Jonella Ligresti

La camionetta della polizia penitenziaria entra nel cortile delle Vallette. L’autista spegne il motore, estrae la chiave e scende insieme ai colleghi nell’afa estiva di Torino. Jonella Ligresti si ritrova sola, chiusa in una specie di gabbia all’interno del mezzo. «Vedevo la luce dalla finestrella in alto, sull’altro lato del veicolo, e sentivo un caldo opprimente. Ero sfinita, dopo una giornata intera di viaggio iniziata alle quattro del mattino con la sveglia nel carcere di Cagliari e una comunicazione secca: “Andiamo, si parte”, naturalmente senza precisare dove. In galera nessuno ti dice mai quel che succederà.»

Jonella Ligresti, classe 1967, un nome non così comune e un cognome così ingombrante, è stata arrestata tre giorni prima, il 17 luglio 2013. Le accuse mosse dai pm di Torino sono pesanti, falso in bilancio e aggiotaggio informativo, e riguardano la compagnia assicurativa di famiglia. «Non avevo fatto niente, sapevo di essere innocente, c’era una posta di bilancio, una sola, che l’Isvap nella sua ispezione aveva messo sotto osservazione, raccomandando prudenza e insomma di rimpinguare le riserve. Tutto qua. E invece ero chiusa dentro quel sarcofago su quattro ruote, con la bocca aperta perché non riuscivo a respirare. Pensavo ai miei ragazzi, a Ludovica e a Paolo, che era solo un bambino sempre attaccato alla sua mamma.»

Passano i minuti: «Mi sembrava di soffocare, cercavo di ingoiare l’aria ma l’ossigeno non bastava, ho avuto paura di morire. Lì dentro tutto era ovattato, lontano, remoto. Gridavo, gridavo: “Aprite, aprite”. Finalmente è arrivato un agente, ha spalancato il portellone, sono uscita fuori».

Jonella Ligresti è nel salotto della sua meravigliosa casa milanese, a due passi dall’ippodromo di San Siro e dagli amati cavalli. Adesso che tutto è finito può raccontare. «Sono stati mesi, anzi anni di sofferenze terribili. Umiliazioni. Privazioni. Mortificazioni. Certo, il mio cognome era un handicap, molti mi guardavano storto, pensavano a chissà quali privilegi o trattamenti di riguardo, ma io ero solo una madre sbattuta in carcere all’improvviso e per una ragione che nemmeno riuscivo a comprendere.»

Il bilancio finale è disastroso: quattro mesi di prigione, altri otto ai domiciliari, insomma un anno esatto senza libertà; e poi una condanna in primo grado, sempre a Torino, a 5 anni e 8 mesi, prima del colpo di scena: la corte d’appello annulla tutto e manda le carte, per competenza, a Milano. Qui si riparte da zero ma non si va lontani dal punto di partenza. Anzi: la Procura dopo qualche mese chiede direttamente l’archiviazione, senza nemmeno provare a imbastire un processo in cui non crede. E a maggio 2021 il gip mette la parola fine a uno strazio andato avanti per otto anni.

«Quella sera di mezza estate la ricordo come un incubo. Finita tutta la procedura burocratica, mi accompagnano in cella. Quando si apre la porta, resto interdetta: vedo una stanzetta piccolissima, due metri per quattro, con un letto a castello e nemmeno una sedia dove prendere posto per mangiare. È troppo, almeno per me: mi aggrappo a quello che trovo per non entrare, imploro gli agenti: “Mi sento mancare, vi prego, lì no”. Tira e molla per qualche istante, arriva un prete: “Ti hanno arrestata, devi entrare per forza”.

Mollo la presa e mi lascio trasportare. C’è una donna anziana che mi attende, semicieca; scoprirò in seguito che è accusata di concorso in omicidio.

Guardo il mio giaciglio. A Cagliari il materasso era pieno di peli: il segreto è mettere una sopra l’altra due o tre lenzuola, ma quel giorno non ne avevo, al momento dell’arresto non avevo pensato di portarne due o tre in borsa. Errore gravissimo. Avevo dovuto sopportare. Anche questo è sporco, macchiato, consumato. Chiudo gli occhi e penso che tutto passerà, ma no, non passa. Anzi. Trascorro giornate lunghissime, piatte come un’ostia. Sto ventidue ore al giorno sul letto, seduta o sdraiata, poi c’è l’aria: una al mattino e una al pomeriggio. Poi ci sono le visite degli avvocati e i miei – Lucio Lucia, Marco Salomone e Salvatore Scuto – cercano di farsi vedere il più possibile. Quegli incontri sono un sollievo ma anche una parentesi dentro quell’ambiente cupo, senza speranza. La domenica vado a messa e il sacerdote mi dice: “Jonella devi rinnegare il tuo cognome”, ma io non devo rinnegare niente. Sono sempre stata innamorata di mio papà, un genio, un uomo che aveva cominciato vendendo le bombole per il gas e si è comprato mezza Milano. Sono orgogliosa di lui e di essere sua figlia. Citylife, con tutto il rispetto, l’ha inventata lui. Mi torna in mente quella volta che a casa nostra venne Libeskind, l’archistar, con le sue carte e i suoi progetti. Papà lo ascoltava, poi a un certo punto gli strappò di mano quei fogli, iniziò furiosamente a cancellare e tracciare righe con la sua matita rossa e blu. Libeskind sgranava gli occhi: “Salvatore, hai ragione”. Ma sì, piazza Gae Aulenti dovrebbe chiamarsi piazza Salvatore Ligresti.»

Jonella quasi si commuove, asciuga le lacrime che non vogliono scendere. Attorno a lei una muta di cani devoti. «Quando papà se n’è andato, nel taschino della giacca ho infilato proprio quella matita rossa e blu.» Sospira, ma forse è un singhiozzo.

«Quando papà fu arrestato, ai tempi di Mani pulite, non voleva che i suoi figli – io, Giulia e Paolo – andassimo a trovarlo. Per lui era inconcepibile. Io ho preso un’altra strada: dopo i primi giorni di scombussolamento, ecco che Ludovica e Paolino arrivano a trovarmi. Paolino è un bambino di soli 11 anni, è sempre attaccato alla mamma, gli manco terribilmente come lui manca a me, ma quegli incontri sono l’unica possibilità che ho per fargli capire che non sono sparita, sono sempre con lui, gli voglio bene. Vuole stare in braccio, mi accarezza i capelli, io lo rassicuro. Il tempo se ne va in fretta e quando poi escono è terribile. Resti lì con un’angoscia che non si può descrivere e ogni dettaglio diventa una prova durissima. Anche solo il pensare al viaggio di ritorno verso casa a Milano dei figli: andrà tutto bene? Non ci sarà un incidente? Sono le preoccupazioni di tutti i genitori, ma qui tutto resta in sospeso. Torni nella tua cella piccola piccola e tutte le paure cominciano a galleggiare dentro di me, ma non posso fare nulla, devo convivere con quel fiotto di ansia. Non ho il telefonino, sono isolata da tutti, devo farmi forza e attendere il prossimo appuntamento. E intanto continuo a ripetermi: ma che vogliono da me? Ma che vogliono dalla nostra famiglia? Papà, ormai anziano, è ai domiciliari, Giulia è in cella, io pure, Paolo, cittadino svizzero, ha schivato l’arresto e per l’Italia è un latitante. Una situazione spaventosa. Io non sono un tecnico, sono diventata presidente di Fonsai non per chissà quali competenze ma solo perché ero la figlia del principale azionista. Poi certo il lavoro mi piaceva, ci ho preso gusto, l’ho fatto sul serio, ma non capisco questo accanimento contro di noi.»

Il peggio forse deve ancora venire e il peggio è fatto di tante cartoline, immagini che fissano i momenti più bui, dentro le Vallette.

«Ho imparato dei piccoli trucchi per sopravvivere. Uno riguarda il cibo: ho allestito il mio frigo personale, che in carcere non esiste, dentro il bidet. Il bidet è un ambiente più fresco, faccio scendere l’acqua fredda e gli alimenti si conservano meglio. Ma una domenica qualcosa va storto.

Comincio a scaldare le ali di pollo che ho comprato allo spaccio e sento un rumore strano come di qualcosa che sta friggendo. Guardo e non posso credere ai miei occhi: il piatto sul fornelletto è tutto un pullulare di vermi che si muovono, ballano e vengono cotti. Scappo e intanto urlo. Arriva una guardia e butta via tutto. Un’altra notte sento di là del muro le grida di una ragazza detenuta nella stanza di fianco. Ma che succede? Poveretta, mentre dormiva nel suo letto a castello ha sentito muoversi sul suo corpo gli scarafaggi che cadevano dal soffitto. Per fortuna nella mia cella non ci sono, almeno questo schifo mi è risparmiato. Ma è una consolazione da poco in quell’ambiente. Poi, dopo un paio di mesi, mi spostano a Milano, a San Vittore. E mi pare di sognare: le celle sono più grandi e io ho la fortuna di stare con una napoletana accusata di omicidio che cucina in modo strepitoso. L’opposto di Torino. Inoltre, lei ha pure un set meraviglioso di pentole lasciate in carcere da Patrizia Reggiani, la moglie di Gucci, che ha appena liberato la cella. La mia socia prepara piatti straordinari e poi c’è un circuito di rapporti fra le detenute. Ci sono tante attività, c’è un’esplosione di umanità che alle Vallette non c’era. A Torino scrivevo le lettere per le rom analfabete che volevano mandare messaggi a casa, qua c’è pure il cinema e uno spirito diverso.»

Intanto le posizioni dei fratelli si dividono, aprendosi a ventaglio. Giulia, provata dalla detenzione, patteggia. Jonella corre verso il processo con rito immediato a Torino. Paolo, che viaggia con il metronomo del rito ordinario, vede invece accogliere l’obiezione dei suoi difensori: il giudice stabilisce che la competenza è di Milano, come sostengono i legali dei tre, e manda le carte in Lombardia. È la svolta che segnerà tutta questa storia, ma ci vorranno anni per allineare le diverse posizioni come gli astri.

Ora Jonella, seduta al tavolo mentre Jack, il jack russell, e Lulù, la maltese, scodinzolano, si immerge ancora in quei ricordi dolorosi: «Un giorno gli avvocati, tutti sorridenti, mi danno il grande annuncio: “È fatta, torni a casa”. Mi sembra impossibile, ho le vertigini, poi torno in cella, mi preparo e comincio a contare i minuti. Ma passano le ore e non succede nulla. Anzi, la giornata svanisce in un’attesa che non porta da nessuna parte. Mi hanno ingannata, non è così, ci dev’essere stato un equivoco o hanno cambiato idea. Mi ero lasciata andare, avevo tolto il freno ai miei pensieri, ero convinta di riabbracciare i miei figli dopo tre mesi di galera, e mangiare dormire con loro, ma mi tocca arrendermi a una realtà che è molto più cruda, ostile, anzi perfida. È disumano aprire la porta alla speranza per poi richiuderla bruscamente. Sono sconvolta, sottosopra e il mio precario equilibrio è saltato. Ti dai degli obiettivi di sopravvivenza, poi in un attimo perdi la bussola, l’orientamento e la voglia di combattere.

Ma purtroppo il peggio arriva il giorno dopo, un giorno di ottobre 2013 che non scorderò mai. Ludovica viene a San Vittore e mi urla addosso: “Mamma basta, devi patteggiare, come ha fatto la zia. Paolino piange tutte le sere. Va a letto dicendo: “Mamma, mamma, dove sei? Perché non vieni? Patteggia e facciamola finita”.

Ludovica se ne va in lacrime. Io mi ritrovo più prostata di prima. Sono una donna divorziata, ho due figli e uno è troppo piccolo per sostenere quella battaglia senza fine per tutelare la mia dignità. Non posso anteporre le mie aspettative al mio dovere di madre. Game over, mi arrendo. È giusto così. È da tempo che mi hanno fatto balenare l’idea del patteggiamento che però, comunque lo rigiri, è un’ammissione di colpevolezza. Io non devo confessare nulla, c’è solo quella discussione astrusa sulla riserva sinistri. Quella posta di bilancio un po’ ballerina, ma la guerra delle cifre va avanti. Il mio attuario, si chiama così chi fa i calcoli, dice che non c’è niente di drammatico, il perito della Procura invece ha riletto le cifre e le ha ingigantite, trasformandole in una voragine e in un reato gravissimo. Ma io che ne so? Che ne so?

Mi rimbombano dentro le lacrime e i pianti di Paolino, mi sento una mamma cattiva, mi accorgo che Ludovica ha ragione e poi pure lei sta portando un peso eccessivo, spropositato rispetto ai suoi 19 anni. Basta. Basta. È tutto incomprensibile. Come in una lotteria: Giulia ha patteggiato ed è tornata alla sua vita, Paolo aspetta a Lugano di conoscere il suo destino, ma è libero, papà ha uno sguardo sempre più disperato, quasi lontano, assente, come se non si aspettasse più nulla dalle umane vicende.

Che posso fare? Chiamo gli avvocati. Ho deciso: patteggio. Scrivono un testo che mi rifiuto di leggere, tanto non mi interessa, l’importante è rientrare a casa. Per la prima volta chiedo all’infermeria del carcere un aiuto per andare avanti. Butto giù degli antidepressivi. Ho perso la mia voglia di resistere, voglio solo ricacciare giù quel senso di colpa che mi mangia dentro».

A novembre, finalmente, Jonella Ligresti torna nella sua casa milanese. È blindata e non può incontrare nessuno, a parte i figli e gli avvocati. Ma è un’altra storia. «Ho mille preoccupazioni per i miei ragazzi, ma devo anche trovare il modo per passare il tempo che non passa mai. E allora mi metto a ridipingere tutte le pareti di casa. Secchio, pennello, imbracatura: mi appendo fuori, come fossi un imbianchino acrobatico, uno di quelli che si vedono all’opera nelle nostre città, e inizio furiosamente a lavorare. Vado avanti per mesi, ma concludo l’impresa. A luglio, un anno esatto dopo l’arresto, sono di nuovo libera. Completamente libera, anzi no perché resta l’obbligo di firma. Non ho più alcun incarico, ho perso tutti i gettoni, la nostra famiglia è nell’angolo, schiacciata dalla congiuntura e dall’azione di chi, in questo disastro, si sta dando da fare per portarci via tutto. Unipol, che sta per inglobare Fonsai, scatena l’azione di responsabilità. C’è la causa penale e ora pure quella civile. Siamo assediati e banditi dalla comunità civile. I Ligresti devono essere spazzati via.»

La lotteria della giustizia ha in serbo altri numeri. «Al processo di Torino, mi condannano infine a 5 anni e 8 mesi per aggiotaggio informativo e falso in bilancio.» Che cosa è successo? Il giudice ha detto no al patteggiamento: ha ritenuto la pena concordata non congrua. Troppo bassa. E poi mancavano i risarcimenti alle parti civili. E allora ha stracciato l’accordo e ha spedito Jonella a dibattimento.

«Finisce con quel verdetto che è un pugno nello stomaco: 5 anni e 8 mesi. A papà va pure peggio: 6 anni e 2 mesi. Un’enormità. A Milano invece Paolo viene assolto: è la stessa identica storia, ma lui se la cava alla grande, noi siamo trattati come delinquenti. Papà ormai è l’ombra di se stesso: si estrania progressivamente, si chiude, non parla più. La sua testa lascia spazio a una malattia della mente, forse un rifugio per chi ha patito troppo. Papà ha una faccia che dice tutto: esprime sgomento e infelicità perché tutto quello che aveva costruito sta crollando. È una vita intera buttata via: le intuizioni, la passione per l’ingegneria, la matita rossa e blu, le discussioni con Libeskind e con Letizia Moratti, seduti per terra a casa di lei, l’impero di famiglia messo assieme quando le cose filavano per il verso giusto. È un mondo che si dissolve, che tramonta in fretta, che ci portano via.»

Salvatore Ligresti si spegne nella casa di via Ippodromo il 15 maggio 2018. Non fa in tempo a vedere la ruota che gira. Dicono che abbia alimentato un sistema che poi gli ha fatto lo sgambetto e l’ha travolto. È un imprenditore discusso che non si può incasellare in poche righe. Ma per Jonella è il faro di una vita e un lutto senza fine: «Dopo la sua morte ho preso da un assegno la sua firma e me la sono tatuata sul polso. Così papà è sempre con me».

Ma le sorprese non sono finite.

Nel 2018 la corte d’appello di Milano conferma l’assoluzione di Paolo e lo fa con parole definitive. Il falso in bilancio non c’è, è stato il consulente della Procura a sbagliare i suoi calcoli: «Le conclusioni Isvap divergono da quelle del ct Sammartini… poiché è l’unico contributo tecnico a rilevare un valore di sottoriservazione che determina il superamento (sia pure solo dello 0,2 per cento) della soglia di punibilità del 10 per cento prevista dalla fattispecie in contestazione».

Giovanni Sammartini è arrivato a stimare in 538 milioni la carena della riserva sinistri ma non si capisce come sia arrivato a questo risultato, oltretutto appena oltre la soglia di punibilità. Di fatto, la famiglia Ligresti è stata incriminata e ammanettata per uno 0,2 per cento di troppo che non c’è. «La stima del ct Sammartini», si legge nelle motivazioni del verdetto depositato in cancelleria il 4 ottobre 2018, «(insufficienza di riserve per euro 538 milioni) così motivata, non può essere assunta come dato vero o corretto in antitesi al risultato individuato dagli uffici attuariali della Società e a quello indicato da Isvap. Essa infatti è connotata da amplissima discrezionalità sia nella scelta dei dati di riferimento che nella metodologia impiegata e come tale non suscettibile di integrare l’accertamento di conformità al vero richiesto per la validazione della tesi accusatoria.» La conclusione è tranciante: «La contestata artificiosità della stima non può ricavarsi dalla differente valutazione del ct Sammartini che manca – invece – dei connotati di congruità, certezza e oggettiva riscontrabilità sul piano scientifico».

Quei 538 milioni in realtà sono molti di meno. E il reato non c’è: non c’è per Paolo come non c’è per Jonella che pure è stata condannata a una pena pesantissima. «In ogni caso», prosegue il verdetto ambrosiano, «le valutazioni che sorreggono la prospettazione accusatoria non integrano il concetto di falsità, richiesto dalla fattispecie incriminatrice, che presuppone una difformità dal vero, ossia dall’informazione societaria definita nei suoi parametri di veridicità e compiutezza.»

L’illecito non c’è e non c’è nemmeno la manipolazione del mercato: «La lettura del comunicato» del 23 marzo 2011 «consente inequivocabilmente di riscontrare la divulgazione delle notizie concernenti sia il numero finale delle perdite, che l’andamento negativo delle riserve sinistri già appostate per gli anni precedenti.» Il comunicato non contiene bugie o gravi omissioni ma racconta le cose come stanno: «Sul punto la corte condivide la conclusione del gip che ha ritenuto non falsa la notizia perché poiché è palesemente ammissiva di una sottoriservazione».

Insomma, non c’è neppure l’aggiotaggio informativo.

Il verdetto di Milano diventa definitivo e apre una crepa gigantesca nella costruzione accusatoria. La sentenza fa infatti a pugni con il patteggiamento di Giulia e con la condanna, sia pure in primo grado, di Jonella a Torino.

Le sorprese in questa storia infinita non sono terminate: il 12 marzo 2019 la corte d’appello di Torino stabilisce la competenza di Milano nel filone che riguarda Jonella. Si torna in Lombardia dove tutto era nato quasi dieci anni prima. La condanna di primo grado sparisce, le carte vengono consegnate alla Procura che deve ripartire da zero o quasi. E la Procura sembra poco o nulla convinta della solidità dell’accusa. Del resto, che senso ha chiedere il processo se le stesse vicende sono già state esaminate e smontate dai giudici di Milano? Le tesi di Torino sono miseramente affondate, calcolatrice alla mano, e non c’è spazio per nuove, improbabili avventure giudiziarie. La Procura riflette e poi chiede l’archiviazione. Il gip la dispone nel maggio 2021. È la fine. «Ci hanno messo otto anni», conclude Jonella, «ma ci hanno dato ragione. Ora chiederò l’indennizzo per l’ingiusta detenzione. Ma sono briciole rispetto a quel che ho sofferto e che hanno patito i miei figli, soprattutto Paolo che ora ha intrapreso la strada del nonno e si è iscritto a ingegneria.»

Ora è Nana, la shih tzu, a cercare le carezze della signora che per un attimo si guarda intorno smarrita. «I Ligresti non sono più quelli di prima, papà è morto come un appestato e con le cause civili ci hanno portato via centinaia di milioni di beni. Ma siamo ripartiti. Io ho aperto un ristorante in Sardegna, Ludovica si occupa di moda, Paolo studia. Andiamo avanti. E io sono tornata a cavalcare: i cavalli sono la mia grande passione e hanno occupato un posto molto importante nella mia vita. Ora ho ripreso confidenza con loro. E spero che questo mi serva come una terapia per superare quel che ho passato.»