La storia comincia con il cadavere di una bambina ripescata nel fiume Gruščëvka il 24 dicembre del 1978, e finisce con un uomo di cinquantotto anni giustiziato con un colpo di pistola alla nuca nel giorno di San Valentino del 1994. La bambina si chiamava Elena Zakotnova, l’uomo si chiamava Andrej Čikatilo, passato alla storia come “il mostro di Rostov” per aver compiuto omicidi truculenti nella cittadina della Russia meridionale.
A separare il primo episodio dal secondo sono 16 anni e 54 morti. Čikatilo (nato nel 1936) è stato uno dei più terribili serial killer europei, autore di una strage a sfondo sessuale le cui vittime sono state soprattutto giovani e giovanissimi. Colto e apparentemente mite, ha tirato fuori la sua parte più oscura solo quando era abbondantemente adulto: ha compiuto il suo primo delitto a quarantadue anni, un matrimonio alle spalle e due figli. Se la sua attività da assassino e violentatore è stata così longeva, non lo si deve solo alla sua capacità di colpire senza mai lasciare tracce. Una parte non trascurabile di responsabilità è da addossare anche agli investigatori che lo avevano arrestato e poi sciaguratamente scarcerato, consentendogli per altri sei lunghi anni di straziare i corpi di poveri innocenti. “Il mostro di Rostov” non si limitava a praticare sevizie indicibili ma asportava parte dei corpi mentre le sue prede erano ancora vive. La mutilazione riguardava spesso gli organi genitali. Come se non bastasse questo orrore, si accaniva sugli occhi, spesso spappolati dalle coltellate. Andrej Čikatilo ha iniziato a uccidere nel 1978 e ha smesso nel 1990. Quando lo hanno arrestato era accusato di 36 omicidi, ma poi se ne è accollati altri 19.
La parte più profonda di Andrej viene scossa da un episodio dolorosissimo che accade durante la carestia che colpisce il Paese negli anni ’30. Suo fratello di sei anni esce di casa e va per i campi in cerca di qualcosa che possa sfamarlo, ma non tornerà mai più: il sospetto è che qualcuno ancora più affamato di lui, lo abbia ucciso e poi lo abbia mangiato.
Dirà Tatjana Čikatilo, sorella di Andrej:
Questa idea ha sempre tormentato mio fratello. Nostra madre raccontò più volte questa storia ad Andrej, piangendo.
(www.youtube.com/watch?v=HQuN04LNVWI&t=718s)
La mamma gli dice sempre: non uscire mai dal cortile, altrimenti mangeranno anche te. Un monito che lo turba non poco. Il futuro criminale cresce in mezzo a tante privazioni affettive ed economiche, ma riesce ad affrancarsi ben presto dalla povertà e dall’ignoranza. Da giovane però il suo temperamento lascia intravedere qualcosa che non va affatto, soprattutto sul fronte delle pulsioni sessuali. Aggredisce un’adolescente, tenta di violentarla ma non ci riesce. È un campanello d’allarme che nessuno sente. La sorella però qualcosa intuisce e quando si rende conto che Andrej ha problemi a relazionarsi con le ragazze, gli fa conoscere una sua amica che nel 1963 diventa la signora Čikatilo. Il matrimonio, non essendo cementato da un amore sincero e spontaneo, non si rivela un grande investimento anche se dall’unione nascono due figli, un maschio e una femmina. Il non ancora “mostro di Rostov” però non è uno sfaccendato, trova diversi lavori e trova anche il tempo per studiare e laurearsi in Lingua e Letteratura Russa. Lo chiamano a insegnare ma la carriera di pedagogo dura poco perché allunga le mani sulle alunne e viene allontanato dal preside. Negli anni successivi si guadagna da vivere facendo il commesso viaggiatore. Una vita normale, almeno in superficie.
Il 22 dicembre del 1978 scompare Elena Zakotnova, una bimba di nove anni. La ritrovano due giorni dopo nel fiume Gruščëvka: qualcuno ha tentato di violentarla e l’ha uccisa a pugnalate. Sembra un delitto isolato, firmato da un maniaco “occasionale”. Un altro omicidio si verifica tre anni dopo, poi è tutta una escalation. Dal 1981 al 1985 si registrano ben trenta omicidi, quasi tutti eseguiti con le stesse modalità: violenza sessuale e asportazione degli organi genitali.
Accanto ai corpi però non ci sono mai le parti mutilate, quindi l’assassino forse le porta con sé per poi mangiarle. Tutte le vittime presentano degli sfregi agli occhi, spesso maciullati a pugnalate: è probabile che il carnefice non voglia che lo guardino mentre procede nella sua macabra perversione. Le indagini restano sostanzialmente ferme anche perché è difficile dare un nome ai cadaveri, sono in uno stato così avanzato di decomposizione da essere irriconoscibili. A ogni modo, la caccia all’uomo procede a rilento perché gli investigatori hanno tesi diverse: c’è chi sostiene che a uccidere sia una sola persona, e c’è chi è convinto che invece a compiere gli omicidi sia più d’uno. Per le vittime di sesso femminile, ad esempio, si sospetta l’esistenza di un solo esecutore; i maschi, invece, potrebbero essere stati ammazzati anche da due o più maniaci.
Dunque, si va avanti con pedinamenti e appostamenti dietro a persone sospettate di avere a che fare con la scia di sangue. Un dispiego di uomini e di mezzi senza risultati, uno spreco di tempo e di energie che lascia al mostro la libertà di proseguire nella sua personale strage. Non dà nessun esito neppure l’attenzione riservata ai malati di mente e ai pregiudicati per reati sessuali. Sotto la lente d’ingrandimento finiscono pure alcuni chirurghi e altri soggetti impegnati in professioni che richiedono una particolare abilità nell’uso di armi da taglio.
Si indaga pure tra i direttori dei collegi o tra gli insegnanti, cioè tra persone che nella vita di tutti i giorni devono mostrarsi autoritari. Una intuizione, questa, che si rivelerà in parte azzeccata. Tra i sospettati c’è pure un giornalista e persino lo psichiatra Aleksander Bukhanovsky, consulente della polizia. Intanto cinquecento agenti sorvegliano le fermate degli autobus e le stazioni ferroviarie alla ricerca di qualche indizio che dia un impulso alle indagini, tristemente approdate su un binario morto. Ma è come cercare un ago in un pagliaio alto quanto l’Everest.
Un giorno, però, l’ago viene trovato. Il poliziotto Alexander Zanasovsky è a capo di una squadra che sta sorvegliando un capolinea dei bus quando nota un uomo che cerca a tutti i costi di attaccare bottone con alcune donne. L’agente si avvicina, lo blocca e lo fa perquisire: nella borsa di quell’uomo gli agenti trovano un coltello, una corda, del filo e della vaselina e alcuni asciugamani sporchi. Zanasovsky è raggiante e pensa: «Lo abbiamo preso». Ma gli esami del sangue e del liquido seminale non danno riscontri sufficienti a trattenerlo. I poliziotti lo rilasciano, e non si rendono conto di aver rimesso in libertà proprio il serial killer che stanno disperatamente inseguendo. Quell’uomo, infatti, è proprio “il mostro di Rostov”: siamo nel 1984, e così gli viene concesso di proseguire nello sterminio per altri anni ancora, sei per la precisione. Un errore clamoroso, ma non è l’unico.
Un anno dopo, convinti che il mostro sia un pregiudicato per reati sessuali, i poliziotti arrestano Aleksander Kravchenko, con alle spalle anni di galera per stupro e tentato omicidio: sarebbe lui l’assassino della bimba di nove anni ripescata nel fiume nel 1978. Kravchenko giura di non saperne nulla e dice la verità. Negare con tutte le forze non gli serve a niente perché viene processato, ritenuto colpevole e condannato a morte. Invece risulterà innocente.
Siamo nel 1990 e gli apparati investigativi devono purtroppo ammettere di aver fallito. Il capo della sezione Omicidi, Victor Burakov, non si rassegna e decide di prendere un’iniziativa singolare. Va in televisione per provare a stanare il serial killer; insieme a lui c’è lo psichiatra Aleksander Bukhanovsky che da tempo collabora con gli inquirenti e che è oramai uscito dall’elenco dei sospettati. All’uomo che non ha ancora un volto e un nome, Bukhanovsky lancia un appello: «Mi cerchi, si metta in contatto con me, posso aiutarla». La mano tesa dello psichiatra è un tentativo lodevole che tuttavia cade nel vuoto.
Fortunatamente l’assassino si appresta ad andare incontro alla sua fine. Agli inizi di novembre un tipo stravagante viene notato in una stazione ferroviaria di Rostov, ha una cartella sotto il braccio, l’aria strana di chi ha visto o fatto qualcosa che non doveva vedere o sentire. Un poliziotto lo blocca, gli controlla i documenti e si rende conto che ha di fronte uno dei tanti sospettati di essere il mostro. All’agente viene ordinato di lasciarlo andare. Quell’uomo è Andrej Čikatilo, l’autore del massacro.
Stavolta la polizia non se lo lascia scappare, perché comincia a seguirlo passo dopo passo, non lo molla nemmeno per un secondo. E così si scopre che si reca sui luoghi dove sono stati commessi gli omicidi, e che tenta di abbordare dei minorenni. Gli inquirenti si convincono che è lui il serial killer che stanno cercando da ventidue anni, e il 20 novembre del 1990 lo arrestano mentre sta passeggiando per le strade della città. Quando si vede circondato e poi ammanettato sul suo volto non compare nemmeno una smorfia. Resta freddo e compassato pure davanti al giudice che lo accusa di 36 omicidi.
Tutti si aspettano che un soggetto così brutale neghi di aver commesso le nefandezze che gli vengono contestate. Stranamente, però, invece di dichiararsi innocente, Čikatilo si dimostra collaborativo al punto che confessa altri 19 delitti dei quali non è ancora sospettato. A Rostov e dintorni, intanto, tirano un sospiro di sollievo: per sedici anni la gente ha dovuto convivere con l’incubo di incrociare “il mostro”, ora si può tornare a circolare serenamente per le strade.
Al processo è possibile guardare negli occhi Čikatilo e constatare la presenza invadente delle turbe che lo hanno sempre accompagnato. Chiuso nel gabbiotto, alterna fasi di grande lucidità a lampi di assoluta follia. Quando è lucido ammette le sue colpe:
Diventavo come un lupo impazzito e braccato. In quel bosco ero come un lupo e tutti mi davate la caccia. […] Dopo i delitti mi rilassavo psichicamente e fisicamente. Il fatto è che ho un carattere tranquillo e in un certo senso umile e dimesso, si proprio umile e dimesso. Mi metto a piangere, qualche volta perdo conoscenza, solo il contatto con la gente mi fa rivenire. So che mi annienterete ma io so di essere un errore della natura. Faccio schifo. Sì, mi faccio schifo. […] Perché infierivo sulle vittime? Non lo so, era una mia necessità perversa. Un bisogno animalesco, un bisogno sessuale. […] Perché toglievo loro la vita? Non lo so perché lo facevo.
(www.youtube.com/watch?v=HQuN04LNVWI&t=718s)
Il processo è uno strazio infinito per i familiari delle vittime. La deposizione dell’assassino è accompagnata da lacrime e urla, qualcuno sviene. Con 55 terrificanti omicidi sul groppone, il destino del “mostro di Rostov” è segnato. Condannato a morte, il 14 febbraio del 1994 viene giustiziato con un colpo di pistola alla nuca.