Matteo Messina Denaro, l’imprendibile Diabolik di Cosa Nostra

Si dice che sia il capo di Cosa Nostra. Si dice che la sua latitanza da record sia protetta da una fitta e trasversale rete di connivenze di alto livello. Si dice che sia in possesso di documenti con i quali ricatta pezzi dello Stato. Si dice che faccia la bella vita.

Si dicono molte cose su Matteo Messina Denaro, boss di Castelvetrano (Trapani), ma di lui non si sa abbastanza, visto che è sparito dalla circolazione dal 2 giugno del 1993, ovvero da quando la magistratura lo ha accusato di essere coinvolto nelle stragi in cui morirono i giudici Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e otto poliziotti delle loro scorte.

Lo hanno ribattezzato “u’ siccu” per sottolineare il fisico slanciato, anche se lui preferisce essere chiamato “Diabolik”, come il noto personaggio dei fumetti.

E di diabolico qualcosa deve sicuramente avere se nel 2023 potrebbe “festeggiare” i tre decenni di latitanza, un traguardo considerevole superato solo da Bernardo Provenzano, imprendibile per 43 anni. Il capo dei capi Totò Riina, tanto per fare un parallelo, è riuscito a sottrarsi alla legge per 24 anni.

Di frecce al suo arco, dunque, Messina Denaro ne deve avere parecchie, e tutte molto affilate. Nel corso degli anni, infatti, numerose indagini sono riuscite a prosciugare il lago dei suoi fiancheggiatori, e lui l’ha sempre fatta franca.

Secondo gli inquirenti a garantirgli una clandestinità così prolungata non sarebbe solo la sua pur indubbia capacità di mimetizzarsi. No, ci sarebbe dell’altro, molto altro: il sospetto è che goda di coperture importanti perché è in possesso di segreti che, se svelati, potrebbero rovinare la carriera e la vita di molti cosiddetti insospettabili. Questa pistola idealmente puntata alla tempia di alcuni esponenti delle Istituzioni sarebbe rappresentata da un massiccio e compromettente carteggio che Totò Riina conservava nel suo ultimo covo, un appartamento in via Bernini a Palermo. Il pentito Gioacchino La Barbera spiegherà alla giornalista Raffaella Fanelli:

Riina non era un capo. Era il capo di Cosa Nostra… Dopo il suo arresto accompagnai, insieme a Nino Gioè, i figli e la moglie di Riina fino alla stazione, da lì presero un taxi per Corleone. Poi seguii la pulizia e l’estrazione della cassaforte dalla villa di via Bernini e portai in un parcheggio la Golf bianca intestata a un giardiniere della provincia di Trapani, non ricordo se Marsala o Mazara. Un’auto che ritirò Matteo Messina Denaro, con tutto quello che era stato trovato nella cassaforte.

(«la Repubblica», 19 settembre 2015)

La tesi secondo la quale la potenza di “’u siccu” è tutta nella possibilità di ricattare qualcuno di importante è sostenuta anche da Nino Di Matteo, per lungo tempo pubblico ministero a Palermo e tra i titolari dell’inchiesta sulla “trattativa Stato-mafia”:

Evidentemente Matteo Messina Denaro è assieme a pochi altri mafiosi ancora conoscitore di segreti in ordine ai rapporti collusivi e ai contributi esterni che hanno riguardato l’organizzazione delle stragi. Io penso che questo sia il suo vero potere. Un potere derivato dalla conoscenza e dalla possibilità del ricatto.

(www.youtube.com/watch?v=CwI2Y-ZmgrM)

Un altro punto di forza è costituito dalla “simpatia” di cui gode tra i suoi compaesani, come spiega il magistrato Teresa Principato:

Suscita grandissima attenzione nei confronti di tutti i trapanesi, non solo dei più giovani ma anche dei più maturi. Innanzitutto perché è la classica “primula rossa”, quella che sistematicamente sconfigge lo Stato. E, come sappiamo, in questa provincia lo Stato non è molto amato. Poi perché ama i bei vestiti, perché ama circondarsi di belle cose, ha donne sparse un po’ in tutta Italia, ha figli sparsi, fa quindi una vita invidiabile. D’altra parte, però, è una persona che riesce a seguire, a vivere una vita in un modo assolutamente consonante a quelli che sono i principi della tradizione più rigorosa. […] Matteo Messina Denaro è l’ultimo dei grandi latitanti. Se io penso a quello che di Cosa Nostra è rimasto, mi faccio l’idea che è rimasto abbastanza poco. Oggi se mi venisse chiesto il nome di un vero boss, cioè una persona col carisma, col rispetto riconosciuto da tutti i sodali e componenti delle altre famiglie, con un potere che andasse al di là di un piccolo territorio, io non potrei dirne uno.

(www.youtube.com/watch?v=n198nNe_XVY)

Inoltre, secondo la Principato, Diabolik può contare su un impressionante sostegno trasversale:

Matteo Messina Denaro gode nell’ambito della città di Trapani di una protezione che spesso sconfina nella connivenza e addirittura nella condivisione di certi valori e nella contrapposizione rispetto a uno Stato in cui nessuno crede. Ricordo i grandi manifesti «Matteo torna, abbiamo bisogno di soldi» nelle varie gallerie, e una sola volta, due anni fa, ho letto in un cartello posto al centro della città di Castelvetrano «Matteo sei un pezzo di merda» e ho capito che qualcosa forse stava cambiando. Cosa è cambiato in questi anni? In realtà questo consenso, che non viene solo dai sodali, ma arriva anche dalla borghesia professionale, dalla politica, dall’imprenditoria, dalla cosiddetta (tra molte virgolette) «società civile» si è andato in qualche modo affievolendo man mano che abbiamo proceduto all’arresto di un numero notevolissimo di persone.

(De Stefano, op. cit.)

Il boss trapanese ha anche uno spirito ribelle, al pari di tanti suoi omologhi non si considera un criminale ma un uomo perseguitato ingiustamente. In una lettera a un amico, scriveva a questo proposito:

Se io fossi nato due secoli fa, con lo stesso vissuto di oggi già gli avrei fatto una rivoluzione a questo Stato italiano e l’avrei anche vinta. In Italia da circa 15 anni c’è stato un golpe bianco tinto di rosso attuato da alcuni magistrati con pezzi della politica e ancora oggi si vive su quest’onda.

(Ibidem)

In genere un padrino di Cosa Nostra è un uomo che non ha niente da chiedere alla vita perché ha soldi, potere e rispetto che non avrebbe mai potuto raggiungere in un altro modo. Eppure Messina Denaro non è proprio contentissimo per come sono andate le cose, e lo ammette candidamente in uno dei “pizzini” spediti all’ex sindaco Antonio Vaccarino, collaboratore dei Servizi segreti:

Io qualche rimpianto nella mia vita ce l’ho, il non aver studiato è uno di essi. È stato uno dei più grandi errori della mia vita, la mia rabbia maggiore è che ero un bravo studente, solo che mi sono distratto con altro, se potessi tornare indietro conseguirei una laurea senza margini di dubbio, non ciò perché farei un altro tipo di vita, no, io sono soddisfatto della vita che ho vissuto e la rifarei, vorrei la laurea solo per me stesso e non per altro. Oggi mi ritrovo ad aver letto davvero tanto. Ed essendo la lettura il mio passatempo preferito, a livello culturale mi definisco un buono a nulla (visto che non ho le basi) che se ne intende un po’ di tutto.

(Ibidem)

Ma un’altra inestinguibile risorsa di Matteo è nella stratosferica disponibilità di soldi: stando alle indagini della magistratura siciliana, deve possederne in misura che neppure possiamo immaginare. Negli ultimi anni a persone a lui riconducibili sono stati sequestrati beni e aziende per una impressionante quantità di milioni di euro. Sulla consistenza delle sue ricchezze nessuno ha mai avuto dei dubbi, soprattutto quando – nel 2008 – la rivista economica «Forbes» lo ha inserito nella classifica dei più ricchi del mondo: era fra i primi 400, e tra gli italiani figurava al nono posto alle spalle degli imprenditori Miuccia Prada e Patrizio Bertelli.

Nel 2008 la sua fama ha assunto dimensioni internazionali: l’FBI, la polizia federale americana, lo ha inserito nell’elenco dei latitanti più pericolosi; al primo posto c’era Osama Bin Laden, al quinto il mafioso siciliano.

È facile immaginare che disponendo di un inesauribile pozzo di banconote ne abbia utilizzato una parte per comprare la complicità di chi gli assicura la copertura necessaria per sfuggire alla legge. In ogni caso, se i quattrini non li adopera per corrompere, li spende per godersi l’esistenza. Contrariamente ai suoi predecessori, “’u siccu” non è rinchiuso in una stamberga a nutrirsi di pane e cicoria come faceva Provenzano e non rinuncia a certi piaceri come invece si era imposto il più sobrio Riina. È sempre stato un gaudente fin da giovane, quando gli piaceva esibire il benessere in maniera pacchiana facendosi notare per le rumorose scorribande nei locali del Trapanese insieme alla comitiva di amici.

A ogni modo il capo di Cosa Nostra era un predestinato. Figlio di don Ciccio, ras di Castelvetrano, è cresciuto circondato da mafiosi di altissimo rango, tra i quali proprio Totò Riina che, ammirandone le potenzialità, lo considerava “la luce dei miei occhi”. Col tempo, però, la stima si era affievolita e negli ultimi anni Totò Riina aveva cambiato idea sul suo pupillo. Nel 2013, nel corso di alcune intercettazioni ambientali nel carcere milanese di Opera, l’ex capo dei capi conversando con un altro detenuto, Alberto Russo, si lamentava del suo erede accusandolo di pensare ai suoi business (come le pale eoliche) invece che ai destini dei Cosa Nostra:

A me dispiace dirlo questo… questo signor Messina, questo che fa il latitante, che fa questi pali… queste… Eolici… i pali della luce… se la potrebbe mettere nel… […] Questo si sente di comandare, si sente di fare luce dovunque, fa pali per prendere soldi, ma non si interessa di… […] Se ci fosse suo padre buonanima, un bel cristiano, che ha fatto tanti anni di capomandamento a Castelvetrano, a lui gli ho dato la possibilità di muoversi libero. […] Questo figlio lo ha dato a me per farne quello ne dovevo fare. È stato qualche 4 o 5 anni con me, impara bene, minchia, tutto in una volta… Si è messo a fare la luce… E finì, e finì… Fa luce! […] E a noi ci tengono in galera, sempre in galera, però quando siamo liberi li dobbiamo ammazzare. […] Se ci fosse stato qualche altro avrebbe continuato. E non hanno continuato, e non hanno intenzione di continuare.

(De Stefano, op. cit.)

Prima che tra i due scendesse il gelo, Messina Denaro e Riina avevano condiviso le azioni più cruente di Cosa Nostra. Comprese le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Il 21 ottobre del 2020 il boss di Castelvetrano è stato condannato all’ergastolo dalla Corte di Assise di Caltanissetta perché riconosciuto tra i mandanti delle stragi di Capaci e di via d’Amelio. Al termine della requisitoria, conclusa con la richiesta del carcere a vita, il pm Gabriele Paci ha sostenuto:

Intorno alla latitanza dell’imputato si è costruita la figura di un mafioso che fa affari, che veste Armani, un boss di quella mafia che ha adottato la strategia della sommersione. Il processo ci restituisce una figura diversa, uno stragista, un carnefice, un sanguinario che ha ucciso persone innocenti e bambini.

(corrieredelmezzogiorno.corriere.it/palermo/cronaca/20_ottobre_22/mafia-stragi-92-ergastolo-boss-messina-denaro-

63c15568-143a-11eb-8c7d-0424e4615d52.shtml)

A nulla è servita neppure la taglia di un milione e mezzo di euro messa a disposizione dei Servizi segreti nel 2010: li avrebbe incassati chiunque avesse fornito notizie utili a far arrestare Diabolik. Una cifra considerevole che tuttavia non ha suscitato alcun appetito:

Gli 007 hanno portato in giro un milione e mezzo in banconote dentro una valigetta e avrebbero bussato anche ad altre porte fra il Trapanese e l’Agrigentino, quasi tutte ad abitazioni di uomini che in qualche modo sono riconducibili alla rete di fiancheggiatori. Uomini sui quali polizia e carabinieri stanno lavorando nell’ambito delle indagini rivolte alla cattura del ricercato. Quella attivata dagli uomini dei servizi sembra essere una caccia all’uomo e non all’associazione che lo protegge. Il tam tam della taglia si è diffuso, e con esso lo stupore per il modo con cui gli apparati di sicurezza si stanno muovendo, offrendo una somma di denaro relativamente modesta a persone che, proprio grazie alla vicinanza a Messina Denaro, incassano decine di milioni di euro l’anno e non hanno quindi interesse a tradirlo. L’operazione avviata dagli uomini delle strutture che dipendono dalla presidenza del Consiglio, potrebbe avere un obiettivo mediatico: catturare il più famoso dei latitanti costituirebbe un fantastico spot per gridare al mondo che la mafia è stata sconfitta.

(«L’Espresso», 3 giugno 2010)

Il capo di Cosa Nostra è anche un discreto playboy. Non è esattamente un seduttore seriale, ma le indagini hanno dimostrato che con le donne ci sa fare, anche se la sua condizione di uomo in fuga gli impedisce di vivere appieno le sue relazioni:

La “carriera” di sciupafemmine comincia quando è ancora un ragazzino, sebbene non si tratti di vere e proprie conquiste; le prime esperienze con l’altro sesso non le fa con le coetanee ma con donne mature, come ha raccontato Errante Parrino durante il processo per l’omicidio di Lillo Santangelo: «Allora Matteo Messina Denaro era ancora uno sbarbatello e Lillo Santangelo volle introdurlo nell’ambiente goliardico della Palermo universitaria degli anni Ottanta. […] C’era un nostro collega iscritto a Medicina, un certo Fernandez, che grazie alla sua fidanzata, che faceva la parrucchiera, aveva conosciuto molte signore che allora chiamavano “tardone piacenti”. Organizzò una festa e di queste donne ce ne erano sei o sette, ma di picciutteddi ne servivano ancora di più… sa signor giudice non ce la facevamo… ognuno di noi cercò un amico… la nottata sarebbe andata avanti a lungo… e chiamammo Matteo, perché prendeva la macchina e veniva di corsa da Castelvetrano. Ricordo che alla festa si divertì come un pazzo.

(Fabrizio Feo, Matteo Messina Denaro, la mafia del camaleonte,

Rubettino, 2011)

Messina Denaro potrebbe contare sul sostegno di importanti fiancheggiatori anche dal di fuori del confortevole perimetro della Sicilia. Secondo un’inchiesta del settimanale «L’Espresso» pubblicata nel marzo del 2018, a proteggere il boss sarebbe anche la ’Ndrangheta. Inoltre avrebbe trasferito parte dei suoi interessi economici in Toscana.

Come già detto, finora le indagini che portano alla sua cattura si sono sempre rivelate complicatissime. Un testimone scovato dai giornalisti Giovanni Tizian e Lirio Abbate ha affermato che il padrino di Castelvetrano si sarebbe rifatto il volto e i polpastrelli in Bulgaria.

Dove si nasconda “u’ siccu” resta un mistero. Certo è che se un giorno decidesse di raccontare ciò che sa, probabilmente saremmo costretti a riscrivere la storia degli ultimi decenni.