Antonio P.
È l’autunno del 2020 e il signor Antonio P., ormai sul filo dei settant’anni, si ritrova in tribunale per una banalissima questione legata alla patente. «Giravo per quei saloni immensi, per quei lunghi corridoi e per quelle cancellerie affollate, anche se meno di un tempo causa Covid, e rivedevo le immagini del mio processo. Le udienze. Gli interrogatori. Il mio avvocato, il grande Giandomenico Pisapia che ora non c’è più. A un certo punto mi sono detto: ma c…, che fine ha fatto il mio fascicolo? Mi sono agitato perché tutta quella storia assurda l’avevo sepolta da qualche parte, dentro di me, con il suo carico di sofferenze e umiliazioni. Però quel giorno ho sussurrato a me stesso: “Adesso devi scoprirlo”. E mi sono messo all’opera.»
Può sembrare incredibile e lo è, ma nel catalogo non proprio sfolgorante della giustizia italiana c’è posto pure per questa vicenda: Antonio P. si fa quasi quattro anni di carcere preventivo, fra l’82 e l’85, poi viene condannato in primo e secondo grado, quindi la Cassazione annulla tutto e rinvia al tribunale di Milano quella vicenda di cocaina e traffico di droga. Siamo nell’87, il procedimento sparisce dall’orizzonte del signor Antonio: trentatré anni dopo, mese più mese meno, eccolo alla ricerca di quel fantasma e di quei ricordi terribili.
«Era il 1982. Stavo bene. Avevo i soldi, una bella moglie, una bella macchina, due bambini piccoli, un lavoro avviato come costruttore e la gestione di alcuni locali notturni milanesi. Ero nel periodo più bello della mia vita, è tutto è finito con i carabinieri che mi portano via, davanti ai miei familiari, con un figlio che aveva sì e no due mesi. Mi accusavano di essere dentro un’associazione internazionale di trafficanti, ma era tutto falso. Non c’entravo, non sapevo, non capivo. Sì, mi hanno trovato meno di un grammo di cocaina, ma quella era per uso personale, non c’era nessuna rete di malfattori o comunque io non ne sapevo nulla. Invece, il 5 ottobre 1982 mi portano in questura, in via Fatebenefratelli, ci rimango sei o sette giorni: ero buttato come i cavalli, giù nei sotterranei, in un posto in discesa. E ancora peggio è stato quando sono arrivato in carcere: a San Vittore ho visto le scale sporche di sangue. Era un’epoca difficile, il terrorismo, la grande criminalità, un clima borbonico. Gli agenti picchiavano quando c’era da menare e io continuavo a non capire.»
Aggiornato sul calendario il nuovo secolo, a distanza di trenta e passa anni, Antonio continua a non capire. «Lo studio Pisapia ha fatto le sue ricerche, hanno chiesto agli uffici di riesumare faldoni polverosi, ormai ingialliti in archivio, e finalmente è arrivata la notizia: nel nuovo processo d’appello mi avevano assolto. Assolto con formula piena nel 2002.» Quindici anni dopo la pronuncia della Cassazione, quindici, perché per rimettere in moto la ruota, dopo l’annullamento, c’erano voluti altri tredici anni più due di dibattimento. «E come se non bastasse», riprende lui con il suo inconfondibile accento pugliese, «avevano pure sbagliato le notifiche così non ho mai saputo nulla della mia assoluzione, anche perché avevano spedito la notizia non a Salvatore Catalano, il mio legale, ma a un altro Catalano che non c’entrava niente.»
Pasticci. Errori. Incongruenze. E quasi quattro anni di carcere in condizioni infernali. È difficile persino riassumere questa storia così sconvolgente, interminabile, a cavallo di vecchio e nuovo codice di procedura penale: il copione sembra scritto da un ubriaco, ma è lo Stato italiano ad aver smarrito la decenza fra un dibattimento e l’altro.
Ricapitolando, ci vogliono tredici anni dopo la bocciatura della Cassazione per celebrare il nuovo dibattimento che si allunga fino al 2002, ma Antonio non c’è. È contumace, come si dice in questi casi, anche se non si è mai mosso dall’indirizzo in cui erano venuti a prenderlo. Nessuno gli ha detto niente prima, nessuno gli ha più detto nulla dopo. Lo Stato si è dimenticato di lui e i legali che per sbaglio erano stati coinvolti non hanno avuto, per quel che si sa, la voglia e il tempo di alzare il telefono, chiamare la cancelleria e segnalare lo svarione.
Così il perfetto colpevole, sbattuto in cella senza alcun riguardo pur essendo incensurato, diventa un innocente inconsapevole e non sa di essere stato assolto.
Meccanismi farraginosi che producono un ultimo colpo di scena, in linea con i procedenti: «Qualche mese fa sono andato a trovare l’avvocato Gaetano Pecorella, un principe del foro come lo era Pisapia, e gli ho detto: “Voglio far causa e avere i soldi dell’ingiusta detenzione anche se sono passati quasi quarant’anni”».
Il carcere. Uno slalom senza fine su e giù per lo Stivale. «Orvieto. Monza. Livorno. Porto Azzurro. Genova. Viaggi su viaggi. È il primo ricordo di quell’epoca lontana ma dolorosa: centinaia di chilometri su vagoni speciali, blindati, sempre con gli schiavettoni. Le manette con le catene. Ti lasciavano ore e ore sotto il sole cocente, le mani legate, con la gente che ti guardava come si scruta un animale allo zoo. E poi i traghetti: un incubo. Ti mettevano nella stiva, sotto, dove non vedevi la luce del sole, come gli schiavi all’epoca dei Romani, e tutte le volte pensavo: se la nave va giù è finita, annegherò come un topo senza alcuna possibilità di salvarmi.
Così un giorno ho perso le staffe. Parto da Porto Azzurro con Giovanni Senzani, il brigatista. Ci vediamo al mattino: “Ciao Antonio, tutto a posto?” “Sì, e tu Giovanni?”
Poi arrivano gli agenti che quasi gli spezzano i polsi con le manette. Lui va in bagno e il maresciallo che lo accompagna gli urla: “Stai dritto, altrimenti ti arriva un colpo in testa”. Io decido di non andare in bagno, anzi grido la mia rabbia al sottufficiale, lo maledico e lo ricopro di auguri sinistri. Mi minaccia ma non mi interessa. Basta. Non ne posso più. I tormenti sono infiniti. E troppe le brutture subìte.»
Antonio si ferma un attimo, un attimo solo, ma è soltanto per ripigliare fiato. Si capisce che quelle istantanee del secolo scorso sono ancora attuali nella sua vita: «A Marassi il soffitto della cella è un tappeto di cimici, i bagni sono in condizioni indescrivibili, il mangiare è un azzardo. A Monza siamo otto in una cella di tre metri per tre. I letti a castello hanno quattro piani: quello che dorme all’ultimo si lega per non correre il rischio di farsi male cadendo. A Livorno invece ecco la Squadretta degli agenti e la Squadretta fa paura».
Il terrorismo. Le evasioni. La grande criminalità. Sono anni duri per le carceri italiane e certo non si va per il sottile.
«Arrivo a Livorno dove c’era la Squadretta, in sostanza un gruppo di agenti che picchiavano. Botte, botte e ancora botte. All’ingresso un ragazzino che avrà avuto vent’anni mi fa: “Non hai detto buongiorno”. “Ma no, l’ho detto”. “Esci fuori e dimmi buongiorno”. Eseguo e lui va alla carica: “Adesso fammi trecento flessioni”. “Ma sta scherzando”. “Falle”. In qualche modo svolgo il compito. Mi circondano. Capisco che sono spacciato, saranno una decina. Ma all’ultimo minuto sbuca un ergastolano, Russo si chiamava. È lui la mia salvezza. Si rivolge al capo del manipolo: “Brigadiere, come stai?” ‘‘Bene e tu?” “Scusa, ma c’è qualche problema con il mio amico?” “Niente, niente. Lasciatelo andare”. Mi mollano. Sì, a quel tempo gli ergastolani erano dei privilegiati. Cella singola, lavoro magari esterno, il rispetto. Si vedono di rado, “buongiorno” e “buongiorno e buonasera” e tanti saluti. Mesina. Vallanzasca. Quelli della banda Cavallero. Lorenzo Bozano, il biondino della spider rossa, insomma l’assassino di Milena Sutter che vendeva all’esterno del carcere i suoi prodotti d’artigianato.»
Antonio evoca una galleria di personaggi che fanno la storia criminale d’Italia, pagine di cronaca ormai ingiallite. Sembra impossibile che l’attualità debba confrontarsi con un passato così lontano e tenebroso, ma questa è la realtà. «Poi c’erano i brigatisti che ripetevano sempre lo stesso discorso: “Vi rieducheremo tutti nei campi di lavoro come ha fatto Pol Pot in Cambogia”.»
Per la prima volta il racconto drammatico, tesissimo, cupo come una favola maligna lascia il posto a una risata che gorgoglia come un fiume in piena: «Alla faccia del c…»
Antonio torna serio: «Ero come sotto shock. Ho rivisto mio figlio più piccolo, appena venuto al mondo, dopo un anno circa quando mia moglie l’ha portato in parlatorio, al colloquio, per qualche minuto. Uno strazio, fra spostamenti, udienze, interrogatori senza senso. Sostenevano che io fossi andato all’estero tante volte, credo in America, per recuperare la droga. Ma io non avevo nemmeno il passaporto. Eppure in primo grado mi hanno condannato a 10 anni. E mi ricordo il presidente della corte d’appello che mi apostrofa: “Che cosa ha da dire?” Io batto il pugno sul tavolo: “No, è lei che mi deve dire perché sono qua”».
Discussioni che non cambiano la situazione: il collegio d’appello conferma l’impianto, anche se riduce la pena a 6 anni. È il 1985.
Poi si va in Cassazione e la Cassazione fa a pezzi tutta la costruzione investigativa. Stringi stringi, a puntare il dito contro Antonio P. c’è solo il racconto di due pentiti, o qualcosa del genere, che sono stati interrogati in Svizzera con modalità un po’ troppo smart. La coppia – l’argentino Eduardo Alejandro Babsky e lo svizzero Marco Gandolfo – è stata sentita per rogatoria senza rispettare le regole basilari del contraddittorio: «Non sono state rispettate le forme previste a tutela della difesa dell’interrogato, fra le quali preminente», scrive la Suprema corte, «quella dell’assistenza di un difensore di fiducia o d’ufficio». Non è un passaggio formale, perché Babsky e Gandolfo erano coimputati nello stesso procedimento ed è lecito dubitare che abbiano parlato per alleggerire la propria posizione. «Nessun formale interrogatorio», insiste la Cassazione, «con formale contestazione delle rispettive imputazioni risulta essere stato eseguito nei confronti degli imputati dimoranti in Svizzera.» Li hanno sentiti come fossero testi, senza avvocato, e questo non va bene. La Suprema corte annulla la condanna e restituisce gli atti al tribunale di Milano. Si ricomincia dall’inizio. Il destino del procedimento è segnato, ma certo nessuno può prevedere nel 1987 che il fascicolo riposerà in qualche cassetto per tredici anni prima di uscire dallo scandaloso letargo.
Eppure Antonio è stato in cella, anzi nelle celle di molti penitenziari, per quasi quattro anni. Ed è uscito solo per decorrenza dei termini il 20 novembre 1985. «Volevano tenermi dentro ancora, ma Pisapia fu chiaro con i giudici: “Il mio cliente è fuori per nove giorni, attenzione dovete scarcerarlo, altrimenti vi mando a coltivare le patate”. Torno a casa, in provincia di Varese, aspetto, aspetto, aspetto una vita. C’è un buco nella mia esistenza che non si colmerà più. Ma non immagino che il mio procedimento si trasformerà in una specie di Deserto dei tartari.»
Antonio P. sparisce dagli scadenzari. Viene inghiottito dalla trafila burocratica. La fretta indiavolata e la ferocia dello Stato che l’aveva ammanettato come un pericoloso delinquente lasciano spazio ad approssimazione e trasandatezza. Il nuovo processo non parte mai, poi finalmente decolla e la sentenza del 10 giugno 2002 spazza via le accuse: «La Suprema corte», scrive il tribunale, «investita dal ricorso del procuratore generale sul punto, ha annullato la sentenza d’appello in considerazione dell’affermata inutilizzabilità delle prove acquisite con rogatoria dall’autorità svizzera. Il difetto di ulteriori, seguenti e successive, acquisizioni probatorie e la pratica impossibilità di acquisirle a distanza di un ventennio dai fatti, non può che supportare quel convincimento assolutorio. Nessuna prova è in atti, infatti, dell’inserimento dei prevenuti nell’asserito sodalizio: solo indizi, modesti nel complesso, non assurgenti a dignità di prova».
È un’assoluzione, di più è un epitaffio impietoso di quella sgangherata vicenda. Alla fine, dopo vent’anni, il tribunale di Milano certifica che ci sono solo «modesti indizi» che non fanno una prova. Antonio P. si è fatto quasi quattro anni di carcere sulla base di una rogatoria che non rispettava le regole elementari del diritto. Crollata quella, è venuto giù tutto. Che altro può succedere? E invece no, al peggio non c’è limite. Il verdetto è arrivato, ora sono le notifiche a fare cilecca. Come se non bastasse quello che è successo, comincia un’altra storia surreale. Una coda indecorosa per una vicenda davvero inguardabile. La giustizia che aveva placcato l’imputato, ora lo perde nei suoi rituali di carta. Si arriva al 2020, quando Antonio percorre quei saloni immensi e incombenti e decide di scoprire il finale che nessuno ha avuto la buona educazione di comunicargli.
Ora ai supplementari, eufemismo, si gioca la partita milionaria degli indennizzi. È tardi, ma forse non troppo. Siamo dentro un rebus. Lo Stato ha cincischiato e sbagliato, adesso dovrebbe correre ai ripari. In ballo, fra lunghezza della detenzione e interessi maturati, centinaia di migliaia di euro. Un caso senza precedenti, nelle mani di Gaetano Pecorella, un altro principe del foro, e del suo studio, in particolare dell’avvocato Matteo Cherubini. Siamo a trentanove anni dall’arresto ma non è detto che i conteggi siano conclusi. «Chissà cosa decideranno. È passato tanto tempo, i miei figli hanno sofferto, non hanno avuto il padre quando sarebbe stato necessario, adesso hanno attività avviate e non ci tengono a tornare sotto i riflettori. Pure mia moglie ha pagato un prezzo altissimo e ha dovuto arrangiarsi troppo a lungo in condizioni difficilissime. Quando sono arrivato a Porto Azzurro per l’ennesimo trasferimento, non ha saputo più nulla del sottoscritto per due mesi. Si erano scordati, nonostante le mie proteste, di autorizzare i colloqui e pure le telefonate a casa. E poi bisogna mettersi nei suoi panni di madre sola, con quei due piccoletti mano nella mano, sballottata da nord a sud per vedermi a colloquio. Una fatica immane e tanti piccoli dispetti. Una volta a Piacenza si accorse di aver dimenticato i documenti; ma la conoscevano, era già venuta, era lì con quelle due creature che aspettavano con gli occhi sgranati di incontrare il loro papà, ma non ci fu nulla da fare. Li rispedirono indietro senza potermi abbracciare. È stato tutto davvero troppo. Il carcere è stato un orrore e tutta questa storia è stata un meteorite che ha colpito in pieno le nostre vite, sconvolgendole. Non voglio più rimanere ostaggio di uno Stato che mi ha buttato nel cestino come un rifiuto e poi si è serenamente, anzi beatamente dimenticato di me come fossi immondizia. Per questo, per il senso di colpa che inevitabilmente mi porto dentro, le dico: metta pure il mio nome, ma il cognome no, lasci perdere. Glielo chiedo da innocente e da innocente che ha scoperto di esserlo solo da pochi mesi.»