e gli abbiamo chiesto di piantarci il piede applicando la massima forza possibile: diventando rosso in faccia come un peperone è arrivato a 97 chili. Poi al suo posto mi sono seduto io e ripetendo l’operazione, con la protesi, ho prodotto 120 chili. «Socc’mel!» mi è scappato.

Così, trovando la chiave del puzzle, siamo partiti. Era il 2003. I primi giri li ho fatti quando mancava poco all’estate, e in ottobre ho corso la gara di Monza. Tutta l’avventura era nata dopo i famosi tredici giri dell’11 maggio al Lausitzring, quelli simbolici che mi mancavano per finire la gara dell’incidente. Quando sono tornato dalla Germania, Cipo mi ha detto: «Qui da Ravaglia abbiamo un’auto a disposizione, montiamo dei comandi speciali e ti faccio fare qualche giro. Così, per provare». Sono onesto: non è che sentissi un’ansia smodata di inventarmi qualcosa, stavo benissimo come stavo.

Correre in auto, o partecipare alle Paralimpiadi con la handbike, offrono indubitabili e piacevolissimi valori aggiunti.

Ma, lo dico anche se mi frena un po’ il pudore, io sono uno che non si rompe mai le scatole. Non ricordo di aver vissuto una giornata noiosa. Se non ho voglia di far niente sto in casa tutto il giorno a far niente e quando arriva sera non penso di aver buttato via il mio tempo ma di aver ricaricato le pile. E ho tante di quelle cose piazzate in un angolo della testa da anni – tipo imparare a suonare la chitarra, ci penso da quando ero bambino –, che ogni tanto qualcuna comincio a metterla in pratica. Più banalmente può succedere che passando davanti al garage veda un gran casino, mi faccia tutto un piano nella mente, corra al fai da te più vicino comprando un mucchio di roba e, una volta tornato a casa, costruisca una scansia in legno con lavatrice e asciugatrice incassate, cuccia del cane integrata e così via. Attività che mi risolve la giornata. E la mia soddisfazione nel guardare tutto, una volta finito, è pari a quella che ho potuto provare dopo un giorno di test con la BMW di Ravaglia avvicinando i tempi dei piloti ufficiali dopo aver rotto le balle agli ingegneri con le mie idee, le mie modifiche, i pezzi fatti in casa.

Nella primavera del 2003 vivevo ancora a Montecarlo ma venivo spesso a trovare gli amici in Italia. Quando Cipo mi ha prospettato l’ipotesi di quei giri sono andato in officina e ne abbiamo parlato un po’, ma l’idea è rimasta lì. Lui però ha proseguito, si è dato da fare, ha coinvolto un’azienda veneta che si chiama Fadiel e progetta e costruisce ausili speciali per la guida dei disabili. Ha adattato quel materiale, io sono arrivato e ho trovato la pappa pronta. Scopettino nel sedere a parte, beninteso… Perché, per tornare a quel giorno a Adria, va ricordato che la BMW 320 dell’epoca aveva anche un cambio manuale ad H, la mano dunque doveva lavorare su due assi, capito? Se fosse stato sequenziale, come è diventato tempo dopo, avrei avuto a che fare con una leva che andava avanti e indietro e poteva essere “asservita” con un comando al volante. Ma non era così. Per cui ci siamo presentati montando, appunto, il meccanismo della frizione sul pomello del cambio e tutto il resto dei comandi attaccati al volante. Non ero quasi in grado di fare le curve. Ho girato ugualmente tutto il giorno perché comunque mi sono divertito ma gli strumenti, messi così, non erano migliorabili. Lavorando un pochettino siamo riusciti a rendere l’auto almeno utilizzabile ma non certo competitiva. In più, il meccanismo al volante che azionava il freno era brutalmente on/off: o non rallentava abbastanza la vettura o mi spalmavo con la faccia sul vetro. A fine giornata mi ero preso sette o otto secondi dai tempi migliori. “Non male” hanno detto ai box. Ma non male cosa?!? È un’eternità. Perché uno ti vede girare senza gambe e pensa: “Fa quello che può”. Come se il ritardo fosse mio.

In realtà al test successivo, frenando con la gamba, ho girato subito a un secondo e mezzo di distacco dai più forti. Anche perché, fisicamente, ero già abbastanza vicino a dove mi trovo adesso.

Il percorso riabilitativo è simile allo sviluppo di un’auto da corsa: arrivare a cinque decimi dal top è piuttosto facile, ma quel mezzo secondo alla fine è il più difficile da tirar giù. Ci si può interrogare su quanto conti limare quel “mezzo secondo” nella vita di tutti i giorni, usare le protesi o andare in giro con la sedia a rotelle: comfort, capacità di fare alcune cose, autonomia, entrano in campo vari fattori. Tempo dopo sono arrivato a puntare la sveglia alle 5, fare colazione, mettermi le gambe, lavarmi, sbarbarmi, baciare Daniela, saltare in macchina, arrivare in aeroporto a Venezia, salire su un aereo, fare scalo a Francoforte, atterrare a Hong-Kong, prendere un traghetto per Macao, recuperare i bagagli, infilare un taxi, presentarmi in hotel, vedere i miei meccanici davanti a una birra e dire: «Oh, aspettate: porto la roba in camera e vengo giù con voi». Senza mai togliere le protesi. Ecco, nel 2003 col cavolo che avrei fatto tutto questo.

Adesso, se sono in giro per lavoro, tolgo i pantaloni con dentro le protesi, li rimetto il mattino seguente e vanno subito bene. Oggi ho grande familiarità con operazioni che sembrano dettagli e invece sono importanti. Se devo andare due giorni a Monaco di Baviera con mia moglie capita che non porti nemmeno la sedia a rotelle. Quando ho smaltito i miei impegni arrivo in hotel, tolgo le protesi, mi muovo per la stanza e giro a forza di braccia, mi piazzo in poltrona, quando mi sveglio mi “butto su” le protesi e via. Ciò non significa che ora abbia imparato a ballare il tip tap, intendiamoci, ma una mobilità simile tredici anni fa era molto lontana. Però sette secondi di distacco non erano dovuti a quello.

Tornando a bomba, quando abbiamo piazzato il freno dove sta di solito il freno, siamo tornati a Adria e ho migliorato tantissimo le prestazioni. E a quel punto si è aperto un mondo completamente nuovo. Anche perché nel frattempo avevo ragionato e capito come si doveva guidare con quei comandi. C’era ancora molto lavoro da fare, ma alcuni difetti li potevo compensare con un po’ di mestiere. Se l’auto non frenava – come nella prima uscita – non frenava, c’è poco da inventare.

Quando sono rientrato ai box, dopo i primi giri in questo nuovo giorno di test, ho trovato tutti che mi guardavano con gli occhi sgranati. Lo stupore mi ha fatto anche piacere ma sapevo di non essere io il problema più grosso. A fine giornata Roberto Ravaglia, uno dei titolari della squadra, e Umberto Grano, che gestiva un po’ i progetti sportivi di BMW Italia, si sono presentati in delegazione e mi hanno fatto un discorsetto. «Tra poche settimane c’è l’ultima gara del campionato europeo a Monza. Vediamo se ci finanziano l’operazione, ma a te interesserebbe correrla?» «Va bene» ho risposto. Così mi hanno chiamato a Milano, dove c’è la sede italiana della Casa tedesca, per parlarne con i vertici aziendali. Io, da pilota professionista, mi aspettavo di capire come la volevano regolare da un punto di vista contrattuale. E invece il buon Gianfranco Tonoli, amministratore delegato dell’epoca, ha esordito con: «È un’idea bellissima ma qui soldi non ce ne sono». E allora l’abbiamo fatta così, senza chiedere niente.

Tutte le auto da corsa, per partecipare a competizioni ufficiali, hanno la cosiddetta “fiche di omologazione” presentata dal costruttore, con le caratteristiche del mezzo in base al campionato che affrontano. Per l’Europeo Turismo arrivava da BMW Motorsport, che ha sede a Monaco di Baviera. E a quella ci dovevamo attenere in modo rigoroso: eventuali modifiche, dovute alla mia condizione differente, dovevano essere oggetto di una nuova verifica e relativa omologazione. Per valutarne la qualità costruttiva ma, nel mio caso, soprattutto la sicurezza. Tutti volevano essere certi che non rappresentassi un pericolo per me e per gli altri piloti. Era anche uno scrupolo della BMW e, se ci riflettete un attimo, giustificato. Il mio ritorno alle corse avrebbe prodotto una bella esposizione per loro, da un punto di vista tecnologico ma anche e principalmente umano: avrebbe regalato a un marchio di prestigio una veste più simpatica, avvicinandolo alle persone. Emotivamente li avrebbe resi un po’ più latini e un po’ meno tedeschi. Ma questo è molto facile da pensare oggi, dopo che l’avventura è andata a buon fine con tutti gli onori del caso. Allora però era un ragionamento da affrontare con molta attenzione. Il rischio di combinare un casino e fare un autogol era grosso. Pensate se alla prima chicane di Monza, dopo il via, avessi causato un mucchio tirando dentro un sacco di avversari. Su quella pista, appena dopo la partenza, succede molto spesso, anche ai più bravi piloti di F.1. Ma se l’avessi fatto io chissà cosa avrebbero detto. Se pilotando adesso, nel 2016, facessi un incidente o finissi in testacoda l’ultima considerazione di tutti sarebbe: “È uscito di pista perché non ha le gambe”. Più facile che pensino: “È uscito perché ha fatto una stupidata”. Mentre all’inizio, quando ho corso l’intero campionato Turismo, appena finivo in testacoda spedivano fuori all’istante la safety-car…

Divagazioni a parte, la BMW ha avuto non pochi problemi nel presentare il progetto alla FIA, la Federazione internazionale dell’automobile. Io ne ho avuti altrettanti, se non di più, per ottenere di nuovo la licenza da pilota. Non lo dico per scagliare anatemi contro qualcuno, al posto di chi occupava quelle posizioni avrei forse avuto le stesse perplessità e le avrei esternate allo stesso modo, ma se non era per l’amicizia con Romano Fazio – dirigente della CSAI, la Commissione sportiva automobilistica italiana – e per il suo affetto probabilmente sarei ancora qui adesso a chiedere ’sta benedetta licenza… Lui non si è fossilizzato nel dire no a prescindere: ha percorso tutte le strade per arrivare almeno alle verifiche, altrimenti non ce l’avrei fatta.

Quando mi sono presentato a Roma davanti alla commissione medica c’era da affrontare anche una visita neurologica. Giusto: un pilota in certe situazioni deve prendere decisioni rapide sotto pressione, ogni tanto poi si scopre che qualcuno in situazioni di stress ha delle crisi, insomma ci sta. Quando avevo iniziato io con le monoposto non c’erano tutti questi approfondimenti, nemmeno un elettrocardiogramma sotto sforzo, bastava un normale controllo della vista et voilà, ecco fatto.

Ma quella volta con me hanno messo in campo diverse verifiche, compreso un elettroencefalogramma e un colloquio con lo psicologo. «Ho perso le gambe, mica la testa» ho detto a un certo punto. «Ma sa, lei ha patito una serie di traumi e rischia di incorrere in qualche crisi.» Chissà a cosa pensavano. Chiunque, gambe o meno, può sviluppare qualche patologia. Stavano solo cercando una buona ragione per dirmi di no, ciò che spaventa di più è sempre l’ignoranza. “Se alla prima curva fa un busso poi se la prendono con noi.” Nei loro pensieri c’era questo. Si capiva anche che la commissione riunita per l’occasione serviva per condividere una responsabilità.

Quando dicono che ho dato un grande contributo al mondo della disabilità per la pratica di certi sport non è stato tanto per far funzionare i comandi al volante, quanto piuttosto per aver “sdoganato” chi, dalla sedia a rotelle, cerca la possibilità di essere messo obiettivamente sotto esame e mostrare come attraverso i propri talenti residui intende praticare quel determinato sport e, eventualmente, ottenere la licenza per farlo. Non è stato facile, dopo questa simpatica strettoia… Per fortuna il mio fisico ha assorbito brillantemente quanto gli è stato imposto quel 15 settembre del 2001 (gambe perse a parte…). Così i medici si sono dovuti arrendere e, pur con un certo timore, hanno deciso di firmare, hanno concesso l’idoneità e io mi sono ripreso la licenza di pilota.

Nel frattempo andavamo avanti a fare qualche prova, cambiando altri dettagli per migliorare e così siamo arrivati a Monza per l’ultimo appuntamento dell’Europeo Turismo. Era ottobre. La BMW si giocava il campionato contro l’Alfa Romeo e aveva in pista Jörg e Dirk Muller con il team Schnitzer, entrambi ancora in lizza per la conquista del titolo, Andy Priaulx per il team UK e Fabrizio Giovanardi e Antonio García per quello Italy-Spain, cui mi aggiungevo io.

A Monza, un paio di settimane prima della gara di campionato, avevamo fatto un test e io dopo qualche giro mi ero insabbiato alla Parabolica. Apriti cielo! C’erano già gli sguardi perplessi degli osservatori che dicevano: “Fermiamo tutto, qui stiamo facendo una cazzata”. La cazzata l’avevo fatto io, tutto qui. La macchina era stata riportata ai box, ripulita e alla fine avevo girato tutto il giorno senza problemi. Ma, arrivati al weekend di gara, c’era tensione. Aumentata dal fatto che qualsiasi cosa facessi, all’epoca, venivo seguito, fotografato, intervistato. Con reazioni esagerate.

Se sciavo, “ooohh, scia”. Ma mica ero l’unico. Se andavo in giro con un quad, “ooohh, va su un quad”. Se facevo una gita con la barca, “ooohh, va in barca”. Insomma, ci siamo capiti: era tutto un miracolo. E tornare a gareggiare su una BMW ufficiale in un campionato di livello aveva creato un interesse molto grande. Non era certo la F.1 ma quando la cosa fu annunciata diventò uno dei titoli di testa dei Tg serali.

Per cui l’aspettativa cresceva e cresceva. Al punto che quella domenica, a Monza, c’era un pubblico che sembrava in attesa del GP. Non ho l’arroganza di pensare che tutta quella gente fosse venuta per me in quanto Zanardi. Era lì per la vicenda di cui mi stavo rendendo protagonista. Ma c’era, numerosissima. In una giornata magnifica, piena di sole.

Aldo Preo, caro amico e socio di Ravaglia nella squadra, in quei tre giorni mi seguì un po’ come un’ombra in tutti gli spostamenti tra i box, il paddock, la sala stampa. E lui da allora ripete come un disco rotto: «Non dimenticherò mai quando abbiamo tirato su la saracinesca del box per andare sulla griglia di partenza». Lo capisco. Quando si è alzata la serranda mi sono trovato davanti una vera muraglia umana. Era il pubblico della F.1 ma senza le limitazioni della F.1 che lo tengono lontano dai protagonisti. Mi sono sentito abbracciato, non solo metaforicamente.

Si iniziava il venerdì con le prove libere, mentre il sabato andavano in scena le qualifiche. Ero riuscito a far segnare l’undicesimo tempo, niente male, per cui eravamo contenti. Anche perché ai problemi personali con cui dovevo fare i conti andava aggiunto il fatto che debuttare all’ultima gara di campionato è davvero da fessi: gli altri corrono già da sei mesi, hanno ritmo, sono in palla. In tanti altri sport ti puoi preparare prima ma in quelli a motore non c’è miglior allenamento che girare in pista e affrontare le corse. Uno che si presenta al via proprio alla fine si ritrova con sensazioni e problemi che gli altri hanno già affrontato alla prima gara della stagione. Sei perdente solo per quello. E a me venne in mente un episodio illuminante.

Vincenzo Sospiri è un pilota della mia generazione, che stimo molto anche se non è riuscito a sfondare in F.1. Ha fatto il mio stesso percorso, gli stessi passi, dal kart alla F.3 e poi alla F.3000.

Alla fine del 1998 gli fu offerto un contratto per disputare le ultime quattro gare della stagione IndyCar, tra cui Surfers Paradise in Australia. La Eagle, la vettura che avrebbe pilotato, non era il massimo, prendeva regolarmente due secondi al giro dai più forti. Ma nella testa di un pilota come me e come lui, che è sempre stato veloce, c’è costantemente un pensiero tipo: “Ma se la guido io qualcosa mi invento e faccio meglio”.

Be’, nelle qualifiche di Surfers Paradise gli ho dato 4 secondi e 2 decimi di distacco. Mi ha incrociato nel paddock e mi ha guardato come se avesse visto un fantasma. «Ma come cazzo fai ad andare così forte?» ha detto. Era sincero, stupito, non aveva messo in preventivo di trovarsi in una situazione simile. Erano monoposto pesanti, con una potenza di 1000 cavalli e io, su quel circuito cittadino australiano stretto e veloce, buttavo la mia Reynard-Honda a destra e sinistra come se fosse un po’ la prosecuzione del mio corpo: con quell’auto faceva un’enorme differenza la confidenza sviluppata girandoci. Non eravamo un fenomeno io e una pippa lui perché durante la nostra carriera abbiamo sempre combattuto insieme, ci siamo contesi le vittorie e il talento era pari. Ma in quel momento andavo 4 secondi più forte.

Dunque, esordire a fine anno non era stata una gran magata…

Per fortuna nella vita sono stato sempre poco prudente, mi son tenuto un margine minimo nel taschino. Tanto che i meccanici con cui ho lavorato mi hanno anche investito di bestemmie per le auto che ho tirato contro il muro costringendoli a lavoro extra e notti insonni. Ma è la stessa caratteristica che mi ha permesso di produrre exploit che altri non hanno osato immaginare. Peraltro le gare Turismo hanno anche un vantaggio: sono due. Per cui se qualcosa va male nella prima hai sempre la seconda per rifarti. Perché, indovina un po’, alla prima curva di Monza nel 2003 ho preso una randellata e mi hanno cacciato fuori. Finita lì. Ma la vettura non si era rovinata.

In Gara 2 sono partito in fondo allo schieramento ma viaggiavo forte, ho fatto un po’ di sorpassi, davanti qualcuno si è buttato fuori e alla fine ho chiuso settimo. Che voleva dire essere andato a punti (li prendevano i primi otto). Delirio! Servizi romanzati ai telegiornali e via di questo passo. Quelle robe esagerate di cui però, lì per lì, fai anche fatica a lamentarti…

Era stato un fine settimana molto impegnativo ma molto bello. Con qualche sorpresa a rendere il tutto ancora più dolce. Il venerdì ero appena rientrato da un incontro con la stampa seguito da una sosta infinita nel paddock per foto e autografi e finalmente ero riuscito a infilare il garage. Lì c’era una parte adibita a mini hospitality dove potevano fermarsi gli invitati dalla BMW, gli amici, i giornalisti e così via. Sono entrato, buttandomi di peso su una sedia e dicendomi “Bon, sono salvo…”. Mi sono girato e mi sono trovato davanti Jimmy Vasser e Tony Kanaan, i miei compagni di squadra degli anni in IndyCar. Erano arrivati dagli Stati Uniti, senza dirmi niente, lo sapeva solo Daniela. Una sorpresa bellissima. Siamo andati a cena insieme tutte le sere, mi hanno aiutato a rilassarmi, e mi sono stati vicino come due tifosi qualsiasi, con affetto e trepidazione. Poi la domenica sera si sono fermati a Milano e, conoscendoli, non oso pensare come avranno festeggiato…

Monza doveva essere un gioco unico. Ma il Cipo si era gasato, Ravaglia anche, Grano aveva già il simbolo del dollaro stampato negli occhi come zio Paperone… Lui, ex pilota che nel Turismo aveva vinto moltissimo, è sempre stato pieno di passione per l’automobilismo, ma sviluppando anche una certa sensibilità per il denaro. Con il suo modo molto simpatico mi aveva confessato da subito di aver visto in me una gallina dalle uova d’oro, aveva già progettato tutto quanto… È stato lungimirante, e nonostante i suoi fini esclusivamente economici, col tempo siamo diventati amici e abbiamo condiviso anni divertenti anche perché con lui, amante della bella vita, era un po’ come avere a che fare con un George Best veneto…

È stato proprio Grano, pochi giorni dopo la gara di Monza, a dire «battiamo il ferro finché è caldo» e portarmi a Milano a conoscere il presidente di BMW Italia, che in quel momento era Marco Saltalamacchia. Soprannominato da me, tempo dopo, “Vaicomeunrazzo”. Perché qualche anno più tardi abbiamo preso parte insieme alla Mille Miglia storica, che va da Brescia a Roma e ritorno ripercorrendo il tragitto originale della corsa. Ovviamente non tutto il percorso può essere chiuso al pubblico. Ma in quei tre giorni ai partecipanti viene concessa in modo tacito qualche deroga sulle norme del codice della strada. Ad esempio sui rettilinei delle statali, se c’è traffico incolonnato, si forma un’ideale corsia centrale nella quale sfilano le vetture d’epoca. Noi stavamo proprio effettuando questa manovra quando, dalla parte opposta, è arrivato un tizio che probabilmente tornava a casa stanco dal lavoro e della Mille Miglia non sapeva o non gliene fregava nulla. Insomma, o per distrazione, o perché quelle auto in mezzo alla carreggiata gli avevano rotto le balle, spostandosi verso il centro sembrava quasi averci puntato. Saltalamacchia, che guidava e non poteva muoversi a destra perché la corsia era occupata, ha stretto letteralmente le spalle e per pochi centimetri siamo passati indenni, mentre l’altro gli ha chiaramente urlato: «Testa di cazzooo». Passato l’attimo di terrore senza danni, Marco si è girato verso di me ancora scosso chiedendomi: «Ma cos’ha gridato?». E io: «Dal labiale mi sa che ti ha detto “vai come un razzooo”». Ha iniziato a ridere così tanto che ci siamo dovuti fermare…

A Milano oltre a lui c’era Tonoli che, nonostante prima di Monza avesse fatto lo gnorri sulla grana, era un grande appassionato e di fatto il principale sponsor di tutta l’avventura. Si occupava in prima persona dei programmi sportivi, che non interessavano invece a Saltalamacchia. Il quale però, essendo uomo di marketing, a Monza aveva visto quanta gente si era presentata in tribuna, il casino suscitato, l’interesse e dunque aveva capito alla svelta. Realizzando anche che lo scoglio più difficile, con i rischi annessi, era stato superato ed era rimasto solo l’entusiasmo. Perciò, quando ci siamo incontrati, è andato dritto al punto: «Ho capito che questa operazione è tecnicamente fattibile. Quindi ti propongo un accordo triennale, perché in tre anni noi vogliamo portare Zanardi sul podio. Se ci riuscissimo, alla nostra fama di teutonici aggiungeremmo una bella dose di simpatia. Dimmi cosa vuoi e da qui partiamo».

La stagione, per il team Italy-Spain che loro contribuivano a finanziare, non era stata troppo felice. Nell’inverno precedente aveva strappato Giovanardi, campione in carica, all’Alfa Romeo ma per qualche motivo (e ragioni tecniche che gli concedono un alibi lecito) era rimasto lo zero nella casella delle vittorie. Né lui né il suo compagno spagnolo erano stati in grado di conquistare un successo. E men che meno a lottare per il titolo. Questa delusione, che inevitabilmente era diventata reciproca tra pilota e team, fece sì che Giovanardi tornasse in Alfa Romeo mentre a García – giovane e veloce – veniva affidato un po’ il ruolo di pilota con cui puntare al campionato. Io entravo in squadra come una specie di junior driver, un quasi esordiente in effetti. Abbiamo trovato l’accordo e abbiamo cominciato a lavorare per la stagione 2004.

Nel suo discorso Saltalamacchia voleva dire: “Noi ci crediamo, ci diamo tre anni di tempo, ma ce li devi concedere anche tu, resisti, perché magari ci saranno delusioni da superare”. Ho resistito. E nemmeno così a lungo…