Come in un videogioco, però con le persone reali al posto delle animazioni. Non sapremo mai le ragioni che spinsero due studenti della Columbine High School, in Colorado, a uccidere 12 ragazzi e un insegnante e a ferirne altri 24 in un tiepido mattino di primavera: non lo sapremo mai perché gli autori di quell’orribile carneficina si suicidarono nella biblioteca del liceo, e i loro cadaveri caddero come sacchi vuoti in mezzo ai corpi delle loro incolpevoli vittime.
A sparare su chiunque capitasse a tiro, proprio come nei videogiochi, furono Eric Harris (diciotto anni) e Dylan Klebold (diciassette), iscritti all’ultimo anno e quindi oramai prossimi al diploma. Eric voleva entrare nei marines, Dylan aveva già scelto il college da frequentare: avevano, dunque, già pianificato il futuro. E allora perché diedero una sterzata bestiale ai loro programmi la mattina del 20 aprile 1999? Perché quel giorno uscirono di casa con due borsoni pieni di armi per compiere una folle incursione nella loro scuola, con la consapevolezza che, oltre ai loro innocenti bersagli, molto probabilmente anche loro non sarebbero rimasti vivi?
Sono interrogativi che gli investigatori si posero dopo il massacro, raccogliendo risposte sbalorditive. Tutti dissero che Eric e Dylan erano due soggetti tranquilli, dall’esistenza tutt’altro che complicata, almeno in superficie: figli di famiglie medio borghesi, senza problemi economici né vite quotidiane lacerate da tradimenti e incomprensioni. Ma fu sufficiente scavare un po’ sotto la scorza rassicurante esibita all’esterno per scoprire che entrambi covavano un incontenibile odio nei confronti del genere umano. Emersero alcuni comportamenti decisamente singolari e alcuni video amatoriali – girati nel periodo precedente alla strage – nei quali simulavano sparatorie, aggressioni, atti di violenza.
Va però detto che lo sterminio fu reso possibile, indirettamente, da un altro elemento non secondario: nello Stato del Colorado all’epoca si potevano comperare pistole e fucili con la stessa facilità con la quale si acquistavano un paio di jeans o una lattina di Coca Cola. Se non avessero avuto questa possibilità, non avrebbero mai potuto organizzare il massacro.
Il 16 marzo del 1999 sulla catena montuosa di Rampart Range si arrampicano due ragazzi: si chiamano Eric e Dylan, sono amici da parecchi anni e condividono la passione per i computer. Coltivano però anche un altro grande amore, quello per le armi. Quel giorno girano un video mentre sparano con pistole e fucili contro gli alberi. Si divertono come bambini al Luna Park. Uno dei due, indicando il foro nel tronco, dice all’altro: «Immaginatelo nel cervello di qualcuno».
Il filmato di quella escursione in montagna resterà sconosciuto fino al 20 aprile del 1999. E fino all’irruzione nel liceo nessuno saprà nulla neppure di altri video nei quali Eric e Dylan ingaggiano sparatorie contro nemici immaginari o fingono di uccidere persone che esistono solo nella loro fantasia. Non è un divertimento innocente come quando capita di giocare ai cowboy e agli indiani, ma è una sorta di “allenamento” per quanto succederà dopo, quando quelle scene passeranno rapidamente dal loro mondo parallelo alla realtà.
Ma chi sono quei due ragazzi? Eric è decisamente sveglio e all’apparenza mansueto, il rendimento scolastico è più che buono, non ha mai costretto i genitori a richiamarlo all’ordine per costringerlo a studiare. Quasi nessuno sa che la sua indole non è affatto remissiva: Eric convive con una rabbia sorda accumulata nel corso degli anni. Il babbo è un ex pilota militare, pluridecorato, ma il lavoro lo ha obbligato a cambiare sede più volte, e la famiglia è stata sballottata da una parte all’altra del Paese. A causa dei numerosi e forzati trasferimenti, Eric ha perso periodicamente il giro di amicizie e ha dovuto ricominciare daccapo ogni volta. Nei suoi diari il ragazzo ha messo nero su bianco questa sua avversione nei confronti del genitore, un’ostilità che col passare degli anni si è trasformata in un odio così potente da estendersi indistintamente a tutti gli ambienti con cui viene a contatto: disprezza i vicini di casa, disprezza le coetanee, disprezza i compagni di classe. Insomma, per Eric Harris sono tutti nemici, tutti.
Pure Dylan sembra un tipo a posto. Ha un sacco di amici e vive in una famiglia progressista e pacifista: i genitori sono artisti e intellettuali, detestano qualsiasi forma di violenza, tant’è che non hanno mai voluto sculacciare i figli neppure una volta. Dylan è più chiuso, ma con Eric si trova a meraviglia. Insieme hanno combinato pure una marachella: hanno rubato dei pezzi di computer da un furgone e il giudice li ha condannati a un programma di riabilitazione. Una sciocchezza, tutto sommato, che però alimenta l’insofferenza nei confronti degli altri, tant’è che Eric scriverà nel suo diario:
È vero o no che l’America è considerata la terra delle libertà? E allora perché non posso essere libero di sottrarre dei beni a un fottuto imbecille che li lascia in bella vista nel suo furgoncino in un posto isolato in un fottutissimo venerdì notte? Selezione naturale, di questo si tratta, che fa sì che gli stupidi dovrebbero essere uccisi.
(«la Repubblica», 6 dicembre 2001)
Dei due Eric è senz’altro il più turbolento:
Il giovane Harris aveva un sito dai contenuti deliranti – trovati dai federali dopo l’attentato – ma è nelle pagine del diario, alcune scritte a mano e altre al computer, che l’aspirante omicida rivela a pieno la sua personalità. Il suo scopo era, innanzitutto, fare “qualcosa che lasciasse una traccia duratura sul mondo” e si cruccia del fatto che, non avendo imparato a utilizzare le bombe a orologeria, non ha potuto “piazzarne a centinaia vicino alle case, ai ponti, alle pompe di benzina e in ogni luogo dove avrebbero potuto causare gravi danni e caos come nei tumulti di Los Angeles, nell’attentato di Oklahoma City, nella seconda guerra mondiale, in Vietnam e peggio dei videogame Duke Nukem e Doom messi insieme.
(Ibidem)
Chi li osserva da lontano è portato a pensare che le loro vite scorrono all’apparenza placide. Ma non è affatto così:
Se Eric era psicopatico, in Klebold si intravede un depresso autolesionista, trascinato al male dall’amico: meno truculenti, i suoi scritti raccontano di infelicità, dell’amore per una ragazza. Dylan pensava di «lasciare questa vita, che non è granché, per stare finalmente in pace» con un ultimo gesto plateale. Un odio indotto, il suo.
(«Corriere della Sera», 10 ottobre 2020)
Poi arriva il 20 aprile del 1999. Eric e Dylan si presentano alla Columbine High School intorno alle 11:20. La temperatura è mite, ma stranamente indossano due impermeabili neri. E stranamente non hanno lo zaino con dentro i libri ma due voluminosi e pesanti borsoni. Dentro non ci sono testi scolastici ma armi di diverso genere e pure delle bombe al propano. Vogliono fare una strage. Quel piccolo arsenale i due non lo hanno rubato, ma lo hanno regolarmente comprato perché in Colorado la legislazione sul possesso delle armi ha maglie larghissime.
Il piano inizialmente prevede l’uso delle bombe: servono a far saltare in aria la caffetteria durante la pausa tra una lezione e l’altra, quando è più affollata. Quelli che scapperanno uscendo dalla scuola saranno poi abbattuti con pistole e fucili, come nei videogames.
Qualcosa va storto, però. Le bombe non esplodono e di fronte al fallimento del loro progetto, i due giovani assassini cambiano strategia e armi in pugno cominciano a girare per i corridoi della scuola: sparano contro chiunque abbia la sventura di incrociarli. La prima vittima è Kyle Velasquez, un ragazzino con delle disabilità mentali che non si rende conto di quel che sta succedendo e non riesce a scappare. I due amici sono in preda a un delirio incontrollabile. Imbracciando dei fucili a pompa, alle 11:29 entrano nella biblioteca al cui interno in quel momento ci sono 4 impiegati e 52 studenti. Fanno fuoco su chi è fermo sulle scale a chiacchierare, su quelli che ai primi spari cominciano a fuggire. Ammazzano pure chi, terrorizzato, prova a nascondersi dietro una parete o sotto i banchi. Prima di premere il grilletto fanno domande del tipo «Tu credi in Dio?», in altri casi l’esecuzione è preceduta dalla frase «Cucù! Sei morto!»:
Un’insegnante riesce a raggiungere il telefono e chiama la polizia: «Ci sono due ragazzi con l’impermeabile nero che sparano a tutti», urla al centralino del 911.
Nei corridoi si precipita pure il preside Frank De Angelis, ha il tempo di vedere un ragazzo con un fucile. «Mi sembrava grande come un cannone», dirà.
(www.youtube.com/watch?v=jvZJijv1VIc)
Eric e Dylan hanno l’aria divertita. Avvicinano le vittime ridendo e scherzando, come se non si rendessero assolutamente conto delle loro azioni. Qualcuno viene solo ferito alle mani o alle gambe, i più sfortunati invece saranno abbattuti con un colpo alla testa o al petto. Fuori dal Columbine High School intanto i primi ad arrivare sono i pompieri che prestano soccorso ad alcuni feriti che sono riusciti a scappare. La coppia di assassini si concede una pausa: lascia perdere gli studenti e comincia a sparare sui pompieri e sui feriti che solo lentamente riescono ad allontanarsi.
Poi arrivano i reparti speciali della polizia che hanno un solo obiettivo: colpire i due ragazzi che indossano un impermeabile nero. Eric e Dylan ingaggiano un violento conflitto a fuoco con gli agenti. Ma a un certo punto si rendono conto che c’è una palese sproporzione tra i mezzi in loro possesso e il numero dei poliziotti che circondano l’edificio. In Colorado non c’è la pena di morte, ma se escono fuori dal liceo con le mani in alto la cosa migliore che gli può capitare è trascorrere il resto della vita in prigione. È una prospettiva angosciante. E allora decidono di chiudere la partita con la stessa vigliaccheria mostrata nell’infierire su ragazzi senza alcuna colpa. Si dirigono in biblioteca, nel punto esatto in cui hanno cominciato a dare fondo alla loro follia: è lì, in mezzo a tavolini e sedie rovesciate e a corpi senza vita, si suicidano. Il loro raid è durato una quarantina di minuti.
Quando i reparti speciali della polizia entreranno nella scuola, troveranno 13 morti: 12 studenti e un insegnante. I feriti saranno invece 24, alcuni di essi porteranno i segni di quella straziante mattinata per il resto della loro vita. L’America, che pure è abituata a tutto, resta sconcertata di fronte alle immagini della terribile mattanza.
La più sconvolta è Sue Klebold, la madre di Dylan, ha visto il filmato delle telecamere interne alla scuola ed è stato uno shock impressionante:
È crollato il mio mondo. Fino ad allora mi ero rifiutata di credere alla realtà. Mi ero illusa che non avesse ucciso, o fosse stato costretto, magari drogato. Invece ho visto che si comportava da sadico. Per la prima volta ho provato rabbia verso di lui.
(«La Stampa», 20 settembre 2016)
Si scoprirà dopo che Eric e Dylan avevano in qualche modo già progettato il massacro molti mesi prima. Gli inquirenti troveranno dei video girati dai due mentre simulano sparatorie e omicidi, scene identiche a quelle viste nei corridoi del liceo il 19 aprile del 1999. Quanto al movente, si avanza anche il sospetto che i due assassini potessero far parte di una setta demoniaca denominata “Trench Coat Mafia”, la “mafia” del soprabito nero; Harris e Klebold stranamente indossavano entrambi un insolito trench nero la mattina dello sterminio. Un’ipotesi risultata poi assolutamente infondata. Alla base c’era solo l’odio nei confronti del mondo.
La strage riaprirà, per l’ennesima, volta la polemica sulla facilità con la quale si possono comprare delle armi: partendo da quanto era accaduto nel liceo del Colorado, nel 2002 il regista Michael Moore vincerà un Oscar e una Palma d’Oro a Cannes con il documentario dal titolo Bowling for Columbine.
Sette anni dopo nuovi dettagli rendono meno oscuri i contorni di quel massacro. Il giornale di Denver, il «Westword», rende pubblici i diari di Eric e Dylan, omettendo le parti più delicate, quelle per intenderci che avrebbero potuto dar vita allo spirito di emulazione.
Nelle pagine private gli autori della carneficina davano già ampi segnali delle loro inquietanti inclinazioni, c’erano disegni di gente con la gola tagliata, commenti alle ricerche sui serial killer, frasi e simboli prelevati dalla propaganda nazista. Se qualcuno avesse letto i diari, avrebbe capito cosa i due avevano in mente:
Dagli appunti è evidente che i due giovani stavano pianificando il massacro da mesi. E che più volte, proprio a scuola, avevano lasciato intendere il loro progetto. In alcune pagine, i ragazzi si lamentano di non avere amici, di non essere abbastanza integrati a scuola. In altre lanciano proclami come questo: «Arriverà il giorno in cui io finalmente ucciderò. Ci sono al massimo cento persone nella scuola che sono sole e che io non voglio uccidere. Tutti gli altri devono morire». Lo scrive Harris nell’ottobre ’98, sei mesi prima della strage. E Klebold è ancora più esplicito: «L’inferno sulla terra, aaaah, il mio libro favorito», scrive sopra al disegno di un soldato decapitato, con un mitra e una pistola in mano. L’obiettivo della loro missione? «500+ dead», oltre cinquecento vittime. E poi, in una calligrafia che a volte sembra infantile, a volte è disturbante: «Noi, gli Dei, ci divertiremo… NBK (sigla di natural born killers, assassini nati, ndr) a uccidere i nemici, distruggere tutto, uccidere i poliziotti… Lo sapete cosa odio? Odio la gente.
(«Corriere della Sera», 10 luglio 2006)
Qualche riflessione troppo ardita l’avevano lasciata pure nei compiti in classe. Eric, ad esempio, aveva esaltato la cultura nazista e aveva sostenuto che gli studenti dovevano essere liberi di portare le pistole a scuola. Ma è nel diario di Dylan che gli inquirenti scoprono che la mattanza era stata organizzata in maniera molto precisa, soprattutto per quel che riguarda i tempi:
In una delle ultime pagine Klebold prevede nel dettaglio tutte le tappe del massacro, minuto per minuto: «Appuntamento alle sei del mattino in punto; 10:30, organizzazione finale; 11:09, prendere le bombe; 11:12 inizio della strage; 11:16, ritorno. Hahaha». No, nelle mille pagine dei loro diari i killer non parlano mai di suicidio. Anzi, hanno programmato anche un piano di fuga, dalla scuola all’aeroporto e da lì in aereo fino a un Paese straniero. Altrimenti, se le cose non fossero andate a buon fine, avevano immaginato un’alternativa: «Precipitare in aereo su New York City». «Ho l’intenzione di distruggere il più possibile», conclude Harris. «E non devo essere distratto dalle mie simpatie, dalla pietà o dalle preghiere. La cosa più bella è odiare».
(Ibidem)
Nel 2016 Sue Klebold, la madre di Dylan, ha dato alle stampe un libro dal titolo Mio figlio nel quale, tra le altre cose, scrive:
Per il resto del mondo Dylan era un mostro; per me era ancora il mio bambino. Così, soprattutto in quei primi giorni, riempii pagine e pagine di ricordi. In seguito le avrei rilette come una sorta di rapporto forense, un tentativo di individuare il punto esatto in cui la nostra vita aveva deragliato. Buona parte del processo di elaborazione del lutto consiste nel ricostruire l’immagine della persona amata, per custodirla per sempre nella memoria, e per anni il mio dolore si sarebbe intrecciato in modo inestricabile agli interrogativi sulla stabilità mentale ed emotiva di Dylan nel periodo precedente alla sua morte.
In un’intervista la signora Klebold “giustifica” in parte il figlio sostenendo che è stato trascinato dal suo amico:
La salute mentale si deteriora come quella fisica. Magari hai una predisposizione genetica alla depressione, a cui si aggiungono il bullismo, un amico manipolatore con cattiva influenza, piccoli fattori che fanno precipitare la situazione.
(«La Stampa», 20 settembre 2016)