Pietro Paolo Melis
È il 10 dicembre 1997. L’auto sulla quale viaggia Pietro Paolo Melis viene fermata a un posto di blocco. Neanche il tempo di capire cosa sta succedendo: «Hanno fatto scendere gli altri passeggeri e mi hanno puntato due mitra alla testa. “Deve venire con noi.” Mi hanno portato in questura a Nuoro. All’inizio pensavo a un controllo, poi quando mi hanno detto che mi stavano arrestando, ho detto loro: “È un errore. State sbagliando, sono innocente”. Ma era fiato sprecato, nessuno mi ascoltava, loro dovevano solo eseguire la mia cattura».
Pietro Paolo Melis parla con tono pacato, disteso, senza mai cedere all’emozione e ogni tanto una risata fresca, quasi da fanciullo, è l’unico condimento che spezza quella tranquilla monotonia. «Non mi sono mai lasciato sopraffare dalla disperazione, sapevo di essere una persona perbene, la speranza non mi ha mai abbandonato, nemmeno nei momenti più difficili.» Mai uno sciopero della fame, come spesso capita nelle carceri per smuovere l’immobilità del sistema, mai urla o, per quel che si sa, pianti. Mai una crisi isterica, più che comprensibile per un uomo chiuso in carcere e condannato per un efferato sequestro di persona. Un rapimento concluso con la morte dell’ostaggio: Vanna Licheri, imprenditrice agricola sessantottenne portata via da un commando di quattro uomini armati ad Abbasanta, nel cuore della Sardegna, il 14 maggio del ’95, e di cui non si è mai saputo più nulla. Probabilmente la donna, rapita mentre mungeva il bestiame di prima mattina nell’azienda di famiglia, muore nel mese di ottobre, prima che i familiari riescano a pagare il riscatto superando lo sbarramento del blocco dei beni, imposto dalla legge. Per quel crimine odioso, gli investigatori mettono le mani su uno dei presunti componenti della banda, Giovanni Gaddone. E Gaddone li porta involontariamente da Melis, un imprenditore agricolo benestante di Mamoiada. Il filo è però veramente esile e le prove raccolte sono davvero poca cosa. Lo intercettano per mesi, lo controllano, scandagliano la sua vita. Non trovano nulla di nulla, nemmeno un’ombra o una crepa. Ma non mollano la presa: l’industria dei sequestri è uno scandalo e un tormento per la Sardegna. In quel 1995 ci sono almeno tre ostaggi contemporaneamente nelle mani dei banditi: Vanna Licheri, Giuseppe Vinci, Ferruccio Checchi. Tanti. Troppi. Qualcosa si deve fare e si fa: quando Gaddone viene condannato, anche per Melis scattano le manette.
Tutto poggia su una controversa perizia fonica: la voce dell’ignoto mamoiadino – come lo chiamano gli inquirenti – captata dalle cimici piazzate dagli inquirenti sull’auto di Gaddone è quella di Melis o no?
Melis non ha precedenti e nemmeno il physique du rôle del bandito. Alleva mucche e maiali, produce olio e vino, vende la carne nella macelleria di famiglia che poi verrà chiusa. Conduce una vita agiata e non ha proprio il profilo del criminale. Di più: non ha frequentazioni ambigue o conti correnti improvvisamente lievitati. Nessuno riuscirà mai ad attribuirgli un qualche fantomatico ruolo all’interno della banda di delinquenti che ha portato via la sventurata Licheri. Di un’esistenza senza doppifondi si sa tutto, tutto a parte quei pochi secondi delle due intercettazioni ambientali del 22 e 24 settembre 1995. Ma la voce è davvero la sua? Il rumore di fondo rende l’identificazione a dir poco problematica. I giudici però si ancorano a quell’unico appiglio su una parete di sesto grado per tenere dentro l’imprenditore e per appioppargli una condanna pesantissima a 30 anni.
Ci vorranno 18 anni, 7 mesi e 5 giorni per arrivare alla conclusione che no, quella voce non era la sua. Più di 18 anni e mezzo di galera prima di vedersi restituire l’onore e la libertà. Un record, un primato di inciviltà e una pagina di vergogna in un Paese che pure metabolizza con una certa disinvoltura gravissimi errori giudiziari.
«Mi hanno arrestato quel giorno di dicembre del 1997 che ero giovane, avevo 37 anni, mi hanno messo fuori il 15 luglio 2016 che ero ormai vecchio, o quasi, 56 anni. Mi hanno rovinato la vita, ho perso la mia attività perché non è che i clienti e i fornitori possono aspettarti per quasi vent’anni e pure la fidanzata, scoraggiata, mi ha lasciato. Ma non ho mai perso la lucidità: continuavo a ripetere a tutti che non c’entravo con quella storia e che quella non era la mia voce. Loro erano ostinati nel ribadire la mia colpevolezza, ma io ero più testardo di loro nel difendere la mia innocenza.»
Melis non si scompone mai: «Protestare sì, disperarsi no: avrei peggiorato la mia posizione, già così difficile».
Eppure è difficile dimostrare la propria estraneità a quel sodalizio criminale quando la propria vita è prigioniera di una microspia e di quelle poche parole che si sentono a malapena, ma che per gli esperti chiamati dalla corte d’assise di Cagliari sono state pronunciate proprio da Melis.
Due ambientali, dunque, come le battezzano gli inquirenti: la prima alle 22.09 del 22 settembre 1995, della durata di 2 minuti e 38 secondi, la seconda alle 19.25 del 24 settembre, più breve, per un totale di 1 minuto e 35 secondi. Due dialoghi in cui sono evidenti i riferimenti al santuario di San Cosimo, situato a sei chilometri da Mamoiada, e alla festa che tutti gli anni si svolge a settembre con le gare dei cavalli. Per la Procura i due interlocutori parlano in dialetto del sequestro Licheri in corso.
«Comunque, comente restamus? Gai?»
«Comunque, come restiamo? Così?» afferma il primo uomo nella conversazione del 22 settembre.
«Vie, vies ite di rispondene», replica l’altro, «ishampias, tanto noi si semusu in cuddane in uve suni sas parigliasa cras vortaudie.» Ovvero: «Vedi, vedi cosa ti rispondono, passa, tanto noi siamo là dove sono le pariglie domani pomeriggio».
«Per trattare a ora è mani su e roba», afferma la voce maschile il 24 settembre, «verso sas otto.» Ovvero: «Per trattare a un orario consono verso le otto».
«Verso sas nove e mesa jo sono in Mamoiada». «Alle nove e mezzo sono a Mamoiada», riprende il primo. «Va be’, si no, si non so in domo», risponde l’altro, «tiras deretu a superstrada.» «Va bene, se no, se non sono a casa, vai subito alla superstrada.» «Istrada pro Santo Cossomo es cussa?» «È la strada per San Cosimo?»
I riferimenti al paese si sprecano e il misterioso personaggio che discute con Gaddone diventa «l’ignoto mamoiadino». Termine evocativo, quasi da storico dell’arte.
Il problema è dargli una faccia e il team investigativo si mette alle calcagna di Gaddone. Il 28 settembre ecco l’episodio che fa precipitare Melis dentro l’inchiesta. All’uscita del Consorzio agrario di Nuoro incrocia proprio Gaddone e i due bevono un caffè.
Le ricerche, frenetiche, condotte dalla polizia giudiziaria avvalorano i primi dubbi: Melis è proprio di Mamoiada e conosce benissimo San Cosimo e la festa. La sua tessera potrebbe combaciare con quella che cerca la Procura. «Sostenevano», spiega oggi Melis, «che io mi fossi appartato a lungo con Gaddone quel giorno, ma la verità è un’altra: ci siamo trovati per caso a Nuoro fuori dal Consorzio agrario, abbiamo bevuto il caffè e via. Cinque minuti in tutto. Per me Gaddone era come centinaia di persone: io appartenevo all’Ara, l’Associazione regionale allevatori, giravo la Sardegna, i mercati e scambiavo due parole con tantissimi soggetti.»
Quel colloquio insignificante diventa invece per le forze di polizia l’ennesima coincidenza e l’ulteriore conferma in una serie di suggestioni che fanno presto a essere considerate prove.
Ma tolto quell’episodio, non c’è altro: né pentiti, né dialoghi e neppure movimenti finanziari. E poi ci sono fortissimi dubbi che quella voce sia proprio la sua.
Lo arrestano a distanza di anni, cercando invano quello che non si trova. «Sono stato in carcere a Nuoro e poi a Cagliari. Continuavo a ripetere che di questa storia non ne sapevo nulla, anzi: la mia famiglia è stata vittima di un sequestro, papà fu portato via nel 1965, poi dopo un paio di giorni i malfattori, sotto la pressione delle forze dell’ordine, furono costretti a liberarlo. Ma nessuno ha mai preso sul serio quel che dicevo. Si attaccavano sempre a quelle ambientali: “È lei”. “No, non sono io”, ma non c’era niente da fare. Mi hanno processato in solitaria, come avevano fatto prima di me con Gaddone, e mi hanno condannato alla velocità della luce. Tre gradi di giudizio in nemmeno due anni, credo sia un record pure quello. La Cassazione ha reso definitiva la condanna a 30 anni, 30 anni per un sequestro di cui avevo letto sui giornali e di cui non sapevo assolutamente nulla. Il tutto sulla base di qualche mozzicone di parola che il perito della corte d’assise aveva attribuito a me.»
«La corte», si legge nel verdetto, «ha ritenuto che gli approfonditi accertamenti di natura fonica nel corso delle indagini e del dibattimento, finalizzati alla valutazione comparativa della voce dell’interlocutore mamoiadino di Gaddone e di quella di Pietro Paolo Melis, abbiano permesso di acquisire un ulteriore e autonomo elemento di notevole spessore accusatorio a carico dell’imputato. Infatti mentre devono essere disattese le valutazioni del consulente difensivo ingegner Pisani, risulta pienamente legittima l’adesione al giudizio di identificazione fra le voci poste a confronto formulato dal perito ingegner Paoloni.»
Pietro Paoloni: la corte d’assise si è fidata di lui e del suo giudizio di ingegnere. «Tale giudizio», riprende la sentenza, «costituisce così un ulteriore gravissimo indizio a carico di Melis che accredita la piena concludenza del quadro indiziario precedentemente evidenziato, consentendo di pervenire, per una indipendente via tecnico-scientifica, a un risultato coincidente.»
In realtà il quadro indiziario è debolissimo, ha un fondamento labile, evanescente ed è appeso a sua volta alle certezze costruite in laboratorio dall’ingegner Paoloni. Quelle certezze senza certezza però bastano per tenere in galera Melis, che si rassegna senza strepiti alla vita dietro le sbarre.
Nel 2000 il detenuto viene trasferito nel carcere di Spoleto, sempre nel circuito dell’alta sicurezza, quello più duro, fra restrizioni e divieti, senza benefici eccetto la liberazione anticipata. «A Spoleto sono rimasto quattordici anni, una vita. Ma è stato un periodo positivo: ero in cella singola, facevo sport, soprattutto potevo studiare. Mi sono iscritto all’istituto d’arte, ho fatto tutti e cinque gli anni, io che partivo con la terza media, ho imparato tanto e non mi sono annoiato, anche se a volte lo studio era difficile. Finite le superiori ho seguito altri corsi. Un percorso molto interessante e utile per la mia persona, ma intanto tenevo d’occhio l’evoluzione della tecnologia. Il mio pallino era una nuova perizia fonica che sconfessasse quella che mi aveva portato a un passo dall’ergastolo.»
La svolta arriva nel 2012. Il consulente Mariano Pitzianti giunge a conclusioni clamorose: «La voce nota di Pietro Paolo Melis non è identificabile con la voce anonima risultante dalle conversazioni di cui alle intercettazioni ambientali del 22 e 24 settembre 1995». Su quella base, dirompente, gli avvocati tentano la strada impervia della revisione, bussando alla corte d’appello di Roma. Il caso di Pietro Melis è più difficile di quelli di Diego Olivieri o Jonella Ligresti: qui c’è di mezzo una condanna definitiva che dev’essere cancellata. E per smontarla ci vuole una prova nuova. La nuova analisi della misteriosa voce lo è? «Le nuove tecniche d’indagine indicate, da utilizzarsi per l’espletamento della nuova perizia», risponde scettica la corte d’appello di Roma, «non superano, eliminandolo, quel concetto di probabilità già monitorato nelle perizie e nelle consulenze effettuate in prime cure, sì da lasciare l’esito dell’eventuale nuovo accertamento nella categoria degli elementi indiziari non diversamente da quanto sin qui ritenuto.»
Insomma, la corte ritiene che i dubbi possano essere fondati, ma sostiene con una certa disinvoltura che quei punti di domanda accompagnano questa storia sin dall’inizio. La perizia di Paoloni – pare affermare in controluce la corte d’appello – non è così solida come si potrebbe pensare, ma non ci si può fare niente perché la scienza, pur con tutti gli aggiornamenti maturati in quasi quindici anni, non può risolvere il caso. «Se infatti la sentenza di cui si chiede la revisione evidenzia come la perizia fonica espletata non conduca a un “giudizio di certezza” mutuando quanto espresso dallo stesso perito ingegner Paoloni, secondo cui la valutazione non può che essere di probabilità più o meno elevata, di eguale parere sono le considerazioni del consulente di parte Mariano Pitzianti dal momento che costui, pur affermando che “la voce nota di Melis non è identificabile con la voce anonima”, non può esimersi dal rimarcare nel corpo della sua relazione che “da un punto di vista tecnico questo significa che non è possibile valutare con certezza assoluta se due tracce vocali appartengano o meno allo stesso parlante. A causa di questo limite l’unico approccio attualmente possibile è quello statistico”.» La corte d’appello utilizza Pitzianti, che pure ha dato informazioni contrarie e sconvolgenti rispetto a una carcerazione infinita, per ricacciare i dubbi più lontano possibile. La porta della condanna resta sigillata e le parole di Pitzianti non fanno girare la chiave verso la libertà.
Traducendo in soldoni, i dubbi c’erano e i dubbi rimangono, quindi gli elementi portati da Melis non sono sufficienti per riaprire il caso e rimettere in discussione i verdetti cui erano giunti i giudici sardi. Anche perché – sostiene la corte – «l’elemento indiziario rappresentato dalla riferibilità alla persona del Melis della voce intercettata nella conversazione con il Gaddone, non è stato considerato in sé e per sé fattore decisivo per l’affermazione della responsabilità, ma è stato dal giudice ritenuto dato utilizzabile per la formazione del suo convincimento, una volta che, dopo averlo associato in un processo di intreccio e concatenamento agli altri elementi di eguale valenza… è giunto a ritenere che sia proprio Melis il mamoiadino delle intercettazioni ambientali».
Ricapitolando, un’eventuale nuova perizia farebbe schizzare la pallina sulla casella della probabilità, del resto ci sono altri elementi portanti che sorreggono come pilastri la condanna. Affermazione pure questa molto coraggiosa, per non dire temeraria, perché gli altri elementi sono davvero fragili. E invece la corte d’appello di Roma li rimette in fila: «L’incontro di Melis con il Gaddone al bar di Nuoro il 28 settembre 1995, la presenza del Melis il 26 settembre 1995 alla festa di San Cosimo in territorio di Mamoiada dove, anche quell’anno, aveva preso in affitto una delle cumbisse per assistere alla corsa delle pariglie equestri; la sua presenza, sempre a San Cosimo, il 24 settembre, data in cui venne intercettata la conversazione fra il mamoiadino e il Gaddone, la proprietà nella stessa zona di Mamoiada di un immobile che sebbene si trattasse di un immobile veniva indicato come “ovile” o “oviletto”».
Per la corte d’appello questa sequenza di circostanze basta e avanza per la condanna a 30 anni, anche se a ben vedere, è un po’ arduo, anzi vergognoso, appioppare 30 anni per un reato così pesante come il sequestro solo perché Melis ha incontrato, una volta sola, uno dei sequestratori o si trovava a Mamoiada, il suo paese natale, nei giorni della gara dei cavalli di cui da sempre era affezionato e appassionato tifoso. E allora? Si può puntellare una condanna così grave su dati di fatto così vaghi, per non dire impalpabili? Siamo oltre ogni ragionevole dubbio o siamo all’interpretazione forzata di coincidenze generiche e banali?
In ogni caso, la corte d’appello di Roma respinge la richiesta che rimbalza in Cassazione. E la Suprema corte tira le orecchie ai giudici della capitale, bacchettandoli su tutti e due i versanti. Sulla voce: «La corte d’appello, pur riconoscendo che la consulenza tecnica prodotta dal Melis concludeva nel senso che la voce intercettata non fosse del Melis con elevata probabilità o addirittura non fosse del Melis con assoluta certezza, ha sostenuto che la suddetta conclusione fosse irrilevante perché anche la perizia fonica di primo grado non conduceva a un “giudizio di certezza” atteso che lo stesso perito, ingegner Paoloni, aveva concluso che la valutazione non poteva che essere di probabilità più o meno elevata».
Bene, per la Cassazione questo ragionamento non sta in piedi: «Proprio a livello indiziario e logico una cosa è affermare che vi è elevata probabilità che la voce non appartenesse al Melis (come ha concluso il ct di parte), altra e ben diversa cosa è affermare che vi è elevata possibilità che la voce appartenesse al Melis (come aveva concluso il perito nel processo conclusosi con la condanna)».
Va bene limare le differenze, ma non far sembrare uguale quel che è diverso e anzi fa a pugni. Per Paoloni, sia pure in modo approssimativo, l’ignoto mamoiadino era Melis, per Pitzianti non è lui. Dal giorno alla notte, dalla condanna all’assoluzione. Punto. Anzi, no. C’è dell’altro e l’altro pesa altrettanto: proprio «l’ulteriore gravissimo indizio» rappresentato dalla perizia fonica mostra la povertà di tutti gli altri. Se si toglie la controversa coppia di intercettazioni tutto il resto perde consistenza, anzi crolla: la perizia «funge, per così dire, da collante a tutto il restante compendio probatorio».
In poche parole, la Cassazione capovolge e boccia la lettura data dai giudici di Roma e spedisce le carte alla corte d’appello di Perugia per un ulteriore esame.
E Perugia ordina una nuova perizia. Dai risultati devastanti: «Nelle intercettazioni acquisite incide un rilevante e continuo rumore di fondo nel range di frequenza compreso fra 38 e 360 Hz. Leggendo i dati ed eseguendo un veloce calcolo matematico», afferma il perito Gianluca Rastelli, «si rileva che nella perizia dell’ingegner Paoloni su 57 valori rilevati nella sue intercettazioni in esame ben 38 valori di F0 (il 66 per cento dei dati) sono all’interno del range del rumore di fondo».
Che cosa vogliono dire questi numeri? «Questo dato», prosegue Rastelli, «è alquanto allarmante perché stiamo parlando della F0, ovvero la principale caratteristica del tratto vocale che individua e rappresenta la frequenza di vibrazioni delle pliche o corde vocali.»
Le notazioni sono tecniche ma il senso è chiaro e comprensibile a chiunque: «Come si evince facilmente, realizzando un semplice spettrogramma del rumore rilevato… lo stesso crea una linea continua in verde per tutto il tratto della registrazione». Insomma, il rumore di fondo rende l’ascolto dei due brani un esercizio impossibile, al di là di ogni aiuto della tecnica. «Resta quindi ignoto come qualsiasi software o esame effettuato potesse mettere in evidenza la frequenza formantica F0 della voce registrata all’interno delle intercettazioni, che sarebbe stata inevitabilmente nascosta o corrotta dal rumore rilevato.» Chiaro?
Se ancora ci fossero dei dubbi, il perito dettaglia ulteriormente: «Tanto per fare un semplice esempio, rilevare i dati formantici di F0 in queste condizioni equivarrebbe a leggere dei numeri scritti in un foglio di carta, ma coperti da un nastro adesivo nero».
Melis è stato condannato al buio: la nuova perizia dice in sostanza che Paoloni ha forzato il gioco attribuendo all’imputato una voce che era impossibile distinguere perché il rumore di fondo copriva e soffocava le parole. «Nessuna operazione di comparazione che dia risultati attendibili può oggi (come ieri) essere effettuata partendo dai dati a disposizione.»
Ecco la verità cruda: quella prova non c’è perché quell’esame era impossibile sulla base di quel materiale scadente. Non si sarebbe dovuto fare, né prima né dopo. Per Paoloni c’era sovrapposizione fra Melis e l’anonimo di Mamoiada, per Pitzianti no, ma il paragone non aveva senso, non l’aveva quando fu fatto sul finire degli anni Novanta, ed era sempre un azzardo nel 2015 a dispetto dei progressi della scienza.
L’altalena dei colpi di scena continua, sconcertante, gli anni passano e si accumulano gli uni sugli altri, Melis vede la sua vita scivolare e sfuggirgli via, giorno per giorno, sempre in quel perimetro di pochi metri, ma non si abbatte, non si lascia andare, non dà in escandescenze. Mai. È come un soldatino, attende la liberazione che non arriva, intanto fa il suo dovere di prigioniero, con scrupolo e rigore. «Aspettavo e speravo, dentro di me non avevo perso la certezza: sapevo che prima o poi quel giorno sarebbe fatalmente arrivato perché davvero era senza colpa e senza macchia.»
Ora le sue chance sembrano salire vertiginosamente. C’è la perizia, un macigno, di Rastelli e c’è la consulenza di Pitzianti cui si aggiunge quella del professor Luciano Romito e anche lui arriva a conclusioni trancianti: i parametri utilizzati da Paoloni erano inidonei a sostenere la perizia per via del solito rumore di fondo; non solo: il confronto fra le intercettazioni ambientali e il saggio fonico di prova fatto eseguire al Melis non era stato condotto in modo corretto. Anche per Romito, Paoloni aveva forzato il sistema, come lui stesso aveva riconosciuto.
Sono tutti d’accordo: Rastelli, Pitzianti, Romito. La strada dovrebbe essere in discesa e invece no: per la corte d’appello di Perugia è tutto come prima e non è cambiato nulla. La prova nuova, quella che potrebbe far riaprire il caso, non c’è. E tutto il faticosissimo e costoso lavoro svolto non è servito a niente. Sì, proprio così: «Infatti tutti i tecnici sentiti concordano sul fatto che tutte le versioni del sistema Idem (2008 o 2013) o il sistema Smart III non sono caratterizzate da alcuna significativa novità scientifica differenziandosi rispetto alla versione utilizzata dall’ingegner Paoloni solo per il metodo statistico aggiornato che determina “un cambio della stima della forza della prova”».
Siamo ancora al punto di partenza, come se le critiche affilate della Cassazione alla pronuncia dei giudici di Roma non fossero mai partite.
«Tanto premesso, deve ribadirsi come tutti i periti e i consulenti che si sono a vario titolo occupati della vicenda sono concordi nel precisare come il risultato di una perizia fonica è e rimane sempre un indizio caratterizzato da meri criteri probabilistici, non potendo mai acquisire la medesima valenza probatoria che scaturisce da un accertamento tecnico in materia di impronte digitali o di analisi del Dna, che fornisce risultati statistici in termini di certezza. Indizio che, anche mantenendo l’attuale modello di riferimento statistico, tale rimane mantenendo una valenza meramente probabilistica sull’identità delle voci messe a confronto e che doveva (come deve oggi) essere valutato unitamente agli ulteriori elementi presi in esame dall’autorità giudiziaria.»
Insomma, non ci sono sicurezze ma solo probabilità sulla roulette della giustizia e nel dubbio va benissimo dare per buona la colpevolezza di Melis, anche se dovrebbe essere il contrario. In assenza della pistola fumante, della prova regina, dell’identificazione della voce che non c’è, Melis dovrebbe essere assolto o, comunque, questa prova non provata dovrebbe essere scartata. Ma ancora una volta non è così e i giudici superano le oscillazioni del ponte da loro gettato sostenendo che ci sono altri elementi che confermano l’ipotesi accusatoria. Perugia parla come Roma, così come Roma aveva parlato come Cagliari. Nel dubbio, e che dubbio, si va contro il reo. E per tenere in piedi una perizia che scricchiola si chiamano in soccorso altri elementi ancora più incerti.
Non può finire così e la pratica, in una partita di ping-pong drammatica, torna in Cassazione dove Perugia viene puntualmente bocciata. «È la stessa corte d’appello di Perugia», si legge nel verdetto, «a dare atto che la versione aggiornata del metodo Idem, al pari del sistema Smart III è caratterizzata da un metodo statistico più aggiornato da cui ha ammesso derivare un cambiamento della stima della forza della prova; il che è particolarmente significativo come ancora la sentenza non aveva mancato di osservare nel momento in cui – indiscutibile la circostanza che in ambito la perizia consente di pervenire a risultati non di assoluta certezza ma altamente probabilistici – riveste indubbio rilievo affermare o negare, con un maggior grado di affidabilità la circostanza che funge, per così dire, da collante a tutto il restante compendio probatorio. Si vuole significare cioè che, stante l’attuale carattere di novità dei nuovi accertamenti consentiti dallo sviluppo tecnologico, in forza del più affidabile grado di probabilità degli esiti astrattamente consentito dal ricorso alla metodica attuale, l’unico spazio consentito alla corte distrettuale era quello di verificare in concreto le risultanze effettivamente scaturite nel nuovo giudizio, comparandole con il compendio probatorio già in atti.»
La corte d’appello di Perugia è ricaduta negli stessi errori commessi dalla corte d’appello di Roma: ha trasformato le percentuali in certezze, patenti di colpevolezza per Melis, e le ha rafforzate ancorandole agli altri elementi che invece da soli non vanno da nessuna parte. È uscita dal seminato. Per questo la Cassazione per la seconda volta straccia il verdetto della corte d’appello. Siamo al terzo round e siamo ormai al 2016. «Avrei finito di scontare la pena nel 2021», riprende Melis, «perché mi ero sempre comportato in modo impeccabile e ogni volta avevo ottenuto il bonus della liberazione anticipata, rosicchiando mesi su mesi al fine pena. Ma ero sempre sicuro del fatto mio e questa pronuncia della Cassazione ha confermato i miei convincimenti: a fatica, con enorme fatica, piano piano il muro cedeva e ormai era pronto per venire giù.»
Si ricomincia a studiare per l’ennesima volta la controversa perizia Paoloni. «Del tutto pregiudiziale», scrive ora la corte d’appello di Perugia richiamando i precedenti accertamenti, «appare altra questione relativa alla presenza di un rumore che pervadendo paritariamente l’intero materiale intercettato e avendo in particolare forza nello spazio fra i 38 e i 115 Hz, coprirebbe quasi del tutto l’estensione della voce intercettata, impedendo l’estrazione di un segnale (la voce) e di un raffronto affidabile.»
Un passaggio che ha trovato d’accordo tutti i pentiti.
«Sul punto», riprende il verdetto, «ha riferito in dibattimento anche l’ingegner Paoloni il quale ha mantenuto ferrea la sua originaria valutazione, affermando di aver, a suo tempo, solo esaltato la voce oggetto dell’esame e – a precisa contestazione – ha precisato che un rumore sino a 50 Hz non è d’alcun ostacolo allo svolgimento della comparazione delle voci. Osserva però la corte che il rumore presente nelle intercettazioni è ben superiore ai 50 Hz, come rilevato dal perito d’ufficio, esso svolgendo azione di disturbo sino ai 360 Hz e avendo particolare forza sino ai 115 Hz.»
Non se ne esce, un batti e ribatti di anni e anni per andare a sbattere contro le stesse obiezioni di sempre: il rumore di fondo impediva un esame a regola d’arte della voce captata dalle cimici messe nell’auto di Gaddone. E le parole di Paoloni sono smentite dalla sua stessa analisi: è lui stesso ad affondare le proprie sicurezze, ma nessuno ha mai voluto mettere le mani in quelle spinosissime contraddizioni. Anzi, con una punta di ipocrisia i giudici hanno detto che la prova fonica non ha il peso specifico del Dna o delle impronte digitali, ma intanto va più che bene per tenere in carcere Melis.
Paoloni in realtà è andato oltre e ha ipotizzato che il rumore di fondo sia arrivato dopo la sua perizia, insomma che ci sia stata «una corruzione del materiale di supporto delle registrazioni e che esso possa spiegare l’elevata soglia di rumore riscontrata dagli attuali periti».
Ma la spiegazione dell’ingegner Paoloni, strenuo difensore del proprio lavoro e di fatto solitario artefice dell’identificazione della voce di Melis e quindi della sua colpevolezza, fa acqua. «L’affermazione di Paoloni circa la buona qualità delle registrazioni è smentita dal primo esame effettuato sulle registrazioni dalla Direzione centrale della Polizia criminale nel luglio ’98: i tecnici rilevarono che la “scarsa qualità delle intercettazioni connesse alle brevità delle conversazioni” non aveva consentito una approfondita analisi strumentale tendente a “un giudizio d’attribuibilità”.» La corruzione c’era sin dall’inizio.
E allora la virata attesa da molti anni finalmente si compie a Perugia: «Ritiene la corte che tale evidenza – la presenza pervasiva del rumore – scaturita nel giudizio di revisione, comporti necessariamente una diversa valutazione dell’attribuibilità a Melis della voce d’ignoto, sia per l’unanimità delle valutazioni dei tecnici che sono intervenuti nel giudizio di revisione – il perito d’ufficio, i periti della parte pubblica e della difesa – sia perché essa si forma su un dato oggettivo – la presenza di un rumore che appare sfuggito al tecnico incaricato della perizia in primo grado. Lo stesso Paoloni implicitamente riconosce l’effetto impeditivo poiché egli – sentito dalla corte – affermò che un rumore con forza fino a 50 decibel non comporta impedimento alla verifica tecnica ma – osserva la corte – il rumore rilevato dagli altri tecnici ha particolare forza nell’intervallo fra 38 e 140 decibel talché esso, anche secondo quanto affermato da Paoloni, doveva essere di disturbo – poiché ben superiore ai 50 decibel – e nella perizia Paoloni non c’è cenno all’uso di tecniche di cancellazione del rumore, tecniche cui peraltro Paoloni ha negato d’aver fatto ricorso. Va quindi rivalutata la comparazione della voce di Melis con la voce intercettata alla luce delle nuove acquisizioni del giudizio di revisione – come disposto dalla Cassazione – e va negato che ci sia prova attendibile dell’attribuibilità a Melis della voce d’ignoto».
Poche righe coraggiose che fanno saltare come dinamite la condanna. Non c’è affatto la certezza che la voce dell’ignoto mamoiadino sia quella di Melis. Anzi. La pena, divenuta irrevocabile il 13 dicembre 1999, non regge più. «Quanto agli altri elementi, già la Cassazione evidenziava la decisività dell’ulteriore gravissimo indizio a carico di Melis» (l’attribuzione della voce) «che funge, per così dire, da collante a tutto il restante compendio probatorio. Tale valutazione», afferma finalmente la corte d’appello di Perugia, «non può che essere confermata, stante l’insignificanza del restante compendio probatorio.»
È il de profundis della condanna e la prova provata che con la giustizia italiana non bisogna mai arrendersi: dopo una sfilza di verdetti in fotocopia, in precario equilibrio su indizi labili, ecco finalmente un’analisi corretta: ecco «l’insignificanza» delle prove messe insieme contro Melis e che lo inchiodavano da più di diciotto anni in una cella.
Questa sentenza sconfessa platealmente le precedenti ed è una pagina di speranza davanti a tutti gli errori giudiziari che affollano i nostri tribunali. Alla fine qualcuno vede quel che era evidente dall’inizio, anche se i tempi di reazione del sistema sono stati vergognosamente lunghi.
Ma perché Perugia considera insignificante il compendio probatorio?
Dopo aver citato le solite e misteriose intercettazioni ambientali, la corte si sofferma dunque sul famoso incontro fra Gaddone e Melis e sulla sua presenza a Mamoiada in quelle ore decisive: «Un ulteriore accadimento viene monitorato il successivo 28 settembre nella tarda mattinata (dopo che la stessa mattina i familiari della Licheri avevano pubblicato su un giornale locale un annuncio al fin di ricontattare i sequestratori e manifestato la loro disponibilità a pagare una somma più che dimezzata rispetto alla richiesta)… venne accertato un incontro fra il Gaddone e l’odierno imputato Melis: in particolare era risultato come i due avessero avuto un lungo colloquio all’interno di un bar sito nell’abitato di Nuoro, nei pressi della sede del Consorzio agrario. Incontro che sia il Melis che il Gaddone hanno ammesso essersi verificato e che hanno giustificato alla luce della necessità che entrambi avevano avuto di recarsi presso il vicino Consorzio agrario per incombenti relativi alla loro attività lavorativa; ricostruzione smentita dai militari che li seguirono i quali hanno dato conto come nessuno dei due fosse mai entrato nei locali del Consorzio agrario essendosi al contrario appartati all’interno del bar per circa un’ora.
I contatti fra il Gaddone (già coinvolto e condannato per il sequestro Licheri) e il Melis indussero a effettuare ulteriori accertamenti sull’odierno istante che diedero modo di verificare come Pietro Paolo Melis fosse un abituale frequentatore della festa di San Cosimo, ove si svolgevano corse di cavalli, tanto che quell’anno, come tutti gli anni precedenti, aveva preso in affitto un apposito locale per assistere alle corse, come avesse la disponibilità, in capo agli zii, di un immobile sito in San Cosimo che poteva essere individuato “nell’ovile” a cui aveva fatto riferimento nella conversazione ambientale; come fosse stato sicuramente presente a San Cosimo la sera del 23 e la notte fra il 23 e il 24 settembre, nel corso della quale era stato coinvolto in un litigio con altri paesani».
Fin qui la corte d’appello di Perugia trascrive e dunque copia fedelmente, parola per parola, la ricostruzione fatta in precedenza dai giudici del caso Melis a proposito di quel che era accaduto in quello snodo decisivo di tempo del settembre 1995.
Ma che cosa provano tutte queste vicende, al di là del dettaglio diversamente descritto e valorizzato dai militari del meeting Gaddone-Melis al bar?
Ecco, il punto è che tutte queste immagini non provano proprio niente: «Tali elementi null’altro indicano quanto a Melis che una conoscenza fra lui e Gaddone oltreché una disponibilità di un ovile (in realtà una casa) in agro di San Cosimo, elemento questo certamente non individualizzante posto che non si trattava dell’unica costruzione nella zona e che non solo lui ne aveva la disponibilità».
In realtà, siamo solo davanti a un cumulo di suggestioni. Altro non c’è. Melis conosceva Gaddone e aveva una casa nella zona di San Cosimo. Un po’ poco, davvero un bagaglio misero, per arrivare a una condanna a 30 anni.
«Altro argomento utilizzato per la condanna», prosegue Perugia, «fu l’assunto secondo cui Gaddone, pur strettamente controllato dalle forze di polizia nel periodo del sequestro, non ebbe incontri con altri mamoiadini, all’infuori di Melis.»
Argomento che avrebbe una certa consistenza se solo fosse stato verificato. Ma non è così, nemmeno questa volta: «Osserva però questa corte che Gaddone non fu sottoposto a controllo continuo, a vista, nel periodo in questione (fine agosto-ottobre 1995) ma che furono solo attivati dei servizi d’osservazione nei pressi di un suo ovile e che furono occasionalmente seguiti i suoi spostamenti, come nel caso del 28 settembre, allorché la polizia notò il suo passaggio lungo una strada e lo seguì, assistendo poi all’incontro di Gaddone con Melis in un bar nei pressi del Consorzio agrario di Nuoro».
Cade così anche l’ultimo diaframma fra Melis e la non colpevolezza: «Non è possibile quindi affermare che Melis fu l’unico mamoiadino con cui Gaddone ebbe incontri nel periodo del sequestro, ma solo che questo fu l’unico incontro verificato – pur casualmente – dagli inquirenti».
La conclusione a questo punto è scontata: «Ribadita la sostanziale insignificanza degli altri elementi di prova acquisiti contro il Melis, ritenuta non provata l’identificazione vocale di Melis per l’ignoto interlocutore di Gaddone, deve essere revocata la sentenza di condanna».
È il 15 luglio 2016 e finalmente il macigno sul «sepolcro» in cui è confinato Melis rotola via fragorosamente. La condanna viene cancellata, Melis viene assolto e viene ordinata la sua immediata scarcerazione. Ci sono voluti otto processi, 18 anni, 7 mesi e 5 giorni, un’ostinazione quasi folle, la pazienza di Giobbe, la fortuna di aver incontrato in Cassazione e a Perugia magistrati liberi, anche davanti ai muri alzati dai loro autorevoli colleghi.
«Io attendevo il verdetto in cella. A un certo punto mi hanno chiamato al telefono; gli avvocati m hanno detto che la richiesta era stata accolta. Insomma, ero libero. Poco dopo, ho preso le mie cose e sono uscito. Ho trascorso una notte insonne, con i familiari, festeggiando il ritorno a casa. Ero frastornato, un po’ alla volta mi sono riabituato alla vita fuori. Certo, il mondo è diverso da quello che avevo lasciato nel 1997. Internet non c’era, i telefonini erano all’inizio, ho trovato tutto cambiato, un passo alla volta mi sto reinserendo.»
E Melis ha ancora una partita in corso con lo Stato: quella per avere un risarcimento adeguato al disastro in cui è precipitato. «È inutile che ricapitoli ancora una volta quello che ho perso perché ho perso tutto. Aggiungo che gli avvocati e i consulenti non hanno lavorato gratis, ma mi sono costati un patrimonio.» Quanto? «I calcoli precisi non li ho ancora fatti», resta sul vago l’imprenditore, «ma certo migliaia e migliaia di euro. Lo Stato, dopo avermi tolto tutto, dovrebbe darmi una mano a rientrare nella società, a riavviare il lavoro, a ristabilire le relazioni perdute. Anche se, sia chiaro, nessuna cifra può compensare quel che ho patito e che non tornerà più.»
Il match promette di essere lungo e defatigante come solo i processi italiani sanno essere. Lo Stato, dopo quello che è successo, avrebbe dovuto arrossire di vergogna e pagare immediatamente con la coda fra le gambe, ma le cose hanno preso un’altra piega. Il danno patrimoniale subìto da Melis è stato stimato in circa un milione di euro. D’altra parte i calcoli, come in un procedimento civilistico, si sono basati sui suoi guadagni di imprenditore agricolo, costretto dall’oggi al domani a rinunciare al proprio lavoro. Diverso il discorso per quel che riguarda il danno non patrimoniale: qui lo Stato è partito, come si fa in queste vicende, dai 300 euro al giorno di indennizzo stabiliti per chi incappa in un’ingiusta detenzione. A questi la corte d’appello di Perugia ha aggiunto un bonus di circa 200 euro al giorno, per un totale di 500 euro ogni 24 ore. Una cifra importante, ma assolutamente insufficiente per i legali di Melis. «Lui», spiega l’avvocato Maria Antonietta Salis che insieme ad Alessandro Ricci gli ha restituito l’innocenza rubata, «è rimasto tre mesi in isolamento, tre anni in un cubicolo, di fatto solo con l’ora d’aria fra due pareti, nessun permesso, una condizione di afflittività pesantissima. La Cassazione spiega che per quantificare il risarcimento bisogna appunto entrare nello specifico della pena e vedere come abbia stravolto la vita del detenuto. Bene, io credo che ci siano pochi casi nella storia italiana, anzi pochissimi, così devastanti: le manette, senza preavviso, e quasi vent’anni in condizioni durissime. Un periodo che non tornerà più e che ha cancellato il lavoro, l’affettività, le relazioni di Melis.»
Così l’assegno staccato dalla corte d’appello per il danno non patrimoniale, pari a 3.396.000 euro, è stato rispedito al mittente. O meglio, i legali sono andati in Cassazione e la Suprema corte ha rimandato le carte a Perugia chiedendo di riguardare il fascicolo e motivare meglio le proprie scelte e i criteri usati. Il totale, quasi 4 milioni e mezzo, è alto ma insoddisfacente. Si attende una nuova pronuncia. Per ora Melis non ha visto un centesimo, anche se sono già passati cinque anni dalla scarcerazione. E anche se i soldi avrebbero aiutato di più, se erogati subito. Ma in Italia non si sa mai come va a finire. Si attende il secondo round a Perugia. E si spera che il bonifico sia proporzionato allo scempio avvenuto.