Terza parte

Poona, 8 dicembre 2000

Caro Yuri,

eccoci finalmente alla Caduta, mia e di Keats. Oggi mi sono svegliato più confuso del solito. Mi sembra quindi il momento giusto per svelarti chi è l’assassino, perché a un certo punto ho deciso di smettere di scrivere e di concentrarmi sugli affari.

Te lo spiego con i versi di un altro poeta, poiché io ne sono assolutamente incapace: di quel Keats che io considero fratello, padre e figlio. Le parole sono sue. Ma quello che dice è anche mio.

Ti ricordi che in una delle ultime lettere che ti scrissi nel 1993 ti dicevo che mi sembrava di aver finalmente compreso un piccolo poemetto, incompiuto, che Keats aveva scritto poco prima di morire, La caduta di Iperione? Quel poemetto ha avuto una certa influenza su di me, come potrai capire presto.

Non voglio assolutamente scriverti un saggio sulla Caduta. Passo subito a raccontarti la storia.

Il poemetto racconta una visione. A essa, però, Keats fa precedere un’introduzione di quindici versi, tra i più belli di ogni letteratura. L’inizio è fulminante:

Hanno i loro sogni i fanatici

e un paradiso poi con essi intrecciano

per una setta.38

Su chi siano questi fanatici spero di riuscire a tornare nei prossimi giorni, se avrò la mente un po’ più lucida. Adesso mi vorrei concentrare sulla visione.

Il poeta si ritrova in un giardino meraviglioso:

Io pensavo di trovarmi in un luogo

dove alberi di ogni clima – palme,

platani, mirti, querce, sicomori,

faggi, banani e altri di varia specie –

offrivano riparo; dal rumore

dolcemente scrosciante nelle orecchie,

e dai piccoli spruzzi di profumo,

da fontane e roseti non ero lontano.39

Sotto un pergolato trova un banchetto apparecchiato di frutti estivi di ogni specie.

Poi girandomi vidi un pergolato

dal tetto spiovente di campanule,

viti rampicanti e fiori più grandi,

come incensieri floreali nell’aria

lievemente ondeggianti; e davanti

a questa entrata inghirlandata, sopra

un monticello coperto di muschio,

v’era un banchetto di frutti estivi,

che visto da vicino mi sembrava

fosse l’avanzo d’un pasto assaggiato

da un angelo o dalla nostra Madre Eva;

perché v’erano scorze vuote sparse

sull’erba e raspi d’uva vuoti a metà,

ed altri avanzi dal dolce profumo

la cui pura essenza non conoscevo.

Eppure c’era più abbondanza che

se fosse stato vuotato tre volte

quel corno leggendario del banchetto

in onore di Proserpina dato,

che tornava ai suoi campi ove muggiscono

bianche giovenche.40

Non capisce dove sia. Ma mangia con appetito.

Mi venne così

un appetito come prima mai

m’era venuto e mangiai con delizia.41

Poi gli viene sete. Vede una fresca coppa di limpido nettare, colma di una pozione misteriosa che beve avidamente brindando a tutti i viventi del mondo, e ai morti. Da notare, perché è importante, che brinda solo ai morti «il cui nome è ancora sulle nostre labbra»42. Da qui prende avvio la storia:

Da questo sorso nasce la mia trama.43

Contro la sua volontà si addormenta:

Né il papavero d’oppio, né la droga

raffinata dei mitici califfi,

né il veleno da monaci distillato

in una stretta cella, per snellire

uno scarlatto conclave di vecchi,

avrebbero potuto portar via

allo stesso modo di controvoglia

una vita. Tra le bucce fragranti

e le bacche schiacciate duramente

lottai ma invano contro l’imperiosa

pozione; poi un vaporoso sopore

mi colse e sprofondai come Sileno

su un antico vaso. Per quanto tempo

dormii lo posso solo immaginare.44

Quando si risveglia il paesaggio è cambiato. Gli alberi sono scomparsi e Keats si trova ai piedi di un tempio antichissimo e altissimo, così alto che le nuvole vi veleggiano a fianco.

Il posto era così vecchio che io non

ne ricordavo di simili in terra.

Quello che avevo visto, cattedrali

grigie, torri decrepite, bastioni,

lascito di regni ormai inabissati,

oppure quelle rocce naturali

dal vento e dalle onde aspramente incise,

sembravano soltanto rimasugli

di decrepite cose nei confronti

di quell’eterno monumento a cupola.45

Mi accorgo per la prima volta che due versi di Nosy Be:

Eco son forse di preziose navi

da tempo inabissate?

forse provengono da qui.

Nel marmo ai piedi del poeta sono gettati alla rinfusa vari oggetti: tessuti, pinze, catene, sacri gioielli. Non so se Keats conoscesse l’incisione Melencolia i di Dürer. Anche lì, ai piedi di Malinconia, giacciono oggetti inutilizzati: una piccola sega, una pialla, una sfera, un lucignolo. È il primo indizio di dove siamo arrivati.

Sopra il marmo ai miei piedi erano posti

mucchi di strani vasi ed ampie tele

che sembravano intrecciate con fili

d’amianto colorati, così che

la tarma non potesse corrompere

il tessuto in parte bianco e in parte

dipinto con immagini da un cupo

telaio. Alla rinfusa lì giacevano

vesti, incensiere, turibolo, fasce,

tenaglie d’oro, catene, e gioie sacre.46

Le colonne del tempio si perdono in una nebbia indefinita a nord e a sud. I cancelli a est sono per sempre chiusi. A ovest del tempio s’innalza una gigantesca statua: ai suoi piedi, un’ara. Scopriremo presto di chi è quella statua.

vidi in lontananza un’immagine

grande di statura come una nuvola,

ai cui piedi giaceva un altare

al quale si poteva accedere d’ambo

i lati attraverso due scalinate

con balaustre di marmo dai gradini

innumerevoli che solo a fatica

potevano essere contati.47

Il poeta sale verso l’ara «con passo sobrio, [...] trattenendomi dalla fretta»48, troppo profana in quel luogo. Prima di arrivare sull’ara, vede una sacerdotessa dedita a un rito misterioso e una fiamma accesa che sprigiona profumo d’incenso e, con esso, oblio di tutto ma non della gioia.

Così come a metà

maggio il fastidioso vento dell’Est

si sposta all’improvviso verso Sud,

e una tiepida pioggerella scioglie

la fragranza rappresa nei fiori,

riempiendo l’aria di tanti salubri effluvi

che anche il morente si scorda del suo sudario,

così quell’eccelso fuoco sacrificale,

esalando incenso di Maia, spargeva

intorno dimenticanza di tutto

che non fosse pura beatitudine,

avvolgendo l’altare di leggero

fumo.49

Già nella geografia del tempio c’è molto pensiero. L’Oriente è il luogo per Keats dove la poesia dovrebbe sorgere naturale, dice in una sua lettera, «come all’albero nascono le foglie». È la Grecia, è anche la natura. Ma questo al poeta moderno, il poeta che parte tardi e giunge al tramonto, sembra ormai precluso. Per questo, la porta a est è chiusa per sempre.

Con questa sacerdotessa, di cui non conosce ancora il nome, Keats instaura uno dei più grandi dialoghi di sempre sull’essenza della poesia. E anche uno dei più memorabili attacchi ai poeti – egotisti sublimi – mai scritti da un poeta:

Apollo! Apollo che voli

lontano, che svanisci! Dove sono

i tuoi vapori pestilenziali,

che essi possano attraverso le fessure

delle porte insinuarsi nelle case

di tutti i falsi lirici, spacconi

trasandati, grandi autoadoratori

dei loro tronfi, pessimi versicoli.

Anche se io respiro morte con loro,

mi darà vita vederli strisciare

nelle loro fosse prima di me.50

È stupefacente che a fare quest’attacco sia lui, lo stesso che all’inizio della sua brevissima carriera aveva una fiducia illimitata nella poesia. Per Keats la poesia aveva un senso ben preciso: un bel palazzo, con giardini, fontane, statue, un palazzo costruito per abitarci, non per farlo ammirare. Bisogna capire però a quale tipo di poeti è diretto l’attacco e perché viene fatto.

Poco prima di giungere all’ara dove la sacerdotessa sta officiando il suo rito, il poeta sente una voce:

e attraverso questa profumata,

bianca cortina sentii pronunciare

queste parole: «Se non puoi salire

questi scalini è meglio che tu muoia

su quel marmo ove ora sei; la tua carne,

cugina prossima della comune

polvere, per mancanza di alimento

si seccherà, così come le tue ossa

si sbricioleranno e svaniranno

tanto rapidamente che nemmeno

l’occhio più acuto potrebbe trovare

un granello di quello che ora tu

sei sopra quel gelido pavimento.

Ecco che si consuma in questa ora

la sabbia della tua fugace vita,

e nessuna mano dell’universo

potrà rivoltare la tua clessidra,

se queste foglie grasse bruceranno

prima che tu possa salire questi

immortali scalini»51.

Parole agghiaccianti, di una lucidità che diventa quasi crudele, senza nessuna consolazione, nessuna speranza in un aldilà. La carne e le ossa di miliardi di uomini sono svaniti e di loro nulla sappiamo, nulla è rimasto a ricordarci che essi sono vissuti.

Keats è spaventatissimo. Non crede di potercela fare.

Io guardavo e ascoltavo: e i due sensi

così sottili, così raffinati,

percepirono entrambi la feroce

tirannia di quella minaccia e il duro

compito proposto; prodigiosa

sembrava la fatica. E mentre ancora

bruciavano le foglie, all’improvviso

sentii il brivido d’una paralisi

salire da terra su per le gambe,

e tanto rapidamente che avrebbe

presto fatto presa su quelle vene

che palpitano vicino alla gola.

Lanciai un urlo e l’angoscia di quest’urlo

percosse le mie orecchie.52

Vorrebbe addirittura tornare indietro, non avere mai cominciato quella salita pericolosa, vicina alla follia:

Cercai invano

di sfuggire il torpore e di tornare

verso i gradini più bassi, ma lento,

fiacco e pesante era il mio passo e un freddo

sempre più soffocante, asfissiante,

s’avvicinava al cuore e quando giunsi

le mani non le sentii più.53

Un istante prima di morire, il poeta riesce a raggiungere il gradino più basso del tempio, e la vita all’improvviso rifluisce copiosa:

Allora m’involai di nuovo in su,

così come volarono una volta

gli angeli dalla verde terra al cielo

su una scala.54

È riuscito infine a toccare quel gradino che lo preserverà dalla morte e gli consentirà di raggiungere l’altare della gloria poetica, il grande sogno di tutta la sua vita. Nel 1817, mentre componeva Endymion, aveva scritto:

E comunque non ho nessun diritto di parlare finché non ho finito Endimione; sarà un saggio, una prova dei miei Poteri d’Immaginazione e soprattutto di invenzione, che è una cosa davvero molto rara, con i quali mezzi devo cavare 4000 versi da una sola e semplice circostanza e riempirli di Poesia; e quando considero quale grande compito sia questo, e che l’averlo compiuto mi porterà solo di alcuni passi più vicino al tempio della Gloria, mi viene da dire: Dio non voglia ch’io ne resti privo!55

E appena raggiunto quel gradino egli grida alla sacerdotessa:

O Divina Potenza,

.......................................

che cosa sono io da meritare

d’essere preservato dalla morte,

che cosa sono io che un’altra morte

non sopravvenga a soffocare queste

mie grida così sacrileghe qui?56

Ma la sacerdotessa gli spiega che non è riuscito a sconfiggere definitivamente la morte:

«Tu

hai assaporato che cosa significhi

morire e poi vivere nuovamente

prima dell’ora fatale. Che questo

fosse in tuo potere è stata la tua

salvezza. Tu hai rinviato il tuo destino».57

Se non fosse riuscito a salire quegli scalini, come uno dei tanti miliardi di uomini e donne che hanno calpestato la nostra terra, anche il suo nome sarebbe rapidamente svanito e noi oggi non sapremmo chi era quel John Keats, nato a Finsbury, Londra, nel 1795, e morto a Roma il 23 febbraio 1821, alle undici di sera, con a fianco il suo fedelissimo amico Joseph Severn, anche lui sfuggito, temporaneamente, all’oblio, perché quella notte era lì, a fianco del suo amico morente.

Ma la poesia non dà l’immortalità. Rinvia di qualche secolo o millennio il destino di tutti gli uomini. L’usignuolo, come Keats sapeva benissimo, è eterno, non la poesia. Gli egiziani costruirono una grande civiltà. Avranno avuto centinaia di grandi artisti, poeti. Cosa sappiamo noi di loro, se per duemila anni gli uomini non capivano più neanche la loro lingua, se solo nel secolo scorso qualcuno è riuscito a decifrarla?

(Anche se mi rendo conto che è vero solo in parte: il mito di Iside e Osiride ci è stato raccontato da Plutarco ed era carne viva ancora al tempo di Mozart, e forse anche nella nostra, tua e mia, carne. Ma anche su questo dovrò tornare).

E quando Keats interroga la sacerdotessa sul perché gli sia stato concesso quel privilegio, che non è l’immortalità, ma solo il rinvio del destino, perché un giorno anche Omero, Platone, Virgilio, Dante, Gesù, Buddha, Maometto, Lao-tzu svaniranno e di loro non vi sarà più traccia nel mondo, la risposta è ancora più impietosa. Il privilegio non è che un piccolo premio per aver sofferto più degli altri uomini, per non aver mai avuto tregua dal dolore.

Quell’altezza, risponde la sacerdotessa, può solo essere conquistata da coloro

«a cui i dolori del mondo rimangono

dolori e non ne hanno tregua mai».58

Un destino solo leggermente più benigno di quello riservato agli altri.

«Tutti gli altri che trovano un cielo

sulla terra, dov’essi sonnacchiosi

passano i loro giorni, se per caso

giungono nei pressi di questo tempio,

marciscono su quel suolo dove anche

tu poco fa hai rischiato di marcire»59

È commovente il tono sommesso, quasi da supplica, con cui Keats, il poeta, rivolge alla sacerdotessa la domanda che l’ha assillato tutta la sua vita, se il fine doing valga quanto il fine writing:

«Non ci sono migliaia di persone

al mondo», ripresi io, incoraggiato

da quella soave voce veritiera,

«che lo amano alla morte il loro prossimo,

che sentono l’agonia gigantesca

del mondo, e in più, come schiavi alla povera

umanità, lavorano pel bene

mortale? Certamente ci dovrebbero

essere qui altri uomini, perché sono

solo?»60.

Certo che ci sono al mondo altri uomini, risponde la donna, ma se tu sei solo è perché essi, i poeti che mai scriveranno un verso, i poeti della vita, non sono dei visionari, non cercano la fama, la gloria, «non sono deboli sognatori»61:

«Essi non cercano altra

meraviglia che quella d’una effigie

umana, altra musica all’infuori

di quella d’una voce

felicemente intonata; ed essi

qui non vengono, non hanno ragioni

per venirci; se tu sei qui, è perché

non vali quanto loro»62.

Keats è sopraffatto da questa risposta. Si sente un privilegiato, ma allo stesso tempo si chiede perché lo sia, visto che è inferiore ai benefattori del mondo.

«Che io per indegnità sia favorito

e che nella malattia non ignobile

io sia da un colloquio tanto propizio

medicato, me ne rallegro, sì,

e potrei piangere anche per amore

d’un tale premio»63.

Chiede anche alla sacerdotessa se per caso alcuni poeti possano arrecare beneficio all’umanità:

«Se ti fa piacere,

o maestosa ombra, dimmi, di sicuro

non tutte le melodie che all’orecchio

del mondo vengono cantate sono

inutili: di certo un poeta è un saggio,

un umanista, un medico per tutti

gli uomini»64.

La risposta è tremenda, sarcastica, umiliante:

«Che benefici puoi tu o tutta intera

la tua tribù donare al vasto mondo?

Tu non sei che cosa sognante, febbre

di te stesso, pensa alla Terra, e se

può esserci lì felicità per uno

come te, e quale cielo? Ogni creatura

ha la sua casa, ogni uomo solitario

ha giorni di gioia e giorni di pena,

umile o sublime che sia il suo ufficio,

solo la pena, solo la gioia, distintamente:

solo il sognatore avvelena tutti i suoi giorni

portando sulle spalle più dolore

di quanto meriterebbe per i suoi peccati.

Pertanto, affinché la felicità

sia un poco condivisa, cose simili

a te vengono fatte entrare spesso

in giardini come quello dove

poco fa anche tu sei stato ammesso

per poi soffrire in fronte a questi templi:

ed è per questo che tu resti salvo

sotto le ginocchia di questa statua»65.

Ecco il destino del poeta. Non solo è costretto a soffrire più degli uomini comuni, a sopportare una feroce solitudine e, se è un vero grande poeta, a rischiare anche la follia, destino da cui Keats, se fosse vissuto, non sarebbe probabilmente restato immune: ma ne ottiene in cambio un’effimera preservazione dal­l’oblio e, quel che è peggio, la sua arte non arreca nessun beneficio all’umanità.

Quante domande nella sua e nella mia testa! E se il mondo non sapesse più che farsene dei poeti e della poesia? Se fosse meglio il silenzio?

A questo punto Keats si chiede: ma dove sono capitato? Altro che palazzi dorati e belle donne. Qui si mette male:

«Maestosa ombra, dimmi dove sono.

di chi è quest’ara, per chi s’inanella

quest’incenso, e di chi è quest’immagine

di cui non posso vedere la faccia

per le distese ginocchia di marmo,

e chi sei tu dal femminile accento

così gentile?»66.

E finalmente Keats capisce dove si trova. La sacerdotessa altri non è che Moneta, o, come viene anche chiamata, Mnemosyne, la dea della memoria, la madre delle Muse, ispiratrici dei poeti. Il suo compito è di trascendere il tempo e guadagnare l’eterno. E, infatti, questo è quello che ci ha appena detto. Moneta è anche colei che “possiede” i poeti, li rende “entusiasti”. Quella possessione che sottrae il poeta al ritmo della vita quotidiana, alla scansione del tempo lineare, per trasportarlo nella condizione in cui il dio lo abita e gli parla.

Ecco la risposta che gli dà, tra le lacrime, Moneta:

«Questo tempio

triste e solitario è tutto ciò che

rimane dopo i lampi d’una guerra

che fu combattuta tanti anni fa

dalla gerarchia dei giganti contro

i ribelli, e questa vecchia immagine

i cui incisi tratti si corrugarono

nel mentre lui cadeva è di Saturno,

ed io sono Moneta, che rimango

unica e suprema sacerdotessa

della sua desolazione»67.

Il poeta rimane senza parole. Altro che gioia ed estasi. Il tempio della gloria poetica è triste e solitario. È il tempio di quell’antico dio detronizzato da Giove perché era un divoratore di figli e di dèi. Il dio responsabile dell’infelice carattere e del destino del melanconico, che Giove aveva cercato di relegare, prigioniero, incatenato come uno schiavo, nelle più gelide profondità della terra e del mare.

Per di più quel poco di estasi, di gioia che può darci la poesia dura qualche attimo. Infatti, quel fuoco che gli era sembrato spargere dimenticanza di tutto ciò che non fosse pura beatitudine, sta per spegnersi:

V’era silenzio mentre sull’altare

la fiamma a poco a poco si spegneva

per mancanza di dolce nutrimento.

Ed io guardavo lì sul pavimento

dov’erano ammucchiate fascine

di cinnamomo e numerosi mucchi

d’altro legno seccato e profumato,

poi ancora guardavo verso l’altare

e i suoi corni da cenere imbiancati

e la sua fiamma languente.68

Quando finalmente il poeta riesce a guardare in faccia Moneta, vede un tremendo spettacolo; non fosse per i suoi occhi, scapperebbe:

Vidi io allora un volto esangue non ròso

da umani affanni, ma lucidamente

sbiancato da una malattia immortale

che non uccide. V’opera un costante

mutamento a cui non può porre fine

una felice morte. Verso morte,

che morte non è, avanzava quel viso,

più bianco del giglio e della neve;

ed oltre questo non devo pensare

ora io, anche se vidi quel volto;

e non fosse stato per i suoi occhi,

sarei fuggito. Con luce benevola

mi trattenevano, resi più miti

dalle divine palpebre socchiuse.

Del tutto ciechi del mondo esterno

mi sembravano. E non credo che essi

mi vedessero, ma in vuoto splendore

irradiavano una luce simile

a quella della luna, che conforta

coloro che non vede, che non sa

quali occhi si rivolgano al cielo.69

Moneta somiglia in modo impressionante al ritratto della fanciulla nella Melencolia i di Dürer. I suoi occhi si perdono con straziante intensità nel regno vuoto dell’invisibile. È ammantata da un sinistro e gelido torpore. Una fredda luce lunare la avvolge nel crepuscolo.

Moneta, però, è pur sempre la madre delle Muse, ed è in grado di donare una cosa molto ambita dai poeti: la visione. Nessuno lo sapeva meglio di Keats. E questo è quello che Keats gli chiede implorante.

Come se avessi trovato un granello

d’oro sul crinale d’una montagna,

e punto dall’avarizia sforzassi

gli occhi per penetrare le sue cupe

viscere tanto ricche di tesori,

così fissando i miei occhi sulla fronte

della triste Moneta, ardentemente

desideravo conoscere cosa

custodisse nel suo grembo il cervello

che v’era dietro; quale alta tragedia

si recitasse nelle oscure stanze

del suo cranio per produrre una smorfia

tanto orrenda sulle sue fredde labbra,

colmando di tale luce i suoi occhi

planetari e toccando la sua voce

con tale dolore. «Ombra di Memoria!»,

gridai, con gesto adorante ai suoi piedi,

«di tutta la tristezza che s’aggira

intorno a questa tua casa caduta,

di quest’ultimo tempio, dell’età

dell’oro, del grande Apollo, tuo caro

figlio adottivo, ed anche di te stessa,

dimenticata ormai divinità,

Omega pallida d’una sfiorita

Razza, lascia che io possa contemplare,

cosa nel cervello tuo

continuamente su e giù ribolle»70.

E Moneta, generosamente, non si rifiuta:

Il sacrificio

è compiuto ma sarò nondimeno

gentile con te per la tua buona volontà.

Il mio potere, che per me è ancora

maledizione, sarà per te

una meraviglia, poiché le scene

che tanto vivide ancora s’aggirano

attraverso i globi del mio cervello

con elettrico cangiante dolore

tu potrai vedere con i tuoi occhi

mortali, e libero da ogni pena

se non ti è la meraviglia penosa71.

Keats è commosso:

Se le celesti stellari parole

D’un immortale potessero come

Quelle d’una madre intenerire,

così furono quelle.72

D’altra parte, come poteva non intenerirsi? Keats era il poeta che meglio di chiunque altro tra i suoi contemporanei inglesi aveva capito che senza visione non si è poeti. Non basta la tecnica. Come dice all’inizio del poemetto, in quei quindici versi a cui devo tornare, se non si ha la tecnica, si possono avere visioni ma non si è poeti. Ma se si ha solo la tecnica, senza visione, il poeta è un falso lirico, uno spaccone trasandato, un autoadoratore dei suoi «tronfi, pessimi versicoli». Un egotista, insomma, un noioso egocentrico.

C’è poi un punto importantissimo per Keats. È solo con la visione che l’io del poeta può scomparire, cedendo il posto a ciò che è al di là dei propri ricordi e soprattutto al di là dello spazio e del tempo. Solo uscendo dalla sovranità dell’io si può incontrare l’Altro. Solo in questo modo, svestendosi della propria personalità, ci si può legare all’infinito, all’estasi dell’usignuolo che a notte fonda canta, buttando fuori tutta la sua anima, l’anima eterna legata al genio della sua specie:

Tu non nascesti per la morte, Uccello Immortale!

Né ti calpestano generazioni affamate;

la voce che sento in questa notte fuggente

fu udita un tempo da servi e imperatori:

e forse è lo stesso canto che trovò la via

tra le lacrime nel cuore di Ruth

in campi lontani triste di nostalgia.

Il canto che tante volte ha affascinato

finestre magiche aperte sulla schiuma di mari inquieti

in terre sperdute incantate.73

Anche il rapporto col dio esige il sacrificio dell’io. È solo distaccandosi dall’io, uscendo dal corpo, che si può trascendere l’esistenza e accedere a quel mondo di Bellezza così importante per Keats. Al di là dell’ansia, della febbre, della nevrosi che dominano nel mondo.

Sparire, dissolvere e dimenticare

ciò che tra le foglie tu mai conoscesti,

stanchezza, fatica, travaglio febbrile

qui, dove gli uomini stanno ad udire i propri lamenti

e dove il tremito scuote gli ultimi grigi capelli.

Dove da giovani si cresce pallidi e come spettri

sottili si muore: dove pensare vuol dire soffrire

colmi di plumbea disperazione;

dove Bellezza non sa mantenere gli occhi lucenti

e Amore durare nel desiderio oltre domani.74

Quella Bellezza che, come la fiamma di Moneta, non può durare. La Bellezza di cui qui parla Keats non è certamente la bellezza fisica. È quel contatto con l’invisibile che può anche portarci all’estasi.

«Ciò che l’Immaginazione coglie come Bellezza deve essere verità, che esistesse prima o no», dice Keats in una lettera. C’è qualcosa al di là del visibile. C’è una bellezza che è anche verità. Ed eccola finalmente quella frasetta che tutti conoscono: «Beauty is truth, truth beauty»75, frasetta che Thomas Eliot non aveva mai capito. E come poteva mai capirla lui?

Esiste dunque Bellezza: ma come raggiungerla? Non certo attraverso la conoscenza, perché questa passa attraverso l’io. Non rimane che una via per coglierla: la visione, l’estasi. Senza di esse non ci può essere poesia. Non per noi almeno. (Oppure può esserci, ma a noi non interessa).

In passato Keats aveva avuto il dono sia della visione che dell’estasi. Quell’estasi che fa apparire anche la morte bellissima:

Nell’oscurità io ascolto; e se tante volte

son stato quasi innamorato della Morte

calma, e le ho detto parole dolci in poesia,

e le ho chiesto di prendere nel vento il mio respiro

quieto, ora, ora più che mai mi sembra bello morire.

Finire a mezzanotte senza pena

mentre tu riversi l’animo d’intorno

in tale estasi!76

La stessa estasi che in Nosy Be mi fa dire:

Oh come dolce se così è la morte!

Cominci a capire? Quanto vicino io sia stato alla follia, all’illusione di essere la reincarnazione dell’anima di Keats, oppure una sua anima sorella!

Per Keats la poesia, prima delle parole, è l’esperienza dell’estasi che sprigiona dall’unione con l’essere, quell’essere che è altrove e cui il poeta può avvicinarsi solo per il tramite della visione.

E solo il poeta può averla, quella visione.

E solo attraverso la poesia.

Keats si terrebbe volentieri l’estasi, se dovesse scegliere tra questa e le parole che si possono scrivere dopo che la visione, l’estasi è sparita.

E lo dice anche chiaramente nell’Ode allIndolenza. Il poeta si sta godendo un’ora di pura estasi:

Matura era l’ora sonnolenta,

E la nube beata dell’indolenza estiva

Opprimeva gli occhi; batteva lento il cuore,

E il dolore taceva: era sfiorita la ghirlanda del

piacere.77

Quando gli appaiono in visione tre figure, il poeta sa subito chi sono:

Era una bella fanciulla la prima, si chiamava Amore;

Seconda era Ambizione, con le guance pallide,

L’occhio affaticato, sempre sveglio;

L’ultima, la più amata – e pari cresceva

Al mio amore la sua vergogna, troppo ritrosa fanciulla –

Era il mio demone, la Poesia.78

La Poesia è la fanciulla più amata dal poeta, ma proprio per questo è quella da biasimare di più. Infatti subito dopo Keats si chiede: l’Amore? Ma che mi importa dell’amore! Che cos’è dopotutto l’amore? Una follia. E poi l’Ambizione, che cos’è l’ambizione se non la febbre che nasce da un piccolo cuore?

La Poesia è la più amata, e per un momento lo tenta, cerca di distoglierlo dall’estasi; vorrebbe ali per raggiungerla. Ma poi ci ripensa:

E la Poesia – no, che una gioia non possiede

Dolce, almeno per me, come i meriggi di sonno,

O quelle sere imbevute in un’indolenza di miele.79

E che m’importa infine della gloria, delle lodi!

Non voglio mica nutrirmi di lodi, io;

Come un agnello d’una farsa sentimentale.80

E d’altra parte, quando la visione sparisce, cosa possiamo fare noi poeti moderni? (Mi ci metto anch’io tra i poeti, non per quello che ho scritto, ma perché attraverso la poesia – e solo attraverso questa è possibile – l’estasi che assapora Keats anch’io l’ho assaggiata, e quella per me era in qualche modo già poesia, anche se poi ciò che ho saputo scrivere forse non vale nulla).

Durante l’estasi, il poeta è nella nebbia. Non può vedere i fiori ai suoi piedi, ma nell’oscurità può solo indovinarne la profumata dolcezza.

Non so vedere che fiori ci siano ai miei piedi,

né che profumi lievi stiano ai rami,

ma nell’odorosa oscurità so quali dolcezze

regali la stagione e dove.81

Dante ci racconta la sua estasi attraverso un grande poema. San Giovanni della Croce ci scrive sopra un manuale, La salita del monte Carmelo. Keats riesce a scrivere l’Ode a un usignuolo. Io quasi niente.

I ragazzi delle discoteche, l’estasi la prendono in pillole. D’altra parte pharmakon è una parola greca che significa a un tempo veleno e rimedio. Il desiderio dell’estasi è dentro di noi: non lo possiamo rimuovere. I poeti moderni forse dovrebbero dire solo questo: si può fare, anche senza il pharmakon.

Tornando alla Caduta, Keats trova ora una piccola sorpresa. La povera, depressa Moneta è in grado di dargli la visione, ma non più l’estasi. Keats trova la tragedia, l’alta tragedia che si recita nelle oscure stanze del cranio di Moneta, ma non la gioia, l’inno. Non ha neanche finito di implorare Moneta di dargli la visione di cosa ribolle nel suo cervello, che Keats si ritrova in uno dei luoghi più depressi dell’intera letteratura occidentale.

Aveva appena appena superato

le mie devote labbra questa supplica,

che fianco a fianco ci ritrovammo

(come cespuglio nano presso un pino

solenne) sprofondati nell’ombrosa

tristezza d’una valle, assai lontani

dal respiro salubre del mattino,

lontani dall’ardente Mezzogiorno,

e dall’unica stella della sera.82

La visione che gli offre ora Moneta è piacevole e lo riempie di orgoglio. Però è l’orgoglio della conoscenza, non l’estasi dell’usignuolo.

Fui invaso allora

da un potere di conoscenza enorme,

vedere come un Dio vede, capire

la profondità di tutte le cose

con la stessa chiarezza con cui l’occhio

afferra misure e forme del mondo.83

Keats è diventato un geometra, un ingegnere. Vuole misurare. Ma quando si misura non c’è più poesia: interviene la ragione. E questo segna il grande congedo dalla poesia e dal sacro che solo la poesia può dischiudere. Al massimo rimane la religione, che però non è la stessa cosa.

Con la ragione si stabiliscono i principi di identità e di non contraddizione. Con la ragione si instaura la differenza. Una cosa non può essere il suo contrario. Mentre il sacro non se ne cura: il sacro è luce e tenebra, inverno e estate, uomo e donna, dio e uomo.

Come dice quell’Eraclito su cui si era fissato Gino, le ultime volte che ci ho parlato: «Per la divinità tutte le cose sono belle, buone e giuste; gli uomini invece alcune cose ritengono ingiuste ed altre giuste»84.

Nelle Odi primaverili, le sue poesie più alte, Keats si era espresso nella forma del paradosso e dell’ossimoro. La morte al mondo è la vita che dà l’estasi, la morte alla visione riconduce alla vita.

Ma cosa vogliono dire le parole se tutti i termini si capovolgono di continuo nei loro opposti? Domande che Keats s’era posto nell’Ode a un usignuolo e nell’O­de sopra unurna greca.

L’atmosfera che si respira nella valletta dove Keats è capitato non è più quella dell’estasi. Tutt’altra cosa. Non c’è un filo d’aria.

Non v’era in quella valle riparata

alcun moto di vita, neanche l’aria

che durante un caldo giorno d’estate

ruba un leggero seme dalle piume

d’erba. E dove una morta foglia

cadeva lì restava.85

E finalmente il poeta intravede Saturno, che siede presso un ruscelletto:

Silenzioso

vicino scorreva un ruscello, ancora

più quieto perché la divinità

lì vicino dispiegava più ombra.

...................................................

Lungo il sabbioso argine grandi impronte

giungevano dove il vecchio Saturno

s’era fermato, e lì dormiva.86

E lentamente la visione, dominata ormai dalla ragione, si trasforma in incubo. Saturno intanto dorme che è una meraviglia.

Nessuna forza sembrava potesse

svegliarlo, ma venne una che con mano

fraterna toccò le sue larghe spalle,

dopo essersi inchinata riverente,

benché lui non se ne rendesse conto.87

La nuova arrivata è Tea, come gli spiega subito Moneta:

«La divinità che hai visto uscire

da quel bosco desolato e con passo

lento accostarsi al nostro Re caduto,

è Tea, tra la nostra stirpe quella

di natura più soave»88.

La cosa che più colpisce Keats è l’altezza della Dea:

Notai che

la dea, di statuaria bellezza, era

ben più alta della pallida Moneta,

e più vicina a lacrime di donna

nel suo dolore.89

e subito dopo il suo sguardo impaurito:

V’era nel suo sguardo

un fremito di paura, come se

solo da poco la calamità

fosse iniziata, come se le nubi

all’avanguardia dei malvagi giorni,

avessero sfogato già la loro

cattiveria e la cupa retroguardia

con il suo accumulo di tuoni stesse

lentamente avanzando.90

Poi all’improvviso Tea incomincia a parlare, per deprimerci ancora di più, se già non lo fossimo abbastanza:

Su quel punto

dolente dove batte il cuore umano

premette una mano, come se proprio

lì, sebbene immortale, sentisse

una crudele pena; posò l’altra

sul collo reclinato di Saturno,

e curvatasi vicino al suo concavo

orecchio, le labbra dischiudendo,

pronunciò alcune parole con tono

come musica d’organo solenne,

parole di lamento che così

suonerebbero nella nostra debole

lingua (oh quanto goffa essa è per esprimere

il grande eloquio degli Dèi primevi!):

«Alza gli occhi, Saturno! ma perché,

povero Re perduto? Io non ho

nessun conforto per te, no, nessun

conforto: non posso neanche gridare:

Perché così tu dormi? Perché il cielo

ti ha abbandonato e non ti riconosce

la terra così afflitto come Dio;

e anche l’oceano, con il suo rumore

solenne si è sottratto al tuo scettro,

e tutta l’aria è vuota della bianca

tua maestà. E il tuo tuono, insidioso

al nuovo comando, riluttante

rimbomba sulle nostre diroccate

case, e i tuoi taglienti fulmini in mani

inesperte cocentemente bruciano

il nostro regno un tempo sereno.

Con così spietata velocità

ci raggiungono nuovi dolori

che non ha neanche il tempo d’un respiro

l’incredulità. Continua a dormire, Saturno:

perché io avventata dovrei violare

la tua solitudine soporosa?

Perché dovrei aprire i tuoi malinconici

occhi? Continua a dormire Saturno,

mentre ai tuoi piedi io piango».91

Come l’estasi, l’incubo dilata i tempi. Il poeta ascolta impietrito quelle parole:

Come quando, in una magica notte

d’estate, con i rami innamorati

delle ardenti stelle, sognano i boschi,

senza nessun rumore se non quello

d’un rèfolo solitario di vento

che s’alza dal silenzio poi muore,

come se il riflusso d’aria fosse un’unica

onda, così mi raggiunsero quelle

parole, e passarono, mentre in lacrime

lei premeva la grande bella fronte

contro la terra, dove i suoi cadenti

capelli s’allargavano in riccioli,

un molle tappeto di seta ai piedi

di Saturno. A lungo, a lungo posarono

immobili, come scultura eretta

sulla tomba della loro potenza.

Per lungo tempo, un terribile tempo,

li guardai, ed erano sempre gli stessi,

il Dio gelido ancora sulla terra

piegato e la dea triste che piangeva

ai suoi piedi, Moneta silenziosa.92

A mano a mano che il tempo passa il poeta progressivamente si consuma e vorrebbe morire piuttosto che rimanere lì ad aspettare che qualcosa succeda. Quando ormai è alla disperazione più cupa, finalmente Saturno apre gli occhi.

Ansimando e disperando d’un cambiamento

ora dopo ora mi maledicevo,

finché il vecchio Saturno, gli occhi spenti

sollevando, si guardò attorno e vide

il suo regno svanito e la tristezza

e il dolore del posto e ai suoi piedi

quella bella Dea inginocchiata.

Come l’umido aroma dei fiori

dell’erba e delle foglie impregna l’aria

di boscose vallette d’un profumo

ben noto alle narici del villano,

così anche le parole di Saturno

riempivano i tenebrosi pendii

dintorno, e finanche i tronchi cavi

delle querce róse dal tempo, i meandri

nelle tane delle volpi, con tristi

toni bassi, mentre così parlava,

strane fantasticherie rivolgendo

al solitario Pan.93

Mai nessun dio ha fatto un discorso tanto patetico:

«Piangete fratelli piangete,

perché siamo decaduti, sepolti,

lontani ormai da esercizi divini,

da benefiche influenze sugli esangui

pianeti, da pacifica signoria

sulle messi degli uomini, lontani

da ogni atto con cui la divinità

alleggerisce il suo amoroso cuore.

Piangete e gemete. Piangete,

fratelli, piangete. Perché, guardate,

le sfere ribelli roteano ancora,

e le stelle seguono il loro corso

di sempre, e le nubi con la loro

umida, vaporosa ombra ancora

inquietano la terra,

succhiando il loro pieno di luce

dal sole e dalla luna,

ed ancora germogliano gli alberi,

ed ancora mormorano le spiagge.

E non c’è morte in tutto l’universo

Nessun sapore di morte – ma morte

vi sarà – Piangi, piangi, piangi,

Cibele, perché i tuoi figli malefici

hanno ridotto un Dio in un paralitico

tremante. Piangete, fratelli,

piangete, io sono ormai senza forze,

sono debole come un giunco, debole,

flebile come la mia voce.

Oh che pena, che pena la fiacchezza.

Piangete, piangete, perché

Ancora io mi disfo, oppure aiutatemi:

abbattete quei diavoletti e datemi

la vittoria. Fatemi ascoltare

altri gemiti, e trombe che suonano

di calmi trionfi, ed inni di festa

dai picchi dorati delle alte masse

di nubi celesti, e argentei arpeggi

di corde in cavi gusci; che vi siano

splendide cose rimesse a nuovo

per la sorpresa dei figli del cielo»94

L’unità dello spirito con la natura, l’accordo che sussisteva nel mondo greco degli dèi, giace ora tra l’uomo e la sua coscienza come il dio decaduto Saturno: è ormai un cadavere sconsacrato.

Keats capisce che invocare «le trombe che suonano di calmi trionfi, ed inni di festa [...] per la sorpresa dei figli del cielo» è inutile. Per Keats il tragico è impraticabile:

Cessò così debolmente, con pausa

tanto misera e fievole che pensai

d’aver sentito un vecchio della terra

che si lamentava d’umana perdita;

e i miei occhi e le mie orecchie non potevano

operare con quell’armonia amabile

dei sensi in cui il dolce suono si sposa

alla grazia della forma e l’accento

doloroso d’una tragica arpa

ad una autorevole visione.95

Perché, come Pindaro, gli sembrava che:

Non si deve ad altri mostrare

il male a noi giunto.... Io lo dico:

la parte di bene e di gioia

si deve rivelare al mondo.

Se il Nume agli uomini invia

qualche intollerabile male,

bisogna celarlo nell’ombra.96

E come diceva Anacreonte:

A me l’uomo non piace, che, presso bevendo al cratere

colmo, di risse parla, di lagrimose guerre;

ma quei che, delle Muse gli amabili doni intrecciando,

e d’Afrodite, parla di gioie e di piaceri.97

Per i greci delle origini, la gioia che suscitava la poe­sia nasceva dalla pienezza dell’essere: era un piacere corporeo, come quello del cibo, dell’amore, del­l’ozio.

La risposta per Keats non può essere nel pensiero che indica le differenze, nella filosofia. Keats giunge allora alla conclusione che, se la poesia della gioia non è più possibile, se non c’è continuità nell’ascesa ma una caduta dopo l’altra, se la poesia può essere ormai solo pensiero per ricatturare ciò che è assente, se la poesia deve essere lamento, elegia, scienza del dolore, allora meglio il silenzio, il silenzio dell’uomo saggio, che ha sofferto e ha compreso cosa sia il dolore e che si limita a ben agire; questo supera di gran lunga qualunque parola scritta da un poeta.

Meglio il silenzio, se la poesia non può più essere l’angelo di gioia, il messaggero dell’Altro, ma può solo dare a pochissimi eletti una temporanea immortalità, facendoci correre il rischio di appartenere alla categoria di quei falsi lirici narcisisti.

Keats avrebbe voluto ricreare una mitologia e aveva scelto un tema che gli stava a cuore: anche le dinastie divine sono destinate alla caduta, Iperione deve lasciare il posto ad Apollo, Oceano a Poseidone. Anche sulle cime dell’Olimpo le menti dei nuovi dèi devono continuare a essere afflitte dal pensiero d’una impossibile immortalità: il pensiero del limite, della durata, di un inevitabile declino, di una detronizzazione. Ma si rende conto che ricreare una mitologia è impossibile. Anche le statue greche, in cui i romantici credevano d’aver trovato una forma di immortalità, si stanno sgretolando.

Per un poeta, insomma, è meglio rinunciare a pubblicare libri. Scrive Keats in una lettera:

Vorrei evitare del tutto di pubblicare... Mi piacerebbe scrivere in onore dell’Uomo, ma vorrei che gli uomini non toccassero ciò che scrivo...

Caro Yuri, come puoi vedere, la vita di Keats è allegoria al più alto grado, sia la sua poesia, sia la sua vita sono soggette al medesimo destino: l’incompiutezza, l’impossibilità. Non so se anche la nostra vita sia allegoria. Ma spero di aver risposto ad alcune tue domande sul perché non ho nessuna voglia di pubblicare le mie poesie. Né di continuare a scrivere. Un lettore ce l’ho. E questo mi basta.

Spero di essere stato chiaro e di essere riuscito a svelare il mistero.

Au revoir, mon ami.

Poona, 9 dicembre 2000

Caro Yuri,

spero che la Caduta ti abbia aiutato a capire alcune cose mie. Dopo la lettura di questo poemetto io non ho fatto altro che cercare di dialogare con Keats sugli stessi temi. A che serve scrivere poesia? Può esserci gioia, estasi senza di essa? Può la religione aiutarci? Che rapporto c’è tra religione e sacro? Se Keats fosse vissuto, cosa avrebbe fatto? Cosa sarebbe diventato?

Sulle scelte, rispetto a Keats sono stato molto netto. Ti ricordi quando Moneta dice a Keats: «Se non riesci a salire questi scalini sei morto». E Keats si spaventa e cerca di tornare indietro. Una volta in sogno ho incontrato Keats vecchio e stanco, che mi raccomandava di non salire quei gradini. Meglio una vita piatta e normale che dover fronteggiare la depressione di Saturno.

La favola del vecchio, del ragazzo e della fonte

Tu scala illa Jacob [...],
quae homines vehis ad coelum,
et angelos ad humanum deponis auxilium.
Tu via aurea,
quae hominis reducis ad patriam.
San Pier Damiani

Venne un giorno un vecchio alla fontana

ove spesso m’abbeveravo, lieto

solo di castagni e fiori freschi di montagna.

Severo e cortese era il suo sguardo,

ma come luce di Venere freddo.

Sui suoi occhi stanchi, da dolori

numerosi segnati, mi sembrava che

strani uccelli di passo volassero

verso mete sconosciute diretti.

«Vieni», mi disse, «aiutami ragazzo,

è molto faticoso sai per me

abbassare da solo le ginocchia,

aiutami a bere l’acqua chiara

e limpida di questa fontana

che da anni ormai l’occhio mio non incontrava.

Nei miei giovani anni salii spesso

i sentieri quieti che conducono

a questo profumato altopiano,

e spesso ad essa beato mi dissetai

e poi rapido salivo sui pioli

d’una scala d’oro alta e tralucente

che tanto in su eretta mi pareva,

là oltre quelle vette bianche ancora

di candida neve, che il mio sguardo

seguire tutta non la poteva.

Ma all’improvviso, mentre trascendevo,

mani robuste con forza i miei piedi

afferravano e con fragore immenso,

come aereo che presso irte montagne

precipita, a terra ricadevo.

Guardavo in là e più non c’era la scala,

svanita era come la nebbia tenue

dei mattini romani al primo sole.

E allora per giorni o mesi o anni

come un vagabondo solitario

giravo, con solo un pensiero fisso

nella mia mente: di chi erano quelle

mani poderose che m’avevano

atterrato? Dov’era quella scala

magica ora? E dormivo in una grotta

ove solo un povero fuocherello

riscaldava le mie povere ossa».

«Vecchio», gli dissi, quando infine smise

di parlare, «quante volte l’hai vista

qui quella scala d’oro? E perché a me

mai è apparsa? Anch’io vorrei salirvi».

«No», calmo lui mi rispose, «è meglio

che tu mai non la veda quella scala

d’oro, meglio per te, dopo il tuo giorno

di lavoro, qui presso queste alte

montagne, giorno che spero quieto

passi, tornare giù a valle ove i tuoi

cari t’aspettano e che il buon signore

ti dia, dolce di riposo, una notte.

Che domani così dalle fatiche

ristorato il corpo, non timorosa

l’anima, tu possa al tuo lavoro

tornare senza che vili ansie volino

addentro alle tue stanze, come ciechi

pipistrelli che disperatamente

cercano di uscire dalla finestra

ove senza colpa alcuna essi sono

entrati. Questo per te, solo questo

chiederei, perché è già tanto soffrire

con moderazione e per questo

già vale piegare le ginocchia.

A me i semplici doni che a te auguro

non furono dati. Sì, la rividi

spesso quella scala d’oro e sempre

come bimbo felice che dopo mesi d’assenza

ritrova il padre e felice appena

lo vede corre e il suo collo abbraccia

ai pioli di vento lesto e pio

accorsi quando essa mi riapparve,

ma mai giunsi là ov’essa varca,

perché sempre quelle braccia invidiose

m’atterrarono, e per troppi giorni

chiuso nella mia grotta ruminai

quali fossero le mie colpe o i miei

errori. Oggi solo da poche ore

un angelo m’ha dato la divina

potestà d’uscire dalla spelonca

e trovare di nuovo quest’acqua.

Sento che forse è l’ultima volta

che m’è dato salire e toccarlo

infine quel cielo, guarda come

terso esso è oggi di piccole

basse nuvolette ornato». Lo aiutai

ad abbassarsi alla fonte e con mani

tremanti lo vidi bere un sorso

di quell’acqua di sorgente. E poi

lo vidi allontanarsi, curvo e stanco,

e presso un vecchio nodoso castagno

con uno strano sguardo addormentarsi.

Un abbraccio.

Poona, 10 dicembre 2000

Caro Yuri,

ho ricevuto finalmente un tuo e-mail.

Mi sembra di capire dal tuo strampalato italiano che la Caduta non è stata chiarificatrice come io speravo. Bene, cercherò, con le mie povere parole, di essere un po’ più chiaro.

All’inizio della sua carriera poetica (se di carriera si può parlare!) Keats aveva una sterminata fiducia nella poesia. Per lui la poesia aveva un senso ben preciso: pensava che non potesse essere come un vestito che una donna vanitosa indossa insieme a splendidi gioielli per essere ammirata. La poesia è movimento interiore, crescita e comprensione. All’esterno meglio vestirsi sempre con vestiti prevedibili, flanelle grigie, freschi di lana blu.

Io, come tu sai, ho sempre preferito vestirmi in modo sobrio: abiti scuri, scarpe nere, qualche concessione alle cravatte, insomma il modello consulente McKinsey. A Roma invece anche gli avvocati, i notai, i manager hanno la pessima abitudine di mettere scarpe marroni con pantaloni grigi. Orrendo!

Lo sapevo. Non sono capace di fare un discorso serio oggi. Ci riprovo.

Keats aveva letto Dante, durante la sua famosa e massacrante escursione a piedi in Scozia. E aveva capito come, anche per Dante, il poeta dovesse essere un signore della metamorfosi, diventare tutte le cose e le sensazioni, le impressioni e i sogni, ciò che è umano e ciò che è bestiale e vegetale:

io che pur da mia natura

trasmutabile son per tutte guise!98

Non so se avesse letto Lasino doro: l’Ode a Psiche, comunque, è una delle sue poesie più belle, e forse il più grande omaggio che sia stato fatto alla favola di Apuleio.

E aveva compreso fino in fondo Shakespeare. Scrive in una lettera al suo amico Woodhouse il 27 ottobre 1818:

Riguardo al Carattere poetico in sé e per sé (voglio dire quella specie di cui sono Parte anch’io, ammesso che io sia qualcosa; quella specie distinta dal tipo wor­dsworthiano o egotistico sublime; che è una cosa a sé e sta su da sé) non esiste in sé, non ha un sé, è tutto e niente. Non ha carattere, gode sia della luce sia dell’ombra; vive del gusto, che sia bello o brutto, sublime o volgare, ricco o povero, esaltante o mediocre. Prova lo stesso piacere nel concepire Jago o Imogene. Ciò che sconvolge il filosofo virtuoso, delizia il Poeta camaleonte. Non fa mai male, né quando si sente attratto verso il lato oscuro delle cose, né quando gode del loro lato luminoso; perché in entrambi i casi tutto si risolve in riflessione. Il Poeta è la più impoetica delle cose che esistono; perché non ha Identità, è continuamente intento a riempire qualche altro Corpo – il Sole, la Luna, il Mare e gli Uomini e le Don­ne, che sono creature d’impulso, sono poetiche e c’è in loro qualcosa di immutabile, ma il poeta no; non ha identità, è certamente la più impoetica di tutte le Creature di Dio. Se dunque il poeta non ha un sé, e io sono un Poeta, che Meraviglia c’è se ho detto che non scriverò più? Forse proprio nell’istante in cui lo dicevo stavo già pensando ai Personaggi di Saturno e di Ops? È una cosa tremenda da confessare; ma è un fatto che nessuna parola che pronuncio può essere presa sul serio come fosse un’idea derivante da una natura fedele a se stessa; e come potrei, se non ho natura? Se sono in mezzo alla Gente e non sono assorto in creazioni del tutto private del mio cervello, non riesco da me stesso a rimirar me stesso: l’identità di chi è nella stanza comincia a premere su di me e in un attimo ne sono come annullato, e questo non mi accade solo con gli Uomini; sarebbe lo stesso con dei bambini. Non so se riesco a farti capire: lo spero almeno quel tanto che basta perché tu non dia troppa importanza a ciò che ti ho detto quel giorno.

In secondo luogo mi piacerebbe parlare dei miei progetti, e della vita che intendo fare. Nutro l’ambizione di fare del bene al mondo: se sarò risparmiato questa sarà l’occupazione dei miei anni maturi. Nell’intervallo tenterò di scalare la vetta della Poesia per quanto almeno le forze che mi sono state concesse me lo consentiranno. L’idea ancora vaga dei Poemi futuri mi fa andare il sangue alla testa. Spero tuttavia di non perdere l’interesse alle cose umane; spero anche che l’indifferenza solitaria che sento di fronte ai riconoscimenti, anche da parte degli Spiriti più alti che ci sono oggi, non intacchi l’acutezza della mia visione. Non credo che succederà perché sento che scriverei semplicemente perché amo e desidero il Bello anche se dovessi ogni mattina bruciare le mie fatiche notturne e nessuno dovesse mai neppure vederle. Ma anche adesso forse non sono io a parlare: ma qualcuno nella cui anima io vivo.99

L’eroe romantico poteva giustificare tutto con la sua individualità eccezionale e privilegiata, anche il male. E questo a Keats sembra la perversione peggiore per un artista, il segno della decadenza del suo tempo.

Se tra il fare il bene e il fare poesia passi o meno una differenza qualitativa è un pensiero che per anni lo ossessiona. All’inizio Keats è convinto che l’arte, sebbene non possa lenire il dolore, debba almeno aiutare l’uomo ad allontanarsi dal male: altrimenti è vana scienza. Che importa se un verso suona bene all’orecchio, che sia perfetto nella sua forma, che importa saper discutere profondamente ed essere dottissimi, se questo non giova minimamente ad essere un po’ più buoni, o perlomeno a trovare un po’ di pace interiore? In seguito, anche questo gli sembra un errore. Si rende conto che la poesia non può essere educazione. Non può essere salvezza. «Odio la poesia che ha un disegno palpabile»100, dice in una sua lettera.

Ma allora, cosa deve essere la poesia? Keats dà una risposta quasi inaccettabile. La poesia dovrebbe essere messaggera del sacro, del divino, o quantomeno dell’Altro, dell’invisibile, la sua testimonianza.

Quando inizia a scrivere La caduta di Iperione, nel­l’agosto del 1819, Keats era ancora convinto che «lo scrivere bene, dopo il far bene, è la cosa più importante al mondo»101. Lo dice infatti in una lettera al suo amico John Hamilton Reynolds del 25 agosto 1819.

E il poemetto all’inizio è una dura lotta per cercare di sostenere almeno questa posizione minima. Ma alla fine non riesce neanche in questo. Perché, per ciò che riguarda la poesia che lui avrebbe voluto scrivere, si rende conto che Apollo, l’Apollo che, come dice Wordsworth, è

Bearded Youth, who touched a golden lute,

And filled the illumined groves with ravishment102

non può più nascere. Nel poemetto invece avrebbe voluto celebrare proprio la nascita di Apollo, che rimpiazza Iperione. La sua battaglia è persa. E forse anche la guerra!

Infatti, subito dopo aver interrotto la stesura del poemetto, Keats pronuncia il suo verdetto finale sulla poesia. Il 21 settembre scrive al suo amico Reynolds per informarlo che ha smesso di scrivere la Caduta; «Vorrei dedicarmi ad altre sensazioni»103. E il 22 settembre scrive al suo amico Dilke: «Non ho nessuna fiducia nella Poesia. Non mi stupisce, quello che mi fa meraviglia è piuttosto che la gente legga poesia»104. Il dubbio che tutta la sua poesia sia stata un inganno, addirittura il vano brillare di un gioiello falso, ossessiona gli ultimi mesi della sua brevissima vita: «A volte sono così scettico da pensare che la poesia sia un fuoco fatuo fatto per divertire chiunque rimanga abbagliato dal suo luccichio...»105.

Che cosa si era spezzato nel sistema poetico di Keats?

Come sai, Keats è stato il poeta più ignorante della storia. Non solo non era andato a Cambridge o Oxford, come Byron e Shelley, ma aveva studiato medicina. E non conosceva il greco. Keats aveva imparato molto dai suoi amici colti come Leigh Hunt. Però, aveva anche capito che Hunt non era quel grande poeta che credeva che fosse quando facevano a gara a chi scriveva in un’ora il sonetto più bello.

Hunt, poi, oltre a dirozzarlo un po’, lo aveva introdotto nei salotti letterari londinesi. Quei salotti dove lui furoreggiava, ma dai quali Keats sente presto l’esigenza di staccarsi. Non per superbia, ma perché avverte che se non si fosse allontanato da quel literary chitchat londinese a cui aveva tanto ambito partecipare ai suoi esordi, dalla sciocca vanità dei circoli letterari, non sarebbe riuscito a combinare nulla di buono: sarebbe diventato un Leigh Hunt qualunque.

Soffro enormemente recandomi ad incontri mondani dove, sia per le regole dell’etichetta sia per un mio naturale orgoglio, sono obbligato a smorzare il mio spirito e a sembrare un idiota. Vivo sotto un’eterna repressione, che non si allenta mai se non quando scrivo...106

E i salotti, com’è giusto che fosse, lo punirono sbeffeggiandolo, ridendo alle sue spalle, povero Keats!

Quando aveva solo diciannove anni aveva scritto un ingenuo, sincero sonetto di omaggio a Byron, che nei salotti lo ricambiava chiamandolo con un’espressione il cui equivalente in romano sarebbe «er poeta burino de Centocelle». Una volta lo definì «quel pipparolo di Keats». Quando morì continuò a ridere alle sue spalle, dicendo che era morto di crepacuore per una stroncatura sulla «Edinburgh Review».

Ma torniamo alla gioia. Nella Caduta Keats immagina che il fuoco intorno a cui la sacerdotessa officia il suo rito sprigioni oblio di tutto ma non della gioia. Dopotutto la sacerdotessa è Moneta, la madre delle Muse. La poesia è gioia, felicità, estasi non lamento inutile.

Attraverso la visione, il dialogo diretto con il dio, Keats capisce intuitivamente quello a cui i suoi amici intellettuali avevano tante volte accennato: come quel fuoco si stesse estinguendo, come la tragedia non fosse altro che una distorsione dell’autentico spirito greco. Come dopo Omero, e dopo i poeti lirici – Archiloco, Saffo, Alceo – con Eschilo era cominciata la decadenza dei greci. E dell’intero Occidente.

Forse si sarà ricordato del suo amico Haydon, che era colto e conosceva Winckelmann, quando gli parlava della civiltà greca come luogo di innocenza assoluta prima della caduta, luogo dell’integrità, dell’armonia, dell’unità, senza quella selvaggia scissione che sarebbe poi stata rappresentata dal modello eschileo.

All’improvviso, Keats si rende conto che il poeta moderno si trova di fronte a una contraddizione difficilmente superabile. Dovrebbe cantare il dio, e invece si trova a cantare la sua sparizione. Ancora qualche mese prima, quando scriveva l’Ode a Psiche, anche se cosciente che i tempi non fossero più quelli giusti, nutriva qualche speranza che il dio potesse essere ritrovato:

Tu, più splendida sei, pur troppo tardi nata

Per gli antichi voti o per l’ingenua lira appassionata,

Quando sacri erano i rami della foresta

Incantata, sacra era l’aria, l’acqua, il fuoco:

Pure, anche in questi giorni tanto lontani

Dalle fedi felici, le tue ali lucenti

Che volteggiano tra gli olimpi in rovina io vedo,

E canto, ai miei occhi soli credendo.107

Qualche mese dopo, quando scrive la Caduta, si rende tuttavia conto che non è così. Le porte a est sono chiuse per sempre.

Ma se la poesia diventa desiderio di ciò che non è più, lamento di cio che non ci è più dato, allora non le resta che farsi insegnamento, diventare morale. Il poeta romantico è costretto a diventare educatore. Come Shelley, o come Wordsworth.

A Keats non frega niente della meditazione dei poeti che vogliono salvare la poesia dalla fine. O che intendono la poesia come strumento di salvezza. Questo li riduce a una posa egotista – l’io lirico nobile e alto, l’anima bella.

La poesia non può salvare niente, figuriamoci il mondo. E quando cerca di farlo non è più neanche poesia. Perché per Keats la poesia è solo dialogo con l’al di là, apertura verso il no-thing.

Giunto alla fine della sua brevissima carriera di poeta, maturate le sue convinzioni nell’arco brevissimo di due o tre anni, Keats non assegna alla poesia nessun compito particolare. Se l’uomo cerca la salvezza, non è nella poesia che può trovarla. E in essa non c’è nessuna consolazione. Non c’è nulla che possa alleviare il dolore della morte di un figlio, di un fratello, di un padre o una madre, figuriamoci la poesia.

Credo che, se Keats non fosse morto, avrebbe scritto dei grandi bestseller. Probabilmente sarebbe diventato il Mark Twain inglese, forse solo un po’ meno spiritoso e più disperato, e avrebbe probabilmente guadagnato parecchio denaro. Lo dice chiaramente: se devo proprio scrivere da ora in poi lo farò solo per soldi e per il grande pubblico.

Sempre nella lettera a Dilke del 22 settembre gli annuncia che si è stufato della meditazione e ha deciso di agire: «Ora un atto si divide in tre parti: agire, fare ed eseguire». Vuole dedicarsi al fare quattrini. Ha deciso di «cercare una collaborazione temporanea con qualche periodico».

Anche se sarò spazzato via dal salotto come un Ragno, sono deciso tuttavia a filare, filare a mano qualsiasi cosa da vendere. Sì, mi darò al commercio. [...] È una fortuna che finora io non abbia avuto la tentazione di avventurarmi sul mercato. Un anno o due fa sarei stato troppo sincero – di qualunque cosa avessi parlato. Spero di aver imparato qualcosa nel frattempo e sono sicuro che sarò capace di stare al gioco come gli Ebrei del Mercato e fare un articolo su qualsiasi cosa senza saperne press’a poco nulla. Sì, lo luciderei ben bene, lo farei lucido come un arancio. E non mi imbarazzerebbe affatto fare ricorso anche ad altri mezzi.108

Caro Yuri, cosa potevo fare io se non seguire il mio divino maestro alla lettera? Dedicarmi al commercio e ai soldi, a quella puzzolente azione di cui tante volte mi hai rimproverato?

Ti ricordi la poesia sulle formichine?

Tra le foglie dei platani che tremano

scompare un bianco nuvolo lucente

in un cielo che sa ormai d’autunno.

Ed io qui che guardo queste alacri formichine.

Anche queste dovremo infine invidiare?

Esse che vanno e vanno

e conoscono il valore giusto dell’azione.

Come vedi la domanda sull’agire e sul fine doing era presente anche allora.

Quello che non ha potuto fare lui, cioè guadagnare tanti soldi, ho cercato di farlo io in suo onore. Come Ulisse ho cercato, per tanti anni, con cautela e viltà, di godere un po’ abusivamente e nascostamente dei piaceri della poesia. Mentre, nel frattempo, mi dedicavo ai miei affari.

No non sei tu vile ma generoso

ora che il silenzio ricopre

come con soffice manto di neve

quella stanza che noi dimenticare

non sappiamo o non vogliamo.

Come Ulisse, mi sono legato mani e piedi all’albero della nave, per ascoltare le Sirene senza farmi soggiogare dal loro canto demoniaco. Non avevo nessuna intenzione di approdare nella loro isola, dove, come sai, è alto il rischio di perdersi, dimentichi della propria esistenza, ammaliati e inebriati da quelle voci di miele.

Avevo vissuto troppo nell’anima di quell’incanto e ne conoscevo fin troppo bene la seduzione. Come Ulisse, ho cercato spesso di slegarmi, ma per mia fortuna non ci sono riuscito.

A domani, spero.

Poona, 11 dicembre 2000

Caro Yuri,

forse c’è qualcosa di incompleto, persino di ingiusto, nel quadro che ti sto dipingendo. Tento di spiegarmi.

Keats avrebbe voluto essere un nuovo Pindaro. Cantare la gioia. Non è vero che tutto è vanità. Quel momento di estasi, di gioia che ci attraversa non è vano, è un trionfo, una delizia. Ed è dovere del poeta celebrarlo.

Nella sua colossale ambizione poetica, Keats avrebbe voluto essere il fondatore di una nuova epoca, di una nuova religione, di una nuova città, di un nuovo modo di vita.

Pensava che il poeta fosse uno sciamano, l’eroe che in mezzo ad atroci dolori e immani fatiche va alla ricerca di una visione e la riporta in mezzo agli uomini, come Buddha che si ritirò in solitudine sotto l’albero della conoscenza immortale fin quando ebbe la visione. Oppure come Gesù, che dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni Battista si ritirò nel deserto per quaranta giorni e tornò da lì con la sua buona novella. O come Mosè che sale sulla montagna, dove incontra Jahwèh e ritorna con i dieci comandamenti.

Il poeta è un illuminato, insomma. Colui che riconosce la bellezza eterna della natura al di là della dimensione temporale, al di là del bene e del male, al di là del buono e del cattivo. Che riconosce il valore eterno dell’arte e del piacere che ne deriva, e comunica agli uomini l’estasi che qui possono trovare, come era successo a lui guardando un’urna greca:

Tu, ancora inviolata sposa della quiete,

Figlia adottiva del tempo lento e del silenzio,

Narratrice silvana, tu che una favola fiorita

Racconti, più dolce dei miei versi,

Quale intarsiata leggenda di foglie pervade

La tua forma, sono dèi o mortali,

O entrambi, insieme, a Tempe o in Arcadia?

E che uomini sono? Che dèi? E le fanciulle ritrose?

Qual è la folle ricerca? E la fuga tentata?

E i flauti, e i cembali? Quale estasi selvaggia?

Sì, le melodie ascoltate son dolci; ma più dolci

Ancora son quelle inascoltate. Su, flauti lievi,

Continuate, ma non per l’udito; preziosamente

Suonate per lo spirito arie senza suono.109

Invece, quando scrive la Caduta, gli sembra di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano. Nella depressione più nera, con a fianco quel tipetto allegro che è Saturno, dopo che un dio gli ha rivelato che la poesia conta ormai come il due di bastoni con briscola a denari. E se proprio è bravo gli darà il contentino, visto lo sforzo che ha fatto, e solo perché è più sfigato degli altri.

Penso che con il tempo, se fosse vissuto più a lungo, avrebbe capito che Saturno non era solo un dio depresso, detronizzato, che qualche merito lo aveva. Non per nulla era anche stato l’architetto del mondo. Aveva inventato il tempo e l’agricoltura. Avrebbe scoperto che la vita del saturnino, del melanconico, è fatta di opposti, di abbattimenti ed esaltazioni, depressioni ed eccitazioni, desolazione ed estasi.

Quando è nella fase negativa, il saturnino è preda di sospetti, paure, terrori. Vede nemici che lo attaccano da più parti. È terrorizzato di perdere tutto, tanto il suo nemico gli sembra forte e invincibile. Il suo io non solo non scompare, ma si moltiplica, diventa esso stesso un nemico. Non ama se stesso, figuriamoci gli altri. Il suo cuore sembra morto. Verso gli altri non prova altro che ostilità, rancore. Unica consolazione: ridere alle loro spalle.

Ma quando è in fase positiva, all’improvviso il saturnino, se è un artista, si trasforma. La sua intelligenza diventa di una velocità mostruosa; un torrente di luce scroscia sulle cose che vede. Lo spirito è assalito dalle visioni di Dio e degli angeli, i suoi occhi brillano di una luce che nessun altro occhio ha. Dalla sua mente sgorgano immagini seducenti e colorate. Quan­do riesce a concentrarsi su se stesso, l’anima diventa un fiume di pace: come dice san Giovanni della Croce, «l’acqua divina ricolma le depressioni della sua umiltà e riempie la cavità dei suoi desideri»110. L’anima gusta abbondanza di ricchezze inestimabili, apprende segreti straordinari. Tutti i fiumi del modo la investono, ma senza tormento «perché i fiumi sono fiumi di pace»111.

Se è un artista, il saturnino proietta il suo io fuori di sé, e trasforma il suo mondo interiore in opera d’arte, anche se non ne può mai gioire totalmente perché sa che può pagare questi doni a caro prezzo. Sa che il suo furore può degenerare in follia. Il confine tra follia e arte è sottilissimo. Come dice Platone nel Fedro: «Chi [...] giunge alle porte della poesia senza la mania delle Muse, convinto che sarà un poeta valente grazie all’arte, resta incompiuto e la poesia di chi è in senno è oscurata da quella di chi si trova in preda a mania»112. Il saturnino sa che, per conoscere quella luce abbagliante che può dare forma alla sua arte, deve attraversare l’ombra e sostare sull’orlo di un abisso. Se riesce a riempirlo di rose ha arricchito il mondo.

Il saturnino artista è spinto da un irrefrenabile istinto a far rinascere in terra quell’età dell’oro, sotto la quale non a caso aveva regnato Saturno, quando una primavera eterna regnava sulla terra e non esistevano armi o soldati. La sua arte è l’età dell’oro.

Il saturnino sa di capire più degli altri ma non è immodesto, anche se è consapevole che tutti i grandi artisti, poeti e filosofi, da Platone a Michelangelo, da Leopardi a Kierkegaard, da Aristotele a Baudelaire, hanno avuto in sorte lo stesso destino. Ha la coscienza di essere abitato da forze che lo sovrastano e si servono di lui per scopi a lui non chiari. Sa che a differenza di altri, che vivono un’esistenza media, egli conosce solo l’eccesso, di felicità e di infelicità. E, soprattutto, che è simile a una divinità decaduta, prigioniera in una squallida valletta, ai limiti della terra, con nella memoria il ricordo di un’utopia e della sua fine irreparabile.

Cosa sarebbe successo a Keats se fosse vissuto? Avrebbe fatto la stessa fine di Hölderlin? Non lo sappiamo. Ma nella stessa lettera in cui comunica al suo amico Reynolds che ha interrotto la Caduta, Keats inserisce una poesia, Ode allautunno, l’unica ode senza allusioni alla mitologia classica, la più perfetta poesia della letteratura inglese.

La disillusione totale lo ha portato alla perfezione. La sconfitta più profonda, il fallimento più completo, lo porta al più grande successo di tutta una letteratura:

Season of mist and mellow fruitfulness,

Close bosom-friend of the maturing sun;

Conspiring with him how to load and bless

With fruit the vines that round the thatch-eaves run;

To bend with apples the moss’d cottage trees,

And fill all fruit with ripeness to the core;

To swell the gourd, and plump the hazel shells

With a sweet kernel; to set budding more,

And still more, later flowers for the bees,

Until they think warm days will never cease;

For Summer has o’er-brimm’d their clammy cells.

Who hath not seen thee oft amid thy store?

Sometimes whoever seeks abroad may find

Thee sitting careless on a granary floor,

Thy hair soft-lifted by winnowing wind;

Or on a half-reap’d furrow sound asleep,

Drowsed with the fume of poppies, while thy hook

Spares the next swath and all its twined flowers:

And sometimes like a gleaner thou dost keep

Steady thy laden head across a brook;

Or by a cyder-press, with patient look,

Thou watchest the last oozings, hours by hours.


Where are the songs of Spring? Ay, where are they?

Think not of them, thou hast thy music too, –

While barred clouds bloom the soft-dying day,

And touch the stubble-plains with rosy hue;

Then in a wailful choir the small gnats mourn

Among the river-sallows, borne aloft

Or sinking as the light wind lives or dies;

And full-grown lambs loud bleat from hilly bourn;

Hedge-crickets sing; and now with treble soft

The red-breast whistles from a garden-croft;

And gathering swallows twitter in the skies.113

L’ideale di poesia che Keats aveva vagheggiato, in cui non c’è nessun io che parla, gli venne senza sforzo, come una foglia su una pianta, un 19 settembre mentre passeggiava per i campi nei pressi di Winchester senza più nessuna fiducia nella propria arte. Un grappolo d’uva maturo, una castagna che un gior­no decide che è ora di staccarsi dal riccio e cadere per terra. Una poesia che né Shelley con la sua vaghezza e la sua approssimazione, né Byron con la sua superficialità avrebbero mai potuto scrivere.

Come per miracolo, nell’Autunno Keats, senza aver­ne coscienza, supera il tragico in cui si era impelagato con la Caduta. Keats, che “cercava tesori al­l’este­ro”, inciampava per caso in un gioiello di casa propria di cui non sospettava nemmeno l’esistenza.

Nella lettera in cui parla di questa poesia a Reynolds, Keats fa una strana associazione tra Chatterton e l’autunno:

Com’è bella la stagione adesso! Com’è fresca l’aria. Pungente ma dolce. Veramente, senza scherzare, un tempo casto, cieli di Diana; non mi sono mai piaciuti tanto i campi di stoppie come adesso. Sì, molto meglio che il verde freddo della Primavera. In qualche modo i campi di stoppie sembrano caldi, come può sembrare caldo un dipinto. Questo mi ha colpito così tanto durante la mia passeggiata domenicale che ho scritto una poesia.

Spero che tu abbia qualcosa di meglio da fare che contemplare il tempo che fa. Ci sono state delle volte che ero così felice che non avevo idea di come fosse il tempo. [...] Non so perché ma ho sempre associato Chatterton con l’Autunno.114

All’improvviso, dunque, Keats rinuncia al verde fred­­do della primavera, quella primavera eterna che regna­va nel tempo dell’oro, e si associa a Chatterton, poe­ta che morì giovanissimo, suicida, rimanendo per­tanto casto di fronte alla vita e all’esperienza. La scel­ta di una lingua arcaica, simile a quella di Chatterton, non è casuale, anche se probabilmente inconscia: essa rappresenta una lingua anteriore al tragico, perché casta di fronte al male.

Ma nell’autunno non ci sono nemmeno i violenti paradossi, l’esplosione dei contrari come nelle precedenti odi. Non ci sono epifanie divine. Non c’è l’estasi del contatto ma neanche la disperazione dell’assenza. Non c’è opposizione tra essenza e coscienza: piuttosto, una matura ricchezza dello spirito capace di incorporare il negativo dell’esistenza in un sogno non continuamente contraddetto dal reale.

Mi sembra di capire che questo autunno dello spirito, nella sua qualità media, sia stato per tanti anni il nostro sogno condiviso.

È assolutamente impossibile tradurre l’Ode allautunno. Se ne può solo scrivere una diversa, oppure fare un omaggio, tale però da mettere in mostra il grande abisso tra il capolavoro di Keats e qualunque altra cosa potrà mai essere scritta sull’autunno.

O autunno, autunno caro,

è la tua stagione di raccolto,

perché maturi ormai sono i dolori,

matura ormai è la gioia,

mature sono le parole,

ora che i ricci spinosi cader

fanno le benigne castagne.

Rada di canti passata è

la nostra primavera

(un campo verde ma senza fiori)

e ora, ora che l’inverno è vicino,

come sono gialli e chiari

i colori di queste

nostre amate terre!

E mentre per l’ultima volta

i miei vecchi sentieri salgo,

quieti di boschi, lasciami

porgere l’ultimo addio

ai boscaioli che dopo un giorno

lungo di lavoro, al piccolo

paese giù a valle tornano,

con sulle spalle un tronco di legno.

Oppure seduto in disparte,

lasciami osservare il padre, i fratelli,

che roncano le rosse erbe

delle dolci declinanti radure,

e accendono poi fuochi

bruciando tutto quello

che il prato ha fiorito.

Oh come m’inebria l’odore

acre dei fuochi, mentre pensieroso

il villaggio di Capodirigo guardo,

là sulla fronte della montagna,

oltre la valle, e di stanchezza placido

socchiudo pian piano

i miei occhi integri ancora.

Tu cara stagione

non offri rose agli sguardi

lieti d’amore, né meriggi lenti

d’estate per maturare riposi,

e poi rallegrare le sere,

guardando sul tardi

l’allegro volo delle capinere,

tu porti nelle tue tasche castagne

che pigre bolliranno

nei camini le sere aspre d’inverno,

le castagne che curvi gli uomini

nei rozzi sacchi sulle spalle portano,

spesso troppo pieni,

e alti sulla testa le donne.

Eccola la mia speranza: cantare gli affetti del cuore nel mio autunno. Osservare in disparte il padre e i fratelli che, durante il mese di settembre, «roncano le rosse erbe», per poter poi raccogliere più facilmente le castagne in ottobre. Capodirigo è un altro piccolo paesino sopra il mio: si vedeva molto bene, quando il cielo era limpido, da un nostro piccolo bosco di castagni che si trova in una valle chiamata Valle Pura. Non sto scherzando. Se vuoi ti ci porterò un giorno, quando sarò tornato.

Mi fermo perché mi sembra di essere più confuso del solito.

A domani.

Poona, 12 dicembre 2000

Caro Yuri,

quando Dio ci scacciò dal giardino mise due cherubini con la spada fiammeggiante a guardia del­l’E­den, sul cancello a est. Nei templi buddisti, dove Bud­dha è seduto sotto l’albero della vita immortale, c’è la porta a est, e all’ingresso ci sono due guardiani, gli angeli tra cui bisogna passare per raggiungere l’albero; uno ha la bocca chiusa e uno la bocca aperta, rappresentando la paura e il desiderio. Se queste figure ci appaiono minacciose, se temiamo per la nostra vita, per i nostri averi, allora siamo ancora fuori dal giardino.

Ma chi non è attaccato all’esistenza del proprio io, poiché lo considera solo parte di una più ampia totalità eterna, e non è attaccato ai propri averi, alle proprie ricchezze, riesce a entrarci. Si muore nella carne ma si rinasce nello spirito. E si entra nella bellezza.

Fosse capitato da queste parti, chissà se Keats si sarebbe ricreduto sulle porte per sempre chiuse a est, se avrebbe ritrovato fiducia in quella che a me pare la funzione dell’arte: rivelare, attraverso l’oggetto che produce, l’ordine nascosto della nostra vita e renderci consapevoli, come dovrebbero fare le religioni, che la sofferenza in questo mondo ha una funzione spirituale. Colui che soffre è come il Cristo sceso in terra per rivelarci la sola cosa che ci trasforma da belve in esseri degni di chiamarsi umani, cioè la compassione, che risveglia il cuore umano all’amore e ci mette in cammino.

È questo il tema che vorrei sviluppare, se un giorno dovessi tornare a scrivere: la possibilità, attraverso l’amore, di ritrovare il proprio carattere e il proprio destino – di ritrovare il padre.

Adieu.

Poona, 13 dicembre 2000

Caro Yuri,

come sai l’anno scorso è morto mio padre.

Ricordo ancora quando morì tuo padre in Russia. Tu abitavi a Roma. Me ne parlasti come se avessi letto un fatto di cronaca sul giornale.

Voglio trascriverti il testo che scrissi per i funerali di mio padre e che mio figlio Giacomo lesse durante la funzione, nella piccola chiesa del Crocifisso.

Mio padre aveva molto sofferto da piccolo, e questo aveva reso il suo carattere spinoso come un rovo di more.

Quando nacque, nel mese di ottobre del 1921, primo figlio maschio, nonno Francesco aveva già cinque figlie. Lanno seguente nacque un altro maschio. Tante bocche da sfamare e i raccolti cominciavano a non essere più sufficienti. Poi cera stata la guerra e lo Stato aveva bisogno di soldi, tanti soldi, per ripagare le spese. Allo Stato interessava poco che in quella famiglia ci fossero nove bocche da sfamare. Le tasse erano tasse, e bisognava pagarle. Furono anni di stenti.

Nel 1930 morì sua madre, lasciando nonno Francesco solo con sette figli. Zia Giovanna, la più grande, cercò di fare da madre a mio padre, riuscendoci però solo in parte. C’è una storia che mio padre ha raccontato in modo ossessivo. Probabi­lmente non si ricordava quante volte me l’avesse raccontata.

Era il Ferragosto del 1931; mio padre era un ragazzino gracile di non ancora dieci anni. Unaltra sorella, zia Margherita, nel pomeriggio lo costrinse, lui che voleva rimanere in paese a far festa con gli altri ragazzini, a seguire il suo giovane marito Adolfo che doveva portare gli animali su in alta montagna. Mio padre tornò in serata con la febbre; e quando zia Giovanna volle che si affacciasse alla finestra a guardare i fuochi dartificio che illuminavano il paese e tutte le colline intorno, lui non ce la fece neanche ad alzarsi dal letto.

A zia Margherita non perdonò mai la sua durezza di cuore in quel giorno di festa e, presumo, in tantissimi altri giorni. A zia Giovanna e a suo marito zio Vincenzo, invece, mio padre restò sempre affezionato. Quando zia Giovanna morì, il 17 gennaio 1966, ne fu addoloratissimo. E con i nipoti – Mimmo, Graziano, Angela, Fausta e Giuseppina – rimase sempre in buoni rapporti, cosa non usuale per lui.

Il 28 maggio del 1941 mio padre, che non aveva ancora vent’anni, si presentò a una caserma di Perugia per imparare a fare il soldato e andare in guerra.

«Cosa sai fare?», gli chiesero.

«Nulla», rispose mio padre.

«Ma qualcosa la saprai pur fare?».

«Sì, so suonare il clarinetto», disse.

«Bene, farai il trombettiere», gli risposero e, senza preoccuparsi di spiegargli per quali ideali o interessi era chiamato a combattere, lo mandarono a fare il soldato trombettiere.

Finì in aeronautica. A Trapani, prima di essere fatto prigioniero dagli americani nel luglio del 1943, vide un aereo militare cadere a poche centinaia di metri da lui.

Non so quanti anni avessi quando mi raccontò questo fatto. So che l’aereo che cade è diventato uno dei miei sogni ricorrenti. Perché anche la guerra, a noi piccolini, mio padre la raccontò migliaia di volte, davanti al fuoco nelle sere d’inverno, mentre lui girava le caldarroste, oppure la domenica a pranzo, dopo aver bevuto qualche bicchiere di troppo. E parlava sempre di guerra il giorno di Ferragosto, anche l’ultimo che abbiamo passato insieme.

Dopo linvasione degli americani in Sicilia fu portato in un campo di prigionia in Nord Africa, nei pressi di Orano. Fece lautista per alcuni ufficiali americani. Al loro ritorno da qualche missione aerea in Italia, molti gli raccontavano dove avevano sganciato le bombe e lui pensava: «Questi sono andati a bombardare il mio paese e io ora gli faccio da autista».

Ma gli americani, sembra, lo trattarono meglio degli italiani. Tutto considerato, mio padre ebbe sempre un buon ricordo della sua prigionia. Nel luglio 1945 una nave lo riportò in Italia, a Livorno. Da lì tornò in autostop in paese, dove arrivò l’8 agosto del 1945. Suo nonno era morto da due anni e lui non ne sapeva nulla. L’Italia era ammaccata e stanca. Il nostro paesino, più povero che mai.

Dagli americani, dopo infinite trafile burocratiche presso gli uffici militari italiani, che dovevano effettuare il pagamento, riuscì a ricevere circa duecentomila lire, per alcuni lavori fatti durante la prigionia.

Nel 1947 sposò mia madre, che era giovanissima. Ho guardato spesso la loro unica foto di matrimonio. Mia madre è vestita semplicemente, con un fiore tra le dita. Nella foto sembra offrirlo a mio padre, un giovanotto di ventisei anni appena compiuti, elegante, magro, in un doppiopetto scuro e con un bel paio di baffetti. Le cose non andarono come pensavano mia madre e mio padre quel giorno. Di felicità, credo, ne assaporarono ben poca.

Un’altra storia che mi raccontava spesso e che mi colpì profondamente è quella dei due fratelli di nonno Francesco, zio Pietro e zio Salvatore.

Nel 1900 zio Pietro e zio Salvatore decisero di emigrare a Pittsburgh negli Stati Uniti; zio Pietro tornò in Europa con lesercito americano, andò a combattere sulla Marna, comportandosi anche bene, sembra. Quando tornò negli Stati Uniti, tutto quello che la sua nuova patria seppe offrirgli fu un posto da minatore in una miniera di Pittsburgh. E zio Pietro volle che a lavorare vicino a lui ci fosse anche suo fratello Salvatore. Il 17 gennaio del 1920 i cavalli che trasportavano un enorme vagone di carbone verso luscita simbizzarrirono; il carrello scivolò e schiacciò zio Pietro contro un muro. Il 17 gennaio dellanno seguente zio Salvatore, al quale nel frattempo era nato un figlio che aveva chiamato Pietro, prese un giorno di permesso perché voleva andare a pregare sul posto dove suo fratello era morto lanno prima. Mentre pregava, un enorme lastrone si staccò dal soffitto e lo schiacciò.

Il figlio Pietro vive ancora a Pittsburgh. Mio padre riuscì anche a rintracciarlo e andò a trovarlo qualche anno fa. Sembra che non parlasse una parola di italiano e che a malapena sapesse da quale parte dell’Italia suo padre era partito.

Quando io nacqui mio padre non c’era. Era emigrato in Belgio, anche lui a fare il minatore. La prima volta che lo vidi avevo tre anni.

L’estate di qualche anno fa, appoggiato alla ringhiera del nostro terrazzo, guardavo mio padre che come al solito si affaccendava a curare l’enorme orto che dalla nostra casa scende verso il fiume. Pensavo ai tanti alberi da frutto – meli, peschi, susini, cachi, fichi – che aveva piantato durante gli anni. Mi accorgevo che non riuscivo mai a distinguere i canti dei tanti uccellini che provenivano dall’orto e dalla folta vegetazione vicino al fiume. Cos’erano? Usignuoli, fringuelli, allodole? E pensavo, guardando l’orto: «Lì potremmo fare un campo da tennis, là una piscina. Ma figuriamoci mio padre: neanche a parlargliene». E poi, ascoltando i rintocchi della campana della chiesa del Crocifisso, mi misi a pensare allo scorrere inesorabile del tempo e a come mi sarebbe piaciuto tornare bambino. Mi venne in mente una poesia del poeta spagnolo Machado:

Gallerie dell’anima... L’anima bambina!

Risuona ancora la sua chiara luce

e la sua piccola storia

e l’allegria della vita nuova.

Oh poter tornare a nascere e camminare,

già rintracciata la nascosta via!

E tornare a sentire nella nostra mano

quel dolce palpitare della mano buona

di nostra madre. E camminare in sogno

portati dall’amore di quella mano.

Tutto nelle nostre anime, tutto

una misteriosa mano governa.

Muti, silenziosi,

quasi nulla sappiamo delle anime nostre.

La parola più profonda del saggio

ci insegna solo

il sibilo del vento quando soffia

o il suono dellacqua quando scroscia.115

E invece, pensai, sono ormai un omaccione maturo, e sulla barba spuntano i primi peli bianchi. E fra poco anche mio padre non ci sarà più. Non so perché, ma una melanconia mi scivolò dentro, silenziosa come una serpe sul prato. E scrissi questo piccolo testo dedicato a mio padre:

È ormai quasi tutta scesa la sabbia

nella clessidra di tua vita, padre,

padre come me bello, come me brutto,

come me pieno di bene, come me pieno di male.

E presto verrà quel giorno

in cui tutti come sempre s’alzeranno

per dedicarsi ai propri affari, ai propri piaceri,

ai propri doveri,

ma tu non imprecherai più

contro la Fortuna che non ti è stata grande amica,

non imprecherai più contro i potenti

di questo mondo,

né coltiverai più vane speranze,

né più ti affannerai per costruire questo o quello.

E andrai ad occupare quel loculo

già pronto al cimitero

accanto a quelli di mia madre e di nonno Tommaso.

E io, Ivo e Leo ti seguiremo

non spezzati dal dolore ma assorti,

senza parole, ognuno ripensando al tempo passato.

Io di te questo vorrei ricordare:

quando andammo una sera a prendere gli uccellini

che avevano fatto un nido per terra

presso la tua vigna preferita, l’ara trecina;

e quando mi portasti a fare un bagno al fiume,

sotto la casa cantoniera,

lì dove l’acqua ora è bassa,

ma allora formava un piccolo laghetto;

e quando davanti al fuoco ci arrostivi le castagne,

e noi fratelli facevamo a gara

a chi ne sbucciava di più.

E infine quando ti vidi la prima volta,

io che avevo già più di tre anni

– oh come la ricordo bene quella sera,

l’attesa della corriera, l’ora tarda –

e tu tornavi dalla miniera del Belgio,

portando finti sigari di cioccolata al nonno,

nonno Tommaso che di lì a poco sarebbe morto.

Dimenticato sarà

tutto il rancore della sfrontata giovinezza.

Poona, 14 dicembre 2000

Caro Yuri,

penso ormai di averti detto quasi tutto, almeno per ciò che riguarda i miei rapporti con la poesia e l’arte. Come Keats avevo un’idea troppo alta della poesia. Ma a un certo punto mi sono reso conto che la poesia oggi interessa poco. E soprattutto non ci può più salvare. E non vale la pena per essa diventare degli asini, come i tanti amici che conosciamo.

Prima di chiudere però devo tornare ai quei primi quindici versi (nella versione inglese) della Caduta, di cui ti accennavo giorni fa.

Hanno i loro sogni i fanatici

e un paradiso poi con essi intrecciano

per una setta. E anche il selvaggio

dall’alto delle più nobili forme

del suo sonno un cielo intuisce. Peccato

essi non abbiano tracciato ombra

di dolce melodia su pergamena

o carta d’India. E spogli di lauro

essi vivano, sognino e muoiano.

Perché solo la poesia raccontare

può i suoi sogni, e con il puro incanto

delle parole redimere può

l’immaginazione da un’oscura

malia, da un ottuso incantesimo.

Chi può dire tra i vivi:

«Tu non sei poeta, puoi tu forse i tuoi

sogni raccontare?». Poiché ogni uomo

la cui anima non sia zolla ha visioni,

e potrebbe narrarle anche, se amato

avesse la sua madre lingua,

così da essere da lei educato.116

Chi sono i fanatici? E chi sono i selvaggi? E perché Keats divide gli uomini solo in queste due categorie? Un’idea me la sono fatta. Ma devo cominciare da molto lontano, dalle tentazioni di Gesù e da quelle di Buddha.

Quando Gesù va nel deserto per quaranta giorni deve superare tre tentazioni. La prima è quella economica. Il diavolo va da lui e gli dice: «Mi sembri affamato, baldo giovine! Perché non muti in pane queste pietre?». E Gesù gli risponde: «Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».

Viene poi la tentazione politica. Il diavolo conduce Gesù in cima a una montagna, gli mostra tutti i regni del mondo e gli dice: «Tutte queste cose io ti darò, se prostrandoti, mi adorerai». Gesù rifiuta. E allora il diavolo gli dice: «Visto che sei tanto spirituale, sali con me in cima al tempio di Erode e fammi vedere come sai lanciarti di sotto. Dio ti sorreggerà e non ti farai neanche un graffio». Ma Gesù gli risponde: «Non tenterai il Signore Dio tuo». Neanche a Gesù piacciono quelli che sono così spirituali da essere al di sopra delle preoccupazioni della carne e di questa terra.

Buddha va a meditare non nel deserto ma nella foresta. E lì ha dapprima scambi con tutti i grandi intellettuali dell’epoca, che però non riescono a dargli le risposte che cerca. Allora prosegue da solo e, dopo molte prove e lunghe ricerche, giunge sotto l’albero del­l’illuminazione. Qui, come Gesù, deve vincere tre tentazioni. La prima è la tentazione del piacere. Il Signore del Piacere mostra a Buddha le sue tre belle figlie. I loro nomi sono Desiderio, Compimento e Rimorso. Ma Buddha si è ormai liberato dall’aspetto sensuale e rimane impassibile. La seconda tentazione è quella della Paura. Il Signore del Piacere si trasforma nel Signore della Morte e scaglia contro Buddha un’armata di mostri. Ma Buddha ha trovato dentro di sé quel punto fermo che è l’Eternità, non toccato dal Tempo. Così rimane ancora impassibile e le armi scagliate contro di lui si trasformano in fiori di gloria. E infine il Signore del Piacere si trasforma nel Signore del Dovere Sociale e gli dice: «Caro giovanotto, ma che fai qui dalla mattina alla sera, non leggi i giornali? Non ti preoccupi di tutto quello che succede nel mondo? Degli attentati terroristici, delle guerre? E tu te ne stai qui, solo soletto, a meditare per i fatti tuoi?». Bud­dha neanche risponde, tocca la terra con la punta delle dita della mano destra. Allora si ode la voce della madre dell’universo che dice: «Il mio amato figlio ha già donato così tanto di sé al mondo che nessuno può dargli ordini. Basta con queste sciocchezze». Allora l’elefante su cui sedeva il Signore del Dovere Sociale si inchina in onore di Buddha e, come in sogno, i fantasmi tentatori si allontanano. Quella stessa notte Buddha perviene all’illuminazione.

Come vedi, l’ho presa da lontano. Allora, chi sono i fanatici? I fanatici a cui pensava Keats sono tutti coloro che non andranno mai a meditare nel deserto o nella foresta. E che quindi mai si porranno il problema se si debba resistere o meno alle tentazioni.

I veri fanatici di oggi ricadono in due categorie: coloro che non credono che si debba andare “Oltre”; e coloro che sono incapaci di dialogare con l’“Altro”. È un discorso complesso, a cui in questa lettera posso solo accennare. Ci sto meditando da tempo e non credo di aver portato il mio pensiero a maturazione. Forse ci tornerò alla fine del mio viaggio in India; mi sto rendendo conto che non c’è oggi, se si vuole creare una vera “élite intellettuale” nel senso in cui l’intendeva René Guenon, altra possibilità che una vera, paritaria alleanza tra pensiero europeo e pensiero indiano. Questo sembra che l’avesse già compreso Plotino che si proponeva di conoscere la filosofia indiana e per far questo non esitò a seguire l’esercito dell’imperatore Gordiano che si preparava a marciare verso l’Oriente.

Dunque, il primo tipo di fanatici sono i fondamentalisti del «tutto nasce e muore qui». Quelli che credono che la terra sia tutto. E che quindi tutti i sogni dell’uomo possano realizzarsi qui e nell’arco di una vita. Essi sono coloro che cadono facilmente nelle prime due tentazioni a cui fu sottoposto Gesù: la ricchezza e il potere politico.

Keats, come noto, è il poeta più “incivile” della storia, nel senso che c’è una totale assenza di poesia civile dalle sue opere. Mai gli sarebbe venuto in mente di scrivere una trombonata impegnata come Carducci o come il Quasimodo di Ai quindici di Piazzale Loreto, che tanto piaceva agli intellettuali impegnati.

Ovviamente qualche idea politica l’aveva anche Keats. Era chiaramente antimonarchico, ma non era filobonapartista come il suo amico Leigh Hunt, che dirigeva la rivista «The Examiner». Scrive in una lettera a suo fratello George:

Nonostante la partecipazione dei Liberali alla causa di Napoleone, io non posso fare a meno di pensare che egli ha recato più danno alla Libertà di quanto non avrebbe potuto recarne chiunque altro; non che i legittimisti abbiano fatto o intendano fare qualcosa di buono; anzi, hanno imparato da lui la lezione e faranno tutto il male che avrebbe fatto lui senza niente del bene che comunque egli avrebbe fatto. La cosa peggiore che ha fatto Napoleone è di aver insegnato a costoro il modo di organizzare i loro mostruosi eserciti.117

E cosa pensasse dei politici lo dice chiaramente in Endimione:

V’è chi comanda i suoi simili

con suadentissimo similoro: chi l’ovile apre

alle proprie belanti vanità, che bruchino

tutta la buona erba verde e umida

dei pascoli umani; oppure – O quale tortura! –

chi, con sguardo idiota, vedrà in libertà

volpi fuoco-recanti per ardere e avvampare

le nostre speranze spighe dorate e colme. Senza un lampo

di splendore sacrale, né occhio

pari a quello d’un gufo, però adornati sono

dalle genti cieche in purpuree vesti,

e corone e turbanti. Con cuori vuoti,

ma gonfi del proprio plauso, orgogliosamente montano

sul posatoio dello spirito, dell’alta stima di sé,

dei loro nulla superlativi, dei loro opachi cieli, dei loro

troni –

tra violente unebrianti squilla

di trombe, grida, e percossi tramburi,

e improvvisi cannoni. Ah! come tutto questo rimbomba,

al desto orecchio, quuale tumulto passato e perso –

come le tonanti nubi che parlarono a Babilonia,

e quegli antichi Caldei misero all’opera. –

Dunque, la regalità è sempre una dorata maschera?118

Quindi i fanatici sono innanzitutto i politici, quelli di destra, quelli di sinistra, quelli di centro, perché comune in loro è – O quale tortura! – il desiderio di avvampare, per poi arderle come legna secca, le nostre speranze dorate e mature come spighe di grano. Con il solo scopo di aprire l’ovile delle proprie belanti vanità. Non solo senza un lampo di splendore sacro nei loro occhi, ma con sguardi tanto miopi che sono peggiori di quelli di un gufo. E con cuori vuoti, ma gonfi del proprio plauso, dei loro nulla superlativi, adornati dagli stati di purpuree vesti e corone e turbanti, si appoggiano sulle grucce del loro vuoto spirito, sull’alta stima di sé, per ricevere e godersi gli inebrianti squilli di tromba dei giornali, delle televisioni, e delle folle cieche che li applaudono.

Quelle folle a cui i politici, o meglio gli uomini di potere, raccontano la favoletta che il mondo è sbagliato e che quindi bisogna riformarlo, cambiarlo, modernizzarlo, rivoluzionarlo, e per fare questo ogni mezzo è giustificabile, anche la violenza più estrema, quella violenza che è la parte peggiore del nostro essere uomini.

Quelle enormi folle ormai all’oscuro che l’unico cambiamento possibile è il cambiamento di noi stessi, e che c’è più miseria nelle città disseminate nelle sterminate praterie del far west americano (hai mai visto Fargo dei fratelli Cohen?) che nei paesini sulle coste del Madagascar, se si riuscisse a distinguere meglio ciò che è miseria da ciò che è povertà, e si capisse che la povertà può anche essere libertà, se è superamento dei bisogni e delle false necessità.

Dunque, la regalità è sempre una dorata maschera?

Bella domanda.

I fanatici, tuttavia, non sono solo i politici, ma anche gli uomini d’affari, quelli che puntano solo sul denaro, fine a se stesso, i falsi cultori della scienza e della tecnologia, ridotta a mero strumento d’incremento dei profitti, e spacciata come l’unico criterio su cui giudicare la modernità identificata con la civiltà tout-court.

Ho paura che gli affaristi-tecnocrati siano i più pericolosi oggi, non solo perché sono loro che controllano i politici e non viceversa, ma soprattutto perché, anche loro, senza un briciolo di splendore sacro negli occhi, convinti che Dio e il sacro siano morti, vogliono ridurre la natura a terra di dominio e non hanno nessun senso del limite, se non quello che la tecnica e la scienza incontrano e che viene spostato in avanti per puro autopotenziamento della Tecnica, fine ormai a se stessa.

La fiducia senza limiti nel progresso tecnologico proviene soprattutto da un paese, gli Stati Uniti, incapace di rendersi conto che le sue fondamenta sono costruite su una bestemmia. Sui dollari americani c’è scritto: «In God We Trust». I padri fondatori erano deisti convinti che fosse la ragione a mettere in contatto con Dio. Erano convinti che la mente razionale dell’uomo, ripulita dei suoi errori, fosse in grado di conoscere Dio. E questa è la bestemmia peggiore che l’uomo possa pronunciare: con la ragione ci si allontana irrimediabilmente dal sacro. Quando si assolutizza la ragione, si rimuove il sacro. Più si fa sicura di se stessa la ragione, più si chiude la porta del sacro, perché esso non rispetta i principi di identità e non contraddizione, costruiti dalla ragione.

Al contrario li si deve violare se si vuole penetrare nelle tende caste e bianche del sacro. Il sacro è il buio della ragione. La sua notte è una notte metaforica che non è il contrario del giorno. È una notte che è anche giorno. È luce e tenebre.

Non c’è commensurabilità tra la ragione umana che deve distinguere tra il giorno e la notte, tra il bene e il male e le disposizioni del sacro, che non possono essere piegate a dare giustificazioni, come ben sapeva Abramo quando Dio gli chiese di sacrificargli il figlio.

Quando si ha a che fare con il sacro si è sul crinale strettissimo tra follia e ragione. Il sacro è quasi per definizione ir-razionale. E la ragione una piccolissima isoletta nell’oceano rispetto all’irrazionale del sacro.

Questo lo hanno sempre ben capito le religioni tradizionali alla loro nascita: il loro scopo era quello di recintare il sacro, perché nel suo regno avvengono sacrifici, ed è un luogo pericoloso, al di fuori della ragione.

L’impero americano, e la globalizzazione che ne segue, sono un pericolo non tanto perché producono disuguaglianza economica, ma perché gli Stati Uniti sono oggi il territorio più sconsacrato che esista, perché gli americani sono orgogliosi del loro errore e lo vogliono diffondere in tutto il globo. E la loro cultura non sembra avere gli antidoti per curarli da questa follia.

Gli altri fanatici sono quelli che sono oggi incapaci di comprendere l’”Altro”, incapaci di fare i conti con le differenze. Quelli che sono convinti che chi non la pensa come loro è un eretico, e che quindi la migliore cosa che non solo si può ma si deve fare (e spesso è il loro stesso dio che glielo comanda) è eliminare chi è in errore.

Ci sono oggi tre generi pericolosi di fondamentalismi di chiusura all’“Altro”, che non a caso sono in lotta tra di loro e rischiano di coinvolgerci tutti. Il fondamentalismo occidentale, soprattutto americano, quello islamico e quello ebraico. Comune è il loro desiderio di non riconoscere le qualità del nemico, di ricercare l’unità contro le differenze, di sottomettere l’altro con la forza.

L’Europa viene spesso associata con la cultura occidentale: secondo me, però, chi parla di cultura occidentale mettendo sullo stesso piano gli Stati Uniti e l’Europa pecca di grande superficialità. Nonostante la loro alleanza politica (ovvero, meglio, nonostante il dominio militare americano nei nostri paesi), l’Europa e gli Stati Uniti si trovano all’imbocco di un bivio di divaricazione dei loro destini irreversibile e di grande portata storica. E questo non certo per la prossima introduzione della moneta unica.

Dopo aver passato gli ultimi quattro, cinque secoli a cercare di conquistare il mondo e dopo essersi massacrata in una serie estenuante di guerre interne, all’improvviso l’Europa sembra rinsavita. Sembra addirittura essere tornata alle sue origini greche: quando le città-stato, nonostante le loro lotte e guerre fratricide, erano in grado di capire, in caso di necessità, chi fosse il nemico esterno e quali fossero i valori comuni che le univano. Per la prima volta l’Europa si sta concentrando su se stessa, e ha cominciato a riflettere sulle proprie differenze come ricchezza e non solo come diversità. Ha inaugurato un processo di unità e di pace nelle differenze che non ha precedenti nella storia. Unità che nasce non dal tentativo di predominio di un popolo su un altro, come per oltre un millennio è successo con risultati catastrofici (basti pensare a Napoleone e a Hitler, fra gli ultimi), ma dalla presa di coscienza che dall’armonizzazione delle proprie differenti identità può nascere una unità superiore.

Ecco perché ti dicevo prima che l’Europa deve oggi cercare un’alleanza con l’India. Anche l’India, nel suo immenso territorio, nell’ambito delle dottrine induiste ha sviluppato innumerevoli concezioni, in apparenza molto diverse tra di loro ma in realtà riconducibili a una sola, unica dottrina, quella del Veda (a proposito, queste diverse concezioni in sanscrito sono chiamate darshana, che significa ‘visione’ e, come sai, Keats considerava la Caduta di Iperione una visione, perché era cosciente che la vista è un simbolo della conoscenza, di cui è il principale strumento nell’ambito sensibile, e, come visione interiore, nell’ordine spirituale). Anche l’India, come l’Europa, si trova a combattere con uno o più dei fondamentalismi a cui ho accennato prima, e in particolare con quello islamico. Sembra che Gandhi, in un ultimo disperato tentativo di convincere il leader dei musulmani indiani Jinnah a non dividere l’India in due diversi stati, gli avesse offerto la premiership e tutti i ministeri, da far ricoprire a persone di fede musulmana; ma neanche questo fu sufficiente a evitare la divisione e la successiva guerra civile in cui morirono oltre venti milioni di indiani.

Non so se in Russia stia nascendo una coscienza di questo processo di profondo cambiamento dell’Europa e non so se i leader russi vorranno allearsi con l’Europa nella rinuncia a una politica di potenza. Considerando le brutali guerre di Putin contro la Cecenia, non mi sembra. Eppure le sofferenze passate e quelle future dovrebbero finalmente far loro comprendere che nessuna politica di potenza può armonizzare le differenze.

Lasciamo agli Stati Uniti il compito di scottarsi definitivamente con il loro sogno di potenza mondiale.

Rimane un ultimo punto. Chi sono i selvaggi? Forse essi sono tutti gli uomini che riconoscono le tentazioni, che hanno oscuramente intuito, dall’alto delle più nobili forme del loro sonno, che un cielo c’è, c’è ancora, ma non sono in grado di parlarne e di amarlo perché non amano abbastanza la loro madre lingua, e non riescono quindi a farsi educare da essa.

Chissà se a queste anime noi possiamo ancora parlare, riempiendo i loro abissi di rose, oppure, come diceva Beppe Salvia, essere prodighi perché «i baci sono bellissimi doni»?

Keats, quando cominciò a scrivere la Caduta, pensava di sì. Era ancora convinto che la poesia potesse salvarci e con il puro incanto delle parole redimere la nostra coscienza dalla oscura malia, dall’ottuso incantesimo in cui è caduta. Ma, mentre scriveva, si rese conto che questo era il sogno di un folle.

Speriamo non abbia ragione Heidegger, che era convinto che nessun dio ci può ormai più salvare. Perché, secondo lui, tutto nasce dalla corrosione del Trono di Dio, e l’unica cosa che noi umani non siamo in questo momento in grado di fare è trovare un «anticorrosivo».

Eppure dobbiamo trovarlo. Come dice Bergson, dobbiamo fare un ultimo gigantesco sforzo e riuscire a collegare misticismo e tecnica. Compito che solo noi europei, insieme agli indiani, e spero voi russi, saremo forse in grado di portare avanti.

A presto.

Poona, 15 dicembre 2000

Caro Yuri,

nel vangelo secondo Tommaso ho trovato questo episodio:

Gesù disse ai suoi discepoli: «Paragonatemi a qualcuno e ditemi a chi assomiglio».

Simon Pietro gli disse: «Sei come un angelo giusto».

Matteo gli disse: «Sei come un filosofo sapiente».

Tommaso gli disse: «Maestro, le mie labbra sono incapaci di dire a chi assomigli».

[... Allora Gesù] prese Tommaso e lo condusse accanto a sé e gli disse tre parole.

Quando Tommaso tornò dai compagni, essi gli chiesero: «Che cosa ti ha detto Gesù?».

Tommaso rispose loro: «Se vi dico una sola delle parole che lui ha detto a me, voi raccoglierete delle pietre e me le getterete addosso, e dalle pietre scaturirà un fuoco che vi brucerà».119

Perché Tommaso si rifiuta di rivelare quello che sa nelle profondità del suo spirito? Forse perché Cristo è ineffabile come l’Abisso. (Ricordi Valentino?).

Oppure perché Tommaso sa bene che ogni discorso intorno a Dio è grande scandalo per il mondo. E che ogni discorso su queste cose deve restare un segreto tra il Maestro e il discepolo eletto.

Tommaso era il discepolo eletto di Gesù secondo i vangeli gnostici. C’era un Tommaso, nel nome della via dove abitavi a Milano, nei primi anni Ottanta, quando ti venivo a trovare e mi leggevi la Bibbia. Mio nonno si chiamava Tommaso, mio padre Tommaso e mio figlio si chiama Thomas.

Come vedi, tutto si tiene.

38 John Keats, The Fall of Hyperion: A Dream; tr. it. di Elido Fazi, La caduta di Iperione. Un sogno, Roma, Fazi Editore, 1995 (nell’originale, parte i, vv. 1-2).

39 . Ivi (19-24).

40 Ivi (24-38).

41 . Ivi (38-40).

42 Ivi (45).

43 Ivi (46).

44 Ivi (47-57).

45 Ivi (65-71).

46 Ivi (72-80).

47 Ivi (87-92).

48 Ivi (94).

49 Ivi (97-105).

50 Ivi (204-210).

51 Ivi (106-117).

52 Ivi (118-127).

53 Ivi (127-131).

54 Ivi (134-136).

55 Lettera a Benjamin Bailey dell’8 ottobre 1817; tr. it. in J. Keats, Lettere sulla poesia, cit., p. 66.

56 La caduta di Iperione, cit., i (136, 138-140).

57 Ivi (140-145). Il corsivo è di T.O.

58 Ivi (148-149).

59 Ivi (150-153).

60 Ivi (154-160).

61 Ivi (162).

62 Ivi (163-166).

63 Ivi (182-185).

64 Ivi (186-190).

65 Ivi (167-181).

66 Ivi (211-215).

67 Ivi (221-227).

68 Ivi (232-238).

69 Ivi (256-271).

70 Ivi (271-290).

71 Ivi (241-248).

72 Ivi (249-250).

73 Ode to a Nightingale, vv. 61-70; tr. it. di F. Buffoni, in J. Keats, Sonno e poesia, Parma, Guanda, 1981, p. 125.

74 Ivi, vv. 21-30; tr. it. cit., pp. 121-123.

75 Ode on a Grecian Urn, v. 49.

76 Ode to a Nightingale, vv. 51-58; tr. it. cit., pp. 123-125.

77 Ode on Indolence, vv. 15-18; tr. it. in J. Keats, Poesie, cit., p. 293.

78 . Ivi, vv. 25-30; tr. it. cit., p. 295.

79 Ivi, vv. 35-37; tr. it. cit., p. 295.

80 Ivi, vv. 53-54; tr. it. cit., p. 297.

81 Ode to a Nightingale, vv. 41-44; tr. it. cit., p. 123.

82 La caduta di Iperione, cit., i (291-296).

83 Ivi (303-306).

84 Frammento 102 Diels-Krantz, tr. it. di G. Giannantoni, in I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di H. Diels e W. Kranz, 2 voll., Roma-Bari, Laterza, 1981, vol. i, p. 216.

85 La caduta di Iperione, cit., i (311-314).

86 Ivi (315-317, 319-321).

87 Ivi (327-330).

88 Ivi (332-335).

89 Ivi (336-338).

90 . Ivi (339-343).

91 Ivi (344-371).

92

vi (372-388).

93 . Ivi (398-411).

94 Ivi (412-438).

95 Ivi (438-445).

96 Pindaro, frammento da un inno, tr. di A. Presta.

97 Anacreonte, dalle Elegie, tr. di E. Romagnoli.

98 Paradiso, v, 98-99.

99 Lettera a Richard Woodhouse del 27 ottobre 1818; tr. it. in J. Keats, Lettere sulla poesia, cit., pp. 126-128.

100 Lettera a John Hamilton Reynolds del 3 febbraio 1818; tr. it. in J. Keats, Lettere sulla poesia, cit., p. 80

101 La caduta di Iperione, cit., Appendice, p. 71.

102 The Excursion, iv, 859-860.

103 La caduta di Iperione, cit., Appendice, p. 74.

104 Lettera a Charles Wenthworth Dilke del 22 settembre 1819; tr. it. in J. Keats, Lettere sulla poesia, cit., p. 190.

105 Citato in J. Keats, Poesie, cit., introduzione di S. Sabbadini, p. xxii.

106 Ivi, p. xxi.

107 Ode to Psyche, vv. 37-43; tr. it. in J. Keats, Poesie, cit., p. 277.

108 Lettera a Dilke cit., tr. it. pp. 190-191.

109 Ode on a Grecian Urn, vv. 1-14; tr. it. in J. Keats, Poesie, cit., pp. 287-289.

110 Commento alle strofe xiv e xv, in Cantico spirituale, cit., p. 174.

111 Ibid.

112 Fedro, 245a, tr. it. di G. Caccia, in Platone, Tutte le opere, a cura di E.V. Maltese, 5 voll., Roma, Newton & Compton, 1997, vol. V, pp. 455-457.

113 Ode to Autumn. Forniamo la traduzione di Silvano Sabbadini (in J. Keats, Poesie, cit., p. 299): «Stagione di nebbie e morbida abbondanza, / Tu, intima amica del sole al suo culmine, / Che con lui cospiri per far grevi e benedette d’uva / Le viti appese alle gronde di paglia dei tetti, / Tu che fai piangere sotto le mele gli alberi muscosi del casolare, / E colmi di maturità fino al torsolo ogni frutto; / Tu che gonfi la zucca e arrotondi con un dolce seme / I gusci di nòcciola e ancora fai sbocciare / Fiori tardivi per le api, illudendole / Che i giorni del caldo non finiranno mai / Perché l’estate ha colmato le loro celle viscose: // Chi non ti ha mai vista, immersa nella tua ricchezza? / Può trovarti, a volte, chi ti cerca, / Seduta senza pensieri sull’aia / Coi capelli sollevati dal vaglio del vento, / O sprofondata nel sonno in un solco solo in parte mietuto, / Intontita dalle esalazioni dei papaveri, mentre il tuo falcetto / Risparmia il fascio vicino coi suoi fiori intrecciati. / A volte, come una spigolatrice, tieni ferma / La testa sotto un pesante fardello attraversando un torrente; / O, vicina a un torchio da sidro, con uno sguardo paziente, / Sorvegli per ore lo stillicidio delle ultime gocce. // E i canti di primavera? Dove sono? / Non pensarci, tu, che una tua musica ce l’hai – / Nubi striate fioriscono il giorno che dolcemente muore, / E toccano con rosea tinta le pianure di stoppia: / Allora i moscerini in coro lamentoso, in alto sollevati / Dal vento lieve, o giù lasciati cadere, / Piangono tra i salici del fiume, e agnelli già adulti belano forte dal baluardo dei colli, / Le cavallette cantano, e con dolci acuti / Il pettirosso zufola dal chiuso del suo giardino: / Si raccolgono le rondini, trillano nei cieli».

114 La caduta di Iperione, cit., Appendice, p. 74.

115 Renacimiento, in Soledades, 1903. La traduzione è di T.O.

116 La caduta di Iperione, cit., i (1-15).

117 Dalla lettera a George e Georgiana Keats del 14, 16, 21, 24 e 31 ottobre 1818. La traduzione è di T.O.

118 Endimione, libro iii, vv. 1-22, tr. it. in J. keats, Endimione, Milano, Rizzoli, 1988, pp. 203-205 .

119 Il Vangelo di Tommaso, cit., detto 13, p. 52.