PREFAZIONE

La lettura di questo libro di Stefano Zurlo dovrebbe essere resa obbligatoria per l’accesso agli esami di magistratura, perché nulla quanto una sequenza di errori funesti avverte i giudici sui pericoli del potere.

I beni fondamentali dell’individuo sono tre: la salute, la libertà e l’onore. Ma mentre il primo può esser determinato dal destino, o dal nostro comportamento imprudente, gli altri due possono esser compromessi dall’ignoranza, o dalla negligenza, o dalla superbia di un uomo, e questo uomo veste la toga. Riflettere sugli sbagli dei colleghi, se proprio non si riesce a riconoscere i propri, potrebbe servire per evitare danni irreparabili ai suoi simili.

Il primo esempio del catalogo di iniquità qui squadernato riguarda Jonella Ligresti. Venti e passa anni fa andai a interrogare suo padre in carcere: non dipendeva da me, era imputato di un reato connesso. Mi era stato descritto come un uomo potente, ricco e arrogante. Si presentò un omino incartapecorito e con una pelle giallastra, tremante e spaesato. Mi ricordò un paio di personaggi di Anatole France: uno era Crainquebille, il povero carrettiere della omonima novella, annichilito davanti alla maestà della legge. L’altro era padre Longuemare (uno dei protagonisti del romanzo Gli dei hanno sete) che aveva scritto una prolissa memoria a sua difesa da esibire al tribunale rivoluzionario. Il mio imputato era infatti munito di un corposo fascicolo, legato con lo spago, che teneva stretto al petto come una mamma con il bambino. In realtà non provò neanche ad aprirlo – com’era accaduto all’abate francese al quale il volume era stato subito sottratto e stracciato – perché si accasciò sulla sedia guardandosi attorno sospettoso, benché fosse assistito da ben tre avvocati, noti per la capacità e le parcelle. Uno di questi disse categorico: «Il mio cliente si avvale della facoltà di non rispondere». Io annuii, feci un rapido verbale e tutti firmarono. Ligresti più che terrorizzato ora sembrava incredulo. «Finito?» mi chiese. «Finito», risposi educatamente. Ma nessuno si alzava. L’atmosfera sembrava quasi serena. Allora dissi: «Posso farle una domanda?» L’imputato riprese a tremare, pensava a un tranello. (Nel libro si parla di un inganno ignobile nei confronti di sua figlia.) Ma prima che potesse eccepire qualcosa gli chiesi: «Scusi, se si avvale, come è suo diritto, di questa facoltà, perché tanti avvocati?» Ligresti guardò interrogativo i difensori. Uno di questi rispose: «Perché a Milano non si sa mai». Ne derivò una breve chiacchierata. Quando me ne andai Ligresti mi disse: «Lei non è come gli altri». Avrei voluto rispondergli che no, non lo ero. Ma per dovere di toga mi limitai a stringergli la mano.

Anni dopo la tragedia si è abbattuta, in forma più grave, sulla figlia. E, forse per l’esperienza che ho raccontato, è quella che qui mi ha colpito di più. Ma casi come il suo sono ormai all’ordine del giorno. Zurlo li ha raccontati con il distacco del patologo, e questo li rende ancora più laceranti. C’è dunque poco da commentare, perché nulla quanto la descrizione lineare del fatto suscita l’onda dell’indignazione: il martelletto del giudice è diventato la clava del giustiziere.

Mi limiterò a un’osservazione – derivante dalla logica e confermata dall’esperienza – che può sembrare paradossale o addirittura classista, mentre è di pura tecnica giuridica, e di facile riscontro: le carcerazioni non sono tutte uguali. Chi è arrestato in flagranza, perché sta svaligiando una banca o trasporta un sacchetto di eroina, non è paragonabile a chi viene catturato per un falso in bilancio o una fatturazione sospetta. Non si tratta di colletti bianchi o di pelle nera. Il fatto è che mentre nei primi due casi la prova è evidente, negli altri è spesso frutto di una elaborazione indiziaria che nasce dall’ignoranza e si converte nell’errore. Il caso qui riportato di un consulente del pm che sbaglia i calcoli non è affatto inusuale. Ma se questo errore è, per così dire, scusabile per prolungare un’indagine, verificando cifre e poste attive e passive, non lo è affatto se il magistrato spedisce in prigione una persona, equiparandola a chi è stato colto con il mitra in mano. Se le assoluzioni per reati come l’abuso d’ufficio o altri dei cosiddetti colletti bianchi sono assai maggiori di quelle per spaccio di droga o furti aggravati, è perché nei primi la prova è assai più difficile da raggiungere. E quindi pm e gip dovrebbero andare più cauti nell’uso della carcerazione preventiva. Quando poi quest’ultima poggia sulle intercettazioni telefoniche o ambientali, come in vari casi qui riportati, l’errore sconfina nella colpa grave se non proprio nella malafede. Nulla infatti è più ambiguo di questo strumento invasivo, fonte di equivoci, interpretazioni erronee e trascrizioni fallaci. Basti considerare che in esse manca il tono, che come tutti sanno è il connotato più rilevante di una conversazione: persino un’imprecazione può infatti essere affermativa, interlocutoria o negativa, esprimere condivisione, sorpresa o dissenso. Fondare un provvedimento cautelare sulla base di questi brogliacci è demenziale. E finché il legislatore non straccerà la pergamena marcita di questa disciplina la vergogna continuerà.

Concludo.

Nella mia Venezia, prima di irrogare una grave condanna, i giudici venivano ammoniti con una frase – ovviamente nel vernacolare linguaggio della Serenissima – rimasta celebre: «Recordéve del povaro fornareto». Era un salutare avvertimento a rievocare, in scienza e coscienza, il caso di un garzone giustiziato e poi trovato innocente.

All’inizio ho scritto che questo libro dovrebbe esser studiato dagli aspiranti magistrati. Ora aggiungo che dovrebbe stare sempre accanto ai codici sullo scranno del giudice, e naturalmente a maggior ragione sul tavolo dei pubblici ministeri.