Sto osservando il mare seduto su una sedia, alle Cinque Terre. Mi hanno chiamato per un consulto e sono rimasto un po’, ospite in questo luogo meraviglioso. Sotto di me vedo Monterosso, Vernazza e Corniglia. Se alzo lo sguardo e lo dirigo molto lontano, facendo migliaia di chilometri in direzione sud-ovest, arrivo fino a Rio de Janeiro.
I Giochi paralimpici in Brasile sono finiti da un po’ ma io continuo a pensare al mio amico Alex e alla sua impresa. I complimenti filosofici, biologici e psicologici che gli ho fatto durante l’anno si sono rivelati veri. Ma non potevo sbagliarmi.
Ci sono momenti nella vita in cui capita di essere colpiti da una rivelazione, un avvenimento piccolo o grande che rende una giornata speciale. Alla fine di agosto del 2013, a Silverstone, stavo curando Marc Márquez all’interno della Clinica mobile. Il giovane pilota spagnolo del Motomondiale si era lussato una spalla in una caduta nel warm-up della domenica mattina e c’erano molte perplessità sull’opportunità di farlo correre nel primo pomeriggio. Gli stavo applicando un bendaggio per permettergli di passare la visita fiscale. Non ero io a dover dare il via libera. Io dico sempre di sì per farli gareggiare i piloti, per cui a un certo punto hanno capito che non ero la persona giusta per decidere… Poi Marc, che ho seguito fin da quando era bambino, ha corso ed è stato autore di una gara strepitosa, arrivando secondo dopo un bellissimo duello con il vincitore Lorenzo. Portando a casa in quel modo un risultato fondamentale per conquistare, a fine stagione, il campionato del mondo al suo esordio nella categoria. Diventando il più giovane iridato nella storia del MotoGP.
Avevo finito il mio lavoro da pochissimo quando ho ricevuto una telefonata. Era Alessandro che mi chiamava dal Canada, dove era impegnato nel Mondiale di handbike. «Guarda Claudio, ho vinto la cronometro ma per la gara in linea non mi sento sicuro, c’è qualcosa che non va» era la sostanza del suo discorso. «Gli olandesi sono forti e sono in tanti, mi attaccheranno. La vedo molto dura.» È stata la prima e unica volta in cui l’ho sentito, come sportivo e come uomo, nutrire un dubbio. Da tempo avevo cominciato a capire che dentro di lui c’era qualcosa di prodigioso, una ricchezza personale da condividere ed estendere a tutto il mondo, soprattutto a chi si trova di fronte a sofferenze e avversità. «Quando sarai in crisi sappi che gli altri si sentiranno come te» gli ho detto in quel momento. «La differenza sta nel fatto che, se avrai la forza di tener duro e credere di potercela fare, ti potrai trovare in un “altrove”, in una condizione che ti farà vincere la corsa.»
Il giorno seguente mi ha richiamato per raccontarmi la gara, che aveva vinto… «Claudio, nell’ultimo tratto ero in crisi, le braccia mi facevano male, avvelenate dall’acido lattico, i polmoni bruciavano per lo sforzo, e ho avvertito una cosa che mi ha fatto male. Ti dico anche come si chiama: tristezza. Ero così distrutto che pensavo solo di fermare l’handbike e tornare a casa dalla mia famiglia e da mio figlio. Mi sono ricordato di quello che mi avevi detto e sembrava non bastare. Poi ho chiuso gli occhi, ho insistito, ho continuato per cinque secondi e alla fine ho vinto la corsa con un picco di potenza superiore a quello toccato negli ultimi metri dell’Olimpiade di Londra. Sai come voglio chiamare ciò che è accaduto? La metafora dei 5 secondi.» «A me il 5 non piace» gli ho risposto. «Tu fai come vuoi, ma io la chiamo metafora dei 7 secondi.»
Tutte queste sensazioni e altri pensieri ancora Alex me li ha scritti in una lettera che mi ha spedito dopo essere tornato dal Canada. Parole piene di umanità che mi hanno commosso e fatto piangere. Ma in qualche modo ero ancora alla ricerca della rivelazione che avevo solo intuito.
Poi, all’inizio del 2015, è arrivata la frattura alla clavicola dopo un volo contro un guardrail in discesa. Una delle fratture più brutte viste in vita mia. Alessandro, e in questo avevo insistito, non si è fatto operare. Dopo due settimane è tornato in bici e ventotto giorni più tardi – nonostante pesasse un chilo in più e nel frattempo si fosse allenato in modo leggero se non approssimativo – ha effettuato una prova di potenza nella quale ha mostrato valori superiori a quelli delle settimane precedenti alla frattura. Questo mi ha sorpreso e mi ha fatto riflettere, lasciandomi quasi allibito: la ferita l’aveva reso più forte! Così, con in testa la voglia di identificare questo “altrove” agonistico che uno può trovare quando crede molto in se stesso, insieme al suo allenatore Francesco abbiamo svolto una serie di test, che prevedevano una fatica sempre crescente. Quando la concentrazione di acido lattico ha avvelenato il suo corpo in un modo che avrebbe costretto un ciclista, un maratoneta o uno scalatore a fermarsi, schiantato e distrutto, lui è andato avanti. Ho alzato le braccia. «Io non parlo più di psicologia, filosofia o tutte quelle robe lì» gli ho detto. «Tu sei l’eccezione del mondo.» Naturalmente ha ribattuto sgridandomi, con il pochissimo fiato che gli era rimasto. «Sei il solito esagerato, parli così perché sei mio amico.»
Ma in qualche modo era la verità. Perché poi, pensandoci a lungo, sono arrivato a spiegarmi il meccanismo, che è affascinante. Quando un essere umano si trova in condizioni simili, intossicato nei muscoli e allo stremo delle forze, ma ha la voglia e l’energia per continuare, la natura ragiona così: “Questo qui è messo da far paura, non riesce nemmeno più ad andar dritto, a fare un passo. E allora diamogli una mano”. E tira fuori dai sotterranei dell’uomo o della donna nuove risorse che lo spingono, nonostante sia arrivato alla tristezza. Mi conoscete: io, di fronte a queste manifestazioni umane straordinarie, mi commuovo. E posso solo dirti grazie, Alessandro, perché la “scoperta” vale anche per tutti noi. Nei momenti in cui ogni cosa sembra difficile, quando dentro di noi c’è il buio. E ti devo anche chiedere scusa perché potevo capire tutto in modo così limpido quando il destino ti ha portato via metà del corpo su quella pista in Germania: sarebbe bastato vederti reagire mentre dicevi “sono felice” e fidarsi. Non serviva aspettare la metafora dei 5 o dei 7 secondi per scoprire che esiste un “altrove”. Ed esiste per tutti.
Dopo aver conquistato la cronometro a Rio mi hai telefonato. «Claudio, a te non posso rispondere con un messaggio. Ho vinto l’oro! Ti voglio bene.»
Io, un po’ di tempo fa, ho dovuto abbandonare il Motomondiale. Mi hanno costretto ad andarmene. Nella vita chi mi ha dato ancora la forza di sentire chi sono sei stato tu. Ma soprattutto sei tu che mi hai fatto ricordare chi sono stato, e per questo ti ringrazio. Ti voglio bene anch’io, Alessandro.