Adesso non c’è verso di percorrere venti metri prima di essere fermati. Non c’è modo di stare seduti in un bar o un ristorante senza che qualcuno si avvicini per una foto, una battuta, due chiacchiere. Ma c’è stato anche un tempo diverso. Un tempo in cui, in vacanza per dire, si andava dappertutto incontrando al massimo qualche sguardo indagatorio (“ma è quello che correva in macchina, quello senza gambe?”) che finiva subito lì.
Ho assistito da vicino alla trasformazione di Alex da pilota molto amato tra gli appassionati di motori, un mondo se vogliamo abbastanza ristretto, a vero e proprio fenomeno mediatico. Ero abituato agli autografi nei paddock dei circuiti e a quei “ciao!” lanciati da dietro la rete mentre si usciva da Monza. Roba così.
Poi un giorno mentre eravamo a sciare, vicino ad Asiago, è successo che sulle piste Adriano Celentano l’ha aspettato e l’ha fermato per salutarlo. Ecco, nel piccolo di quell’episodio ho capito che era successo qualcosa.
Credo che essere riconosciuti per strada sia bello e porti anche indubbi vantaggi. A me, parenti e amici esclusi, non è mai successo. Perciò non conosco l’altra faccia della medaglia, posso solo immaginarla. La piccola, per quanto privilegiata, privazione di libertà. Le lusinghe infinite, che diventano a volte imbarazzanti: uno può sentirsi a disagio nel ricevere dei gran complimenti anche in un giorno in cui tutto quello che ha fatto di impegnativo è stato alzarsi dal letto. La faccenda di Zanardi, il suo esempio di vita, così ricorrente che ormai capita di scherzarci su con Filippo e gli altri amici, ma anche insieme a sua moglie.
Alex non è perfetto. Lui per primo lo sa benissimo. Solo che ormai, quando prova a ricordarlo, lo ascoltano per educazione ma è come se in qualche modo non gli credessero.
“Dai dai, fai alla svelta con ’sta premessa che vogliamo sentire le tue storie roboanti…” Magari succede quando siamo insieme a un incontro con gli studenti, a un’iniziativa pubblica o a una premiazione. Seduti uno di fianco all’altro. Io lo osservo mentre parla, capisco il suo sforzo per rimettere il senso delle proporzioni in ordine, e mi viene anche un po’ da ridere perché so che fa una gran fatica a prendersi sul serio. Perché conosco bene l’altro, quello cui piace cazzeggiare. Per fortuna.
Quando sono tornato a vincere nel Mondiale Turismo, da disabile, ero già uscito dalla dimensione da pilota ed ero diventato in qualche modo un personaggio molto popolare. Nella mia vita “precedente” avevo corso in F.1, vinto tutto negli Stati Uniti, ma sono quelle conquiste che ti rendono famoso solo agli occhi degli appassionati di corse e di sport. La faccenda per me è cambiata dopo l’incidente, lo sanno anche i sassi. A piazzarmi per la prima volta sotto i riflettori del grande pubblico era stata una lunga intervista che Carmen Lasorella mi fece a Berlino, quando ancora ero in ospedale, per Porta a Porta. Evidentemente in quell’occasione avevo stupito per il mio atteggiamento positivo. A molti era sembrato una specie di training autogeno per darmi coraggio. E da lì più mi invitavano a parlare, più i passaggi televisivi incuriosivano tanti che inconsciamente si chiedevano fin dove sarei potuto arrivare. “Adesso crolla, vedrai.” Forse solo ora, dopo quindici anni, ho davvero convinto tutti che non ho mai recitato. Poi ero stato ospite da Gianni Morandi il sabato sera su Rai1. E anche lì la gente si era un po’ stupita. Ci siamo visti nel pomeriggio, per prendere dimestichezza con il palco e lui mi ha chiesto: «Cosa facciamo? Noi avevamo pensato a un’intervista, se ti va bene». «È un programma in cui si canta» ho risposto, «se vuoi cantiamo.» Si sono subito preoccupati… «E cosa vuoi cantare?» «Proviamo con My Way di Frank Sinatra.» Era stata un po’ la colonna sonora dell’estate precedente con gli amici, per cui la conoscevo bene. L’abbiamo provata e dopo due strofe Gianni era a posto: «Basta basta, che roviniamo tutto. Va benissimo». La sera l’abbiamo cantata, mi sono pure divertito.
Nel 2005 oltre all’automobilismo non avevo grandi impegni. Ma proprio in quel periodo stavo finendo di essere percepito solo come persona disabile – tipo “se lo invitiamo da qualche parte e ci sono gradini da superare costruiamo una rampa” senza che lo avessi chiesto – per arrivare a ciò che succede oggi quando mi invitano, non si preoccupano minimamente della logistica e si aspettano che faccia anche la capriola per salire sul palco…
Nel tempo siamo passati dalla parte opposta anche per quanto riguarda i contenuti: spesso mi chiedono interventi per cui non ho alcuna competenza, convinti che possa come per magia affrontare tutti gli argomenti del mondo.
In alcuni casi, però, l’invito diventa stimolante. Come quando Simona Ercolani, autrice e ideatrice di format televisivi con genio ed esperienza, è venuta a cercarmi chiedendomi se avevo voglia di essere coinvolto nella conduzione di un programma di divulgazione scientifica. «Mentre lo stavamo scrivendo ci siamo accorti che non lo poteva fare nessun altro, solo uno come te. Senza di te non si può fare.» E così ho presentato E se domani.
Erano già arrivate molte proposte per fare televisione, alcune di conduzione, tante di commento sportivo. Ma onestamente avevo altri progetti in testa. Avevo sempre rifiutato. In quel caso però mi piaceva incarnare l’uomo della strada che si faceva portavoce delle domande di altri come lui. Uno che poteva porre agli ospiti in studio quesiti non banali ma nemmeno da professorone. Cosa che nessuno si aspettava da me, per fortuna. Ma se sono riuscito, con le mie domande, a far sistemare meglio qualcuno sul divano, incuriosirlo, mi basta. Questo mi ha portato poi a Sfide, che mi piace tantissimo. In tutto ciò cerco di non prendermi troppo sul serio. Non sarei credibile. Niente di quanto ho fatto nella vita, preso singolarmente, è eccezionale. Ma mettere così tante esperienze e così diverse in una sola esistenza, dopo l’incidente, ha fatto di me un personaggio sotto i riflettori. Credo che il mio merito sia stato quello di non essermi sottratto davanti a certi tentativi, ma di non averne mai accettati di sciocchi e soprattutto fuori misura per le mie capacità. Sarei diventato ridicolo.
Da un lato quella popolarità crescente mi faceva piacere, essere ritratti sempre in modo positivo appaga l’aspetto narcisistico che c’è in tutti noi. Dall’altro, più importante, mi aiutava parecchio: si traduceva infatti nel privilegio di poter superare l’imbarazzo tipico di quando ti presenti alle persone da disabile. Più mi esponevo pubblicamente più la mia vita migliorava, perché chiunque mi avvicinasse non lo faceva con commiserazione o con un atteggiamento timoroso, che lo avrebbe indotto a stare attento a scegliere le parole. Presentarmi ogni tanto in tv metteva a proprio agio migliaia di potenziali interlocutori nella vita di tutti i giorni e migliorava di riflesso la mia esistenza. Accade ancora oggi: pochi mesi fa, non lontano da casa, ho trovato finalmente un’officina come quelle di una volta, dove amano il loro lavoro e lo sanno fare. E dai fratelli Bonetti, con cui adesso si ride e si scherza, sono andato senza protesi anche al primo incontro. Non sarebbe successo fino a qualche anno fa: presentarmi senza gambe, smontare e tirar fuori la carrozzina, mentre loro imbarazzati cercano le parole. Non l’avrei fatto.
C’è una battuta che ripeto spesso tra me e me. Succede quando uno mi incontra per strada, mi ferma e mi dice: «Alex, sei un grande!». E giù con i complimenti. Ringrazio, saluto e poi penso subito: “Cavolo, quanti ne ho imbrogliati…”. È una battuta fino a un certo punto. Perché essere bravo nei miei panni oggi non è così complicato. Due soldi da parte li ho messi, non ho grosse preoccupazioni, ovunque vado mi stendono un tappeto rosso davanti. Mi viene riconosciuto il merito di aver prodotto con tenacia, impegno, determinazione, sacrificio, una serie di risultati. Ma è un’esagerazione: in realtà ciò che faccio è spesso pilotato dal mio stesso interesse, chiamatela passione, chiamatelo desiderio, chiamatela curiosità. È comunque ciò che inseguo, è lì che voglio andare. Eppure anche persone di grande cultura, con gli strumenti per valutare gli eventi in modo, come dire, più bilanciato, si tolgono il cappello e si impressionano. Un fatto che mi porta spesso a interrogarmi. “Se sapessero che in realtà sono pigro, disorganizzato, mi perdo nelle mie cose dimenticando il senso del tempo, un ritardatario disastroso…”
Un giorno al Quirinale ho ricevuto il cavalierato da Ciampi, allora presidente della Repubblica, davanti a un sacco di giovani, perché in queste occasioni fanno sempre intervenire le scuole e gli studenti. Fu buffissimo, perché gli avevano chiaramente scritto un discorso generale che riguardava tutti i presenti, e quando è arrivato il mio momento ha posato il foglio e ha detto: «Permettetemi una considerazione di carattere personale su questo ragazzo cui la vita ha tolto tanto. Ma lui non si è arreso. In un momento difficile per voi giovani, con la crisi, rappresenta un lampo di luce in questo cielo grigio, perché con la sua forza, con la sua… Pensate, ha pure voluto ritornare a correre». Si è fatto serio e mi ha guardato fisso. «Ecco, Zanardi, però questa cosa che è tornato a correre, lei ha già preso una castagna colossale, se ne piglia un’altra va a finire che anche l’esempio viene meno, si voglia un po’ bene.» Boato, tutti a ridere. Anche il suo successore, Napolitano, durante una celebrazione cui erano stati invitati tutti i partecipanti alle Olimpiadi e Paralimpiadi di Londra, quindi non solo i medagliati, partì con un ragionamento di ampio respiro: «Perché noi italiani quando vogliamo, sappiamo vivere con passione e onestà, il nostro orgoglio, il nostro impegno», per poi abbassare un attimo il foglio e dire: «Vero, Zanardi?». A me in quel momento è esploso il cuore perché non è molto normale vedere un presidente della Repubblica che per sottolineare un concetto estremamente positivo legato all’italianità, si ferma e fa il tuo nome. D’altra parte ti senti anche un po’ un verme perché nel nostro Paese ci sono persone meravigliose che purtroppo non fanno notizia, ma che sono capaci di imprese splendide, nel sociale, nel volontariato, nell’imprenditoria, anche solo a livello familiare. Comportandosi semplicemente come brave persone, ambendo a essere brave persone.
Una qualità però non me la nego. È vero che ho tanto più degli altri ma spesso, quando succede così, si tende a volere ancora di più. Lo dico a denti stretti, con pudore, ma a un certo punto sono riuscito a non farmi dominare dalla tentazione. Ho saputo accontentarmi. Perché quando hai preso velocità non alzare mai il piede dall’acceleratore ti fa perdere di vista il buono che puoi trovare sulla tua strada. Credo sia stato importante cercare di arricchire la mia vita, senza mai approfittarne, senza mai pensare: “Vabbè, tanto non se ne accorge nessuno, se allungo la mano hanno tutti la testa girata dall’altra parte”. Ci sono momenti in cui avverto anche un po’ il senso di colpa per ciò che ho. Non è falsa modestia, ma l’atteggiamento che tanti hanno verso di me rappresenta un grande onore però è francamente esagerato rispetto ai meriti reali. E dunque mi consola pensare che questo poteva diventare il trampolino perfetto per ottenere molto di più – perché obiettivamente oggi potrei fare quello che voglio, potrei essere coinvolto in mille attività in grado di darmi anche dei vantaggi economici piuttosto grossi –, ma sono rimasto capace di dare importanza a ciò che conta davvero per la mia serenità. In questo c’è, ad esempio, l’agire senza trasgredire le regole. E me l’ha insegnato lo sport, che ha due facce. Da un lato quando sei giovane, quando non hai ancora compreso questi valori, ti può tentare l’andare esattamente nella direzione opposta, infilare qualche scorciatoia. Dall’altro, quando invece li hai fatti tuoi e sono ben saldi nella tua anima, lo sport è in grado di regalarti soddisfazioni meravigliose, a prescindere dal risultato finale. Perché conta il tentativo, il fatto di dire: “Esco, comincio ad allenarmi, a sudare”, pensando già alla gara che dovrai affrontare. E in cuor tuo sai che la gara è un po’ una scusa, anche se spesso non viene capito.
In questa lunga evoluzione, comunque, ci sono stati tanti pro e contro. Alla fine essere famoso crea un po’ di disagio anche nel tuo sport. Inizialmente, grazie al fatto di essere più conosciuto degli altri, ero diventato un po’ il rappresentante, il frontman, del movimento della handbike. Oggi invece tanti ragazzi paralimpici vivono questa mia popolarità, questo mio essere sempre in prima fila, con un certo fastidio. Me ne rendo conto e mi dispiace. C’era la possibilità di essere il portabandiera alla cerimonia inaugurale a Rio. Luca Pancalli, presidente nazionale del Comitato italiano paralimpico, mi ha chiamato e ha fatto un ragionamento. «Se guardiamo ai meriti tecnici ho mille alternative, perché di atleti bravi e forti ce ne sono tanti. Se invece parliamo di visibilità mi rendo conto che Federica Pellegrini sotto la bandiera non solo è visibile ma le dà luce. Chiunque scelga a livello paralimpico che non sia Zanardi faticherebbe a farsi vedere, mentre tu sei un personaggio e alla bandiera faresti l’effetto che può fare Federica.» Ho risposto: «Sì, ma dipende se è la luce di cui hai davvero bisogno. Perché se illumina tutto quello che sta dietro va benissimo, ma se è proiettata da me in avanti non si vede nient’altro che Zanardi per l’ennesima volta. E non va bene». Quando mi ha chiamato per confidarmi che la decisione era stata presa e che la portabandiera sarebbe stata Martina Caironi, ne sono stato felice. Primo perché i suoi risultati valgono quanto i miei, secondo perché ci sono tanti ragazzi nello sport paralimpico i cui meriti hanno un valore enorme che raramente viene riconosciuto; e questo si aggiunge al fatto che arrivare fin lì, per loro, è stato indubbiamente complicato.
Anche per me c’è stato un momento in cui sembrava impossibile trasformare il sogno in realtà: quando avevo quindici anni e ho dovuto fare il mio senza che chiamarsi Zanardi volesse dire niente. Però praticavo uno sport seguito nel quale, avanzando verso la vetta, il percorso diventava sempre meno arduo. Mentre nel movimento paralimpico c’è ancora tanto da fare per aiutare davvero chi vuole coltivare la propria passione.
Credo di aver fatto la mia parte, senza volerne rivendicare il merito, intendiamoci. Ma la luce aggiuntiva che il mio passaggio ha portato è un’occasione da sfruttare e credo che Pancalli questo l’abbia capito. Ma non è facile, nemmeno per lui. I detrattori non mancano, nemmeno a me. Adesso c’è Twitter e ogni tanto capita di trovare quello che fa il commento negativo. Tempo fa avevano pubblicato un mio video e tutti i follower si erano espressi con il solito tono: “Che bravo Zanardi, esempio di vita” e via di questo passo. Finché è arrivato uno e ha scritto: “Sì bravo, però a me Zanardi ha già un po’ rotto i coglioni”. Mi ha fatto ridere e mi sono incuriosito. Sono andato a vedere il suo profilo e ho scoperto che ne ha per tutti, in modo molto aggressivo, offese pesanti. Con me si è trattenuto… Quando non c’era Twitter avevo un blog in cui scrivevo ogni tanto e a un certo punto è saltato fuori il leader di chi mi denigrava: ha scritto una lettera strana, con minacce assortite. “Non passare di qua perché ti metto sotto con la macchina. Te la tiri tanto, ma quando arriverai a livello internazionale contro i vari Sanchez, Van Dyk eccetera, vedrai che culo che ti faranno…” E via di questo passo. “Perché tu sei solo fortunato: hai i soldi, ti puoi permettere la bicicletta leggera…” Non ho risposto. L’hanno fatto altri al posto mio, perché poi nella realtà non ti puoi permettere di offendere Raffaella Carrà – perché le persone le vogliono troppo bene – e tanto meno Padre Pio, perché saresti blasfemo… Poi questo signore l’ho incontrato, perché anche lui è un disabile e anche lui corre con la handbike. In realtà è stato lui ad avvicinarmi, senza nemmeno lasciarmi il tempo di dire buongiorno. Si è presentato con il capo cosparso di cenere. «Prima di tutto mi hai dimostrato di essere un gran signore, perché non mi hai risposto e non sei caduto nella provocazione, non sei sceso al mio livello, che è stato veramente bassissimo. Io conosco la materia, posso capire il valore di ciò che hai fatto dopo, carbonio o non carbonio, chiunque ti abbia costruito la bici. Ti sei allenato, ti sei fatto il mazzo, sei riuscito a battere quella gente lì, cosa che io ritenevo fosse davvero impossibile.» Io mi ero solo seduto sull’argine del fiume: per fortuna lui è passato non cadavere ma su un canotto e ha avuto anche il tempo di riflettere. Ma siamo umani, succede. Servirebbe essere meno emotivi, ma non è così semplice. Quando tutti dicono: “Eh, Zanardi è un fenomeno”, bisognerebbe avere il coraggio di rispondere: “Sì, è bravo perché ha fatto cose importanti. Ma non è l’unico”, spiegando tecnicamente il perché. Senza retorica. Io ci provo, ma non vengo ascoltato troppo. E se non ci riesco io che sono il diretto interessato, vuoi che ci possa riuscire uno che appena apre bocca viene accusato come fosse un sacrilego?
Quando vado a tirare le somme devo baciarmi i gomiti, perché comunque la popolarità mi semplifica le cose. Ma ci sono momenti in cui mi rendo conto che chiamarsi Zanardi non è sempre facile. Magari sono in un negozio con mio figlio perché siamo andati a comprare insieme una cosa che lui desiderava, stiamo parlando, è un momento bello, intimo, nostro. E arriva uno da lontano – “Alex, sei un grande!” e via con i complimenti – e si infila tra te e lui dando le spalle alla persona più importante di tutte, per la quale daresti la tua stessa vita. E capisci che arriva il momento in cui dai uno, dai due, dai tre, dai quattro, tuo figlio ti guarda in un modo che proprio non trasmette grande felicità… E succede anche in situazioni più protette, anche quando il mio amico Filippo mentre siamo in casa a mangiare una pizza se ne salta fuori con le sue frasi esagerate, le battute che fa da una vita. «Cioè, Niccolò, ma ti rendi conto che tuo padre è stato nettamente il più grande pilota di tutti i tempi, Senna e Fangio inclusi?» È evidente che sta scherzando e mio figlio lo capisce molto bene, però sono tutte quelle piccole parole che nel tempo creano anche insicurezze. Perché alla fine quando avevo la sua età dicevo: «Voglio diventare pilota di F.1, ma dovesse andar male nella vita farò l’idraulico come mio padre». Lui questo ragionamento non se lo può permettere. Anzi, un giorno da bambino mi ha confessato: «Eh, tanto io non sarò mai famoso come te». Come spieghi a un ragazzino, in modo convincente, che non è importante? Che conta soprattutto provare a essere una brava persona?
E poi c’è tutta la parte dell’“infallibilità”, chiamiamola così. Del fatto cioè che in qualunque posto io vada, ovunque mi trovi, non posso mettere una virgola sbagliata. Da me ci si aspetta sempre la perfezione, devo stare costantemente attento a ciò che faccio o che dico. Sembra di lamentarsi del caviale, vero?
Se in una giornata di sole, con un caldo boia, mi viene da togliere il casco mentre vado in giro in bici, penso subito: “Se qualcuno mi vede, fa una foto e la mette su Twitter, son senza casco”. Non è che mi attacchino o chissà cosa, però offro un brutto esempio. Così mi tengo il casco in testa, se la fatica è quella poco male. Cosa che, tra parentesi, mi salva anche la vita. Perché sono un somaro e vado giù a 80 all’ora in discesa… In realtà la parte pesante è un’altra, il fatto che siamo esseri umani, abbiamo mille sfaccettature, e ogni tanto, soprattutto se non facciamo male a nessuno, ci piacerebbe concederci qualche piccola deroga. Non che abbia grandi desideri ma tempo fa, ad esempio, con Filippo si parlava di come festeggiare i nostri cinquant’anni. E a me è venuta la pazza idea, cui chiaramente conoscendoci non daremo seguito, di dire: «Cavolo, andiamo ad Amsterdam per un weekend, ci spariamo un gran cannone». Detto da me che non me ne sono fatto uno in tutta la vita…
Sono tutte tentazioni che non ho mai avuto, ma è una questione mentale. Devi sempre essere irreprensibile. Ed è una responsabilità grossa. Anche perché – avendo questa immagine “santificata” – nessuno osa dire niente, anche quando dovrebbe. Ma di sicuro al primo errore si scatenerebbe di tutto. E non sempre hai il controllo o dipende da te. Un giorno, qualche mese fa, sono usciti titoli enormi sui giornali: Doping, anche l’atletica italiana nella bufera. Poi andavi a leggere l’articolo e scoprivi che si trattava di una mancata o inesatta compilazione del modello Whereabouts, che tutti gli atleti devono aggiornare quotidianamente o quasi, per segnalare dove si trovano in caso di test antidoping a sorpresa. Lo compilo sempre anch’io. E sotto quel titolo c’erano tutti i nomi in bella evidenza. Gli atleti hanno fatto un errore, non c’è dubbio. Ma un conto è prendere dell’Epo per migliorare le proprie prestazioni, quindi doparsi, un altro non dichiarare in modo preciso la reperibilità. Anche perché, siccome non sono mai venuti a farti un accertamento, dopo un po’ non ricordi i dettagli e puoi dimenticarti. Comunque, quegli atleti lì sono stati sputtanati ben bene. Dopodiché a distanza di tempo – siccome c’erano stati grandissimi vizi di procedura, anche da parte dell’ente preposto ai controlli – il tribunale ha stabilito che il fatto non sussisteva e sono stati tutti prosciolti. Però, come al solito, io l’ho scoperto guardando per caso una pagina di Televideo che riportava che “gli atleti sono stati tutti assolti in quanto il fatto non sussiste”. Mentre quando li hanno accusati c’erano titoli grossi così, e si sa che la gente si ferma molto spesso a quelli. Posso solo mettermi nei panni di questi atleti ed essere dispiaciuto. Li hanno attaccati pesantemente e non erano certo nomi famosi.
Se succedesse qualcosa del genere a me, un sacco di gente mi vomiterebbe addosso una quantità di cattiverie incredibile. Per farmi pagare i complimenti, i riconoscimenti, che io stesso so di non meritare. Ma non è nemmeno colpa mia se me li fanno. Pagherei il fatto di aver stufato senza che fosse mia intenzione, non per una colpa vera. Ma mi rendo conto che sotto la cenere c’è un potenziale esplosivo, legato all’essere un po’ nazionalpopolare, come la Ferrari o come è stato Alberto Tomba ai tempi. Per una serie di ragioni sono diventato uno che rende visibile qualsiasi cosa faccia. E questo comporta dei rischi, anche se in fondo non deve disturbarmi. Ma con la popolarità ho dovuto imparare a fare i conti. Ben prima delle medaglie di Londra.