SECONDA PARTE

 

 

Poona, 27 novembre 2000

Caro Yuri,

quanti anni sono che non ti scrivo una lettera? Ho deciso finalmente di tagliare con il mio lavoro. Ho dato le dimissioni e viaggerò per almeno un anno.

Prima di partire per l’India ho raccolto tutte le lettere che mi hai spedito in questi anni, dopo il tuo ritorno a Mosca: quelle deliziose lettere piene di disegnini, scritte con una calligrafia d’altri tempi, con stilografiche d’epoca e inchiostri preziosi. Volevi continuare i nostri dialoghi romani e milanesi. Ma io non ero più capace di seguirti, troppo preso da altre ossessioni. Da quei «pensieri nemici» di cui ti avevo parlato in gran fretta l’ultima volta che ti ho scritto.

Durante questo mio viaggio in India cercherò di rispondere a tutte le lettere che mi hai inviato in questi anni.

Ho scelto l’India perché qui spero di ritrovare quello che mi sembra di aver perso in questi ultimi anni. Ti ricordi che ti dicevo che la nostra unica salvezza era riaprire le porte d’Oriente, quelle porte difese da due terribili cherubini, chiuse da quando Adamo ed Eva, dopo aver mangiato il frutto proibito, vennero scacciati dall’Eden? Quel giardino dell’Eden che ci portiamo dentro, e a cui quei cherubini impediscono l’accesso, anche se il giardino fa parte delle nostre terre. L’ accesso al nostro paradiso, al nostro eterno, ci è vietato perché abbiamo conosciuto la differenza tra bene e male.

Anche qui in Oriente c’è l’immagine mitica di un albero della vita immortale difeso da due terribili guardiani, l’albero sotto al quale sedeva Buddha quando si risvegliò. Anche qui c’è un serpente, ma, invece di personificare il male, viene ritenuto il simbolo dell’energia immortale di ogni forma di vita sulla terra. Quando cambia pelle è come se rinascesse, ed è paragonato allo spirito che si reincarna. Che assume o abbandona forme differenti nello stesso modo in cui un uomo cambia vestito.

Eccomi qua. La scelta è fatta.

L’uso del computer spero possa aiutarmi. Scriverò veloce. Non far caso allo stile.

Poona, 28 novembre 2000

Caro Yuri,

oggi ripensavo ai primi anni della nostra amicizia. La prima volta che ti incontrai penso fosse nel 1982, a Roma. Ci presentò Gino a cui, fosse anche solo per questo, resterò sempre grato. Poi ti trasferisti a Milano. Io ci venivo spesso per lavoro e quasi sempre ci vedevamo. Non mi parlavi d’altro che di modelle, vestiti, cibi, gioielli, gli infiniti pettegolezzi del mondo della moda di cui eri allora – e temo anche adesso – innamorato.

Qualche volta dormivo in quel minuscolo appartamento dove abitavi (c’è un Tommaso, credo, nel nome della via, particolare non marginale, come spero di spiegarti nelle prossime lettere). Mi presentavi modelle bellissime, parlavamo per ore delle cose più frivole, facevi finta di sapere tutto di tutti, eri estasiato da quelle cose meravigliose che apparivano nelle vetrine di via Montenapoleone o via della Spiga, lo specchio dei nostri tempi, quel che a Mosca allora non potevi trovare. Durante il giorno eri vanitoso, spiritoso e soprattutto innamorato di te stesso.

Poi alla sera, sempre con la tua splendida leggerezza, dopo avermi mostrato gli ultimi tuoi quadri, cominciavi a leggermi la Bibbia, fino a quando io non mi addormentavo.

È da lì penso che sia nato il mio interesse per il sacro. Volevi convertirmi. Convincermi che il dono supremo che un uomo possa ricevere in vita, come diceva Plutarco, è la conoscenza del divino.

E mai allievo è stato più diligente. Qualche tempo più tardi, quando tu, dopo aver frequentato per anni le chiese ortodosse di Milano e partecipato a quelle meravigliose liturgie di sei ore di cui mi raccontavi così spesso, eri diventato quasi all’improvviso indifferente a queste cose, ero io che ti parlavo ossessivamente della Bibbia.

L’Antico Testamento fu all’inizio per me uno shock. Mi sembrava che la giustizia di quel Dio fosse terribile. Non solo Dio era ingiusto verso i popoli che abitavano le terre da conquistare, ma invitava gli ebrei a non aver misericordia. C’erano dei passi terrificanti, come questo del Deuteronomio:

Quando il Signore tuo Dio ti avrà introdotto nel paese che vai a prendere in possesso e ne avrà scacciate davanti a te molte nazioni: gli Hittiti, i Gergesei, gli Amorrei, i Perizziti, gli Evei, i Cananei e i Gebusei, sette nazioni più grandi e più potenti di te, quando il Signore tuo Dio le avrà messe in tuo potere e tu le avrai sconfitte, le voterai allo sterminio; non farai con esse alleanza né farai loro grazia.9

Ero sconvolto dalla crudeltà di questo Dio! Capivo finalmente perché la Chiesa cattolica non voleva che il popolo leggesse direttamente la Bibbia. E anche perché il conflitto tra ebrei e palestinesi non potesse avere nessuna soluzione. Dio era un fondamentalista intollerante e totalitario, che non aveva nessuna comprensione per i valori dell’“Altro” e che predicava nei confronti dei nemici comportamenti di questo tipo:

Ma voi vi comporterete con loro così: demolirete i loro altari, spezzerete le loro stele, taglierete i loro pali sacri, brucerete nel loro fuoco i loro idoli.10

Che intolleranza! Mi sembrava aver ragione chi sostiene che nei secoli la religione abbia fatto più danni che qualunque altro flagello.

C’era un pezzo terribile in i Samuele:

Va’ dunque e colpisci Amalek e vota allo sterminio quanto gli appartiene, non lasciarti prendere da compassione per lui, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini.11

Avevo capito poco del sacro. Pensavo che Dio dovesse dar conto del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto. Solo più tardi capii che Dio non tollera di essere interrogato su nulla, come scoprì a sue spese Giobbe, che gli chiedeva conto delle sue pene. Come se Dio tenesse i conti. Giobbe voleva sentire le ragioni di Dio, mentre Dio è al di là di tutte le ragioni. E così rispose a Giobbe:

Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della

terra?

Dillo se hai tanta intelligenza. Chi ha fissato le sue

dimensioni, se lo sai,

o chi ha teso su di essa la misura? Dove sono fissate le

sue basi

o chi ha posto la sua pietra angolare, mentre gioivano

in coro le stelle del mattino

e plaudivano tutti i figli di Dio? Chi ha chiuso tra due

porte il mare,

quando erompeva uscendo dal seno materno,

quando lo circondavo di nubi per veste

e per fasce di caligine folta? Poi gli ho fissato il

limite

e gli ho messo chiavistello e porte

.......................................................

Sei mai giunto alle sorgenti del mare

e nel fondo dell’abisso hai tu passeggiato? Ti sono

state indicate le porte della morte?

e hai visto le porte dell’ombra funerea? Hai tu

considerato le distese della terra? Dillo, se sai

tutto questo!12

Ma poi scoprii quasi per caso quei due libri meravigliosi che per anni diventarono i miei preferiti: le opere complete di san Giovanni della Croce e l’Imitazione di Cristo. Per anni, tutti i giorni, ne ho sempre letto qualche paragrafo. Anche oggi, che li frequento raramente, l’Imitazione rimane sempre sul comodino a fianco del mio letto.

Fu attraverso san Giovanni della Croce che venni a conoscenza dell’esistenza di una scienza del sacro, che non è legata a nessuna singola religione, neanche al cristianesimo. Qui in India ho scoperto che è l’unico santo cristiano studiato e venerato anche dai maestri induisti.

Secondo san Giovanni era possibile conoscere la verità intorno all’Essere. Questa però non poteva essere raggiunta attraverso lo studio della filosofia, ma solo tramite una rivelazione estatica: un bagliore improvviso, una luce immensa che accende la nostra anima forse una volta sola nella vita; tuttavia, in quel lampo brevissimo di totale, assoluta beatitudine, noi possiamo contemplare il divino, quasi toccarlo con mano. Anche noi moderni, che ci troviamo in quel tempo di povertà estrema di cui parla Hölderlin: «Più non sono gli dèi, fuggiti, e ancora non sono i venienti».

Attraverso la lettura di Giovanni riuscii a ritrovare l’eterno che è in noi. La vita eterna che ci accompagna mentre viviamo, e nella quale tutti noi alberghiamo sen­za conoscerla. Quella vita eterna a cui tutti i grandi prima o poi sono arrivati. Quell’eterno di cui parla Cristo nel vangelo gnostico di Tommaso: «Il regno del padre è ovunque sulla terra e la gente non lo vede»13.

Oggi, rileggendo le mie poesie, ne ho trovata una scritta in Senegal nel gennaio 1990. La cosa che mi è sembrata straordinaria è che dico che presto avrei incontrato il mio Madagascar:

Cara quiete

Cresce pieno di timore

questo mio nuovo fiore

sui tramonti tremolanti

di terse terre d’Africa.

Rare volte

un’ora così perfetta è data,

gli occhi che

sulle onde calde dell’Oceano

inseguono voli di sconosciuti uccelli,

loro anche in pace

con lo sciacquìo tenero

di questo tenero tramonto.

Oh cara quiete sei ormai così vicina

che presto potrò forse

baciarti la mano. Sei bianca e pura

come la spuma di queste onde,

calma come l’alcione che a lungo

su un sasso s’è rip­osato

e s’è or ora alzato in volo.

Breve indaca illusione.

Ogni serena umana intenzione

volge al termine infine

ora che già

pallida e perplessa dileguando la luce gelosa

un confine disegna all’orizzonte

solo al di là del quale

signore non è più il tempo.

Mi ha colpito molto la “profezia” contenuta in questa poesia. Anticipava qualcosa che sarebbe successo mesi più tardi. Forse è vero quello che sosteneva Euripide: se il poeta si lascia possedere, il dio entra possente nel suo corpo e gli fa preannunciare. E allora non parla più il poeta ma il dio che lo abita.

Non so perché ho divagato su queste cose. Quando questa mattina ho cominciato a scrivere avevo in mente una cosa completamente diversa. Volevo riprendere il discorso a cui accennavo una delle ultime volte che ti scrissi, quello sulla Caduta di Iperione di Keats. Senza questo non riuscirò a rispondere alle domande che mi fai insistentemente nelle tue lettere: perché ho smesso di scrivere e perché non pubblico almeno le poesie che ho scritto fino al 1994? Perche mi sono dedicato con tanto fervore agli affari?

È un discorso complesso. Riproverò ad affrontarlo domani.

Poona, 29 novembre 2000

Caro Yuri,

ieri mi ero ripromesso di parlarti della Caduta. Lo farò, ma non oggi. Oggi mi piacerebbe tornare ai nostri vecchi discorsi sull’arte e la poesia.

Non credo, però, che i nostri discorsi andassero mol­to al di là di certe idee generiche e ingenue. Da una parte c’era la tua convinzione totale che solo l’artista vive: un uomo non è un uomo se non riesce a esprimersi attraverso l’arte. Come sarebbe insignificante la vita se non si riuscisse a esprimere nulla che lasciasse una traccia profonda, qualcosa che potesse trascendere il nostro breve passaggio! Solo l’arte e la poesia possono consentircelo. Senza espressione spirituale l’uomo ti sembrava una bestia. Io ero più cauto, certo meno entusiasta. Scrivevo, ma non sapevo bene perché. E spesso mi domandavo: a che serve scrivere, scrivere poesie per di più?

Ma perché hai voglia di dire

ciò che da una stretta finestra

stasera sul tardi tu vedi?

A che e a chi giova? Se solo da dire

tu hai di tre nuvole piatte

e di una stella che in cielo

poco fa brillava ed ora è nascosta.

Quello che a me piaceva, più che le parole, era l’incanto che le precede, quelle piccole epifanie improvvise, piene di delizia:

È con santo stupore

che questo stasera io sento:

l’alito breve di vento

che sulle chiome dei pini ancora freme

non è stato che breve passaggio

un dormire lieto di bimbi.

E non mi disperavo, come avrei fatto più tardi, quando subentrava l’assenza. Quando l’incanto, l’esta­si, l’epi­fania non si dava, restavo tranquillo.

La mia era allora una lingua semplice, puerile quasi, antecedente al tragico, quasi casta di fronte al male, pura come l’acqua dei torrenti che scendono dalle valli del paese dove sono nato:

È un letto di torrente

che scorre tra dirupi

sulle spalle fronzute

dell’Appennino questa voce.

E l’acqua che vi scorre

è dolce e fresca acqua di sorgente.

Non sempre però un sorso nelle mani

prenderne se ne può

a rinfrescare le labbra riarse.

O come l’acqua delle sorgenti che si trovavano numerose lungo i sentieri di montagna e presso cui ci si fermava quando si era stanchi:

Cos’è quest’acqua pura di sorgente

che all’improvviso zampilla?

Con le mani raccolte,

come in preghiera,

qualche goccia ne portiamo alle labbra

E nella limpida polla,

con sorpresa la specchiata immagine guardiamo.

Nei giorni di modestia, la risposta che davo alla domanda sul perché avevo voglia di scrivere era che sarebbe stato piacevole rileggere, «in giorni vecchi e secchi», sia in senso metaforico che reale:

Donino, reliquia eterna,

questi versi solo un frutto:

una dolce mela piena di sapori

da me solo riconosciuti

e che ricordi in giorni vecchi e secchi

qualche dolce languore

qualche rigo d’amore.

(Su questa poesia tu facesti un disegnino delizioso: un angioletto che mi versa in testa un secchio d’acqua. E un braccio col pollice in su).

Oppure, mi dicevo che alcuni versi un giorno avrebbero potuto allietare i miei figli.

Nei giorni di folle orgoglio, invece, come tanti, d’altra parte, pensavo alla gloria poetica:

Ma che cosa mi spinge anche stasera

a contemplarti, solo in una stanza

d’albergo? Il ricordo forse del fumo

che in lontani autunni vedevo alzarsi

nelle mie valli ricche di castagni?

E il desiderio d’aspirarlo ancora

quell’acre, amato odore? O è il terrore

che resti un giorno, sola unica traccia,

il nome e una foto sulla pietra

d’un povero cimitero di paese?

Il fumo di cui parlo è quello che tanto amava rivedere Ulisse, come dice Atena quando implora Zeus di di liberarlo dalla maga Circe e di farlo tornare a casa:

[Circe] trattiene quel misero, afflitto,

e sempre con tenere, malïose parole

lo incanta, perché scordi Itaca. Invece Odisseo,

nel desiderio di scorgere sia pur solo il fumo, che

balza

dalla sua terra, vuole morire.14

Pensavo ai grandi monumenti lasciati dai poeti del passato, mi sembrava di credere che, come dice Orazio, la poesia rende immortali, o meglio prolunga la vita della nostra anima:

Più immortale del bronzo ho lasciato un ricordo

che s’alza più delle piramidi reali,

e non potrà distruggerlo morso di pioggia,

violenza di venti o l’incessante catena

degli anni a venire, il dileguarsi del tempo.

No, non sarà la fine: gran parte di me

sfuggirà alla morte. E finché sul Campidoglio

salirà con la vergine muta un pontefice,

nel futuro sempre più fiorirò di gloria.15

O come Ovidio:

Opra compii che né l’ira di Giove né il fuoco né il

ferro

mai non potranno annullare [...].

......................................................

E sarò letto dovunque si stende l’impero di Roma

sopra le terre domate e famoso vivrò nel futuro,

se qualche cosa di vero contiene il presagio dei vati.16

O come Shakespeare:

Né il marmo né i dorati monumenti

dei principi sopravvivranno a questa possente rima,

ma, qui contenuto, tu splenderai più luminoso

che pietra non spazzata, insozzata dal lurido tempo.

Quando la guerra devastatrice rovescerà le statue

e i tumulti sradicheranno le muraglie,

né la spada di Marte né il convulso fuoco della

guerra

bruceranno la vivente testimonianza della tua

memoria.

Contro la morte ed ogni nemica dimenticanza

tu incederai, e la tua lode troverà sempre spazio

agli occhi di tutte le età future

che consumeranno questo mondo fino all’estrema

sorte.

Così fino al Giudizio, quando tu stesso risorgerai,

tu vivi in questa poesia, e dimori negli occhi degli

amanti.17

Ma più spesso, quando non ero preso dall’euforia dionisiaca che assale i malinconici, che trasforma le passioni morte e le avvampa d’odio e d’amore, e bagna l’anima di folle orgoglio, mi sembrava di essere totalmente inadeguato a dire quello che avrei voluto dire, di non essere capace di mettere ordine nella gran confusione dei miei pensieri.

Un giorno scrissi una strana poesia. Una strana richiesta alle Muse. La speranza che esse mi donassero un giorno sereno in cui fare ordine:

Concedetemi Muse tra i giorni

pochi o tanti che restano

un’ora serena in cui il mio spirito

stanco ma attento

questi vostri come gigli bianchi messaggi

in fretta e con ansia raccolti,

con tenerezza nei giorni di tregua

non abbellire voglia

ma calmo su un lindo quadernetto

raccogliere in lingua che non sia madre

soltanto, ma figlia, sorella, amica,

senza arido, ridicolo orgoglio

da antiquari, e da altre sappia apprendere

almeno questo: mai per lungo tempo

la civiltà di un popolo avanza.

Solo molti anni più tardi venni a conoscenza che an­che Hölderlin aveva parlato dell’«istante sereno», nel quale il canto può dispiegarsi per immagini; quando in un momento di forza e in un’altra dimensione del pensare, più antica e più semplice, ci scuotiamo di dosso la stanchezza, lo sguardo di tutti i giorni, arrogante e cinico, logico e vano, e diventiamo capaci di cogliere un paesaggio delle cose sconosciuto.

Ma la mia poesia è strana perché per la prima volta apparivano le Muse. Erano loro a inviarmi «come gigli bianchi messaggi».

Allora, però, non ero in grado di fare molte riflessioni su questo. Quello che pensavo era che, se le Muse mi avessero esaudito, anch’io sarei stato, come diceva Keats, in grado di tessere la mia tela:

Ora a me pare che chiunque potrebbe come il Ragno filare dal suo interno la propria Cittadella fatta d’aria;i punti delle foglie e dei rami su cui il Ragno si appoggia all’inizio sono pochi, eppure esso riempie l’aria delle proprie circolari volute di squisita bellezza. L’uomo dovrebbe accontentarsi di appigli altrettanto scarsi sui quali appuntare la fine Tela della sua Anima, e tessere un ordito ideale di simboli decifrabili all’occhio spirituale, di dolcezze godibili dal tatto spirituale, di spazio per il suo fantasticare, di immagini di esatta precisione di cui godere.

e poi:

ogni uomo si farebbe grande, e l’Umanità invece di essere una landa sconsolata di eriche e di rovi con qua e là un raro Pino o una lontana Quercia sarebbe una grande democratica Foresta di Alberi.18

Spesso mi sembrava che questo stessi facendo:

È un gesto antico. A fatica saliamo

su questo monte di neve imbiancato

ancora. Sfrigola sulla coltre

ghiacciata il bastone. Dalla cima

osserviamo l’altopiano in lontananza

e le montagne più alte e la pianura,

e ascoltiamo le fantasie d’uno

che rumori di guerra sembra udire,

che immagina scariche d’armi giù,

ove presso la strada sale un refe

snello di fumo. È questo un altro filo

nell’arazzo che lento si costruisce,

giorno dopo giorno, prima usando

fili rozzi di lana ed ora fili

di seta delicati. Provvisoria

è ogni trama. Domani tutta l’opera

potrebbe essere disfatta, che ancora

non si conosce bene che disegno

verso il centro della tela stringa,

a rivelare quel volto cui tutta

una vita sarà ormai intesa.

Sentivo comunque che quel volto appariva confuso, disegnato da un pittore con scarso talento. E poi i volti erano spesso doppi e inquietanti.

Ma poi avvertivo che era inutile pensarci troppo. Inutile opporsi al dio che ci impone delle regole, ma ignora le regole che ci impone. Ci butta in acqua con le mani legate dietro la schiena e poi ci grida: «Fa’ attenzione: rischi di affogare!».

Qui in India ho trovato una storiella divertente che spiega bene il nostro rapporto con il destino.

Shiva, il signore la cui danza è l’universo, aveva una bellissima moglie, Parvati, figlia del re della montagna. Un mostro andò da lui e gli disse: «Mi piacerebbe trombare tua moglie». Shiva giustamente s’indignò, aprì il terzo occhio e colpì la terra con le sue saette, provocando fuoco e fumo. Quando il fumo si dissolse comparve un altro mostro, magro e peloso come un leone con la chioma che si agitava in tutte le direzioni. Quando il primo mostro si accorse che il secondo stava per divorarlo si sentì spacciato. Come ultima risorsa si affidò alla clemenza del dio: «Shiva, mi affido alla tua clemenza, risparmiami». E Shiva, che era un gentleman, e non rifiutava mai un favore se qualcuno glielo chiedeva, rispose: «Ti concedo la grazia». E poi, rivolto al mostro magro, gli disse: «Mostro magro, non mangiarlo». «Come vuoi tu», gli rispose il mostro magro, «rispetto la tua volontà, ma sei stato tu a crearmi, e mi hai creato affamato affinché divorassi il mostro che ti ha offeso. Adesso cosa devo fare per far passare la mia fame?». Shiva con una risata gli rispose: «Ah sì, sei affamato? Allora mangia te stesso». Poiché al dio bisogna ubbidire, il mostro magro cominciò a mangiare se stesso, partendo dai piedi. Alla fine gli era rimasto solo il viso. Allora Shiva lo guardò divertito e gli disse: «Com’è crudele la vita! Non ne ho mai visto una dimostrazione così convincente. Per questo ti chiamerò Volto di Gloria e d’ora in poi chi non si inchinerà a te non sarà degno di venire a me». Chi entra in un tempio induista difficilmente potrà scordarsi questa storia perché il Volto di Gloria lo si trova sui portali di tutti i templi dedicati a Shiva. A ricordare al fedele che, se vuole avere accesso al sacro, deve accettare il miracolo della vita così com’è.

Per oggi basta. Un abbraccio.

Poona, 30 novembre 2000

Caro Yuri,

neanche oggi sono in grado di affrontare La caduta. Mi sento inadeguato a fare un discorso così complesso. «Concedetemi Muse un’ora serena».

Invece di Keats ti parlerò di Saba. Ti ricordi quella poesiola che a te piaceva tanto?

Caro amico a me che basta

il poco senti che fortuna

m’è oggi capitata. Per caso

in una libreria un libro

ho trovato che da mesi

cercavo. E adesso me ne torno

per via Isonzo che poco manca

che a fischiettare mi metta

tanto il cielo rosa m’appare.

Il libro che avevo cercato per mesi era il commento di Saba al suo stesso Canzoniere: Storia e cronistoria del Canzoniere, uno dei libri più buffi e geniali della letteratura italiana. Saba pensava di essere trascurato dai critici e allora si scrisse un saggio critico da solo.

Saba l’ho letto tutto, e ho a casa tantissime edizioni diverse del Canzoniere, alcune anche rare. Ma poi, dopo il 1990, mi cominciò a piacere di meno. E un gior­no a Madrid, credo fosse il 1993, scrissi una poesiola con cui chiusi definitivamente la mia storia d’amore con Saba.

A Saba ormai posso solo dedicare qualche imitazione:

Chi tardi s’innamora

di una giovane donna

la più bella la più pura

vede tanto bello il suo amore

che gli viene voglia

di rimarlo in fiore.

Era una notte ventilata

e gelide suonavano

due trombe dalle cime dei monti.

Certo che anche qui, inconsciamente, l’ultima terzina suona come una specie di requiem per Saba, che comunque rimane il mio poeta preferito nel Novecento. Ho sempre odiato l’accidia e la cattiveria di Montale. Mi fa solo sorridere la vana magniloquenza di Quasimodo. Meglio Penna, Caproni e Bertolucci.

E di Ungaretti non sopportavo a volte gli atteggiamenti. Anche se gli rimarrò sempre grato perché in una torbida notte, a metà degli anni Ottanta, una sua poesia quasi mi salvò dall’orlo di un abisso. La poesia è questa:

E la recline, che s’apriva all’unico

Raccogliersi dell’ombra nella valle,

Araucaria, anelando ingigantita,

Volta nell’ardua selce d’erme fibre

Più delle altre dannate refrattaria,

Fresca la bocca di farfalle e d’erbe

Dove alle radici si tagliava:

– Non la rammenti delirante muta

Sopra tre palmi d’un rotondo ciottolo

In un perfetto bilico

Magicamente apparsa?

Di ramo in ramo fiorrancino lieve,

Ebbri di meraviglia gli avidi occhi

Ne conquistavi la screziata cima,

Temerario, musico bimbo,

Solo per rivedere all’imo lucido

D’un fondo e quieto baratro di mare

Favolose testuggini

Ridestarsi fra l’alghe.

Della natura estrema la tensione

E le subacquee pompe,

Funebri moniti.19

È una poesia in cui Ungaretti parla del suo figlioletto, «fiorrancino lieve», che poi morirà in Brasile. Il paesaggio è quello brasiliano dove «della natura estrema [è] la tensione». L’araucaria non sapevo nemmeno cosa fosse. Dovetti guardare sul vocabolario.

Mi identificai totalmente in quella poesia. Ero il «musico bimbo» che si affaccia sull’abisso. Ed ero al tempo stesso l’araucaria «più delle altre dannate refrattaria». Refrattaria alla discesa tra le anime perse. Essa, per misteriose vie, mi fece capire la vanità e la follia del mio sogno altoborghese. Mi fece pensare a mio padre che, in una fredda mattina di novembre, entrava in una miniera in Belgio. Sentivo l’acqua che gli saliva alle ginocchia. Vedevo il suo sguardo che prima di entrare gli volava alle verdissime, pure valli dove era nato.

Trascrissi la poesia e la portai da Gino che allora abitava a casa mia. Sopra la poesia avevo scritto:

L’araucaria, Gino,

l’araucaria egli è.

Fra i contemporanei, il poeta più profondo mi sembra Beppe Salvia. Non so se tu l’abbia mai conosciuto. Io lo incontrai poche volte. L’ultima volta che lo vidi parlammo di Keats. Non so se lui conoscesse La caduta di Iperione. Ma so che prima di morire stava traducendo Sonno e poesia. Penso che avesse intuito molto bene la poesia di Keats. Ci sono alcuni bei versi che secondo me lo rivelano.

Lettera

Viene la sera, è vero, silenziosa

piove una luce d’ombra e come

fossero i nostri sensi inevitabili

improvvisi, noi lamentiamo

una più vasta scienza.

Aver di quella il frutto

appariscente, la bella brama,

e l’ombra perfino, di sussurri

e di giochi, come bimbi.

Ma io lo so Serena io non posso,

in questi tempi segnati dal segreto

di cui s’invade

la nostra intimità,

vivere adesso se non con tale affanno

e così lieve.

Di questo amaro stento già si fa più vero

un sentimento pago di letizia, al modo

che alla sera insieme

andando per le strade

chiare, l’ho visto, d’ombra

e di segreto,

noi siamo tra i perduti lumi

esseri più miti di chi

venuto prima di noi

ebbe solo a soffrire

salvi quasi per caso, e in questo prodighi.

I baci sono bellissimi doni.20

Questa è forse una delle più interessanti poesie scritte negli ultimi decenni. Una sorta di svolta. Perché, anche se «noi siamo tra i perduti lumi», siamo «esseri più miti» di chi ha avuto il destino di arrivare alla poesia prima di noi e non ne ha ricavato che tormenti. Noi siamo salvi, «quasi per caso». Noi che abbiamo capito che bisogna continuare a credere nel cristallo di una quiete che può esistere ancora. Noi che possiamo ricominciare a credere che nel fondo della vita, al di là delle sofferenze, la poesia può essere il suono perfetto e casto di una voce di letizia. Può ancora rinnovare il sogno di arrivare a quella «più vasta scienza», mai posseduta, ma sempre amata. Quella scienza che può restituire in un attimo il senso di tutta una vita. E per questo dobbiamo essere generosi. Regalare baci che sono bellissimi doni.

Come Keats, Beppe credeva che la poesia sia solo in quelle «strade chiare» di grande pienezza. In cui si pensa agli uomini perduti fra i «perduti lumi», i versi come segni di una notte luminosa, ombre di una fiamma inesauribile. Come Keats, il destino non è stato prodigo con Beppe. Come sai, si suicidò buttandosi giù dal terrazzo della sua casa. E prima di morire, Beppe cercò quella quiete anche attraverso strade pericolose:

È presa la vena, carezzala, fa

arco col braccio, appanna il lume, luce

celeste brilla una febbre sul braccio;

scalda l’anima copri lo specchio, fa

che una coltre allontani le voci, la

lamina d’argento s’è scaldata, è

la bianca fiamma che adesso mescola

a una gocciola che tersa traspare

la bianca bianca eroina, la vena

è radice il laccio la stringe l’ago

riluce brilla buca il braccio, brina

scioglie che sulle ciglia brillava, va

in vena, è il momento del mantice, la

misura di sidro che versa dal calice,

son chiusi i begli occhi del ladro.21

Salvia sapeva che la brina che sulle ciglia brilla si poteva sciogliere anche in altri modi. Mi rendo conto che ho fatto promesse da marinaio. Ti dovrei spiegare perché ho smesso di scrivere e indugio invece su altre cose. Ma devo aspettare il momento propizio.

Un abbraccio.

Poona, primo dicembre 2000

Caro Yuri,

mi sembra di star scrivendo un giallo. Ho cominciato per dare risposta alla tua domanda: perché non credo più nella poesia e perché non ho più voglia di scrivere; e invece mi dilungo a parlarti di poesia. Devo rinviare ancora la soluzione. Neanche oggi mi sento di affrontare l’argomento Caduta.

Ieri ti ho parlato a lungo di Saba. Nei primi anni ottanta avrei voluto dedicargli un’intera raccolta di poesie. L’avrei chiamata Labisso e le rose. Vi avrei messo queste due epigrafi:

Tra noi e voi è stabilito un grande abisso.

Luca, 16,26

Quante rose a nascondere un abisso!

Umberto Saba

«Quante rose a nascondere un abisso!». Anche se avesse scritto solo questo verso, Saba sarebbe un grande poeta.

A proposito di rose, chissà se Saba, quando l’ha scritto, pensava all’Asino doro di Apuleio. Come sai, Lucio, il protagonista, è stato magicamente trasformato in asino. Essere asini non è poi così male: si ha il vantaggio di ascoltare quello che dicono gli altri, senza che questi se ne accorgano. Quello che io ho fatto per tanti anni. Comunque, essere asini per tutta la vita non è piacevole. E Lucio vuole tornare uomo, ma per fare questo deve sottostare a una serie di prove. Passare attraverso avventure dolorose e umilianti fino alla redenzione attraverso la grazia concessagli dalla dea Iside. La dea appare tenendo in mano un mazzo di rose, simbolo dell’amore divino, e Lucio ritorna ad essere uomo non appena, ancora sotto forma di asino, mangia le rose. A questo punto non è più soltanto un uomo, ma un uomo “illuminato”.

In questi giorni, sto leggendo dei passi da Valentino, uno gnostico alessandrino vissuto nel II secolo dopo Cristo.

Secondo Valentino, molte cose sono successe prima degli eventi narrati nella Genesi. C’è stato un tempo in cui Dio riposava solo con sé stesso, nelle «altezze invisibili e incomprensibili». Questo Dio porta uno strano nome: Abisso. Egli era l’immenso Nulla, lo sterminato No-thing, l’inconcepibile Vuoto. Fuori dal tempo e dallo spazio. Insieme a Dio riposava un’entità femminile: Silenzio. Che Dio non aveva creato, ma era lui stesso al femminile. Alla fine Dio si stancò di questa compagnia silenziosa e depose in lei un seme. Silenzio restò incinta e generò Intelletto, in tutto e per tutto simile a chi l’aveva generato, cioè a Dio. Con l’unica differenza che Intelletto sapeva leggere e scrivere.

Poi arrivarono altri eoni: Logos e Vita, Uomo e Chiesa, Figlio Unico e Felice, Paracleto e Fede, Paterno e Speranza, Materno e Amore, Voluto e Sapienza. In tutto erano trenta. Però fra loro e Intelletto c’era una differenza: solo a quest’ultimo era concesso di accedere alla stanza del padre. E Intelletto «gioiva a vederlo e godeva a contemplare la sua grandezza». Intelletto avrebbe voluto presentare Abisso ai suoi fratelli, ma prima che potesse farlo la madre glielo impedì. Agli altri eoni non rimase altro che contemplare Abisso nel riflesso luminoso di Intelletto.

Tuttavia, uno degli ultimi eoni creati, Sapienza, non ci stava: e cercò di dirigersi verso il padre direttamente, con l’ambizione suprema di conoscere «la grandezza della sua profondità e della sua imperscrutabilità».

Abisso si arrabbiò tantissimo. Si era mai visto un peccato d’orgoglio più grande? Per punirla fece partorire a Sapienza uno sgorbio tremendo, senza nessuna fecondazione: la Materia. Che quindi, poveraccia, nacque direttamente orfana di padre.

Quando la vide, a Sapienza prese un colpo. Le venne il terrore di perdersi e confondersi con sua figlia. Senz’altro si sarebbe persa. Ma a questo punto Abisso decise di creare un altro eone: la Croce, per mettere ordine tra il mondo degli eoni e il mondo della Materia. La Croce riportò in riga la Sapienza, cancellandone il peccato (di concupiscenza intellettuale?) dalla memoria e la riabilitò tra gli eoni. Per evitare altri danni Abisso generò, per mezzo di Intelletto, Cristo e lo Spirito Santo. E Cristo stabilì una volta per tutte che né lo spazio né il pensiero possono comprendere Abisso: egli è indicibile, incomprensibile, inconcepibile, perennamente protetto da Silenzio.

Intanto, comunque, il mostriciattolo generato da Sapienza era stato cacciato dal mondo degli eoni e gettato nel mondo dell’ombra. Cristo, che era buono, ebbe pietà di lei (anche perché dopotutto Materia era figlia di Sapienza, quindi una cugina) e le diede forma e coscienza. Ma poi la abbandonò nuovamente alla sua strada. Allora la povera Materia si mise alla ricerca della luce di Cristo. Ma sempre per il limite imposto dalla Croce questo non era possibile.

A volte piangeva e si addolorava perché abbandonata sola nella tenebra e nel vuoto: a volte pensando alla luce che l’aveva lasciata riprendeva a ridere; poi di nuovo si addormentava, e altre volte era ripresa dal disagio e dallo stupore.22

In questo modo si formò la materia da cui è sorto questo universo: dall’umidità delle lagrime di Materia, dalla luminosità dal suo riso, dagli elementi corporei del suo dolore furono creati gli astri, i cieli, la terre, gli angeli, i demoni e gli uomini e tutto ciò che di vivente noi vediamo e immaginiamo.

Bello, no? La parte perdente del Cristianesimo forse non avrebbe meritato la sconfitta.

A domani.

Poona, 2 dicembre 2000

Caro Yuri,

divagare è il mio più grosso difetto. Forse ho un’anima taoista. Un’anima che si piega e muta continuamente come le erbe che s’incurvano sotto il vento. Non riesco assolutamente a tenere una concentrazione e a fissarmi sulla mia meta, che è spiegare perché mi sono convinto che la poesia è un fuoco fatuo fatto per abbagliare chi si lascia abbagliare.

Ti ricordi quella poesia che piaceva tanto a te e alla tua compagna? E che poi, tradotta in latino, fu messa sulla cartolina d’invito alla tua prima mostra in Italia nel 1993?

Vasto in oceano navigantem naviculam

improvisis a naufragiis haud tutam – primo

tibi apparent insulae, deinde terrae

continentes ac montes niveosi

qui te salutant longinqui – oportet

te parvo hamo parvos capere pisces.

Questa poesia è una delle mie preferite, l’unica di cui non ho mai cambiato nulla. Non ricordo neanche quando e perché la scrissi. La ritrovai un giorno così com’è adesso su un quadernino di appunti. La versione italiana era questa:

Oceano

Quando nel grande oceano si naviga,

picciolissima barca

aperta ai più improvvisi naufragi,

e misteriose isole appaiono

e continenti poi e monti innevati

che da lontano

nei giorni di cielo terso salutano

lieti, conviene gettare l’amo

solo ai pesci piccoli.

E non basta poi seguire le stelle

per trovare una meta,

perché d’improvviso

bussa il dolore alla porta,

e s’apre una mattina

densa di nebbie; anche se poi la tenebra

sopraggiunta prepara

nei suoi misteri un’alba di terso.

So soltanto che fu scritta senz’altro prima del 1990. C’era qualcosa di Dante, che avevo riletto a lungo in quegli anni. C’era il suo viaggio sulla nave della poesia, sul «legno che cantando varca»23, attraverso il pro­fondo oceano celeste di Dio nel quale lo sguardo non penetra.

Solo più tardi ho scoperto come l’oceano sia uno dei simboli preferiti dai mistici dell’Islam. Ad esempio, del poeta persiano Rumi. L’oceano come simbolo dell’infinito, immobile nella sua profondità e agilissimo alla superficie, sempre in movimento, sempre in trasformazione. E la «picciolissima barca» è forse anche l’anima taoista che attraversa l’oceano, senza forma, senza resistenze, senza desideri, senza volontà, senza passioni. L’anima che fa il vuoto in sé stessa, annullando il proprio io e quindi i propri desideri, i propri impulsi, i propri amori, i propri odii. L’anima che quando ha fame getta l’amo solo ai pesci piccoli.

Non ho più nessuna intenzione di pubblicare le mie poesie – un lettore mi è sufficiente – e quindi non sono mai riuscito a dar loro un ordine. Ma, come ti dicevo ieri, all’inizio degli anni Novanta avevo in mente un libro di poesie che volevo chiamare Labisso e le rose. Nel 1993, invece, cominciai a raccogliere tutte le poesie in cui si parlava dell’esperienza del sacro. Se ne avessi fatto un libro lo avrei intitolato Quaderni malgasci, in onore di quei quadernini di carta poverissima che avevo comprato in Madagascar, che tu hai visto tante volte e che negli anni ho riempito di appunti.

Come epigrafe ci avrei messo san Giovanni della Croce:

Mi Amado las montañas

los valles solitarios nemorosos,

las insulas estrañas,

los ríos sonorosos,

el silvo de los ayres amorosos24

Alcune di quelle che avrei messo in questo libro te le ho già trascritte, ma ce ne sono molte altre. Il tema è sempre lo stesso: le nostre povere anime assetate ancora di sacro e abbandonate a sé stesse, costrette a confrontarsi da sole con il sacro, individualmente, senza il conforto di un mito, di un rito, di una comunità di fedeli, e costrette quindi ad affrontare i terribili pericoli che questo comporta, picciolissime barche aperte ai più improvvisi naufragi. Quei naufragi improvvisi che possono irrompere nella nostra anima senza protezione e portarla alla violenza, oppure alla follia. Al sacro l’uomo tenta ingenuamente di sottrarsi, come se volesse staccarsi da quel buio indistinto che è la nostra origine, per navigare le acque tranquille di un laghetto artificiale, dove non possono scatenarsi tempeste. L’uomo vorrebbe recintare il sacro all’interno di innocue religioni sconsacrate per dimenticare che Dio non ha nessun obbligo verso di noi, nemmeno di giustizia, e che talvolta, come ben sa Giobbe, fa soffrire, tormenta, distrugge un innocente soltanto per dimostrarci che egli è l’unico Signore del proprio regno.

O Signore

O Signore nulla facciamo se tu

non lo comandi. Sempre questo vero

ci attraversa e ci dimentica,

finché un giorno di primavera agro,

che leggermente tremolano gli scuri

verdi rami del pino che guardiamo

fuori dalla finestra nel mattino,

tra un cinguettio d’uccelli sconosciuti,

con i rumori che giù dalla strada

non ci rapiscono ancora violenti,

questo tu nuovamente ci ricordi,

noi che così spesso lo scordiamo

noi che si nasce solo se si muore.

Dio ci salva dalle acque del diluvio universale e poi si dimentica di noi:

Come Noè

Sono mesi che sotto il sole cocente

del deserto di Gobi

penosamente Noè cammina

e ancora non indovina quanto sia lunga

la pista che rimane.

E a notte nudo dorme entro la tenda,

troppo vino avendo bevuto.

(Lui che solo Dio aveva salvato

perché era il meno dissoluto).

Dio all’improvviso ci si mostra nella forma di un’aquila, l’uccello di Zeus, l’uccello che rappresenta la discesa del dio nella dimensione temporale, e ci fa esclamare: «Ah!», come viene detto in un passo delle Upanishad: «Quando di fronte alla bellezza di un tramonto o di una montagna ti fermi ed esclami “Ah!”, stai partecipando del divino». L’aquila di cui si parla in questo tramonto, comunque, è un’aquila vera!

LAquila

Ah! quell’aquila al tramonto,

come ciò che nel fulmine

abbaglia, fa chiudere gli occhi,

ed esclamare «Ah»

sì quell’aquila

è un Dio che bisogna riconoscere,

stesi qui sulla cima rotonda

di monte Amato,

e laggiù in lontananza appaiono

le fiammelle rapide dell’autostrada,

le prime luci dei paesi che s’accendono

tra Carsoli ed Arsoli.

Un dio che decide di farsi vivo nei posti più strani, anche negli alberghi frequentati dalle modelle, per ricordarci che il paradiso e l’inferno sono dentro di noi, così come dentro di noi sono tutti gli dèi, e che non è blasfemo dire come Gesù: «Io e il Padre siamo una cosa sola»25. Perché, come dice Gesù stesso nel vangelo di Tommaso: «Chi beve dalla mia bocca diventerà così come io sono e io diventerò lui»26. Qui in India ho scoperto che questo è un pensiero buddhista. Tutti noi siamo manifestazioni della coscienza di Buddha o di Cristo, solo che non lo sappiamo. Perché non siamo risvegliati.

Dio ci si avvicina mentre giochiamo tranquilli con i nostri figli sul balcone di casa, per avvertirci che prende tanti nomi diversi e tanti sono i sentieri che conducono a lui:

La voce del vento

La voce del vento, che ora s’alza leggero,

e fa girare le pale di un mulino a vento,

dai bambini conficcato su un vaso del terrazzo,

graziosa risponde alle mie domande:

«Mai odio è spento da odio.

E tanti sono i sentieri per giungere in cima,

se seguiti con intensa devozione.

Identico e malvagio è il sapore di male,

a bocconi rozzi s’addenti,

o con coltelli e forchette d’argento.

E non dimenticare che il sentiero non è la cima,

nessun figlio il padre predilige,

non esistono popoli eletti.

E che infine tutto rompe il duro tempo,

la perfezione delicata delle ali di un insetto,

e l’alta piramide».

Questo dio, quanto più lo cerchiamo, tanto più si nasconde. All’improvviso spegne l’interruttore e ci avvolge in una nera malinconia: allora le parole dei libri che stiamo leggendo non hanno più senso, e soprattutto sono senza gioia, per ricordarci che la gioia che prima ci davano non era nostra ma sua.

È un dio che semina semi nei nostri giardini senza dirci di che pianta si tratta:

Un’ansia inattesa sorprende il cuore

e tra pesanti veli lo avvolge.

Un seme è stato piantato

e noi non conosciamo

la pianta che da esso crescerà.

Ma tu signore nostro

fa che essa non effonda

profumi perniciosi sulle nostre terre,

solo da poco dissodate.

E se sarà albero selvaggio,

fa che lo sia solo in attesa di innesti.

È un dio che ci rivela all’improvviso, con nostro grande sgomento, come egli non abita più da tempo le chie­se dove avevamo creduto di trovarlo:

Presso il parco di una chiesa a Lisbona

Tendono le mani all’uscita della chiesa

i poveri. Sperano che lì il cuore un poco

s’apra. Qui a Lisbona, meglio si comprende

il cataclisma che sulle nostre coste s’abbatte,

e quanto fragile il nostro piccolo vascello,

e quanto sia duro in quest’oceano così vasto,

così accigliato, navigare solitari.

Persi sono ormai quei cori dolci

che poco fa le donne intonavano,

qui dove l’Europa lontana e zoppicante

sembra ancora un poco reggere.

Cosa ricostruiremo dopo questa tempesta

così lunga, così amara,

se il vascello sugli scogli non sfracella?

Basteranno i colombi dalle piume bianco-perlacee

che tranquillamente in questo parco romito

colmo d’alberi esotici, da lontane

terre sradicati, passeggiano?

No, non basteranno questi colombi.

Uccelli più esotici scovare dovremo

presso le nostre fresche valli,

presso quel fiume dove allegri,

nelle estati polverose, ci bagnavamo,

quando chiare e dolci erano ancora le acque.

Ricostruiremo lì, all’ombra

d’un fruttifero castagno,

una prima capanna, al dio d’amore sacra.

Lì presso i fiumi nostri attenderemo

che di nuovo tornino ninfe e driadi,

satiri e diane, angeli e cherubini.

Lì attenderemo che il cielo

s’apra di nuovo e lasci vedere,

quando dissolte infine saranno le perfide nebbie,

nuove montagne, cime come puro seno

di neve candide nei giorni tersi d’aprile.

E allora, tra i lenti sentieri,

che le valli numerose attraversano,

con i tafani che presso i ruscelli

senza requie pungolano,

a quelle nostre cime in estate torneremo,

i sentieri riaprendo coperti da fitte macchie

ormai. Di nuovo sogneremo,

nei giorni lieti di festa, pomeriggi

in montagna, con i nostri amici più fidati.

Silenziosi salendo verso quei valloni scuri

che guardavamo fanciulli pieni di meraviglia,

quando nostro padre raccontava

come spesso vicino v’avesse dormito.

Gli uccelli sconosciuti che nel parco

cinguettano, il rumore delle auto,

la gente che passeggia, all’improvviso

ci riporta alle nostre ordinarie voci,

al nostro vuoto pomeriggio.

Forse qui in India ho capito quali siano gli uccelli esotici che dovremo scovare presso le nostre valli. C’è un passo nelle Upanishad che parla di questi uccelli come manifestazione del divino sulla terra, dell’eternità dentro il tempo, e non fuori da esso:

Tu sei l’oscuro uccello blu e il verde pappagallo dagli occhi rossi. Tuo figlio è il lampo. Possiedi le stagioni e i mari. Non avendo inizio tu devi soggiornare nell’immanenza da cui tutte le cose sono nate.

Ma forse già Blake aveva detto la stessa cosa: «L’eter­nità è innamorata dei frutti del tempo».

L’eternità è nella dimensione del qui e dell’ora, ma è estranea al pensiero del tempo, che si muove entro gli opposti temporali. Se non la otteniamo qui dove ci troviamo, non la otterremo in nessun altro luogo.

A Lisbona mi fu chiarissimo in un lampo che era inutile cercare il mio giardino, i miei uccelli, all’interno di quelle chiese.

Fino all’inizio del 1992 andavo regolarmente in chiesa. Quando abitavo in via dei Serpenti, mi piaceva molto andare in una vecchia chiesa, quella della Madonna de’ Monti, costruita alla fine del Cinquecento, piena di belle immagini sacre, anche se non ci sono opere famose. Alla undici, la domenica, c’era una messa con musica d’organo e cori di donne. Per carità, nulla dello splendore che pensavo dovesse avere il rito dell’incontro con Dio. Ma la musica d’organo che seguiva l’eucarestia spesso mi donava una grande gioia.

Quando tornai ad abitare sulla via Cassia, nell’agosto del 1990, frequentavamo una chiesa ricavata da un garage. Questa chiesa mi creava sempre un enorme disagio che non riuscivo a interpretare. Solo più tardi mi resi conto di quanto fosse stretto il rapporto tra arte e religione, e di come tutti noi che andavamo a messa lì l’avessimo dimenticato. Quel luogo era totalmente desacralizzato, rispondeva a esigenze puramente funzionali, come fosse un ufficio moderno. Ma, soprattutto, tutti coloro che la frequentavano avevano dimenticato la cosa più importante: che il sacro non parla le nostre lingue, che le immagini sono uno dei modi che abbiamo per vedere Dio. Non a caso Dio s’era incarnato nel Figlio: perché voleva essere visibile. E pensare che la chiesa cattolica, a partire dal Concilio di Nicea, aveva combattutto una durissima, giusta battaglia, per portare avanti il culto delle immagini! Perché la realtà spirituale è invisibile, ma la si può intuire sia intellettualmente sia attraverso immagini.

La più bella chiesa che abbia mai visto non l’ho trovata in Europa, ma nel mio misterioso Madagascar. È una chiesetta moderna in un quartiere centrale di Antananarivo, l’Église Ambatomilita. È molto piccola, a tre navate con un soffitto in legno. Penso sia stata costruita negli anni Quaranta perché sul soffitto ci sono quattordici dipinti di un certo Ambroise Rakoute, che portano la data del 1947. Quando visitai per la prima volta, in mezzo a un nugolo fastidioso di turisti, la basilica di Assisi, Giotto non riuscì a darmi grandi emozioni, a confronto con quelle che provai alla scoperta della luce, luce vera, di quei dipinti di Rakoute, dove l’innocenza è lontana solo un passo. Dove la devozione mi sembrava la stessa di Giotto.

Ripensavo spesso a quella chiesa, durante le messe sulla via Cassia. Lì, affogato in noiosissime predichette di taglio pratico, oppure quando andava bene, etico – ma del tipo: «Dobbiamo tutti volerci bene» – cominciò a farsi strada in me il pensiero che la Chiesa fosse il nemico del sacro, che la Chiesa ci stesse allontanando dal sacro, dal divino, da Dio. E che la Chiesa cattolica ha voglia di occuparsi ormai solo di problemi sociali ed etici, mettendo da parte il sacro. Io, invece, avrei voluto ascoltare un prete-sciamano, non un prete-funzionario.

Lì a Lisbona si verificò un’improvvisa frattura: capii in un lampo, dopo essere stato a messa, che ormai il cattolicesimo ha a tutti gli effetti abdicato al sacro: non gli interessa più. Ci può parlare di aborto, contraccezione, morale sessuale, scuola pubblica o privata, ma non può offrirci nulla per soddisfare la nostra fame di sacro. Si dedica più volentieri a quelle gigantesche adunate popolari dove si fa la parodia del sacro. A volte ho l’impressione che la Chiesa sia morente. E che abbia bisogno di una continua copertura mediatica, perché sa che è morente e nessuno potrà resuscitarla.

Ma come e dove ricostruire qualcosa dopo? Chi ci insegnerà a dare un senso al dolore, alla morte, alla vita stessa? A educarci all’amore, se all’amore si può educare? La mia poesia provava a dare qualche indicazione sui luoghi presso i quali dovremmo tornare.

Chissà perché, molti dei miei dilemmi spirituali mi si sono chiariti a Lisbona, dove andavo spesso per lavoro. Per anni un pensiero mi aveva assillato. Come si può vivere una vita intensamente spirituale e allo stesso tempo essere terribilmente attratti dai piaceri della carne? C’è un passo di san Paolo che mi si era dolorosamente conficcato nella mente come una lancia: quello in cui dice che i desideri della carne sono contro lo spirito e i desideri dello spirito sono contro la carne27. All’improvviso capii quanto la visione cristiana dell’opposizione tra spirito e materia, tra il dinamismo della vita e la grazia soprannaturale, fosse una castrazione terribile della nostra natura.

C’è autenticità negli impulsi naturali. Al dio non interessa più di tanto la nostra vita sessuale.

Lisbona

Mischiandosi la luce della luna da poco sorta

con quella del sole ormai al tramonto

un mazzo di viole si poneva

al confine dell’orizzonte.

Tollerante è lo spirito

mi dicevi tu allora,

non vuole più espandersi sui terreni

ove la carne regna.

Troppe le battaglie

troppi i feriti

intollerabile l’odore del sangue

basta con la guerra.

Ed ora qui a Lisbona una pace s’è fatta.

Ognuno le sue muraglie costruisca

ai propri confini.

A coltivare campi gialli di grano

vadano gli eserciti

e un posto a Corte

solo ai vecchi soldati sia lasciato

ad imparare maniere più cortesi

con umiltà, con pazienza.

Intanto,

tra i lenti veicoli che il Tago attraversano,

lucenti s’arrampicano le nuvole,

là in lontananza ove l’Oceano s’arancia.

Basta. A domani, spero.

Un abbraccio.

Poona, 3 dicembre 2000

Caro Yuri,

neanche oggi penso di essere in grado di dirti qualcosa della Caduta. Mi sono ficcato in un labirinto e non so come uscirne. Mi sembra di essere Icaro, perso insieme al padre Dedalo nel labirinto di Creta. E ho paura a mettere quelle ali costruite da Dedalo. Come ricorderai, Dedalo costruisce le ali per sé e per Icaro, ma prima di partire ammonisce il figlio di non volare troppo in alto: «Vola a mezza quota. Non volare troppo in alto, altrimenti il sole scioglierà la cera delle tue ali e precipiterai a terra. Non volare troppo in basso, altrimenti le onde del mare ti afferreranno». Ma il figlio, rapito dall’estasi, vola troppo in alto e la cera si scioglie, nell’indifferenza generale di quelli che sono in terra e che continuano tranquillamente a fare il proprio lavoro, come ci viene mostrato nel famoso quadro di Bruegel, uno dei più belli mai dipinti.

Dunque devo continuare a inoltrarmi nel mio labirinto. Oltre alla ricerca del dio-padre, del padre mistico, a un certo punto, come a Telemaco, una dea mi suggerì che dovevo andare alla ricerca anche del mio padre carnale, delle mie origini.

Atena era la protettrice di Ulisse, che non riusciva a tornare a Itaca. Anche perché aveva potenti nemici come Poseidone, a cui aveva accecato il figlio Polifemo. Poseidone regnava sul mare, sollevava le tempeste o le placava, tratteneva o scatenava i venti del cielo. Un giorno che Poseidone era lontano, presso gli Etiopi, Atena andò da Zeus e gli disse: «Caro Zeus, tutti gli eroi della guerra di Troia sono tornati, manca solo Ulisse; sua moglie Penelope e suo figlio Telemaco aspettano ancora che torni. Per favore, fallo tornare». Zeus le rispose: «Lo so che Ulisse non riesce a tornare, ma io non c’entro niente. È colpa di Poseidone, che è ancora arrabbiato con lui. Però adesso Poseidone la deve smettere, mica può continuare a mettersi contro tutti noi!».

Appena avuto l’assenso di Zeus, Atena indossò immediatamente i sandali d’oro e scese di gran carriera a Itaca. Atterrata, per non farsi riconoscere prese le sembianze di Mentore, un mercante di metalli, e si recò nel palazzo di Ulisse. L’atrio del palazzo era pieno di giovinastri arroganti e insolenti, che dalla mattina alla sera non facevano altro che mangiare e ubriacarsi a spese di Telemaco, che sedeva triste in disparte. Non appena Telemaco vide Mentore, si recò da lui e gli disse: «Benvenuto, straniero, siediti e mangia qualcosa, poi mi dirai perché sei venuto qui». Mentre i vitelloni, con la pancia piena e la testa inebriata dal vino, chiedevano a Femio, il cantante, di suonargli qualche aria, Telemaco domandò allo straniero: «Chi sei? Da dove vieni? Per caso nei tuoi viaggi hai incontrato mio padre?».

«Conosco bene la tua famiglia», rispose Mentore, «lo puoi chiedere a tuo nonno Laerte:

mi dicono che non viene in città,

ma lontano, fra i campi, soffre dolori,

con una vecchia serva, che bere e mangiare

gli porta, quando stanchezza le membra gli opprime

a strascinarsi pel dosso del suo colle a vigneti.28

Conoscevo tuo padre, ma da tempo non so più nulla di lui. Comunque, non ti disperare:

non molto tempo lontano dalla sua terra paterna

starà, neppure se ferrea catena lo tiene;

saprà tornare perché è ricco d’ingegno.29

Sono sicuro che tornerà e prenderà a bastonate questi vitelloni che gozzovigliano a tue spese nella tua casa. Ma dimmi, tu sei veramente il figlio di Ulisse?».

E Telemaco rispose: «Mia madre dice così,

ma io non lo so.

Nessuno da solo può sapere il suo seme.

Oh! fossi stato il figlio felice

d’un uomo, che la vecchiezza sopra i suoi beni

raggiunge.

Invece su tutti i mortali fu il più sventurato

colui del quale mi dicono figlio»30.

Ma Atena lo rincuora:

«Ah gli dèi non intendono fare ingloriosa in futuro

la stirpe, se un simile figlio ha generato Penelope.31

Tu, intanto, datti un po’ da fare. Hai vent’anni, mica sei più un ragazzino! Sei bello e aitante. Convoca il popolo e invita questi miserabili a sloggiare dal tuo palazzo. Subito dopo, affitta una nave e recati a Pilo da Nestore e poi col carro da Menelao a Sparta. Loro furono i compagni di tuo padre durante la guerra. Qualcosa te la sapranno dire. Se ti diranno che tuo padre è vivo, attendilo per un anno. Se è morto, torna a casa, celebra i funerali e chiedi a tua madre di sposare qualcuno. Sei bello e forte. Abbi fiducia in te stesso».

E Telemaco: «Straniero, mi hai parlato come un padre. Seguirò il tuo consiglio. Ma tu non partire. Resta ancora un po’. Voglio farti un regalo pari alla bellezza delle parole che mi hai detto».

«No, non ho tempo», fa Atena, «i miei compagni s’innervosiranno se non mi vedono tornare: ci scambieremo i doni al nostro prossimo incontro».

Allora Telemaco riconosce la divinità dello straniero e gli rinascono in cuore il coraggio e l’audacia.

La mia dea Atena, come ti ho detto in uno degli ultimi e-mail, apparve nella forma vegetale di un’araucaria, in una notte da incubo, e mi invitò ad andare alla ricerca di mio padre e delle mie origini e ad abbandonare i falsi sogni che stavo perseguendo. Subito dopo, anche a me tornò in cuore la fiducia in me stesso.

E per anni ho cercato di fare i conti con mio padre e il paese in cui sono nato, paese che tu conosci: sei uno dei pochissimi che ci ho portato. Ho scritto tantissime poesie in cui cercavo di capire cosa fossero per me queste origini. Cosa fosse il mio paese e i paesini che gli stanno attorno. Non era soltanto nostalgia, ma qualcosa di più profondo: dovevo rientrare nelle mie radici.

Una cosa curiosa: quasi sempre in queste poesie appare la chiesa del Crocifisso che sta in alto sulla collina del mio paese, e che ormai non viene quasi più usata. Per uno strano caso, però, quando morì mio padre, poiché la chiesa principale era in restauro, la messa funebre fu celebrata lì. Negli anni in cui ero vissuto in paese non ricordavo nessun funerale celebrato in quella chiesa.

Il mio atteggiamento verso il mio paese era sempre ambivalente. Qualche volta ci tornavo con piacere con i miei figli, e riuscivo a trascorrervi qualche ora serena, come dico in queste due poesie.

È l’ora rara di quiete nostra.

Al vespro rosseggiando, sembra quasi

di maggio il sole che scende tra canti

d’uccelli in quest’inizio d’aprile.

Dentro giulivi giocano i bambini,

mentre il buio tutto avvolge il paese.

Poi lentamente si spengono ad una

ad una le lampade alle finestre.

Una sola resiste in collina

intorno alla chiesa del Crocifisso.

Ecco anche questa è infine spenta.

Di nulla sa il buio che ora avvolge il colle.

Dal balcone della casa di mio padre

Di chi sono questi canti che ascolto

dal balcone della casa paterna,

d’un usignolo, d’un fringuello o forse

d’una prima allodola di primavera?

Mentre nella mattina il sole lento

sale sopra le collinette che nascondono

Matera, questi canti non sono acqua

spumeggiante di verità. Eppure

benedico sempre questa ora, quando

i primi fiori bianchi dei meli,

quelli rosa dei peschi, i germogli

del noce che mio padre piantò

quando io ero ancora un piccolo bimbo,

i rintocchi secchi della campana

del Crocifisso che suona le ore,

come operosi e buoni artigiani

costruiscono una casetta piena

di tepore per un bimbo goloso

ancora di dolci sorsi di miele.

Altre volte provavo un sentimento agro-dolce, come nella prossima poesia, in cui si parla della processione del Lunedì dell’Angelo. In quel giorno, si riporta la statua della Madonna – raffigurata con un pugnale che le trafigge il cuore – dalla chiesa principale, presso il fiume, alla chiesa del Crocifisso. Il venerdì prima del Venerdì Santo si fa invece una processione al contrario: la Madonna viene portata in basso, attraverso le vie del paese, dove vengono allestiti quadri viventi della Via Crucis, mentre le donne cantano struggenti melodie di dolore. Sia la processione della Via Crucis sia quella del Lunedì dell’Angelo erano feste misteriose e eccitanti per noi ragazzini del paese, che spesso partecipavamo anche ai quadri viventi:

Lunedì dellAngelo

Si gira e si chiude un’altra pagina,

una Pasqua con sapore d’autunno,

un sapore dolce e dolente

in questa festa passata al paese:

vedere sulle facce famigliari

la poca bellezza di giovinezza

solcata da trincee cupe e profonde;

e padre Lorenzo che in processione

a fatica saliva gli scalini

verso la chiesa del Crocifisso;

eppure il dolce non è stato poco:

passeggiare con Thomas lungo il fiume,

giocare con Giacomo a tana nell’orto,

godere un po’ di sole alla mattina,

e questo tramonto alla sera,

che sembrano addormentate in cielo

le piccole nuvolette rosate

che aliano sopra i Monti della Laga.

Altre volte sentivo un distacco siderale da quel paesino:

Perché in questo giorno di settembre

l’esile fumo che s’alza da un vecchio

comignolo al di là del fiume Tronto

– come guardie malvagie al loro fianco

s’ergono i nuovi di vile cemento –

il suono delle ore dalla chiesa

del Crocifisso, il brontolio dell’acqua

vicino all’orto qui sotto alla casa

e il noce maturo e il salice

e le cime dei Monti della Laga

lassù lontani oltre la Noce Andreana

non mi sembrano più gli amici cari

di sempre, i volti familiari a cui

mai dovrebbe spiacere un ritorno, perché?

Negli anni Sessanta, quelli della mia infanzia e adolescenza, il paese era popolato da tantissimi ragazzini. Dopo la guerra c’era stata un’esplosione delle nascite ed eravamo in tanti. Il fiume era il centro della nostra attività, soprattutto d’estate.

C’erano alcune attività e alcuni personaggi che hanno ormai valore di mito nella mia memoria. Ad esempio, un’estate uno strano tizio apparve in paese: il gamberaro. Non si sapeva da dove venisse, forse da Amatrice. Passava il giorno davanti all’osteria di Zelinda a bere vino. Aveva delle strane turbe. Ogni tanto cominciava a parlare da solo. Per noi ragazzi ovviamente era un gran godimento starlo ad ascoltare e prenderlo in giro. Ma era un pazzo mite e simpatico, che ci insegnò una cosa a cui non avevamo mai pensato prima: la pesca notturna dei gamberi. Perché, non appena annottava, scendeva al fiume e si metteva a catturare i gamberi d’acqua dolce di cui allora il fiume Tronto era pieno. Noi non sapevamo nemmeno che i gamberi, che di giorno qualche volta intravedevamo rapidamente sculettare per nascondersi sotto un sasso, uscissero dai loro nascondigli di notte.

Con nostra grande meraviglia scoprimmo che eserciti, orde, nazioni di gamberi popolavano il fiume di notte. Imparammo anche le tecniche per catturarli. Dove l’acqua era bassa, non oltre il ginocchio, con delle lampadine tascabili ci avvicinavamo ai gamberi da dietro. Quando il gambero si rendeva conto della luce si preparava a fuggire, sempre allo stesso modo, cioè con uno scatto all’indietro. Per catturarlo bastava avvicinarsi tenendo una mano dietro di lui, ma bisognava anche evitare qualche dolorosa puntura, perché il gambero provava sempre a difendersi con le sue forti tenaglie. Al mattino poi passava uno strano omino con un’Ape a tre ruote che comprava i gamberi.

Il risultato di questa scoperta fu che, di notte, il fiume Tronto cominciò a popolarsi di coppie di ragazzini (sì, perché si andava a pesca a coppie: c’era anche da portare il secchio con l’acqua dove si mettevano i gamberi, perché l’omino li comprava solo vivi) che esploravano ogni possibile angolo del fiume per una lunghezza di due o tre chilometri. Imparammo a conoscere perfettamente il fiume anche di notte. Ogni sasso, la profondità dell’acqua in ogni punto, dove si rischiava di scivolare finendo così nell’acqua alta. Il mio compagno di pesca si chiamava Luciano. L’ho rivisto per caso un paio d’anni fa a Posta ridotto in condizioni pietose: alcolizzato, sembrava un vecchio.

Scendevamo al fiume verso le nove e tornavamo verso mezzanotte. Io e Luciano diventammo presto una delle più abili coppie di pescatori, anche se rispetto al pazzo, che restava al fiume fino alle due, le tre di notte, il nostro bottino era misero. Che grande soddisfazione il giorno dopo, quando passava l’omino, vendere i gamberi che avevamo pescato e incassare due, tremila lire. Ma, ahimè, qualcuno s’accorse presto della nostra abilità. E un bel mattino scoprimmo che i risultati della nostra fatica s’erano volatilizzati. Infatti i gamberi, per venderli belli freschi al­l’omino che passava, bisognava tenerli in un sacco nella corrente del fiume. Qualcuno – non si scoprì mai chi – ebbe la bella idea di compensare gli scarsi risultati della sua pesca con i nostri.

Un giorno, all’improvviso, il pazzo sparì e sparì pure l’omino con l’Ape. Finì così com’era cominciata, senza ragioni e senza precisi motivi, la moda delle serate al fiume a pescare gamberi, moda di una sola estate.

A nessun ragazzino sarà mai più dato di giocare, in una calda sera d’estate, alla pesca dei gamberi, perché qualche anno dopo i gamberi scomparirono del tutto dal fiume, non si sa bene per quale causa. Chi dice per inquinamento da detersivi, chi per gli scarichi della fabbrichetta di gelatina costruita con i soldi della Cassa per il Mezzogiorno vicino al fiume sopra Arquata del Tronto (fabbrichetta che, per la cronaca, funzionò per soli due o tre anni).

Poi c’erano i paesini intorno al paese, alcuni popolati da non più di due, tre famiglie. Ce n’è uno, Morrice, dove già ai miei tempi abitava solo una famiglia più una vecchietta sola, Pierina, che noi pensavamo fosse una strega. Mi piaceva molto salire a piedi verso quel paesino, soprattutto nelle belle giornate di primavera. Un giorno ci tornai per una passeggiata con i miei figli. E mi colpì una cosa che non avevo quasi notato, da ragazzino. Sulla strada che sale verso Morrice c’era il vecchio cimitero del paese, abbandonato al­l’inizio del Novecento. Scrissi allora questa poesia:

Ed ora sulla strada che al montano

abbandonato borgo di Morrice

sale, dove poche case diroccate

sono stese in silenzio,

solo vive di gatti nelle torride

ore d’estate, il vecchio cimitero

tra nodi inestricabili di rovi

m’appare a fianco del sentiero.

Solo poche croci di ferro

arrugginite e senza nome.

Quanti secoli di vita paesana,

e quanti volti, quanti nomi, tutti

per sempre ormai dimenticati.

Su pochi palmi di terra, le vite

di secoli! O atomi persi, sangue

di mio sangue, chi è che mi spinge a voi?

Perché tra queste fratte sono sceso,

in questo giorno pieno di sole?

Per cominciare a meglio comprendere?

O per un primo abbraccio, una carezza?

E poi c’era mia madre. Morta nel 1982, quando mio figlio Tom aveva pochi mesi. Mia madre gestiva il negozietto di alimentari del paese. Dieci anni dopo la sua morte, il giorno del suo compleanno, mi tornò in mente la sua ultima immagine serena prima della malattia che in pochi mesi l’avrebbe portata alla tomba:

E infine cara madre ti rivedo.

Era l’ultima estate della tua vita.

Davanti al negozietto con le amiche

sedevi – c’erano, ricordo, comare

Maria, zia Rosa, zia Elena, ed altre

senza più volto ormai. Era ferragosto,

la festa più amata dai bimbi al paese,

ma quel giorno dal vecchio ponte

solo con i miei pensieri e assorto

tornavo. Stanco al tuo fianco sedei.

Dietro lo Scalandro tranquillo il sole

calava. Ed oggi è il mio quarantesimo

compleanno. E come allora fredda è l’aria,

e coperte di neve le nostre montagne,

quando tu un mio primo vagito ascoltasti.

Il desiderio di rivedere i propri cari scomparsi è inestirpabile ancora oggi, come lo era ai tempi di Ome­ro. Mi tornavano alla memoria le parole di Anticlea quando vede il figlio Ulisse nell’Ade:

Creatura mia, come venisti sotto l’ombra nebbiosa

vivo? Tremendo ai vivi veder queste cose!

In mezzo gran fiumi e terribili gorghi,

l’Oceano prima di tutto, che non può traversare

a piedi chi non ha solida nave.32

E io pensavo terrorizzato alla mia «picciolissima barca, aperta ai più improvvisi naufragi».

Una volta mi apparve in sogno Omero, nelle fattezze di un vecchio patriarca. Io sedevo incantato ai suoi piedi, ascoltando le sue storie. E nel sogno pensai follemente che un giorno avrei potuto scrivere qualcosa di simile all’Odissea, prendendo pezzi dalle fonti più svariate e cucendoli insieme, prendendo da altri tutto quello che mi avrebbe fatto comodo per raccontare le mie idee, come aveva fatto Omero. Scrivere il poema di chiusura di un’epoca, come lui raccontò la chiusura di una lunga epoca per noi oscura, quello che fu il medioevo greco. Come Dante scrisse la Divina Commedia e chiuse l’altro medioevo. Come Apuleio che – con un meraviglioso pastiche, preso dalle più svariate fonti, con toni che vanno dal lirico più alto al volgare più basso – chiuse l’epoca romana. Come Keats, che chiude per sempre il sogno di una poesia romantica quando scrive Allautunno. E d’altra parte cosa si può fare, oggi, se non rivolgerci all’autunno? A scuola ci dicevano che l’Iliade è il poema dell’ardimento giovanile e l’Odissea quello della riflessione matura, del tramonto dell’età eroica.

Ti trascrivo la poesia che parla di questo sogno:

Entro le mura buie e polverose

della casa del tempo,

alla luce umile di una candela,

racconta storie a biondi fanciulli

un vecchio patriarca.

Sembrano parole dal suono d’oro,

che i loro cuori rallegrano.

Fuori la notte già sulle montagne

sprofonda e corre un vento doloroso

lungo i crinali ove battono al suolo

gli zoccoli violenti dei cavalli.

Appaiono sinistre nella piana

odorosa mani forti e violente.

E mentre ancora grave e lenta

mi sembra di udire la voce del patriarca,

nell’arida stanza sempre più infittisce

il rumore delle automobili

giù nella strada.

Negli anni Ottanta leggevo spesso i poeti romantici inglesi e tedeschi che volevano riportare in vita la poesia greca. Avevo capito poche semplici cose. La poesia per i greci aveva tre compiti: la celebrazione degli dèi, la celebrazione degli eroi e la celebrazione dei riti. Della prima ti ho già parlato a lungo, e tante cose ancora avrei da dirti. Ma chi sono i nostri eroi? Quegli eroi a cui i greci accordavano o rifiutavano memoria? Che non sarebbero mai esistiti se i poeti non gli avessero accordato l’elogio, come dice Pindaro:

Respingendo Biasimo tenebroso, come un’onda benevola porterò a un amico la vera lode della sua Gloria.

Quali erano i nostri eroi da strappare alla potenza della morte per consegnarli alla memoria e avvolgerli così di vita immortale?

Gli unici eroi che a me venivano in mente erano figure umilissime, come mio cugino Quinto, che mi aveva colpito per il suo eccesso di generosità, e i montanari di Peracchia per la loro incredibile tenacia nell’affrontare le difficoltà. Erano questi l’equivalente del porcaio Eumeo, che Omero celebra al pari del re Ulisse.

Come una barca cullata dalle onde

s’affaccia timida alla memoria un’immagine,

il mulino nel vecchio palazzo degli Orsini,

là di fronte alla nostra casa.

Agli imbuti polverosi di farina

rivedo affaticarsi un uomo a me molto caro,

il troppo generoso Orsini Quinto,

cugino di secondo grado.

È lì un bimbo curioso che guarda.

Ma si rivela imprendibile

quest’ombra nella memoria.

Del passaggio dei nostri più cari istanti

solo immaginarla possiamo

la loro ardente dolcezza.

La prima volta che venisti al paese ti portai subito a Peracchia, attraverso la vecchia mulattiera. Eri esausto. Ricordo che non ce la facevi a tornare a piedi e chiamammo mio fratello perché ci venisse a prendere in macchina.

Peracchia è un paesino a circa tre ore di mulattiera dal paese. Conoscevo i suoi abitanti perché venivano a fare compere in paese, ma da ragazzino non c’ero mai stato, non prima dei quattordici o quindici anni, quan­do costruirono una carrozzabile. Tante volte avrei voluto andarci. Mi sembrava un’avventura meravigliosa arrivare in quel paesino remoto, i cui abitanti tanto spesso incontravo nel nostro negozio.

Peracchia

Come le primule, come le viole

che in questo grigio giorno d’aprile

incontro, ad un remoto villaggio

salendo, sbocciano ai primi tepori

d’una salita memorie antiche.

Il sentiero che a questo villaggio porta

sognai di salire un giorno,

mentre a Novele dov’esso inizia

con altri scolari giocavo.

Spesso i ruvidi, bruschi montanari

del villaggio, a valle scesi,

nella nostra bottega incontravo,

dove mia madre con modi gentili

li serviva. Poi, carichi come asini,

li vedevo ognuno in su tornarsene.

Più tardi adolescente al montanaro

villaggio spesso per una sconnessa

polverosa carrozzabile salii,

eco leggera di ricchezze altrove

accumulate. E conobbi i generosi

occhi dei suoi vecchi e le case umide e buie.

Ma oggi che per la prima volta salgo

per la vecchia sognata mulattiera,

quando infine la prima casa vidi,

non era questo il palpito – o cuore

come sei stanco ormai – che m’aspettavo.

Ma il cielo è scuro e minaccia pioggia ora.

Novele, di cui si parla nella poesia, è un altro piccolissimo borgo a circa mezz’ora di mulattiera dal mio paese. Lì invece ci salivo spesso, non solo con la scuola, come nella poesia, ma soprattutto durante la festa del santo patrono.

Il mio paese mi tornava in mente spesso anche men­tre ero a Roma, soprattutto a maggio, ripensando ai mesi di maggio trascorsi lì, quando dopo la funzione mariana in chiesa ci ritrovavamo tutti a giocare nella piazzetta.

O sere sere mie di maggio ormai

di voi io quasi mi vergogno, andate,

andate via, il vostro ricordo è

un vano lungo inutile tormento.

Ma ecco ancora una volta io cedo al dolce

girotondo di bimbi che insieme

ai grandi come grandi giocano,

e ad una sera, una delle più belle

tra le tante leggiadre amene sere,

che dalla chiesa appena appena usciti

nella piazzetta a moscacieca si giocava;

era da poco sceso il sole là

dietro la Macera della Morte,

e infinita era la sera infinita

la notte.

Qualche volta però pensare ai maggi trascorsi mi metteva un’improvvisa tristezza:

Un improvviso, inatteso annebbiarsi

– oh come veloce scende la nebbia

sui nostri monti – un’ora a lungo sognata

ha rubato alla nostra sera:

sederci lieti sull’ampio terrazzo,

e intorno i nostri bimbi che giocano,

un libro che ci innamora,

mentre lento d’intorno imbrunisce

e trascolora un giorno di maggio.

E poi quando infine la sera scende

e nell’aria svolazzano di già

i primi pipistrelli

ricordare un’altra sera di maggio;

fuori sui lisi sedili di marmo

o su sedie di legno

siedono le donne a pettegolare

e nella piazzetta dopo il vespro

a moscacieca giocano i bimbi del paese.

Di una cosa sono sicuro. Se mai dovessi pubblicare un mio libro, in copertina metterei sicuramente quel quadro del mio paese dipinto da te che ho sempre tenuto dietro la mia scrivania

Come vedi, sono rimasto molto lontano dalla Caduta.

A domani.

Poona, 4 dicembre 2000

Caro Yuri,

alla Caduta ci sto arrivando. Abbi pazienza. Prima ti devo parlare della mia famiglia, non la famiglia d’origine, ma quella che ho costruito io. Come sai, molte delle cose che ho scritto parlano di loro. E tra queste c’è forse la più bella, che altri – non io – ha intitolato Elegia. È una delle poche che ho fatto leggere a qualcuno che non sia tu, ed è sempre piaciuta a tutti:

Elegia

Una quiete forse scenderà un giorno

sulle spalle nostre, povere e curve

ormai sotto il peso di anni

che come fascine spigolose peseranno.

I bimbi che ora giocano, e a volte

irritano, nei corridoi lunghi della casa,

non saranno più ulteriori stanchezze

e rassegnati strilli di richiamo;

muoveranno i loro passi

– loro ormai così lontani, così adulti –

nelle nostre riviere di memorie colme,

palme mosse da un vento ora gentile,

ora pieno di rimpianto. Più lieti

d’ora forse saremo, meno spaventati

da questo lungo rosario d’anni

che ancora ci attende, meno ansiosi

quando la vita, piuma lieve ormai

in attesa dell’ultimo vento, più nulla

promette, solo spera in uno sguardo

che aiuti, nell’attimo in cui stanchi

ci si addormenta. Finiti per sempre

allora saranno quei tuoi strilli

acuti di rimprovero che foravano

poco fa il bianco di questa mattina di novembre.

Penso che inconsciamente cercassi di imitare una poesia di Keats, che trovavo bellissima e che ho anche tradotto:

Ai miei fratelli

Piccole fiamme indaffarate giocano

tra i carboni appena messi sul fuoco

e il loro fioco crepitio s’insinua

sopra il nostro silenzio, come fosse

il bisbiglio di lari che mantengono

un impero gentile sopra anime fraterne.

E mentre in cerca di rime io percorro

il mondo intero, i vostri occhi si fissano

come in sonno poetico sulle storie

così profonde e così ispirate

che al calar della notte i nostri affanni

consolano. Oggi è il tuo compleanno Tom

e io sono contento che così passi

quieto e tranquillo. E voglia il destino

che tante altre serate come questa,

piene di dolci e lievi mormorii,

noi possiamo passare e così intanto

assaporare calmi quali siano

le vere gioie di questo nostro mondo,

prima che la gran voce dal suo volto

chiaro ai nostri spiriti comandi

di prendere il gran volo.33

Ogni volta che la rileggevo questa poesia mi commuoveva. Perché il destino aveva negato ai fratelli quella semplice richiesta: strappare qualche ora di quiete e tranquillità agli affanni di tutti i giorni. Tom morì uno o due anni dopo che Keats l’aveva scritta.

Mi terrorizzava il pensiero, banale quanto vuoi, che le cose passano, i fiori appassiscono, i capelli diventano grigi, gli uomini muoiono. E che anche quei pochi istanti di serenità che il destino ci concede possano, all’improvviso, com’era successo a Keats, non appartenere più a una vita:

Umidi gli occhi al nero pensiero

di lenta crescita dei visi cari.

Umili al pensiero che mai più

su questi pendii di neve candidi

come ieri gaiamente giocheranno

ora per mano tenendosi lieti

sotto gli sguardi dei nostri occhi attenti

ora colti da improvvisa ira o pianto.

E poi c’erano strani accadimenti misteriosi e meravigliosi che temevo potessero un giorno svanire dalla mia mente e da quella dei miei figli:

Sulla cima di monte Pizzuto

silenziosi il tramonto ammiriamo,

Thomas ed io. Di fronte,

come sirena su uno scoglio,

siede il monte Soratte, avvolto nella nebbia.

Come lama sottile di spada,

sotto di noi il Tevere luccica.

Più lontano, ombre viola,

avvolgono già il monte Gennaro.

Tra i fumi d’autunno, che s’alzano

celesti, lenti alla luce sempre più fioca,

muoiono i paesi della Sabina.

Scendiamo poi veloci dal boschetto,

seguendo il sentiero segnato.

Ma più giù, nella macchia fitta fitta,

non c’è più luce. Ma il nostro unico cane,

lupetto, ci raggiunge, e diligente,

avanti e indietro, corre ad indicarci

la via smarrita. Quando per l’ultima volta torna,

giù in basso la voce di Giacomo,

sentiamo già allegra.

Quasi completo è il buio oramai,

quando di gioia raggiante,

al mio collo Giacomo s’avviticchia.

Non so perché questo tramonto,

cari bimbi, vi racconto. Illusione

mai stanca credere mi fa che,

quando i primi capelli bianchi

sulle vostre tempie appariranno

crudeli, queste parole per voi

fonte breve di felicità saranno.

Ciao, a domani.

Poona, 5 dicembre 2000

Caro Yuri,

ti ricordi l’estate del 1992 quando tu, Euphrosyne e Daria veniste a trovarci in montagna? La notte di san Lorenzo andammo in una lontana radura all’interno di una faggeta a guardare le stelle cadenti. Accendemmo un grande fuoco e giocammo a lungo a nascondino con i bimbi, in un buio fitto e pauroso. Penso che Daria avesse circa un anno, poco più di Francesco, che era nato il 20 gennaio di quell’anno. Tom aveva dieci anni, Giacomo sette.

Quell’estate scrissi una curiosa poesiola che non avevo mai compreso a fondo, ma il cui significato adesso mi sembra evidente:

Rubiamo con la scusa,

comoda a dire il vero,

che quello di cui ci serviamo

non ha valore alcuno

là dove si trova,

ma diventa oro fino

là dove lo mettiamo noi.

Quell’estate lessi moltissimo Montaigne. (L’altro autore di quei mesi fu Machado). Avevo portato con me la piccola edizione Adelphi che avevo comprato dopo aver letto un articolo di Pietro Citati. Ma era una piccola scelta, lo finii d’un fiato. Scesi a Roma appositamente per comprare i due volumi dei Saggi in versione completa.

Tutti i giorni partivo per andare al mio tempietto montano. Quella collinetta dove s’apre un vasto panorama, e dove sotto un faggio ho creato un mio spazio quasi sacro.

Ci torno sempre quando vado a passare qualche giorno sui monti Simbruini. Gli ho anche dedicato una poesia:

Come sono cari questi sentieri

solitari dove cresce per me

un’erba profumata di quiete

pace e silenzio e il vento parla

alle mie orecchie stanche di parole

e il paesaggio così ricco di verde

di faggi e raro, solo nei miei occhi

vive, e non in quelli dei popolani

di Roma qui in vacanza, di grigliate

sazi, o dei ricchi borghesi cui piace

ostentare altre miserie.

E ora sotto il faggio dove sempre

siedo in compagnia di bianche farfalle

il vento agita appena i filiformi steli d’erba gialli.

Ero affascinato da Montaigne. Da quei pensieri nati da «un umore malinconico, prodotto dalla tristezza e dalla solitudine». Dalle sue piccole evidenti menzogne, i suoi giochi ironici e autoironici, le sue scenette teatrali. Mi piaceva la sua figura di divino dilettante. Anche a me sembrava che le mie non fossero altro che le «fantasticherie di un uomo che delle scienze ha assaggiato solo la crosta esteriore, nella sua infanzia, e ne ha ritenuto soltanto un’immagine generica e informe».

Montaigne mi diceva che, per quelli come noi, la verità non è in cima a una montagna, ma in una pianura fertile e fiorente, dove arriviamo «per strade ombrose, erbose e dolcemente fiorite, agevolmente e per un pendio facile e liscio». Come appunto i sentieri dove passeggiavo io ogni giorno.

In quell’anno, in cui le paure, i timori sul futuro si affollavano sempre più – ora che Nosy Be sembrava sempre più lontana – ero io, e non Montaigne, a dire:

Io che mi spio più da vicino, che ho gli occhi incessantemente tesi su me stesso [...] a malapena oserei dire la vanità e la debolezza che trovo in me. Ho il piede così instabile e malsicuro, lo trovo così facile a crollare e così pronto a vacillare, e la mia vista così sregolata, che a digiuno mi sento tutt’altro che dopo il pasto; se la salute mi ride e la serenità di una bella giornata, eccomi amabile: se ho un callo che mi fa dolere l’alluce, eccomi corrucciato, stizzoso e intrattabile [...]. Ora mi va di far tutto, ora niente; quello che mi fa piacere questo momento, talvolta mi sarà penoso.

E poi:

Le api saccheggiano fiori qua e là, ma poi ne fanno il miele che è tutto loro; non è più timo né maggiorana.

Fosse solo per questa frasetta, valeva la pena passare l’estate a leggere Montaigne. Perché è lì che ho capito una cosa importante. Se c’è una lacuna che io non sono in grado di colmare, se non sono capace di esprimere qualcosa con le mie parole, perché non prenderle a prestito da chi è riuscito a farlo? (C’è addirittura una poesia in cui cito direttamente un’intera strofa da Derek Walcott)34.

Per anni anch’io ho fatto come Montaigne. Quando non mi sembrava di essere in grado di produrre pensieri o versi, li ho rubati qui e là. Ho riempito decine di quaderni di frasi di altri. E un giorno, per completare quell’arazzo di cui ti ho parlato, mi piacerebbe andare a riordinarle, quelle frasi. E farci entrare le mie. Fino a farne un’opera solo e totalmente mia.

Poi successivamente ho scoperto che Montaigne non era stato il primo a pensare rubando le parole degli altri. Che cosa aveva fatto Apuleio se non copiare abbondantemente? LAsino doro è un plagio. La trama è presa pari pari da due libri molto conosciuti al suo tempo: Lasino di Lucio di Patre (un testo perso) e Lucio ovvero lasino di Luciano di Samosata (neanche di questo abbiamo l’originale, ma solo un plagio). Luciano e Apuleio tra l’altro erano contemporanei. Apuleio non fa altro che prendere pezzi in prestito e trasformarli, piegarli ai suoi bisogni narrativi. Non per niente il libro ha anche il nome di Metamorfosi. Si potrebbe addirittura sostenere che Apuleio non sia che un plagiario, un intarsiatore di cose altrui.

Da un materiale da film di Tinto Brass Apuleio crea però un capolavoro, e per di più uno dei testi mistici più importanti della letteratura occidentale.

E come scrive l’Apocalisse l’apostolo Giovanni? Come spiega lui stesso in un versetto famoso, rubato anch’esso da un altro testo, ingoiando dei libri, la cui carta penetra nelle sue viscere35: l’Esodo, Isaia, Ezechiele, Daniele, Zaccaria, Gioele. Non ci avevo mai pensato ma le sue figure somigliano ai collage di quella tua amica russa, Lada: composte da particolari strappati a fonti diverse, accostati e intarsiati.

Da Montaigne ho imparato anche un’altra cosa. La bellezza della vaghezza.

Fra le cento membra e le cento facce che ha ogni cosa, io ne prendo una, ora per lambirla soltanto, ora per sfiorarla, ora per penetrarla fino all’osso.

Ora sfoglio un libro, ora un altro, senza ordine e senza disegno, come capita; ora fantastico, ora annoto e detto, passeggiando...

Anche per oggi mi fermo. Un abbraccio.

Poona, 6 dicembre 2000

Caro Yuri,

l’unico scopo che mi ero dato, quando avevo cominciato a scrivere queste lettere, era quello di spiegarti come fosse inutile all’uomo d’oggi la poesia. Ma per motivi che non ho ancora capito non riesco ad affrontare l’argomento. È come se avessi una ferita. La ferita della mia passione e dell’angoscia che ancora provo per averla amata troppo. L’angoscia d’amore dei trovatori provenzali.

A proposito di amore, qualche mese fa mi è successa una cosa strana. Accennavo ieri alla la tua amica Lada: come sai nel dicembre 1993, poco prima di separarmi di nuovo da K., ebbi con lei una brevissima relazione. Una volta la accompagnai a Palermo per una mostra di quei suoi collage che tu tanto detestavi. E lì le regalai una poesia, insieme a una traduzione del famoso passo di san Paolo sull’amore, traduzione che avevo fatto di corsa dall’inglese, da una Bibbia che avevo trovato all’hotel Politeama.

Se anche io parlassi

la lingua degli angeli

ma non avessi l’amore

cosa sarei io,

un bronzo stonato e risonante.

E anche se avessi

il dono della profezia

e conoscessi tutti i misteri

e avessi il dono di una fede

tale da rimuovere montagne,

cosa sarei senza l’amore,

niente sarei.

E anche se io donassi

tutte le mie ricchezze ai poveri

e dessi il mio corpo da bruciare,

a nulla questo servirebbe

se non avessi l’amore.

L’amore soffre a lungo,

è gentile, non ha invidia,

l’amore non si vanta di sé stesso

non si fa provocare facilmente

non pensa mai al male.

L’amore gioisce della verità,

non dell’iniquità,

la profezia può anche sbagliare,

la conoscenza svanire,

ma l’amore no,

l’amore non sbaglia mai.

Quando io ero un bimbo,

parlavo come un bimbo,

capivo come un bimbo,

pensavo come un bimbo,

ma ora che sono diventato grande,

ho messo le cose infantili da parte.

E dunque abbiate fede,

speranza, amore, ma

ricordatevi che delle tre,

l’ultima è quella che più vale.36

La poesia che accompagnava questa traduzione, l’avevo completamente dimenticata. Pochi mesi fa, La­da me l’ha rispedita con una sua lettera sul retro, in cui si scusava per non avermi salutato l’ultima volta che ci eravamo visti nei pressi di piazza Navona (c’eri anche tu, ricordi?, stavamo andando a comprare alcune videocassette in un negozio lì vicino).

Oh come forte brucia il desiderio

di te stasera, amore caro. No,

non sarà quello che spesso si teme

quando a fatica s’avanza in valli

folte d’intricati arbusti, con serpi

che al suolo strisciano viscide. No,

tu resterai qui a me vicino e tutti

vedranno questa luce e quella tenue

ma perenne che sempre al nostro fianco

rinasce, illusione che come rossa

brace i nostri desideri arroventa,

ferocemente le mani scottando

a volte e il cuore l’anima la mente,

gelido pensiero che anche ora ci attraversa.

Ma di che amore parlavo? Non certo l’amore per Lada. E neanche di Eros, di quell’Eros che è bisogno fisiologico, reciproca attrazione dei corpi, che tanta forza ha preso nella mia vita.

Di quale amore allora? Evidentemente quello di san Paolo, l’agape. Un amore che non è passione ma agisce, perché è intenzione. Quell’agape che ci intima di amare il prossimo tuo come te stesso, quell’amore che è un cuore che si apre al prossimo. E chi sia il prossimo non ha importanza. D’altra parte il serpente è il simbolo della tentazione, della schiavitù alla terra, colui che ci allontana da amore. Ma c’era anche l’idea che se Dio è amore, allora l’amore è Dio.

Nel 1990 ero tornato a casa, avevo ricominciato ad andare regolarmente a messa, ma, col passare dei mesi, la mia mente s’intorpidiva sempre più. Se l’amore di Nosy Be, quello assoluto, forse non l’avrei più rivisto (e così poi è stato) – se non nella vita eterna alla fine dei tempi, come mi veniva ripetuto in chiesa – allora avrei almeno dovuto coltivare l’unico amore che ci è dato in questo nostro tempo imperfetto, il semplice amore umano, quello di san Paolo. Però qualcosa non andava. Un’antica malinconia si stava di nuovo impadronendo della mia anima.

Aspettavamo un terzo figlio. Ma i rapporti tra me e mia moglie si stavano nuovamente deteriorando. Ci fu un momento molto bello poco prima della nascita di Francesco. Soprattutto il Natale del 1991, che passammo in montagna, nella nostra casetta sui monti Simbruini, insieme a Rico, il fratello di K., sua moglie e il loro figlio Demian.

Ho un bel ricordo di quei giorni:

Qui ove or sono due giorni ebbri giocavano

Thomas, Giacomo e il cuginetto Demian

seduto presso il fuoco lietamente

acceso guardo sereno la valle.

E penso a questo fuoco ora riacceso,

a questo amore ormai adolescente

che forte cresce di muscoli e mente

ora che sui capricci un vento è sceso.

A te che questo hai voluto grazie,

grazie di tutto cuore, te che sei

oro fino e lucente te che sei

giaciglio di mirra profumato,

cerva amabile, gazzella preziosa,

bianco velo da fango mai imbrattato.

Ma già a metà del 1992, quando tu e Euphrosyne veniste a trovarci ad agosto in montagna, le cose si stavano mettendo male. Mi sembrava di essere tornato ai tempi del 1987-1988, prima della nostra separazione. Avevo l’impressione di vivere in un film di Bergman. Il matrimonio era in crisi. L’incomunicabilità, il mancato amore, la fragilità dei sentimenti, l’inevitabile mia infedeltà. Fare un compromesso per quieto vivere e per i bambini? Ma che cosa avremmo potuto offrirgli? Un matrimonio che si sarebbe trascinato in una grigia vecchiaia? E dell’aspirazione all’autenticità che cosa sarebbe restato?

Quello di cui avevo più paura era proprio di diventare una maschera. Di apparire più che essere. La fragilità, la falsità, la miseria spirituale. E dietro la maschera il buio e il vuoto.

S’avvicina mezzanotte perfida

quando insopportabili le maschere

diventano. Uno scroscio s’ode fuori

della finestra, fiochi rumori

dalle case vicine.

Un vecchio cimitero abbandonato

diventa l’anima, quando non si ama.

Ammasso informe di lamiere contorte;

e come da sorgenti d’acqua sulfurea

dolore ne sgorga maleodorante

Temevo di diventare come uno dei tanti ipocriti che incontravo tutti i giorni:

Mentire a te stesso

su te stesso.

Se questo è il tuo peccato

più grande, ma cosa può esserci di più maledetto.

Eppure nelle poesie del ’92 e del ’93, quasi tutte scritte a Campaegli, ritornava ossessivamente un pensiero d’amore. Alcune te ne ho già mandate, ma ce ne sono tante altre. Il pensiero ricorrente era sempre quello di un amore che si allontana, che svanisce. Tutto quello su cui avevo costruito la mia vita in quegli anni mi sembrava una pura illusione, quell’illusione che «come rossa brace i nostri pensieri arroventa, ferocemente scottando».

Con altra voce, con altro sguardo

a te tornerò forse un giorno amore,

amore caro, ma ora

là dietro l’angolo sono le tenebre

che s’avvicinano minacciose

ad assediare la mia mente, e solo

un fioco lume intravedo lassù

sopra una collina e non so neanche

dov’io vada, se vers’esso oppure

sempre più lontano.

C’è un’altra poesia in particolare che spiega bene in quale tunnel mi fossi infilato:

6 gennaio 1993

Sono stanco di parole,

le parole che non salvano,

le parole che debbono anche

essere crude, se vogliono essere

vere, le parole che, come foglie

in autunno, possono staccarsi

solo quando la carne è ravvolta in bende.

Dopo tanti giorni passati a capo

chino su libri che spesso sanguinano

solo dolore, passeggio il mio solito

sentiero sotto un limpido cielo.

Dove mai condurranno

le impronte di animali così nitide

sulla neve che secca si sfarina

sotto i miei piedi?

O povero cuore, è tutta la vita

che con ardore cerchi un sentiero,

l’unico sentiero, quello che porta

alla felice radura. E cos’altro

mio cuore avresti dovuto cercare!

Ma più il pensiero si tende, come arco

teso pronto allo scocco,

o fruga, più mi raggiunge un sottile

malessere, che aumenta impercettibile

giorno dopo giorno la mia infelicità.

Non diversi dalla mia vita

sono i sentieri d’orme

che nel bosco si perdono.

Al risveglio questa mattina i bimbi

hanno cantato happy birthday

nella mia camera da letto. Ma

il cuore non s’era svegliato pronto.

Neanche durante la notte il pensiero

di questo nostro essere insieme al mondo,

dell’altro, dell’amore, aveva dato

tregua. Ma questo pensiero cos’è

che ora si forma e si scrive?

Raggiungerà mai quel limite dove

l’universo curva per affacciarsi

al vero essere, al gesto d’amore?

O è questo sgraziato scrivere, questa

mente che sempre più si stanca, il tutto?

Qui ove ora sono giunto, è immacolata

ancora la neve e sotto il suo peso

s’incurvano i rami dei faggi teneri

e sento che incurvano anche questi versi

che vorrebbero essere un inno ma sgorgano

quasi sempre elegia.

Già, perché questo piano sentiero

già tante volte l’ho io percorso, e questa

neve immacolata già tante volte

l’ho calpestata solo,

senz’altra immagine vivente agli occhi

che il volo d’un uccello,

e a volte pieno di speranza che

solo non fossi con i miei pensieri

ma che là, oltre la prossima svolta

del sentiero nevoso nel bosco,

apparisse la possibilità

d’un lieto, vero incontro.

Perché neanche degli animali

le cui orme numerose qui s’incrociano

i nostri occhi di carne hanno avuto

visione, eppure la certezza c’è

d’un covo tra le rocce.

E salgo lento

mentre mi raggiunge una voce

in un sonoro sibilo di vento:

«Salirai sempre egualmente

questo sentiero? Oppure amando infine

con costanza, trovando mille nuove

ragioni per aver fede, con cuore

e mente diversi salirai un giorno?

Lo scriverai allora un inno, un inno

che sia anche omaggio (o forse furto) al libro

dove ora stai scrivendo?».

«Verrà, verrà un tempo quando te stesso

con esultanza saluterai infine

giunto alla sua porta, al suo specchio e tutti

e due sorriderete allora dandovi

il benvenuto. E lui questo dirà:

siediti qui e mangia; ama il fanciullo

che io ero nel tuo cuore,

rendimelo infine questo tuo cuore,

a me che tanto ti ho amato per tutta

la vita, a me che tanto spesso hai

ignorato, rendilo a me che tutto

conosco di te; e se vuoi tira fuori

dai cassetti le lettere d’amore

e le foto e le note disperate,

tira giù tutto, è specchio della mia

la tua immagine, siediti e fa’ festa

e sia convito infine la tua vita».

Il ritorno in famiglia, tutte le intenzioni malgasce, stavano per naufragare. E infatti il 1993 non fu un bell’anno. A fine anno il matrimonio era di nuovo a pezzi.

La storia con Lada durò poche settimane tra il dicembre 1993 e il gennaio 1994. Trascorremmo insieme il capodanno a Vicenza. A mezzanotte la trovai sotto un tavolo che stava baciando una sua amica.

Una delle ultime poesie che scrissi nel 1993 è questa:

Fantasia russa

Va’, disse la voce, alzati dal letto,

percorri il corridoio della casa,

e cerca una matita, perché l’ora

è propizia. Con gli occhi socchiusi

mi reco verso la cucina e poi

torno a letto e mi ritrovo in un luogo

buio e arcano. Ardano le lampade,

si faccia luce, risuonò la stessa

voce, perché qui dove sei ora giunto,

seguendo vie segrete, è bene che

tutto risplenda, così che tu possa

mirare gli alti palazzi,

e quella reggia che vedi lassù

in collina, con le guglie orientali

che splendono d’oro. Con una lampada

nella mano ansiosa salgo le scale

che portano alla reggia. Non so cosa

m’aspetti, né chi abiti questo luogo

pieno di bandiere. Ci sono guardie

all’ingresso. Sembrano conoscermi.

Entro e mi siedo nella prima stanza.

Ecco che arriva il re, e questo mi dice

accogliendomi con grande pompa,

come fossi l’ambasciatore d’un potente reame.

«V’è ancora una debole sorgente d’acqua

viva che scorre piano da te.

Attraverso di te. Poi verrà lei.

Quando lei ti tenterà, lei l’assaggerà

quell’acqua pura. Ma da allora l’acqua

non farà nemmeno in tempo a raccogliersi

che arriveranno gli assetati, che si affollano

e si spingono. Ed ecco che tutto

hanno calpestato, tutto, solo fango è rimasto».

Mi sembrava ora che il dio che mi dettava queste parole fosse quello dei musulmani. Un dio imprevedibile e capriccioso. Nella notte nera come il corvo, egli manda nel mondo un bambino con una lampada accesa. Poi suscita un vento rapido e gli dice: «Alzati e va’ a spegnere quella lampada». Infine chiama il bambino sulla strada e gli domanda: «Perché hai spento quella lampada?».

Quando Satana venne condannato, Gabriele e Michele piansero. Dio disse loro: «Perché piangete?». Gli arcangeli risposero: «Signore, noi temiamo i tuoi tranelli». E Dio disse: «Avete ragione. Non consideratevi mai al sicuro dai miei inganni».

Sempre nell’islamismo c’è l’idea base che Satana sia stato il più grande amante di Dio. Quando Dio creò gli angeli disse loro di non inchinarsi ad alcuno, all’infuori di lui. Poi creò l’uomo, che considerava una crea­­tura ancora più nobile degli angeli e chiese agli angeli di inchinarsi all’uomo. Ma Satana non volle. Per i cristiani questo fu un terribile peccato di egoismo e di orgoglio e per questo fu cacciato. Ma in una narrazione persiana, Satana non volle inchinarsi all’uomo perché amava troppo Dio. E, d’altra parte, non era stato Dio stesso a dirgli che poteva inchinarsi solo a lui? Dio aveva cambiato opinione, ma Satana si era votato così profondamente alla prima volontà di Dio che non poteva sciogliere il voto, non poteva amare altri che lui. Ma Dio non volle sentire ragioni e lo cacciò nel­l’inferno, dandogli la peggiore delle pene: quella di essere per sempre lontano dall’amato.

Non sapevo ancora chi fosse la lei della poesia. L’avrei conosciuta a metà 1994. Chi sia lei, tu lo sai benissimo.

Nel gennaio del 1994, tornai ad abitare da solo a via dei Serpenti, come ricorderai, perché fui costretto a sfrattare te e la tua famiglia che ci abitavate, e anche il nostro amico Giuliano che non me l’ha mai perdonato (anche se, come te d’altra parte, non era inquilino ma ospite).

A proposito di Giuliano, prima di partire per l’India ho trovato tra le mie carte una poesia. Sui fogli scritti a mano c’è la data del 18 agosto 1992, quando abitava con te a via dei Serpenti. Parla, penso, di sua madre, nella sua casa nelle Marche:

Hai lasciato, per poco, l’acuto angolo

del tuo riposo. Da sotto, allo spigolo

di casa che più gode d’Aurora,

la gronda perde le gocce

come noi le parole nel regno

della vita minuta. Ma oltre questa

visibile signoria del male

non pare più povertà la bellezza

invecchiata nella innocente trasparenza

della specchiera, al tocco d’oro

dei cieli multiformi che chiama

lontano con voce e lingua umani,

e nel paese di mura rugose e di pensieri

l’inverno fa il suo ultimo tentativo

incompiuto sullo scricchiolio dell’acciottolato

che il passo incide, sonoro,

sullo sfuggente candore del melo,

e pare un poco che morire non è tutto,

se alzare possiamo cieli nostri,

se l’inciampo del cuore rinasce in seno

quasi Primavera che guadagna

aurora ogni sera, ad ogni rondine,

a ogni stella, come un difficile

candore oltre la percossa umana.

Nel patema odoroso e paziente

ch’è la sera, viene la prima stella

così stupita d’essere sola, e null’altro

ancora trema e brilla sui colli.

Pure, il tuo capo chino, pare sazio

dell’avvenire e dell’oggi; non

di parole o volti nel sogno,

che il sonno ti reca, grati, nella

memoria che si scioglie in flutti

d’ombre vive, nella senile

altalena del dormiveglia

in cui nulla pare esistere

se non ciò che più non esiste.

Da un volo di comignoli, ti semina

in amore, dai tegoli ai vetri,

rosse impronte, il sole

che abdica alle stelle,

e un azzurro senza rimpianti

chiude la riga del tuo tramonto

in una preghiera di madreperla.

Biascicano di tanto vento i platani

e, al rientro, il buio ci stringe

addosso i muri e la teiera lampeggia

all’imbrunire; meglio spicca quel nido

d’umido all’intonaco corroso, una fedeltà,

penso, ai gesti, alle voci di un

antico respiro gaio, sepolto ma non defunto,

nell’ora riempita di questo tanto presente

in ogni suo attimo passato e quelle

tazzine vuote sullo stesso ripiano

da tanto, quasi tiepide le penso,

quasi tiepide.

Dal 1993 in poi Giuliano è tornato al suo paese per accudire la sua anziana madre, abbandonando il mestiere di medico. Non voleva che la madre morisse in un ospizio. La madre è morta qualche mese fa. Claudio mi ha raccontato che, dopo la scomparsa della madre, Giuliano è caduto in una depressione mortale.

A presto.

Poona, 7 dicembre 2000

Caro Yuri,

mi hai chiesto tante volte cosa ho fatto dal 1994 ad oggi. Be’, intanto ho lavorato. E poi c’è stata la storia con F. che è stata senza dubbio una storia d’amore. E di odio. Mi sembrava di rivivere Catullo.

Odi et amo. Quare id faciam fortasse requiris.

Nescio, sed fieri sentio, et excrucior.37

Odio e amo. Come sia possibile forse ti chiederai.

Non lo so, ma sento che avviene, e ne sono straziato.

Te la traduco anche in inglese:

I love and hate. You might ask how this is possible.

I don’t know. But it happens and it depresses me.

Certo, se la prova fondamentale dell’amore sono le pene, io ne ho avuto la mia parte. Ti ricordi quell’estate che venni a trovarvi a Mosca? Sempre attaccato al cellulare, totalmente in balia delle sue parole e delle loro sfumature?

Nella storia di Tristano e Isotta, come ricorderai Isotta è promessa a re Marco. I due non si sono ancora mai visti. Tristano ha il compito di condurre Isotta dal re. La madre di Isotta ha preparato una pozione affinché i due promessi sposi fossero legati da vero amore, e questa pozione è affidata alla nutrice che accompagna Isotta nel suo viaggio. Ma la pozione viene lasciata incustodita e Tristano e Isotta la bevono credendola vino. Ovviamente si innamorano pazzamente (probabilmente lo erano anche prima). Quando la nutrice capisce cosa è successo avverte Tristano: «Tu hai bevuto la tua morte». E Tristano risponde: «Per morte intendi forse questo male d’amore? Se per morte intendi questo male d’amore, in essa è la mia vita. Se per morte intendi la punizione che soffriremo se scoperti, io l’accetto. E se per morte intendi la punizione eterna delle fiamme dell’inferno, accetto anche quella».

Siamo stati cinque anni insieme, ma per lei non ho scritto mai niente. Nel 1989, invece, la prima volta che avevo lasciato K. mi capitò di avere un’altra tempestosa storia d’amore, con quella ragazza boliviana dai capelli nerissimi, che mi apparve all’inizio come una sacerdotessa inca:

E mi apparvero colonne di marmo

bianche posate su una spiaggia

di sabbia finissima. Il sole al tramonto

prolungava le ombre della sera.

Una donna vestita di nero

uscì dal tempio. I suoi occhi

erano neri, neri come quelli dei corvi.

Le sue gambe erano sottili,

come gambi di giacinto.

Sui miei occhi di desiderio

frementi ancora,

un identico sapore di tramonto.

Per lei scrissi molte poesie d’amore.

Mi sembrò d’essere un gabbiano

la prima volta che vola

e lentamente sale sale

e vede gli scogli rimpicciolire

e nel vuoto vertiginoso

il mare allontanarsi

e quando la felicità troppo preme

e il cuore quasi trabocca,

allora si lascia andare

e si rituffa in mare.

Quasi mai in queste poesie emerge l’angoscia d’amo­re, ma soltanto una melodia agrodolce sulla sua inevitabile fine:

Noi calpestiamo, amore, pavimenti

come cristallo fragili, noi abitiamo

case con muri di luce soltanto,

e quanto più il sole dentro dimora

tanto più il pensiero inizia a tremare.

Non si vedono ancora nubi fosche

all’orizzonte, amore, ma si sa

che esse non tarderanno.

Andammo in vacanza insieme in Sicilia nel 1989. Portai Thomas e Giacomo. Fu un disastro. Soprattutto per i bambini.

Sull’amore – sia come Agape che come Eros, che come Amor – ho scritto tante poesie che avrei potuto farne un libro. Forse l’avrei chiamato Lamara assenza. Gli avrei aggiunto queste due epigrafi:

Being your slave, what should I do but tend

Upon the hours and times of your desire?

I have no precious time at all to spend

Nor services to do, till you require.

William Shakespeare, sonetto LVIII

Non ci sia prato

che la vostra voluttà

non attraversi.

Sapienza, 2,9

Per oggi basta.

Un abbraccio.

9 Deuteronomio, 7,1-2.

10 Deuteronomio, 7,5.

11 Samuele, 15,3.

12 Giobbe, 38,4-10.16-18.

13 Didimo Giuda Tommaso, Unearthing the Lost Words of Jesus: The Discovery and Text of the Gospel of Thomas, a cura di J. Dart, R. Riegert, Berkeley (CA), Ulysses Press, 1998; tr. it. di Ilaria Del Brun, in Id., Il Vangelo di Tommaso e come fu scoperto, Torino, Amrita, 1999, detto 113, p. 93.

14 Odissea, i, vv. 55-59; tr. it. R. Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 1963.

15 Quinto Orazio Flacco, Carmina, iii, 30, vv. 1-9; tr. it. in Orazio, Odi. Epodi, a cura di M. Ramous, Milano, Garzanti, 1986, p. 231.

16 Publio Ovidio Nasone, Metamorphoseon Libri, xv, vv. 871-872, 877-879; tr. it di F. Bernini, Bologna, Zanichelli, 1980, vol. II, p. 335.

17 Sonetto 55; tr. it. A. Serpieri, in W. Shakespeare, Sonetti, Milano, Rizzoli, 1991.

18 Lettera a John Hamilton Reynolds del 19 febbraio 1818; tr. it. in J. Keats, Lettere sulla poesia, a cura di N. Fusini, Milano, Feltrinelli, 1984, p. 83.

19 Tu ti spezzasti, 1, vv. 8-29; ne Il dolore, in Vita di un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1969 [19726], pp. 215-216.

20 Lettera, in Cuore (cieli celesti), Roma, Rotundo, 1988, pp. 124-125.

21 vi, p. 38.

22 Valentino, cit. in Pietro Citati, La luce della notte, Milano, Mon­dadori, 2000, p. 147.

23 Paradiso, ii, 3. La terzina iniziale del canto è «O voi che siete in piccioletta barca, / desiderosi d’ascoltar, seguiti / dietro al mio legno che cantando varca».

24 «L’Amato, le montagne, / le boschive convalli solitarie, / le isole inesplorate, i fiumi risonanti, / il sibilo dei venti innamorati»: tr. it. di N. von Prellwitz, Canzoni tra l’anima e lo sposo, xiv, in Giovanni della Croce, Cantico Spirituale, Milano, Rizzoli, 1991.

25 Giovanni, 10,30.

26 Il Vangelo di Tommaso, cit., detto 108, p. 92.

27 . Cfr. Lettera ai Romani, 8.

28 Tr. Calzecchi Onesti, cit., i, vv. 189-193.

29 Ivi, vv. 203-205.

30 Ivi, vv. 215-220.

31 Ivi, vv. 222-223.

32 Ivi, xi, vv.155-159.

33 To my brothers, scritta il 18 novembre 1816.

34 È 6 gennaio 1993. Vedi sotto, pp. 118 ss.

35 Cfr. Apocalisse, 10,8-11.

36 Cfr. i Lettera ai Corinzi, 13.

37 Carmina, lxxxv.